Sul dibattito fra Cina e Unione Sovietica

di György Lukács

[Zur Debatte zwischen China und der Sowjetunion. Theoretisch-philosophische Bemerkungen (1963), traduzione di Fausto Codino in «Nuovi Argomenti», nn. 61-66, 1963-64, ora in G.L., Marxismo e politica culturale, Einaudi, Torino 1968].


Sia chiaro, innanzi tutto, che le presenti considerazioni hanno un carattere meramente teorico e anzi, sotto vari aspetti, filosofico; ma senza che ciò significhi neutralità o riserva di giudizio.

La controversia è di per sé un fatto politico estremamente importante, le cui future conseguenze oggi sono difficilmente prevedibili. Ma in queste considerazioni non ci proponiamo di dare e neppure semplicemente di accennare risposte a questioni di natura politica immediata.

Ciò non implica, s’intende, che si sottovalutino minimamente i momenti reali del processo effettivo, col suo necessario andamento a zigzag. Anche l’autore di queste pagine, come chiunque altro, sa che i principî del XX Congresso del PCUS si sono attuati in maniera contraddittoria, che i contrasti cino-sovietici sono sorti e sono arrivati all’asprezza attuale per vie complicate.

Anche il futuro, naturalmente, non potrà avere una struttura diversa dal passato. L’autore è ben lungi – anche come filosofo – dal sottovalutare il peso di questi alti e bassi nella realizzazione di tendenze rilevanti; egli sa, con Lenin, che l’«astuzia» del processo reale, che supera qualsiasi previsione, appartiene per necessità alla concretezza del mondo; sa che, non tenendone conto, non si può capire il mondo stesso con la sua mobilità.

Il limitarsi alle questioni teoriche di principio comporta inevitabilmente il pericolo di lasciarsi sfuggire anche nessi decisivi del contenuto centrale. Ma si presentano situazioni – e l’attuale, mi pare, è una di quelle – in cui la limitazione deliberata è utile se nel pieno di un dibattito, che necessariamente porterà all’accumularsi di accuse e controaccuse particolareggiate, si vuole enucleare la sostanza del contenuto ancor prima che esso emerga storicamente con tutti i suoi contorni. Si deve dunque prendere atto della possibilità di errori cui abbiamo accennato.

I.

Se consideriamo le lettere dei due Comitati centrali, ci colpisce subito un contrasto, nella struttura e nel tono dell’esposizione, in cui si esprime anche, implicitamente, il contrasto della sostanza. La lettera cinese rivela la maniera formalmente chiusa, pseudoteorica, del periodo staliniano. La lettera sovietica si fonda sul richiamo sincero a grandi esperienze comuni del momento attuale, che oggi toccano profondamente milioni di persone.

Indico soltanto le principalissime. In primo luogo il fatto che il Partito comunista dell’Unione Sovietica ha abolito la prassi, propria del periodo staliniano, che si fondava sul disdegno arrogante per le leggi. Il dire che così si mette fine al «culto della personalità» è troppo poco, per definire l’estensione e la profondità della realtà.

Si tratta della garanzia necessaria e sicura di una vita umanamente vissuta, offerta dallo Stato socialista, dopo che il regime di Stalin aveva annullato con disprezzo sistematico anche un minimo di umanità. Con ciò non soltanto si distruggeva la sicurezza indispensabile per una vita ragionevole, non solo si trasformava in illusione insostenibile la realtà, altrettanto necessaria, delle prospettive di esistenza di tutti gli uomini, non solo si privavano tutte le attività umane del senso della loro attuabilità, ma si toglieva anche ogni vera coerenza allo sviluppo politico, mentre si pretendeva di servirlo con questi provvedimenti, ed esso degenerava nel terrore e nell’ipocrisia.

Qui non possiamo descrivere, neppure per accenni, gli estesi e profondi effetti di liberazione che si sono avuti nei paesi socialisti in cui si è realmente compiuta questa resa dei conti col passato stalinista. Né siamo in grado, qui, di accennare alle conseguenze funeste che questo modo di agire di Stalin ha provocato nel movimento operaio internazionale, per non dire d’altro. Se oggi i comunisti di alcuni paesi capitalistici, operando con spirito di sacrificio, riescono ad esercitare un certo influsso nelle questioni economiche delle aziende, esso si dilegua subito appena si viene a parlare di decisioni politiche. Ancora oggi – a sette anni dal XX Congresso – il processo di distacco dal socialismo di stile staliniano è una tendenza viva e operante. Perché si fa prima a perdere che a riconquistare. Soprattutto quando soltanto una rottura completa e radicale con i metodi staliniani potrebbe far riottenere la fiducia.

Ancora più profonda, e di maggiore risonanza sul terreno internazionale, è la seconda esperienza di cui parla l’appello del Comitato centrale sovietico: il richiamo all’ansia provocata in tutto il mondo dalla possibilità della guerra nucleare. È superfluo citare a prova dati di fatto. Speriamo che molti conoscano le lettere sconvolgenti di Claude Eatherly, il pilota di Hiroshima; molti sapranno di certo come su questo problema ci sia stata una svolta nel pensiero di Bertrand Russell, ecc. ecc. Anche più importante di queste reazioni è il fatto che il XX Congresso fu la prima potenza reale che abbia mostrato al mondo le prospettive di una vita senza guerra atomica. Ma forse non è del tutto superfluo ricordare che quanto oggi appare già ovvio, in un primo momento aveva l’apparenza del paradossale. Paradossale soprattutto per il comunismo internazionale.

Al tempo della prima guerra mondiale Lenin aveva giustamente messo in luce il nesso fra l’imperialismo e la guerra, nella nuova ripartizione del mondo. Il discorso del 1956 di Chruščëv rifiuta la tesi leniniana sull’inevitabilità delle guerre mondiali, ormai superata dalla storia, e non meno nettamente di quanto Lenin a suo tempo rifiutò la tesi di Marx secondo cui le rivoluzioni proletarie potrebbero avere inizio e successo internazionale solo nei paesi più evoluti.

Lenin rifiutava una tesi di Marx fondandosi sul metodo marxiano, così come Chruščëv, mezzo secolo più tardi, ha superato la tesi di Lenin sulla base del metodo leninista. In entrambi i casi si ha il riconoscimento dello sviluppo storico, il quale ha trasformato ciò che prima era giusto in qualche cosa di falso, ciò che prima era progressista in una forza che ostacola il presente modificato.

Naturalmente qui non si tratta soltanto della guerra nucleare, considerata isolatamente. Questa svolta non sarebbe potuta intervenire se un terzo del mondo non fosse diventato socialista, se l’insurrezione dei popoli coloniali non si fosse estesa fino a diventate un fenomeno generale, oggi evidente, togliendo ogni senso, pertanto, all’idea di una nuova ripartizione del mondo. Se nel 1914, per esempio, Guglielmo II, Clemenceau e Lloyd George avessero disposto di bombe atomiche, con tutta probabilità le avrebbero usate. Ma col XX Congresso il dileguarsi dell’incubo nucleare è diventato una reale via di scampo per tutto il mondo.

La lettera sovietica si richiama con buon diritto ai pensieri e ai sentimenti che ne derivarono. Dopo che Chruščëv, in sette anni di attività abile e tenace, ha fatto della risoluzione del XX Congresso una speranza universale di tutto il mondo, di fronte a questo appello appaiono sbiaditi, anzi si dissolvono nel nulla, quei sofismi burocratici, a volte abilmente costruiti, con cui l’appello cinese parla dell’«inevitabile» guerra mondiale come unica via per il socialismo mondiale.

II.

Diamo un’occhiata al contenuto «unitario» e «logicamente» dedotto della lettera cinese.

Se si vuole riassumere in breve il contenuto, e in pari tempo assegnargli un posto nella storia del movimento operaio rivoluzionario, si può dire soltanto che esso è l’ultimo compendio di una tendenza, vecchia e nuova insieme, che torna sempre ad emergere fin dagli inizi del movimento operaio: il settarismo.

Essa si manifesta subito all’inizio del periodo di depressione che seguì alla sconfitta della rivoluzione del 1848, nel movimento di Willich e Schapper all’interno della Lega dei comunisti londinese; prende una nuova forma – per illustrare con pochi esempi la sua continuità – nell’opposizione dei «giovani» in Germania dopo la revoca della legge contro i socialisti (1889); ha una parte di primo piano nella questione del boicottaggio alla Terza Duma (1907), nel dibattito sulla firma della pace di Brest-Litovsk (1918), ecc. ecc. Non intendiamo affatto, ovviamente, tracciare la storia del settarismo; citiamo questi casi soltanto per indicarne in breve alcuni dei tratti comuni più caratteristici.

Innanzi tutto: esso ignora sempre tutta la ricchezza della realtà, la riduce a un dilemma fra estremi che si escludono assolutamente. Lo si vede sempre, sul piano teorico come su quello pratico. Già nel 1850 Marx caratterizzava così questa mentalità fondamentale del settarismo:

«La minoranza sostituisce una visione dogmatica alla visione critica, una visione idealistica a quella materialistica. In luogo delle condizioni reali, la pura volontà diventa per essa la ruota motrice della storia. Mentre noi diciamo agli operai: dovete passare attraverso 15, 20, 50 anni di guerre civili e di lotte di popoli, non soltanto per mutare le condizioni, ma per mutare voi stessi e rendervi capaci di esercitare il potere politico, voi dite al contrario: dobbiamo arrivare subito al potere, o possiamo andare a dormire!»

Questa Weltanschauung ha conseguenze di estrema importanza per la teoria e la psicologia del settarismo. Per quanto riguarda la psicologia, prevale in esso da un lato il dilemma astrattamente falso di una scelta fra tutto o niente, dall’altro la rinuncia pessimistica e disfattista ad ogni azione, dal momento che l’attuazione dell’ideale artefatto, respinto in un estremo inattuabile, resta comunque esclusa.

Nella discussione sulla pace di Brest-Litovsk, tenendo conto che l’esercito russo si trovava in pieno disfacimento, Lenin definiva «stato d’animo del disfattismo più profondo e più disperato, sentimento di completa disperazione» il punto di vista dei suoi avversari, sostenitori di una «guerra rivoluzionaria» contro la Germania che in quel momento era ancora militarmente forte. (Sia detto di passaggio: se la posizione cinese suscita simpatia in certi piccoli gruppi d’intellettuali occidentali, varrebbe la pena di vedere da vicino se si tratta sempre di un fatto soltanto politico, o non anche di quell’atteggiamento verso la realtà che di solito sta alla base della popolarità di scrittori attuali del tipo di Beckett. Qui non possiamo soffermarci su questa questione, in sé interessante).

Questo disfattismo, questa disperazione pessimistica, provoca spesso un deprezzamento delle conquiste già fatte dal movimento, per quanto esse possano essere importanti e anche storicamente decisive. A suo tempo, per esempio, i sostenitori settari della «guerra rivoluzionaria» contro la Germania, affatto assurda, erano disposti in compenso a mettere in gioco l’esistenza della prima potenza sovietica del mondo, appena conquistata.

Se osserviamo un poco più da presso la struttura intellettuale di questa posizione, troviamo principî di un’astrattezza estrema, che si converte in vacuità. Qui sia detto chiaramente, per evitare malintesi, che queste considerazioni sono lontanissime dalle esigenze di un’azione «realpolitica», di un’azione politica fondata su basi pragmatiche. La generalizzazione, il richiamo ai principî sono inevitabili per una prassi giusta e lungimirante. Tuttavia i principî devono innanzi tutto essere fondati nella realtà dinamica dello sviluppo sociale, cioè devono essere «astrazioni intelligibili», per usare le parole di Marx; e poi è indispensabile riconoscere le mediazioni dialettiche fra i principî generali e singoli obiettivi concreti.

Una caratteristica del settarismo è proprio l’esclusione – di principio, si potrebbe dire – di tutte le categorie intermedie. Per il settarismo l’attuazione dei principî ultimi, generali, non è il risultato di uno sviluppo storico-sociale, in cui avvengono incessanti mutamenti di forme, scambi di funzioni, in cui sorgono continuamente mediazioni nuove, mentre le vecchie perdono il loro valore, subiscono modifiche più o meno sostanziali, ecc. Il settarismo connette sempre e dovunque i principî ultimi del movimento (che pertanto sono necessariamente astratti) direttamente alle singole azioni; vuole «dedurre» immediatamente queste da quelli.

Quando si esclude ogni mediazione dialettica fra principio, strategia e tattica, sorgono deduzioni vuote e astratte o tutt’al più, se nonostante tutto non si dimentica la realtà, mere deduzioni analogiche. Anche i singoli fatti perdono il loro carattere individuale e il loro nesso indissolubile con le circostanze concrete dalle quali sono sorti e sulle quali a loro volta agiscono. Una somiglianza (o opposizione) meramente astratta collega una possibilità di azione attuale ad una «analoga» del passato.

Anche qui gli esempi sono a portata di mano. Nel 1905 i bolscevichi silurarono con un riuscito boicottaggio attivo la cosiddetta Duma di Bulygin: gli scioperi di massa e le insurrezioni riuscirono – provvisoriamente – a impedire che la reazione zarista si consolidasse e canalizzasse secondo i suoi intenti il movimento rivoluzionario. Nel 1907 la reazione aveva vinto e si era già consolidata: alle elezioni per la Terza Duma, quindi, per il movimento rivoluzionario si trattava soltanto di avere un organo di propaganda legale tra il generale soffocamento delle sue possibilità di espressione. Eppure i settari di allora, richiamandosi proprio al successo del boicottaggio del 1905, anche nel 1907 facevano appello al boicottaggio della Terza Duma, in circostanze affatto mutate.

È sempre lo stesso: prima di un’azione non si fa «l’analisi concreta della situazione concreta», come voleva Lenin, ma si risponde alla questione del «che fare?» sotto forma di una deduzione astratta di principî astratti.

Prendo come esempio la discussione che ebbe luogo in seno al movimento comunista internazionale negli anni venti, quando io stesso ero impegnato dalla parte dei settari, sulla partecipazione al parlamento e alle elezioni parlamentari. Noi facevamo presente che in seguito alla rivoluzione del 1917, considerato lo stato di sconvolgimento rivoluzionario di tutta l’Europa, il parlamentarismo era superato in senso storico-universale. Lenin rispondeva:

«Il parlamentarismo è “sopravvissuto storicamente” a se stesso in senso storico-universale, cioè l’epoca del parlamentarismo borghese è finita, l’epoca della dittatura del proletariato è cominciata. Ciò è incontestabile. Ma la storia universale si misura a decenni. Dieci o dodici anni prima o dopo, sono indifferenti per la misura storico-universale, dal punto di vista storico-universale sono un’inezia che non si può calcolare neppure per approssimazione. Ma proprio per questo l’appellarsi alla misura storico-universale per una questione di politica pratica è un errore teorico raccapricciante. Il parlamentarismo è “sopravvissuto politicamente” a se stesso? Questa è una questione affatto diversa».

Se esaminiamo queste posizioni dal punto di vista gnoseologico, se ne scopre subito l’estremo soggettivismo. Per questa via, in ultima analisi, la fedeltà ai principî socialisti si tramuta in un fichtiano «Tanto peggio per i fatti». Ma se un siffatto soggettivismo vuol passare da quelle sue parole d’ordine alle azioni, questo carattere gnoseologico comporta che le parole d’ordine volute si trasformino in semplici frasi rivoluzionarie. Anche su questo punto Lenin parlò molto chiaro al tempo del dibattito sulla pace di Brest:

«Non si deve trasformare in una semplice frase la grande parola d’ordine “Puntiamo sulla vittoria del socialismo in Europa!” Questa è una verità se non s’ignora la via lunga e difficile che porta alla vittoria completa del socialismo. È una verità storico-filosofica incontestabile se si prende nel suo complesso tutta “l’era della rivoluzione socialista”. Ma ogni verità astratta diventa una semplice frase se la si applica a qualsiasi situazione concreta».

Tuttavia qualsiasi analisi storico-sistematica del settarismo, se applicata al presente, sarebbe non soltanto incompleta, ma anche artificiosa e falsa se non si tenesse conto del modo in cui esso si manifestò, con enormi effetti teorici e pratici, sotto Stalin. Dato che ho studiato più volte diffusamente proprio il metodo di Stalin – contrapponendolo a quello di Marx, Engels e Lenin – posso qui contenermi in uno spazio relativamente ristretto.

L’aspetto decisamente nuovo che Stalin rappresenta per la storia del settarismo è soprattutto di carattere sociale: mentre prima il movimento era composto da piccoli gruppi o anche gruppetti, uniti volontariamente, ossia aveva certe caratteristiche «sociologiche» delle sette originarie (in senso storico-ecclesiastico), con Stalin il settarismo diventa la tendenza dominante di un grande partito, di una grande potenza. Ciò presuppone innanzi tutto un gigantesco apparato centralizzato che le sette, trovandosi quasi sempre all’opposizione, non avevano mai; dicevo nel 1956: una piramide formata da tanti Stalin che verso il basso diventano sempre più piccoli.

Mediante questo apparato il soggettivismo della frase rivoluzionaria si trasformò in un dogma, anch’esso soggettivo, cioè fatto di frasi al modo che abbiamo detto, ma realizzabile attraverso la violenza. La frase rivoluzionaria è diventata bensì onnipotente, nel quadro delle possibilità oggettive, ma non per questo ha perduto la sua vacuità soggettivistica.

Ciò risulta logicamente dal mutamento strutturale dei rapporti fra teoria e organizzazione, da Lenin a Stalin. Con Lenin i principî dell’organizzazione erano ricavati di volta in volta dalla nuova analisi di nuove situazioni e tendenze; con Stalin i principî dell’apparato dominante sono prestabiliti, e l’esposizione propagandistica dei fatti serve a rafforzare la necessità dell’apparato. (Si pensi al teorema, confutato dal XX Congresso, del necessario inasprimento della lotta di classe).

In tutto ciò avevano una grande funzione – e l’hanno ancora presso i cinesi – le citazioni dei classici. Entrambe le forme di settarismo trattavano i fatti con sovrana superiorità, ma intanto davano un’etichetta marxista-leninista agli atti del più arbitrario burocratismo. Un fattore importantissimo della deformazione staliniana del marxismo-leninismo era proprio che la terminologia marxista veniva conservata, mentre la realtà alla quale essa era riferita non aveva più niente a che fare col suo significato originario e autentico. Per vedere chiaro questo punto basta pensare a categorie sociali come discussione o autocritica.

Qui naturalmente parliamo dei principalissimi aspetti soggettivistico-settari, dominanti in molti campi, della politica e dell’organizzazione staliniana. Se, infatti, questo fosse rimasto il suo contenuto esclusivo, il regime di Stalin non si sarebbe potuto reggere per decenni. Ma qui non vogliamo dare una valutazione storicamente ponderata del suo regime; quel che m’interessa è di mostrarne i tratti settari. I quali si manifestano chiaramente anche in decisioni di per sé giuste.

Cito solo un esempio, la cui sostanza ho già trattato a fondo in altri contesti. A suo tempo ho spiegato che per me il patto del 1939 era politicamente giusto, ma che fu un grave errore l’impegnare i partiti comunisti occidentali a vedere nella guerra hitleriana d’aggressione contro i loro paesi una guerra imperialistica di vecchio stile, e quindi a vedere il nemico reale nei propri governi e non in Hitler. Abbiamo qui, come «in vitro», la frase rivoluzionaria, il dogma soggettivistico: il momento particolare (il regime hitleriano) scompare del tutto, lo schema della prima guerra mondiale nasconde completamente la realtà della seconda, l’applicazione del dogma contraddice rudemente tutti i fatti della nuova guerra, tutti gli interessi e i sentimenti delle masse dirette dal dogma.

Così il dogmatismo staliniano deforma anche rivendicazioni dedotte da premesse in sé giuste. Il rapporto fra teoria e realtà è completamente turbato e proprio per questo reagisce anche sul soggetto autocritico del dogma. Si ha qui la conversione del disfattismo settario, che è una delle caratteristiche generali del metodo staliniano: la sfiducia disfattista nella capacità d’azione autonoma delle masse, la convinzione che da esse non si possa imparare nulla. Stalin non crede che i lavoratori dei paesi occidentali possano restare fedeli al socialismo, all’Unione Sovietica, anche se si difendono contro l’aggressione di Hitler.

Attorno al soggetto del dogmatismo settario, che ormai si trova solo, sorge allora un’atmosfera soffocante di diffidenza; solo questa atmosfera può spiegare – almeno psicologicamente – il periodo dei grandi processi. Ma, se i desideri soggettivi sono molto forti, questa diffidenza, che per la sua struttura interna è un soggettivismo esasperato, si converte in una credulità non meno soggettivisticamente infondata; ed ecco che Stalin, nonostante i molteplici avvertimenti, nell’estate del 1941 non voleva credere all’attacco hitleriano contro l’Unione Sovietica.

Questa contraddittorietà interna del settarismo soggettivistico divenuto sistema dominante produce nella sua prassi non solo questa contraddizione, ma anche tutta una serie di contraddizioni simili. Lo stesso disfattismo di fondo, di cui abbiamo detto più volte, converte per esempio la prassi propagandistica in un ottimismo politico. È facile capirne la ragione. Il soggettivismo dogmatico del metodo staliniano non può fare della prassi, come facevano Marx e Lenin, il giudice della teoria. Al contrario, la prassi deve confermare in tutte le circostanze i dogmi soggettivistici. Se le cose stanno diversamente, l’apparato deve provvedere alle apparenze. Così, come ho dimostrato già molto tempo fa a proposito della letteratura, gli obiettivi e le prospettive sono sempre rappresentati come realtà. Questa è una delle ragioni principali che sotto Stalin hanno provocato la stagnazione delle scienze marxistiche, la perdita di prestigio subita dal realismo socialista negli stessi paesi socialisti.

Da questa struttura del pensiero e dell’azione deriva anche la profonda inumanità dell’età staliniana. L’umanesimo di Marx – un umanesimo assai diverso dagli umanesimi soggettivi e passivi alla Stefan Zweig; un umanesimo che ammette il sacrificio e che anzi in certe circostanze concrete lo esige – trova espressione teorica nelle sue analisi fondamentali del rapporto fra uomo e società; e non solo negli scritti giovanili, ma soprattutto nella parte del Capitale sulla feticizzazione. Queste analisi mostrano che dietro la superficie delle formazioni economiche, con la sua apparenza feticistica, stanno sempre come realtà autentica relazioni fra uomini, che l’uomo, l’uomo reale, socializzato, è in ultima istanza (pur se la sua potenza non è affatto illimitata) il soggetto del divenire sociale.

Secondo questa concezione il periodo del socialismo deve essere un periodo di grandiosa liberazione interiore. L’abolizione delle forme di sfruttamento che costituivano le classi spinge ad assegnare all’azione umana responsabile il massimo peso sociale reale che essa abbia mai avuto. Solo così, come riconosceva Lenin, l’eredità etica dello sviluppo umano diventerà praticamente attuale. Egli prevedeva che «liberati dalla schiavitù capitalistica, dagli innumerevoli orrori, barbarie, assurdità, ignominie dello sfruttamento capitalistico, gli uomini si abitueranno a poco a poco a osservare le regole elementari della convivenza sociale, da tutti conosciute da secoli, ripetute da millenni in tutti i comandamenti, a osservarle senza violenza, senza costrizione, senza sottomissione, senza quello speciale apparato di costrizione che si chiama Stato».

Il dogmatismo soggettivistico del periodo staliniano, con la sua unità contraddittoria di diffidenza e credulità, di occulto disfattismo e di ostentato ottimismo politico, ecc., non può quindi trasformare le costrizioni meramente giuridiche in spontanei obblighi morali. Col permanere delle sanzioni burocratiche, esso avrà piuttosto la tendenza a ritrasformare in un rapporto giuridico tanto la morale socialmente tramandata quanto la nuova morale che sorge. (Anche qui, come sempre, parliamo di tendenze fondamentali, divenute tipicamente operanti, suscitate per necessità dai metodi staliniani. È ovvio che il carattere socialista dell’essere sociale dà anche prodotti diversi, opposti, sul terreno etico, estetico, ecc. Ma queste tendenze opposte tutt’al più erano tollerate. Se apparivano alla luce del sole, di solito ciò avveniva in forma partigiana semilegale).

Qui non ci proponiamo di mostrare come i comunisti cinesi siano legati al metodo staliniano e alla sua origine storica. Ci basta osservare che dopo il breve episodio dei «cento fiori» che dovevano fiorire, lo spirito del settarismo staliniano si manifesta con chiarezza crescente in tutti i documenti dei comunisti cinesi.

Il «grande balzo in avanti» fu già progettato e attuato in tutto e per tutto secondo questo modello; al suo necessario fallimento seguì solo una radicalizzazione dello stesso metodo. Non per caso la presa di posizione sulla questione centrale del nostro tempo, quella della pace e della guerra, quando non è un’aperta accettazione della guerra atomica in nome di una frase rivoluzionaria attualizzata, si ricollega al discorso tenuto da Stalin al XIX Congresso. Dopo un paio di riserve, secondo cui in date circostanze alcune singole guerre potrebbero essere evitate, segue, sostanzialmente senza riserve, l’affermazione dell’inevitabilità delle guerre mondiali, fintanto che esiste l’imperialismo. Soltanto la vittoria del socialismo sul capitalismo su scala mondiale potrebbe impedire con sicurezza le guerre mondiali. La posizione della lettera cinese supera quindi largamente Stalin, per il radicalismo della frase rivoluzionaria.

Non si può ripeterlo abbastanza: l’appello sovietico alla grande svolta avvenuta nella vita dei popoli dopo il XX Congresso, la cessazione della paura dell’illegalità, la prospettiva di evitare la morte atomica del genere umano, a lungo andare sono più efficaci delle frasi rivoluzionarie dei pur abili funzionari cinesi. Ma questo modernissimo settarismo può subire una sconfitta teorica realmente distruttiva soltanto se la teoria marxista confuta fino in fondo non solo le argomentazioni pratiche che esso ricava dalla vita, ma anche le sue premesse e i suoi metodi deduttivi.

Questo attacco risolutivo non c’è ancora stato perché l’eredità teorica di Stalin non è ancora realmente e completamente superata. Questo dissidio resterà aperto fintanto che lo sviluppo dell’economia, della filosofia, ecc., arrestato e respinto indietro da Stalin, non riprenderà realmente la sua marcia, fintanto che, pur avendo un senso chiaro e sicuro per i problemi decisivi del presente, si continuerà per esempio a «chiarire» fatti e situazioni economici attuali con citazioni vecchie di quarant’ anni, invece di condurre un’indagine spregiudicata dei tratti specifici del presente sulla base del metodo marxista-leninista depurato dalle deformazioni staliniane.

III.

I contrasti si acuiscono, praticamente, sulla questione della coesistenza.

Nel vivo sentimento di larghissimi strati dei due campi si può avvertire una chiarissima propensione per lo stato di coesistenza. Ma ad essa è sempre legata la sensazione che le conseguenze comporterebbero qualche cosa di funesto. Essa è naturalmente alimentata, nei due campi, dagli avversari estremisti della coesistenza. Così nella stampa occidentale si può leggere continuamente che le proposte sovietiche per la coesistenza non sono sincere finché i comunisti non abbiano rinunciato al loro scopo finale, all’instaurazione di un socialismo su scala mondiale. Dall’altra parte i cinesi rimproverano i dirigenti sovietici perché essi affermano di avere trovato negli uomini politici occidentali, su alcune questioni, una valutazione sanamente spregiudicata della situazione; e pertanto i dirigenti sovietici non vedono in questi dirigenti occidentali ciechi cospiratori fanatici, che preparano giorno e notte, senza tregua e con tutti i mezzi, la distruzione immediata dello Stato socialista.

La verità è che tanto il capitalismo quanto il socialismo sono sistemi economici universalistici, che per logica interna tendono a sottomettere il mondo intero al loro modo di produzione. Questo è un fatto economico elementare e ineliminabile, che deve restare sempre operante come base ultima delle relazioni reciproche. Ma se ne deve concludere – come fanno non solo comunisti settari, ma anche enragés capitalistici – che una guerra fredda, da cui alla prima occasione potrebbe scaturire la guerra calda, debba essere l’unico rapporto possibile fra i due sistemi mondiali, la cui lotta caratterizza i nostri tempi? Io credo che tutti i fatti della storia degli ultimi decenni parlino chiaramente contro simili astrazioni.

Basta pensare alla guerra comune contro Hitler. I contrasti decisivi erano operanti anche a quel tempo, emergevano più o meno chiaramente in ogni discussione sui piani militari, le prospettive di pace, ecc. Cioè: essendo stato impossibile, negli anni 1918-21, abbattere il nuovo potere sovietico con interventi armati, queste forme dirette di lotta di classe internazionale furono più volte sostituite da forme indirette (fino all’alleanza).

La novità, nella situazione attuale, è «semplicemente» che le tendenze a sospendere le forme dirette di guerra si fanno sempre più forti, i periodi di respiro, dapprima decisamente temporanei e transitori, convergono sempre più nettamente nella direzione di uno stato permanente. La guerra fredda, senza dubbio, è pur sempre la forma prevalente nei rapporti internazionali fra Stati capitalisti e socialisti; ma quanto più le circostanze oggettive tendono ad escludere lo scoppio di conflitti armati, la guerra fredda perde sempre più le sue funzioni preparatorie, diventa a poco a poco insensata, anzi nociva, e a lungo andare – solo a lungo andare, sia pure – è condannata a scomparire.

Questi mutamenti della situazione hanno un’importanza decisiva per il successo politico dei due grandi antagonisti. Ma non possono cambiare nulla nel dato di fatto sociale di fondo: la coesistenza come forma specifica della lotta di classe internazionale. Ripetiamo: tale particolarità della situazione attuale è stata prodotta da una combinazione di circostanze storico-sociali. La guerra atomica con le sue necessarie conseguenze è soltanto una – certo importantissima – componente di questa totalità concreta. Se non fosse sorta una grande potenza socialista, appoggiata da una serie di Stati socialisti, se la liberazione dei popoli ex coloniali non avesse un corso impetuoso e irresistibile, probabilmente la guerra atomica avrebbe una funzione diversa nella politica internazionale.

Ma se in questa situazione internazionale, per la tenace iniziativa della politica sovietica, interviene di fatto un periodo di pace permanente, entrambi i campi devono spostare energicamente le loro prospettive storiche.

Dato che qui c’interessa soprattutto il contrasto cino-sovietico, si deve ricordare che dalla prima e breve conquista del potere da parte del proletariato (Comune di Parigi, 1871) fino a Cuba ogni vera rivoluzione è scoppiata in seguito ad una guerra: così in Russia nel 1905 e nel 1917; così nel 1945 (nascita delle democrazie popolari nell’Europa centrale); così nel 1948 (Cina). Non sorprende affatto, dunque, che l’atteggiamento di tanti comunisti (e anche avversari dei comunisti) sia orientato verso il nesso «organico» fra guerra e rivoluzione. Quindi un merito durevole del XX Congresso è quello di avere avuto la perspicacia e il coraggio di definire in chiari termini storicamente superata questa situazione.

L’affermazione della possibilità – della semplice possibilità, sia pure – di un passaggio al socialismo senza guerra e senza guerra civile è un importante passo avanti nell’adattamento del pensiero rivoluzionario alla nuova situazione internazionale. Qui dobbiamo limitarci ad accennare ai nessi con la coesistenza. Il punto più essenziale è che la competizione pacifica in tutti i campi della vita umana, nella sua spontaneità semplice e immediata, è una gara per conquistare l’animo degli uomini: attirarli dalla parte di uno dei grandi sistemi mondiali, preparare la loro decisione, intervenire attivamente a favore dell’ordinamento sociale prescelto.

Se ciò è vero per i paesi civili, che hanno già attuato l’una o l’altra formazione economica, a maggior ragione deve essere vero per i paesi in via di sviluppo, che per lo più hanno ancora un’economia precapitalistica e che ora devono scegliere la via del loro sviluppo futuro. Qui naturalmente ha una funzione decisiva, come contenuto della coesistenza, la competizione economica.

Ma, per quanto il potenziale economico dei sistemi sociali concorrenti possa essere importante, esso non è l’unico fattore decisivo. Oggi gli Usa sono senza dubbio il paese economicamente più progredito. Ma qualsiasi osservatore dei fatti può accorgersi che il loro aiuto ai paesi in via di sviluppo è incomparabilmente maggiore di quello che sarebbe senza la competizione con I’Unione Sovietica e gli Stati socialisti. La loro semplice esistenza – anche senza tener conto degli aiuti reali che essi forniscono – è un fattore importante che induce i paesi capitalistici a compiere sforzi superiori ai propositi che avrebbero nutrito se non ci fosse stata questa concorrenza.

Ma la stessa esistenza, il crescente potenziale economico e militare degli Stati socialisti, esercita effetti anche più importanti sulla situazione. Ogni colonizzazione, e anzi ogni rapporto di dipendenza capitalistica disgrega in una certa misura l’originaria struttura sociale dei paesi dipendenti. Vengono innestate in essi certe tendenze di sviluppo – basta pensare alle monoculture di certi paesi – che spesso diventano ostacoli reali per una crescita realmente sana e organica. Il neocolonialismo dei paesi imperialistici, fattosi «puramente economico», tende ancor oggi a mantenere economicamente in piedi queste false strutture. Peggio ancora: di regola ogni dominazione coloniale si è appoggiata agli strati socialmente reazionari dei paesi del tutto o in parte sottomessi. Questa politica non è ancora cessata: basta ricordare la politica praticata dagli Usa nella Corea del Sud o nel Vietnam del Sud.

In queste condizioni l’aiuto degli Stati socialisti può essere di estrema importanza. Esso può diventare il sostegno per uno sviluppo normale verso la civiltà, fondato su giuste basi economiche e sociali; naturalmente con lo scopo finale di aprire e facilitare agli Stati liberati il cammino verso il socialismo. È evidente, qui, che per queste lotte di liberazione il settarismo cinese, la frase rivoluzionaria cinese, rappresenta un grande pericolo.

Appare altresì evidentissimo che la radicale resa dei conti teorica con le deformazioni settarie del metodo marxista comporta importanti conseguenze politiche. Forse oggi pochi pensano che il primo grande documento politico-teorico del marxismo, il Manifesto dei comunisti, impostava la questione politico-teorica delle forme di transizione attraverso le quali la Germania, allora arretrata sul terreno economico-sociale, poteva trovare la sua via particolare verso il socialismo. E pochi oggi pensano che nel 1905 Lenin, svolgendo originalmente a fondo le idee di Marx ed Engels e applicandole alle condizioni particolari della Russia, anch’essa arretrata, arrivò alla forma di transizione della «dittatura democratica degli operai e dei contadini»; e che al tempo della fondazione della Terza Internazionale egli si applicò intensamente a formulare in modo nuovo questa teoria della transizione per l’incipiente lotta di liberazione dei popoli coloniali. Con la morte di Lenin, col regime di Stalin, cessò la rielaborazione originale di questi problemi della transizione.

Questa mancanza di ricerca teorica, economica e storica, ha conseguenze molto gravi nella presente situazione internazionale. Infatti il movimento dei paesi sottosviluppati verso l’indipendenza pone una molteplicità sconfinata di problemi. Ci sono paesi in cui si deve cominciare col distruggere rapporti agrari feudali; altri con una struttura sociale anche più primitiva di una struttura feudale. L’aiuto politico reale dei marxisti dovrebbe dunque essere un’analisi concreta delle condizioni della transizione: solo partendo di qui si possono indicare le vie concrete dello sviluppo ulteriore. A poco può servire una Realpolitik meramente pragmatica, che naturalmente è stata dedotta da esperienze di paesi con strutture affatto diverse.

Perciò oggi, nei paesi arretrati e in via di liberazione, la piattaforma cinese con la frase rivoluzionaria di un socialismo di attuazione immediata può esercitare un momentaneo influsso tattico e provocare molti danni. Perciò esiste il pericolo, proprio su questa questione, che nella scelta fra la frase rivoluzionaria e una Realpolitik meramente pragmatica possa trovare eco la frase rivoluzionaria, e che i popoli dei territori in via di sviluppo, posti di fronte all’alternativa astratta fra sfruttamento coloniale e socialismo immediato, imbocchino strade sbagliate.

Proprio qui la necessità pratico-politica attuale sarebbe di condurre un’offensiva teorica contro il settarismo cino-staliniano. Ma essa presuppone assolutamente una radicale resa dei conti teorica col settarismo in quanto sistema di pensiero. Nella politica pratica l’Unione Sovietica ha riportato un successo con la sua difesa risoluta e insieme saggia di Cuba contro la possibilità di un intervento a scopo di restaurazione, e con ciò essa si è guadagnata e ha consolidato la fiducia di molti popoli. Qui la piattaforma cinese introduce teoricamente nella vita internazionale uno dei lati più funesti della prassi staliniana: l’esaltazione astrattamente dogmatica dello stato di guerra civile come unica alternativa all’opportunismo e alla capitolazione.

Oggi bisognerebbe confutare sul piano teorico l’astrattezza irrealistica di questa alternativa artificiosa e settaria, proprio per vedere con chiarezza quali problemi possano essere risolti con i metodi della guerra civile e quali soltanto con i mezzi di una lenta evoluzione.

Al tempo del comunismo di guerra e della NEP, Lenin si occupò spesso di questi problemi; i suoi metodi, i suoi risultati e i suoi impulsi potrebbero oggi, se appoggiati di volta in volta a un’analisi concreta del presente, concretamente concepito, confutare efficacemente quella alternativa astratta. Chiunque non sia del tutto accecato dalla concezione staliniana sa anzi che un fenomeno tipico delle guerre civili è che esse prendono dalle profondità delle masse e innalzano al vertice, per esempio, uomini politici o capi militari, talvolta anche di grandi qualità; ma in nessuna guerra civile operai non qualificati sono diventati d’un tratto specialisti esperti del loro ramo.

Che la frase rivoluzionaria della guerra civile ha effetti funesti nella normale scelta dei quadri della pacifica vita quotidiana, noi ungheresi lo abbiamo visto a nostre spese al tempo di Rákosi. Ma ancora oggi la frase rivoluzionaria, diventata feticcio, è ben lungi dall’appartenere al passato. Tanto più importante, dunque, qui come sempre, è la radicale resa dei conti con la frase rivoluzionaria, affinché si trovi finalmente la definizione reale, corrispondente alle nuove forme della realtà, della lotta di classe che di volta in volta necessariamente sorge: gli obiettivi e i metodi realmente rivoluzionari nella lotta su due fronti contro il vero opportunismo (qui: effettiva capitolazione di fronte al colonialismo anche nella sua forma nuova) e contro la frase rivoluzionaria.

IV.

Ma anche la competizione pacifica, puramente economica, fra paesi capitalistici e socialisti è per sua essenza molto meno puramente tecnico-economica e quindi – dal punto di vista classista – meno «pacifica» di quanto appaia immediatamente alla superficie, dove si può fare soltanto la constatazione negativa che la guerra resta esclusa dal confronto economico. Ma qui si manifesta una contraddizione importante e feconda. Ciò che qui conta – alla lunga – è soltanto la superiorità tecnica ed economica reale. Al livello attuale non solo dei rapporti reciproci, non solo dei mezzi d’informazione, ma anche della capacità di decifrare statistiche, rendiconti ecc., molto difficilmente le affermazioni puramente propagandistiche possono reggere per molto tempo. Ciò che si mette a confronto, nella competizione, è il livello di vita reale della popolazione, non le proclamazioni propagandistiche.

Se in tal modo la competizione economica annulla le assicurazioni meramente propagandistiche di ambo le parti, in pari tempo la realtà economica nel suo insieme diventa uno strumento di propaganda unitario e monumentale; ogni successo significa all’interno un rafforzamento del proprio sistema, all’esterno un aumento della sua forza d’attrazione. Questa competizione decide – in ultima istanza – chi vincerà nella lotta internazionale di classe della coesistenza.

Anche qui, senza dubbio, bisogna evitare di presumere che lo sviluppo sia troppo rettilineo. Se infatti in questo agone dei sistemi sociali la decisione dipendesse soltanto dalla superiorità tecnico-economica, la superiorità del sistema capitalistico non sarebbe mai stata messa in pericolo e anche oggi la sua egemonia sarebbe incontestata. Tuttavia ogni uomo pensante sa che non è così. Si pensi, per citare un caso estremo, gli anni venti. In Russia c’erano le carestie, e a Vienna mi è capitato di vedere più di una volta che per esempio nel pomeriggio si partecipava a un’azione per raccogliere viveri per le regioni affamate, e la sera ci si riuniva in assemblea con non-socialisti, molti dei quali propendevano apertamente a riconoscere la superiorità del sistema socialista. Se oggi fatti simili accadono più di rado, benché la distanza economica si sia molto ridotta, anche questo dipende dalle ripercussioni ideologiche internazionali del periodo staliniano.

Così l’esame della competizione economica passa inavvertitamente a quello della competizione culturale. Mi pare che il punto di passaggio sia costituito dal problema del tempo libero, la cui importanza sociale deve crescere sempre più con la progressiva limitazione del tempo di lavoro. Sebbene, a causa della trascuratezza in cui per decenni la ricerca economica indipendente è stata abbandonata, al tempo di Stalin, non si afferri con sufficiente chiarezza teorica la dinamica concreta e regolare del capitalismo odierno, sebbene ci siano ancora seguaci ortodossi delle dottrine staliniane che al posto dei fatti esattamente osservati mettono citazioni, per esempio, sull’«impoverimento assoluto», il fatto della crescente riduzione del tempo di lavoro non può essere messo in dubbio.

È noto che Marx vedeva proprio nel tempo libero la base del regno della libertà, dello «sviluppo della forza umana che si considera fine a se stesso». Sorge così, indipendentemente dalle idee e dalle decisioni dei singoli individui, una sfera sempre crescente del tempo libero, e questo processo crea uno spazio sempre più ampio per la cultura, ne aumenta il peso sociale. (Naturalmente parliamo dell’aumento del peso sociale; in questa sede non possiamo discutere questioni di valore).

Nel quadro di queste considerazioni non ci possiamo proporre neppure di tentare una contrapposizione dei due sistemi con riguardo alle questioni della cultura. Osserveremo soltanto che anche la coesistenza culturale – pur prescindendo dagli effetti negativi di un intervento da parte della costrizione statale o sociale – non è affatto pacifica; che anche qui deve essere operante il principio della lotta di classe del «chi e da chi?» leniniano.

I prodotti della cultura, in particolare quelli dell’alta cultura, hanno naturalmente particolarità speciali molto nette, che influiscono decisamente sul modo della lotta che qui si combatte, sul suo esito. Le oggettivazioni culturali di alto valore, per loro natura, pretendono l’egemonia assoluta nel loro campo e respingono rudemente tutto ciò che da esse si discosta. Goethe, che personalmente aveva un’indole pacifica, si esprimeva così su questo punto fondamentale:

«Quando sento parlare di idee liberali, mi sorprende sempre il vedere come la gente si fermi volentieri su vuote espressioni verbali; un’idea non deve essere liberale. Sia essa vigorosa, solida, per assolvere l’incarico divino di essere produttiva; ancor meno liberale deve essere il concetto, avendo un incarico affatto diverso».

Nelle opere d’arte, a un esame immediato, questo esclusivismo è forse meno chiaramente percepibile, ma nel caso di violente lotte di tendenza questa caratteristica interna si rivela anche in questo campo. Si aggiunga che la genesi di ogni opera d’arte è bensì soggetta a un condizionamento sociale, di classe, ma essa rompe queste originarie restrizioni sociali – tanto più decisamente quanto più alto è il suo valore – ed è capace di raggiungere un’efficacia universale, anche presso persone ostili per sentimenti di classe.

Quindi il disconoscere il condizionamento sociale e classista delle oggettivazioni culturali – come si fa di solito nel mondo capitalistico – è fonte di giudizi unilaterali e falsi non meno che il seguire l’opinione settaria secondo cui la genesi classista delimita strettamente ed esattamente anche l’efficacia; anzi, tale efficacia dovrebbe essere oggetto di prescrizioni istituzionali. Fra queste due concezioni estreme, che oggettivamente valgono due errori uguali, indubbiamente la seconda è più pericolosa per l’impulso di una produzione originale e progressista.

Il suo predominio, al tempo di Stalin, ha avuto un effetto paralizzante per la scienza e l’arte. Essa ha certo la sua parte di colpa nel fatto che l’influsso potente e dominatore, che negli anni venti si diffondeva dalla Russia sovietica, ancora oppressa da tanti problemi economici, più tardi perse molto di estensione e d’intensità.

Naturalmente le risoluzioni del XX e XXII Congresso hanno avuto un’influenza molto positiva anche sull’opinione pubblica dei paesi capitalistici, ma la precedente influenza sulla cultura mondiale non è stata ancora restaurata. Senza dubbio ci sono già eccezioni, come il breve romanzo di Solženitsyn sui campi di concentramento, come le ultime novelle di Tibor Déry. È da sperare che la necessità di reagire con efficacia anche culturalmente al sistema settario ora instaurato e divulgato aggressivamente dai cinesi della linea del XX e XXII Congresso, e quindi ad andare oltre questi inizi.

Qui non possiamo assumerci il compito di fare profezie, e meno che mai di quelle che con la loro pretesa preveggenza vogliono scendere ai particolari. Tocchiamo soltanto una questione di principio, e anche questa da un punto di vista puramente teorico: quella della manipolazione delle opinioni e dei comportamenti degli uomini. Nel mondo capitalistico la sua natura e i suoi effetti per lo più sono giudicati falsamente. Soprattutto si sottovaluta l’importanza della sua genesi, o anche la si trascura del tutto. Alludo all’applicazione staliniana, inammissibile, dei metodi di governo del periodo delle guerre civili al consolidamento interno ormai pacifico.

Ciò non è accaduto per caso. Tutti conoscono l’effetto terrificante che i metodi staliniani hanno provocato in tutti coloro che avevano simpatia per il socialismo, e anche su molti che erano comunisti convinti. In tali circostanze era molto vantaggioso per l’ideologia borghese, dal punto di vista della lotta di classe, l’identificare i metodi di Stalin con Lenin o addirittura col marxismo in generale, il presentare i peggiori eccessi del regime staliniano come conseguenze necessarie della concezione di Marx e di Engels.

Il fatto che questa opinione sia del tutto falsa, il fatto che i classici del marxismo abbiano sempre considerato la guerra civile come un momento di transizione, talvolta assolutamente necessaria, ma sempre come mero momento di transizione, tutto ciò infirma poco l’efficacia di quella propaganda fintanto che il mondo socialista offre pretesti per sostenere che i metodi staliniani non possono essere ancora considerati come del tutto appartenenti al passato. Lo scontro col settarismo cino-stalinista offre la più splendida possibilità (e la più urgente necessità) di arrivare a una radicale resa dei conti in questo campo.

In tal modo l’avanzata ideologia del marxismo riacquista ampie prospettive teoriche e pratiche; allora si vede, infatti, che le dure forme della manipolazione nel rivolgimento socialista, preso nel suo complesso, rappresentano un corpo estraneo che ha potuto acquistare l’apparenza di una parte integrante solo a causa dell’immissibile generalizzazione staliniana dei metodi della guerra civile, trasformati in una condizione permanente.

In quest’opera di depurazione si presentano senza dubbio problemi difficili da risolvere a breve scadenza, e senza dubbio in molti casi non è facile seguire la via dalla brutale manipolazione staliniana fino alla democrazia proletaria voluta da Lenin; ma seri tentativi in questo senso possono già bastare per far apparire il tipo di manipolazione staliniana come un elemento estraneo che può e deve essere rimosso dall’edificazione socialista.

La manipolazione blanda, formalmente non violenta del sistema capitalistico ha invece la sua base nella sostanza economica del sistema stesso. Dato che il capitalismo ha afferrato totalmente i settori del consumo e dei servizi e li ha trasformati in grande industria e in produzione di massa, per esso la manipolazione della massa dei compratori è diventata una necessità economica. I fatti di questa determinatezza economica non mutano, a dispetto di altre interpretazioni affatto diverse e molto «più profonde». Queste non sono vere spiegazioni; come quando, per esempio, il famoso libro di D. Riesman, La folla solitaria, descrive l’essenza di questa manipolazione sostenendo che essa trasforma tipi «inner directed» in tipi «outward directed». Ogni esatta descrizione della normale vita quotidiana negli Usa – come ideale e modello per il mondo capitalistico – rivela la sopra accennata struttura economica di questa manipolazione.

Naturalmente la manipolazione non resta limitata alla vendita delle merci. Essa diventa anche il modello per il modo di esercitare l’influenza politico-sociale e culturale sulle masse. Anzi, è interessante osservare come le correnti politiche borghesi decisive, che all’inizio dell’«epoca della massa» – cioè dell’antagonismo svelato fra visione borghese del mondo e democrazia – erano state prese da uno scetticismo rassegnato (evidente per esempio in Stuart Mill), al sorgere di questi nuovi metodi di manipolazione della massa abbiano riconosciuto subito le grandi possibilità offerte dal loro impiego.

La struttura onnicomprensiva di questo sistema di manipolazione è nota a tutti e non occorre descriverla. Esso non solo si estende quantitativamente, ma non cessa neppure mai di raffinarsi. (Per esempio le organizzazioni di vendita di articoli di massa fanno studiare scientificamente da specialisti i motivi psicologici che inducono all’acquisto, per incrementare la voglia di comprare mediante manipolazioni psicologiche non direttamente percepibili, ma praticamente tanto più efficaci).

Così la manipolazione diventa in pari tempo sempre più blanda e più efficace, sempre più universale. Ciò, peraltro, solo quando essa funziona normalmente e senza attriti; le resistenze sociali sono schiacciate con ingenua naturalezza. Un grande merito di Sinclair Lewis è di averci rappresentato artisticamente, a un livello relativamente più primitivo di questo sviluppo, il passaggio insensibile dalla manipolazione sottile, funzionante senza consapevolezza, a una repressione brutale, più o meno aperta, della resistenza in molti settori della vita. Il vero fenomeno, infatti, può essere definito adeguatamente solo come un movimento incessante fra questi poli.

Poiché con ogni probabilità il tempo libero acquisterà sempre più importanza, per necessità economica, come campo della battaglia fra la razionalità e l’assurdità della vita umana, era necessario cercare di definire in breve, secondo la loro natura economica, le forze che qui esercitano un’azione decisiva. Il presente articolo non era certo la sede adatta per approfondire tutto l’insieme di questi problemi. Ma i cenni sporadici che abbiamo dato erano necessari per additare nel campo del tempo libero – terreno internazionale della competizione internazionale fra i due grandi sistemi sociali – l’importanza della lotta risoluta contro il settarismo cino-stalinista. La forza d’attrazione internazionale del socialismo, veicolo della sua vittoria nella lotta di classe internazionale della coesistenza pacifica, dipende largamente dal radicalismo con cui esso farà i conti col settarismo del passato e del presente.