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György Lukács

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György Lukács

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Il secondo Lukács: l’ontologia dell’essere sociale nell’epoca della manipolazione

24 domenica Apr 2016

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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Aristotele, complesso di complessi, esistenzialismo, essenza, essere sociale, Etica, Hegel, Il Capitale, imperialismo, La distruzione della ragione, lavoro, Lenin, manipolazione, Marx, nepositivismo, ontologia, personalità individuale, possibilità, scelta, scopi, Stalin, Storia e coscienza di classe, teleologia, terza internazionale, totalità, Zdanov


di Giorgio Cesarale

[par. 2 del cap. 4 “Filosofia e marxismo nell’Europa della Guerra fredda”, in a c. di S. Petrucciani, Storia del marxismo. II Comunismi e teorie critiche nel secondo Novecento, Carocci, Roma 2015]

La partecipazione attiva di Lukács alla battaglia politica interna al movimento operaio termina nel 1928-29 con la sconfitta delle “Tesi di Blum”, da lui stilate, e il conseguente scioglimento della frazione del Partito comunista ungherese alla quale egli apparteneva, e cioè la frazione di Landler, diretta oppositrice di quella di Béla Kun. L’importanza strettamente politica delle “Tesi di Blum” è nota: contro la strategia allora dominante nella Terza Internazionale ruotante attorno alle parole d’ordine della “classe contro classe” e del “socialfascismo”, esse avanzano la proposta, di sapore leniniano, dell’alleanza “democratica” degli operai e dei contadini e anticipano quindi la linea del “Fronte popolare”, che sarà assunta dalla Terza Internazionale dopo il 1935. Tuttavia, la loro importanza è ancora più vasta: con esse Lukács comincia a prendere atto della trasformazione che investe lo Stato borghese di fronte all’emergere di potenti spinte democratiche e al mutamento di forma del processo di accumulazione, dominato ora dal plusvalore relativo e dall’intervento diretto dello Stato stesso (Lukács, 1972, pp. 317-21). L’integrazione del proletariato dentro il sistema, che qui Lukács, ben prima dei francofortesi, vede profilarsi all’orizzonte, richiede perciò alle organizzazioni del movimento operaio un cambio di strategia, fondato soprattutto su una diversa valutazione del rapporto fra democrazia e socialismo (ivi, pp. 313-5). Tra le due non vi è, come dirà nella sua autobiografia, Pensiero vissuto, una “muraglia cinese” (Lukács, 1981, trad. it. p. 104), non solo perché la rivoluzione democratico-borghese, se è “reale” rivoluzione, si prolunga inevitabilmente in rivoluzione proletaria, ma anche perché è solo attraverso la democratizzazione della vita quotidiana dei lavoratori, del loro rapporto con la sfera della produzione, che le speranze di successo del socialismo possono sensibilmente aumentare.

È, quest’ultimo, un tema che ritornerà prepotentemente in campo nell’ultimo Lukács, entro il contesto della discussione intorno alla riforma del “socialismo reale” (Lukács, 1985, trad. it. pp. 66-7). Ma la sua scaturigine è leniniana: esso fa infatti parte di quel blocco di elementi del pensiero e della prassi del rivoluzionario russo su cui Lukács inizierà a riflettere con insistenza dalla pubblicazione del suo Lenin (1924) in poi, e che lo aiuteranno a bruciare le scorie messianico-settarie di Storia e coscienza di classe. Ma Lenin per Lukács non è solo il geniale stratega della rivoluzione russa o l’esemplare di un tipo nuovo di uomo (Lukács, 1923, Prefazione, 1967, trad. it. pp. XXXV-XXXVI); egli è anche fonte di decisive lezioni filosofiche. Quando, infatti, e giustamente, gli interpreti parlano di una “svolta” del 1930 intervenuta a modificare il suo precedente assetto teorico (Oldrini, 2009, pp. 131-69), è anche alla crescita dell’influenza filosofica di Lenin che bisogna pensare: la lettura, subito dopo la loro pubblicazione postuma (tra il 1929 e il 1930), dei Quaderni filosofici induce Lukács a una generale riconsiderazione degli assunti “materialistici” dell’autonomia dell’essere rispetto al pensiero e della conoscenza come fedele rispecchiamento dell’essere.

Ma la crisi dell’impianto idealistico del Lukács degli anni venti è anche generata da una coppia di altri fattori: la lettura nel 1930 a Mosca degli ancora inediti Manoscritti economico-filosofici di Marx e il tentativo, intrapreso con Michail Lifšic sempre negli anni trenta, di dare vita a un’estetica marxista. La lettura dei Manoscritti economico-filosofici ha rappresentato per Lukács, per sua esplicita ammissione, un vero e proprio shock (Lukács, 1913, Prefazione, 1967, trad. it. p. XL): la differenziazione marxiana fra alienazione e oggettivazione – per la quale fa parte del corredo delle potenzialità dell’uomo quella di plasmare un’oggettività che pure rimane in ultima istanza indipendente da esso (l’oggettivazione), senza che ciò implichi che tale oggettività signoreggi e frustri le facoltà umane (il che accade nell’alienazione) – batte in breccia, infatti, uno dei presupposti di fondo di Storia e coscienza di classe, e cioè il rapporto inversamente proporzionale fra il principio dell’oggettivazione e quello dell’unità fra soggetto e oggetto. Si apre così la strada per la rivalutazione, che sarà del tardo Lukács, del ruolo della natura, come datità geneticamente indipendente dall’uomo, e del principio del lavoro, inteso come processo di oggettivazione in cui si attua un ricambio organico con la natura.

Se il marxismo non è semplicemente, come era in Storia e coscienza di classe, dialettica della storia e della società, ma anche teoria in grado di fissare le coordinate generali del rapporto con la natura, esso acquista una più ampia universalità. Il marxismo potrà perciò divenire finalmente quello che solo con difficoltà riesce ad essere, e cioè filosofia, un’ontologia allo stesso tempo unitaria e riccamente differenziata al proprio interno. Universalità, tuttavia, vuol dire anche capacità di esplorare la peculiarità di tutte le forme di riproduzione della realtà. Ne segue che poiché quest’ultima non è solo scientifica o filosofica, ma anche artistica, il marxismo non potrà affatto disinteressarsi di estetica. Anzi, a guardar bene, in Marx ed Engels, dice Lukács, vi sono già i germi di una compiuta estetica, autonoma rispetto a tutte le correnti idealistiche che hanno permeato e continuano a permeare l’indagine estetica. Si tratta di una estetica “realista”, ma non “naturalista”, attenta alla specificità dell’arte, ma senza slegarla dal più ampio accadere della totalità storico-sociale, volta a rilevare il significato universale contenuto in ogni autentica opera d’arte, ma sapendo che questa universalità l’arte può solo “intuirla” e concretizzarla in “tipi” (figure particolari in cui si compendiano universalità e singolarità), e non dimostrarla, descriverla o peggio renderla parte della propaganda ideologica o politica.

In un certo senso si può dire che l’intensa indagine “estetica” che Lukács svolge a muovere dagli anni trenta e fa culminare nella ponderosa Estetica – indagine che produce un’imponente messe di ricerche, sul contenuto delle quali non è possibile qui intervenire – rappresenta una sorta di Wiederholung, di “ripetizione”, in senso materialistico delle perlustrazioni estetiche di gioventù, quelle di L’anima e le forme o dell’Estetica di Heidelberg. Quando insomma Lukács rompe con l’idealismo si pone per lui la necessità di rompere anche con l’idealismo “estetico” che aveva preceduto Storia e coscienza di classe e ne aveva condizionato il pensiero. Un processo analogo investe il rapporto con Hegel, di cui conosciamo la centralità in Storia e coscienza di classe. Negli anni trenta infatti, oltre a rinnovare in senso materialistico la sua estetica, Lukács si reimmerge nello studio di Hegel, e in particolare dello Hegel giovane, e ne ricava come risultato Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica1, libro nel quale tenta di offrire una ricostruzione dell’evoluzione del pensiero hegeliano fino alla Fenomenologia dello spirito alternativa a quella allora corrente grazie ai lavori di Haym, Dilthey e Häring. Qui Hegel non è più il pensatore della identità fra soggettività e oggettività, ma il teorico delle rivoluzioni moderne (economica e politica) (Lukács, 1948, trad. it. p. 21), colui che prova a scoprirne l’intima dialettica attraverso una nuova logica del rapporto fra particolare e universale (ivi, pp. 113-4). Gli stessi passaggi da una fase all’altra (per esempio da quella bernese a quella francofortese) sono governati dall’approfondirsi della comprensione della realtà economica e politica più che dalla semplice adesione a nuovi canoni filosofici (ivi, pp. 147-63). Questo implica che, lungi dal prodursi come pura risposta alle aporie della gnoseologia kantiana, come era ancora in Storia e coscienza di classe, la dialettica nasce come strumento per trascrivere a livello teorico le novità costituite dal sistema capitalistico e dallo Stato liberal-costituzionale.

Tale lettura di Hegel, sebbene di taglio più “materialistico” rispetto a quella esibita in Storia e coscienza di classe, è tuttavia, come è facile capire, quasi antitetica a quella coltivata in ambito staliniano. Non si deve dimenticare, infatti, che oltre alla compressione del ruolo da esso giocato nella fondazione della dialettica materialistica, operata dallo stesso Stalin nel quarto capitolo della Storia del partito comunista dell’Unione Sovietica, il contributo di Hegel riusciva notevolmente sfigurato dalla posizione di Ždanov, per il quale nella figura di Hegel occorreva intravedere quella di un ideologo della reazione feudale contro la rivoluzione francese. Non solo: la secca alternativa, dal punto di vista storico-filosofico, fra idealismo e materialismo, che allora Stalin e Ždanov cercavano di promuovere, impediva di riconoscere che era esistito nella storia della filosofia un idealismo, per dirla con Lenin, più intelligente del più rozzo materialismo. Hegel, insomma, complicava la semplicità dello schema, perché testimoniava dell’esistenza di un razionalismo borghese che, sebbene idealistico, aveva avuto un enorme significato “progressivo” (Lukács, 1981, trad. it. p. 132).

La Distruzione della ragione (1954), storia della filosofia nel periodo “imperialistico”, dal secondo Schelling fino al neopositivismo e all’esistenzialismo, è precisamente costruita intorno al rifiuto della polarità idealismo/materialismo, a favore di quella razionalità/irrazionalità. L’irrazionalismo, che rappresenta per Lukács il brodo di coltura del fascismo europeo, nasce anzitutto come risposta ai progressi del pensiero dialettico, compiuti con Hegel (Lukács, 1954, trad. it. p. 101); in seguito, invece, si struttura per arginare gli avanzamenti del marxismo e del proletariato internazionale. Da questo punto di vista, gli effetti della lotta di classe penetrano profondamente nel campo della discussione filosofica, rendendo ogni filosofia, volente o nolente, sempre già schierata da un lato o dall’altro del conflitto fra borghesia e proletariato. Nietzsche riflette bene per Lukács questa situazione: egli non conosce il socialismo e tantomeno il marxismo e sembra per di più avere altri obiettivi filosofici; tuttavia la sua intera filosofia è puntata contro il socialismo (ivi, p. 312). L’ignoranza dell’avversario conduce però a un abbassamento complessivo di qualità filosofica (ivi, p. 311). Mentre, infatti, Schelling e Kierkegaard nella loro lotta contro la dialettica hegeliana si sono mostrati talvolta capaci di indicarne i difetti, le cose cambiano quando l’avversario è il marxismo (ibid.). È, questo, uno dei segni di quella decadenza, della quale Nietzsche stesso è riuscito a esprimere gli atteggiamenti emotivi fondamentali, in qualche modo validi per tutto il periodo imperialistico (ivi, p. 318).

Nietzsche è tuttavia figura cruciale anche per un’altra ragione, vale a dire per il suo agnosticismo in gnoseologia, o, meglio ancora, per la sua capacità di trasformare la gnoseologia in mito, che per Lukács funge, nell’epoca dell’imperialismo, da suo surrogato (ivi, p. 389). La verità diventa la posta in palio della lotta fra signori e servi, qualcosa che scolora inesorabilmente verso l’utilità (ivi, pp. 395-7). Si annuncia così la tendenza fondamentale di tutta la filosofia del Novecento, e in particolare delle due correnti filosofiche più importanti del secondo dopoguerra (il neopositivismo e l’esistenzialismo), e cioè la vanificazione della realtà oggettiva (ivi, pp. 786, 804-5). Sebbene all’altezza della Distruzione della ragione Lukács non avesse ancora chiaramente formulato il programma di una critica ontologica alla filosofia contemporanea, le sue premesse sono già poste in questo testo. Non è un caso perciò che Per l’ontologia dell’essere sociale, il testo filosofico princeps della tarda maturità di Lukács, prenda l’abbrivio proprio da un’aspra critica del neopositivismo e dell’esistenzialismo.

La vanificazione della realtà oggettiva come tendenza fondamentale di tutta la filosofia del Novecento nasce sulla base dell’atteggiamento spirituale della borghesia verso le grandi acquisizioni della scienza moderna. La scienza, infatti, con l’incremento delle conoscenze che essa reca con sé, offre il terreno per una nuova immagine del mondo, materialistica e aliena da pregiudizi religiosi. Tuttavia, la rottura completa con l’immagine religiosa del mondo, dice Lukács, esporrebbe la borghesia a grandi rischi, e in special modo al rischio di agevolare la crescita di energia politica e culturale del rappresentante del materialismo moderno, e cioè il proletariato. Per questo, ciò che si persegue è un compromesso, analogo a quello promosso dal cardinal Bellarmino nella contesa con Galilei: la scienza potrà così continuare a svolgere in piena libertà il suo ufficio conoscitivo; l’unica cosa che non potrà pretendere di aver conseguito è la verità circa la realtà obiettiva delle cose. Le conoscenze dovranno risultare utili, pragmaticamente utili, piuttosto che vere, e allo stesso tempo incapaci di aiutare l’uomo a stabilire un nuovo e più coerente rapporto fra sé stesso e il mondo. A regolare il rapporto fra bisogni e desideri dell’uomo e totalità dell’accadere naturale e sociale dovrà perciò rimanere la religione, alla quale bisognerà solo vietare di intervenire per illustrare agli uomini come il mondo stesso è ontologicamente configurato (Lukács, 1976-81, vol. I, pp. 16-7, vol. II,t.1, pp. 68-70).

Tuttavia, è soprattutto la mentalità neopositivistica – che è qualcosa di ancora più ampio della semplice filosofia neopositivistica e pervade per Lukács le classi dirigenti di tutti i paesi capitalistici all’indomani della fine della seconda guerra mondiale – ad accogliere e rinnovare i termini del compromesso bellarminiano. Essa lascia alla religione la cura dell’anima, e affida alla scienza il compito di accrescere i poteri dell’uomo sulla natura. Questi poteri, peraltro, sono particolarmente efficaci anche sotto il profilo dello sviluppo delle tecniche di ciò che questo Lukács chiama “manipolazione”. Una volta “scomparsa”, infatti, la realtà oggettiva, si apre un enorme spazio per l’orientamento, a vantaggio delle classi dominanti, delle variabili fondamentali della vita associata. Con ciò, Lukács si riferisce alla manipolazione delle contraddizioni reali della società capitalistica effettuata per esempio da un diritto concepito in termini puramente “kelseniani” o “positivistici” (ivi, vol. II, t. 1, p. 212), da una economia politica “keynesiana”, capace di manovrare le grandezze a livello macroeconomico (ivi, p. 316) e dalla pubblicità, che rinchiude l’individuo nella sua particolarità, invitandolo a un consumo di prestigio (ivi, p. 310). La filosofia neopositivistica, attestandosi lungo la frontiera del governo “formale” dei suoi protocolli concettuali, non fa dunque che confermare il più generale modus operandi dell’establishment occidentale (ivi, vol. 1, pp. 25-7).

Ma come si fa a uscire da un ambiente politico e culturale dominato dalla manipolazione? Per il Lukács successivo alla svolta del 1930 la risposta filosofica sta, come abbiamo già anticipato, nel rilevamento e nella valorizzazione di ciò che per definizione sfugge alla manipolazione, perché è lo zoccolo duro ontologico di ogni fare umano, e cioè la vita quotidiana (ivi, pp. 7-9)2. Il commercio continuo con le cose che accompagna quest’ultima, il suo “realismo”, benché spesso ingenuo e irriflesso, sono il definitivo banco di prova della validità di ogni scopo o progetto umano. Ma la vita quotidiana non è soltanto sede di questo rapporto vivo e contrastato con il mondo oggettivo: essa è anche l’ambito entro cui si colloca la principale attività umana, e cioè il lavoro. Il quale è per Lukács, così come per Aristotele, Hegel e Marx, essenzialmente attività teleologica, posizione di scopi alternativi riguardo a mezzi altrettanto alternativi per ottenere un oggetto conforme ai primi (ivi, vol. II, t. 1, pp. 17-54). L’essere sociale, la terza e superiore partizione di tutto l’essere3 (dopo l’essere inorganico e organico), sorge quando si realizzano continuamente posizioni teleologiche (ivi, p. 24). Tuttavia, come ha colto di nuovo Hegel, ogni atto teleologico deve presupporre, se vuole avere probabilità di riuscita, un’adeguata conoscenza delle catene causali entro le quali andrà a inscriversi (ivi, p. 62). La prassi, dice Lukács con accento molto diverso da Storia e coscienza di classe, non è sufficiente a sé stessa; per darsi, ha sempre bisogno di associarsi a un corretto rispecchiamento dell’essente.

Ma se la teleologia lavorativa implica conoscenza, e se anzi è in primo luogo entro il lavoro, mediandosi con i mezzi e gli oggetti, che la conoscenza riceve verifica (attraverso ciò che poi si configurerà come esperimento) e giustificazione, questo per Lukács vorrà dire che è entro il lavoro che prende origine la scienza, sebbene questa venga via via allontanandosi dal suo luogo genetico, e anzi manifesti più capacità di generalizzare i nessi della realtà e più carattere “disantropomorfizzante” di esso (ivi, pp. 63-4). Questa lontananza della scienza dal lavoro, e quindi dalla vita quotidiana, appare poi quasi come incolmabile con lo sviluppo dei metodi manipolatori delle scienze contemporanee, sui quali si basa per legittimarsi anche il neopositivismo. È a questo punto, secondo Lukács, che deve fare il suo ingresso la filosofia, la quale deve correggere in senso ontologico il procedere della scienza, e provare ogni volta a ricondurla all’essere reale, alla vita quotidiana. Perduto quindi ogni rapporto di tipo ancillare, in un senso o nell’altro, fra scienza e filosofia, ciò che bisogna fare è agire in vista di una reciproca integrazione delle loro funzioni.

Se fino a ora abbiamo visto venire in primo piano i momenti di discontinuità (centralità di vita quotidiana, lavoro, scienza ed esperimento) fra l’ultimo marxismo di Lukács e il primo, quello di Storia e coscienza di classe, ora però dobbiamo lasciare che si palesi un momento di convergenza: anche l’ultimo Lukács infatti è un sostenitore della categoria filosofica di “possibilità”. Solo che stavolta la possibilità non sarà di tipo “fenomenologico”, legata al rapporto fra coscienza e totalità. Per questo Lukács, la possibilità si radica piuttosto nello stesso atto lavorativo, nella scelta degli scopi da perseguire e dei mezzi con i quali realizzarli. Come aveva colto ancora una volta Hegel, anche il valore e il dover essere hanno una portata ontologica, attengono al piano delle alternative concrete degli uomini (ivi, pp. 73-6).

Sulla scia di Marx, per il quale non esiste produzione senza riproduzione, anche Lukács pensa che il singolo atto teleologico lavorativo non si possa isolare che per puri scopi scientifici. Nella realtà del complesso economico, per un verso la prassi del singolo componendosi con quella degli altri dà vita a una totalità dinamico-oggettiva che si contrappone, con la durezza di qualsiasi realtà, alla sua volontà; per altro verso, la posizione teleologica cambia di natura, e diventa realmente “posta”, solo quando nel processo lavorativo, oltre alle esigenze dettate dai mezzi e dagli oggetti, l’individuo è costretto a prendere in considerazione anche le posizioni teleologiche degli altri. Nascono, con ciò, le strutture della riproduzione sociale, forme oggettive di coordinamento fra le mobili e varie posizioni teleologiche degli individui, dalla divisione del lavoro e dal linguaggio fino al diritto e al mercato mondiale (ivi, pp. 124-50).

Articolandosi in virtù della riproduzione, l’essere sociale si rivela come ciò che più intimamente è, ovvero “complesso di complessi”, insieme di sistemi parziali, ciascuno dei quali interagisce con l’altro in forme non lineari (ivi, pp. 224-5). Ne nasce il caso, ciò che il razionalismo borghese stenta sempre a comprendere (ivi, vol. I, p. 346). Sennonché, in queste forme di coordinamento, gli uomini superano senza volerlo anche la loro particolarità, sperimentano profondi processi di universalizzazione. Si forma il genere umano in sé, sedimentazione non consaputa di capacità universali dell’uomo. D’altro canto, il passaggio al per sé, al genere non più muto, che sulla base dello hegelismo soggiacente a questo discorso si potrebbe considerare come inevitabile, è tutt’altro che tale per questo Lukács: esso è sempre una possibilità, legata al fatto che è nell’individuo che si deve attuare la crescita dalla particolarità all’universalità, è nella tensione fra capacità universali del genere e loro inscrizione all’interno della personalità individuale che si decide l’esito positivo o negativo del processo (ivi, vol. II, t. 2, pp. 406-8). Certo è che molto dipende dall’intensità e dal livello delle lotte che l’individuo conduce contro l’estraniazione generata dalle società di classe e dalla sua partecipazione alle forme superiori della cultura umana, e cioè arte, scienza e filosofia. In un modo o nell’altro, infatti, esse, a differenza della religione, dereificano l’uomo, gli permettono di consumare la propria particolarità, di ricollegarsi alla sua “essenza” (ivi, pp. 518-20).

In ciò che siamo venuti dicendo è per Lukács depositato anche il principio dell’etica: questa infatti deve coprire lo spazio della mediazione fra le esigenze contenute nei nessi di socializzazione e la sfera della particolarità; in altre parole, etico è lo spazio della mediazione fra necessità e libertà (ivi, vol. II, t. I, pp. 327-9). Spazio che d’altro canto non si sarebbe mai dischiuso se fin dal principio non fosse collocata entro la teleologia lavorativa la possibilità di scegliere diversamente. “Keine Ethik”, insomma, “ohne Ontologie”. È per questo che, sebbene l’idea di scrivere una Etica avesse attraversato la mente di Lukács prima di quella di scrivere una Ontologia, egli si risolse alla fine a scrivere anzitutto quest’ultima, ripromettendosi di trattare dell’etica in seguito4. Se la morte non avesse interrotto questo corso di pensieri, Lukács avrebbe così affiancato a una Estetica e a una Ontologia anche una Etica, e il marxismo si sarebbe finalmente dotato, come accaduto a tutte le grandi filosofie del passato, di un’articolazione sistematica, vera garanzia della sua universalità.

La ricerca delle condizioni di possibilità di una filosofia marxista è probabilmente uno dei fili conduttori principali dell’intera opera di Lukács. E se è vero che la freschezza e la vivacità con cui questa ricerca è condotta in Storia e coscienza di classe non sono state più recuperate da Lukács nel corso della sua maturità, non siamo d’accordo con quella tendenza critico-interpretativa che vede l’intelligenza filosofica lukacsiana scemare con il progresso degli anni. Per l’ontologia dell’essere sociale è senz’altro un libro la cui impostazione problematica deve essere sottoposta a un serio e profondo collaudo; tuttavia trattarlo alla stregua di un puro e semplice fallimento non pare sostenibile5. In esso sono infatti contenute, secondo noi, sollecitazioni filosofiche di tutto riguardo, dall’analisi del lavoro alla luce della categoria di possibilità alla riscoperta della vita quotidiana e del nesso fra quest’ultima e la scienza e la filosofia. Quel che più non ci persuade dell’Ontologia è però la scelta metodologica di fondo, lo studio delle forme concrete dell’essere sociale a muovere da una matrice ontologica e antropologica originaria, quella del lavoro marxianamente sans phrase, di ciò che ancora Marx chiamava “processo lavorativo naturale”. Benché quindi Lukács se la prenda talvolta con quegli approcci che partono da alcuni elementi “astratti” e da questi, per via di combinazione, giungono al concreto (ivi, vol. 1, pp. 130-1), è proprio così che egli sembra operare. Ciò che attraversa tutti i modi di produzione storicamente determinati, senza peraltro apparire mai come tale, e che si ricava nella sua autonoma figura teorica solo per astrazione dalle diverse forme di lavoro concreto storicamente date, e cioè lo stesso processo lavorativo naturale, viene invece concepito come loro principio di determinazione. Lukács sorvola insomma sulla scelta di Marx nel Capitale di parlare del processo lavorativo naturale sullo sfondo del processo di produzione capitalistico in quanto governato dall’obiettivo della valorizzazione e di parlarne altresì solo dopo che le categorie fondamentali di tale modo di produzione siano state fissate e delineate. La conseguenza è che per discutere del capitalismo come formazione socialmente e storicamente determinata, e per discuterne come di qualcosa che può essere filosoficamente ritematizzato sulla base del concetto di processo lavorativo naturale, categorie come il valore (in senso economico), che hanno un concreto profilo sociale e storico, vengono indebitamente naturalizzate, sottratte a quella complessa rete di relazioni in cui, per converso, sono in Marx fin da subito collocate (ivi, pp. 340-1)6.

Naturalmente, se Lukács non percorre questa via è per una ragione molto seria, quasi candidamente confessata all’interno dell’Ontologia, la ragione è che in caso contrario avrebbe dovuto affrontare fin da subito la tematica della reificazione, e quindi anche quella di una socialità opaca e invertita (ivi, vol. II, t. 2, pp. 643-6). Ancora una volta il nesso coscienza-totalità sociale avrebbe potuto soffocare l’originarietà di quel rapporto con la natura e con l’essente oggettivo, per ripristinare il quale molti sforzi e molte rotture si erano dovuti compiere.

Bibliografia

Fehér F., Heller A. (1995), A Budapesti Iskola, vol. 1, Argumentum, Budapest.

Lukács G. (1913), Storia e coscienza di classe, trad. it. a cura di G. Piana, SugarCo, Milano 1967.

ID. (1948), Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1960.

ID. (1954), La distruzione della ragione, trad. it. di E. Arnaud, Einaudi, Torino 1959.

ID. (1972), Scritti politici giovanili 1919-1928, ed. it. a cura di P. Manganaro, N. Merker, Laterza, Bari.

ID. (1976-81), Per l’ontologia dell’essere sociale, ed. it. a cura di A. Scarponi, 2 voll., Editori Riuniti, Roma.

ID. (1981), Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo (intervista di I. Eörsi), ed. it. a cura di A. Scarponi, Editori Riuniti, Roma 1983.

ID. (1985), L’uomo e la democrazia, a cura di A. Scarponi, Lucarini, Roma 1987.

ID. (1990), Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale. Questioni di principio di un’ontologia oggi divenuta possibile, trad. it. di A. Scarponi, Guerini e Associati, Milano.

ID. (1994), Versuche zu einer Ethik, hrsg. von G. I. Mezei, Lukács Archiv, Budapest.

Oldrini G. (2009), György Lukács e i problemi del marxismo del Novecento, La città del sole, Napoli

Tertulian N. (1990), Introduzione a Lukács (1990).

note

1 Il manoscritto fu inizialmente presentato all’Accademia delle scienze sovietica (nel 1938) e procurò a Lukács il titolo di “dottore in filosofia”. Tuttavia, la pubblicazione del libro intervenne solo dieci anni dopo, e in Svizzera, a causa del timore degli editori sovietici di promuovere il libro di un autore sospetto alle autorità (non si dimentichi, infatti, che Lukács venne imprigionato nel 1941, in una delle ultime ondate di arresti del periodo staliniano, e poco dopo liberato grazie all’intercessione di Dimitrov).

2 È Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin ad aver avvertito Lukács della imprescindibilità, in ordine al ripensamento del realismo, della vita quotidiana.

3 Lukács, assumendo, in un certo qual modo, una delle lezioni capitali della Logica hegeliana, pensa che dell’essere qua talis non si possa dire nulla, e che quindi si possa “cominciare” solo dall’essere determinato, che, “materialisticamente”, è diviso in inorganico, organico e sociale.

4 Cfr. a questo proposito le note di contenuto etico presenti in Lukács (1994).

5 Cfr. il giudizio della stessa allieva di Lukács, Àgnes Heller, in Fehér, Heller (1995. p. 412).

6 D’altronde, come riportano alcune testimonianze, lo stesso Lukács era tutt’altro che convinto della bontà dell’organizzazione sistematica dell’Ontologia, basata sulla divisione fra una prima parte storica e una seconda di tipo teorico. A preoccuparlo era la presenza nel testo di alcune ripetizioni. È per questo che poco prima di morire stese una versione condensata dell’Ontologia, i Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale (per le notizie sull’attività redazionale dell’ultimo Lukács cfr. l’Introduzione di N. Tertulian a Lukács, 1990).

Il grande intellettuale e il rapporto col partito

28 lunedì Dic 2015

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Cina, coscienza di classe, Estetica, Hegel, hegelismo, ideologia, Il Capitale, intellettuale, intellettuale ideologo, La distruzione della ragione, Marx, ontologia, partito, settarismo, Stalin, Storia e coscienza di classe, utopismo messianico, vocazione


«Il Contemporaneo-Rinascita», n. 24, 11 giugno 1971.

La scomparsa di György Lukács

La figura di György Lukács, scomparso a Budapest il 4 giugno scorso a 86 anni di età, è stata sin dagli anni venti al centro delle tematiche più avanzate della cultura europea e dei suoi rapporti difficili e fecondi col movimento operaio. Commissario del popolo all’Istruzione nella Repubblica dei Consigli di Béla Kun, esule a Vienna, Berlino e Mosca, prestigioso docente di filosofia e di estetica, al suo rientro in patria, espulso dal partito dopo i fatti del 1956 e riammesso nel 1967, egli non ha mai cessato di commisurare la sua ricerca teorica con le vicende del grande scontro storico in atto, che lo ha quindi avuto tra i protagonisti più appassionati e coraggiosi, sempre, anche negli errori e nel travaglio connaturato ad ogni ricerca che, come la sua, sappia porsi ai livelli più alti del pensiero mondiale.
Rinascita, che più volte ha avuto l’onore di accogliere i suoi scritti sulle proprie colonne, e in particolare negli ultimi anni, quando la vigile intelligenza del vecchio filosofo ha saputo dare alcuni dei più memorabili interventi sulle grandi questioni aperte nel campo socialista e in vista di quello che egli chiamava il «rinascimento del marxismo», si propone di dedicare al suo pensiero studi e analisi più precisi e dettagliati. Intorno al suo nome, del resto, sono in corso da anni nella cultura marxista italiana dibattiti di grande rilievo, a riprova del peso decisivo da lui esercitato, anche nei contrasti, sul pensiero del nostro tempo. Da questi dibattiti intendiamo partire, per continuarli: nella fiducia che questo sia il migliore contributo alla sua memoria. [redazionale]


di Franco Ottolenghi

Proviamo a chiederci – e non è facile nello smarrimento che segue oggi l’annuncio della morte – che cosa è per noi György Lukács. È un interrogativo che pone in causa le zone nevralgiche della produzione di coscienza teorica e della dinamica politica del movimento comunista, a partire da un cardine: quello del rapporto avanguardia-masse che si afferma con la teoria leninista dell’organizzazione. Di fatto, coinvolge tutte le scelte strategiche del movimento, dopo l’Ottobre, fino ai primi anni sessanta: dalla ipotesi di una rivoluzione come mediazione (nel senso strettamente hegeliano, «giacché mediazione è principio e passaggio a un secondo termine, in modo che questo secondo in tanto è in quanto vi si è giunti da un qualcosa che è altro rispetto ad esso»), alla politica dei fronti popolari lanciata dalla Terza Internazionale; dal convalidamento del modello di edificazione economica socialista nell’Unione Sovietica, alla questione della «coesistenza». Basta questo a darci la misura della esemplarità della vicenda di Lukács, e anche, più in particolare, di un modo di produrre teoria (e politica) dell’intellettuale, in cui sta una delle chiavi per comprendere questa straordinaria figura: levato l’antico privilegio della nascita, è la «vocazione» professionale al lavoro intellettuale di cui parla il suo maestro Max Weber a garantire a Lukács un rapporto con la classe e il movimento che si alimenta di un consapevole impegno etico.

Questa stessa «vocazione», se consente una linea di sutura col movimento politico espresso dal proletariato, determina d’altra parte uno scarto rispetto ad esso. Nonostante i suoi appassionati interventi sulla «partiticità» leninista, per tutta la vita Lukács conserverà orgogliosamente il carisma critico nei confronti del movimento e delle sue organizzazioni che quello scarto rendeva possibile.

C’è un senso profondo, tuttavia, in cui la morte di Lukács conferma quasi dolorosamente un silenzio. Proviamo a esaminare uno degli ultimi suoi grandi interventi, quello «Sul dibattito fra Cina e Unione Sovietica», risalente al 1963. Lo scritto, come si ricorderà, prende spunto dallo scambio di lettere fra i Comitati centrali dei partiti comunisti sovietico e cinese. Era uno dei momenti più drammatici del dissidio. Ne risentono le contrapposte formulazioni strategiche a proposito del nesso guerra-rivoluzione. Curiosamente, il filosofo, che pure richiama il detto leninista sulla necessità di compiere permanentemente «l’analisi concreta della situazione concreta», riduce la dimensione politica dello scontro alla contrapposizione ideologica tra realismo del pensiero rivoluzionario e settarismo. Quest’ultimo anzi essendo propriamente il settarismo staliniano (a sua volta proiezione di una «mentalità fondamentale» del settarismo), identificabile, del resto, secondo la lettura lukacsiana, anche nelle esperienze di edificazione economica (il «balzo in avanti») della società cinese. Ora, non c’è dubbio che il tentativo di comprensione fatto da Lukács sforzando il suo apparato categoriale risulti insufficiente. E lui stesso lo avverte quando osserva, all’inizio del suo scritto, che l’autore «sa con Lenin, che l’astuzia del processo reale, «che supera qualsiasi previsione, appartiene per necessità alla concretezza del mondo: sa che, non tenendone conto, non si può capire il mondo stesso con la sua mobilità».

Ciò nonostante il problema per Lukács resta quello di infliggere al «modernissimo settarismo» una «sconfitta teorica realmente distruttiva», il che avviene «soltanto se la teoria marxista confuta fino in fondo non solo le argomentazioni pratiche che esso ricava dalla vita, ma anche le sue premesse e i suoi metodi deduttivi».

Qual è la ragione dello slittamento? Quale la ragione del rovesciamento del rapporto di determinazione struttura-sovrastruttura in forza del quale la teoria diventa levatrice di una pratica congruente con se stessa e diventa essa stessa l’indice di «mobilità» del mondo?

Non tanto, ovviamente, una insufficienza delle categorie in quanto tali, quanto una modalità regressiva del loro uso che tende a correlarle per se stesse, come momenti di una struttura razionale dialettica, come regioni di una ontologia razionale dialettica, per adoperare un termine filosofico (ontologia come scienza dell’essere, sia pure sociale) che nell’ultimo Lukács tornerà sempre più spesso. L’apparato categoriale diventa allora, dal punto di vista euristico, cioè dal punto di vista della produzione di conoscenza effettiva, disfunzionale.

Tocchiamo qui il problema dell’irrisolto hegelismo di György Lukács. Che è anche il problema della sua ininterrotta ricerca del marxismo, la ragione del suo silenzio e della sua grandezza, il referente teorico della sua professione intellettuale. Nella disincantata autocritica con la quale, nel 1967, Lukács rende conto dei suoi furori filosofici a cavallo degli anni venti, Storia e coscienza di classe (1922), il testo-chiave in cui si riprende, a partire dalle ultime pagine del Capitale, il problema della determinazione del proletariato in classe, subisce a confronto con la compattezza della istanza materialistica assunta attraverso il leninismo, un drastico (e convincente, anche se fin troppo severo) ridimensionamento. Il superamento della reificazione, riconosce Lukács, viene dato nella sua opera come exploit della coscienza-di-classe del proletariato e si realizza quindi come piena trasparenza filosofica (hegeliana) del nesso soggetto-oggetto, anziché come funzione del rovesciamento del rapporto capitalistico di produzione. Non per caso, quindi, tutta la tematica della reificazione poté diventare il terreno di una controversia filosofica che vide scendere in campo anche Heidegger con Essere e tempo.

Ma a noi interessa notare una cosa. Scrive Lukács nella Distruzione della ragione: «I filosofi – che ne siano coscienti o meno, che lo vogliano o che non lo vogliano – sono sempre legati anche interiormente alla loro società, a una determinata classe in essa, alle aspirazioni progressive o retrograde di questa. Proprio ciò che rappresenta l’elemento realmente personale, realmente originale nella loro filosofia è nutrito, determinato, formato, guidato da questo terreno (e dal destino storico di questo terreno). Anche dove a prima vista sembra predominare una presa di posizione individuale nei confronti della propria classe, spinta fino all’isolamento, questa presa di posizione è legata nel modo più intimo con la situazione delle classi, con le alterne vicende della lotta di classe».

Sembra lecito leggere in questa osservazione qualcosa di più che un corretto ma generico richiamo a un canone interpretativo materialistico-storico. E neppure soltanto una ipotesi di lavoro valida per Descartes o Hegel. Il tono è troppo pressante. In filigrana vi si legge la vicenda del filosofo ungherese, vi si legge la destrutturazione dei ruoli sociali, compreso quello dell’intellettuale, provocata dall’acutissimo scontro di classe nell’Europa degli anni venti.

Lukács vive questa destrutturazione come crisi della propria figura sociale e come ricerca di una nuova collocazione di classe in grado di giustificare quella figura sociale. Di qui la curvatura culturale del suo marxismo, di qui ancora, in quegli anni, come egli stesso lucidamente riconosce, la crisi all’interno del suo stesso essere marxista (la partecipazione alla elaborazione della linea di «sinistra» che ebbe in Kommunismus il sue organo teorico e di battaglia, l’«utopismo messianico» come risvolto del settarismo politico, il salutare scontro con Lenin a proposito del rapporto con le istituzioni parlamentari borghesi).

Qui ancora va ricercato il senso profondo del suo voler essere uomo di partito tanto più quanto più la dotazione sociale originaria gli conferisce uno statuto d’autonomia: la crisi del ruolo sociale provoca uno sforzo incessante di adaequatio intellectus et rei, della strumentazione intellettuale originaria alla pratica quotidiana della istituzione. In questo senso, per Lukács, essere uomo di partito, essere dentro il partito era la sola garanzia che la ragione distrutta potesse essere ricostruita. «La tensione dialettica tra la formazione razionale dei concetti e la materia che le si offre nella realtà – è detto ancora nella Distruzione della ragione – è sì un fatto universale del rapporto conoscitivo con la realtà, ma il modo in cui questo problema si presenta di volta in volta, il modo in cui se ne affronta la soluzione oppure si scantona e si fugge dinanzi ad esso, è qualitativamente diverso a seconda della situazione storica, a seconda dello sviluppo storico delle lotte di classe».

Bene. Il partito era la garanzia che non si sarebbe «scantonato». Lukács lo seppe anche negli anni di Stalin. Il partito valeva bene qualche autocritica. Per questo Lukács fu, nel senso proprio, del termine, soprattutto un ideologo. Per questo aveva fortemente voluto la riammissione negli ultimissimi anni, senza preoccuparsi troppo del fatto che tra le maglie del materialismo dialettico della sua Estetica o della sua Ontologia affiorassero le venature dell’originario impianto hegeliano.

La riforma economica in Ungheria e i problemi della democrazia socialista.

04 mercoledì Nov 2015

Posted by György Lukács in I testi, Traduzioni italiane

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Il Capitale, il marxismo in Unione Sovietica, Lenin, Marx, Pcus, plusvalore relativo, riforma economica, riproduzione economica allargata, settari, stalinismo, sussunzione effettiva, ungheria, XX Congresso


di György Lukács

Intervista all’«Unità», in G. L., Marxismo e politica culturale, Einaudi, Torino 1968.

«L’Unità»,  28 agosto 1966 [«La riforma economica in Ungheria e i problemi della democrazia socialista», intervista di Bruno Schacherl]


Il Comitato centrale del Partito operaio socialista ungherese ha adottato recentemente una importante risoluzione sulla riforma del meccanismo dell’economia. Vorrebbe dirci la sua opinione in proposito?

Per valutare l’importanza di questa risoluzione, è necessario ritornare per un momento al XX Congresso del PCUS. A quell’epoca solo pochi conoscevano le vere cause delle sue decisioni più importanti, e precisamente che queste erano le conseguenze dello sviluppo economico dell’Unione Sovietica. Per quanto il sistema di direzione di Stalin possa essere stato profondamente problematico dal punto di vista economico, pure esso è stato capace di costruire e mettere in funzione un’industria pesante orientata verso la guerra. Dopo la conclusione vittoriosa della guerra contro Hitler, questo sistema però è diventato sempre più incompatibile con il normale funzionamento della già sviluppata industria sovietica. Non era più possibile indirizzare, con i metodi degli anni trenta, la massa degli intellettuali e degli operai sovietici, considerevole di numero e ben preparata, verso la produzione pacifica, estesa e altamente qualificata. Era necessario liquidare immediatamente almeno questo aspetto dei metodi di Stalin.
Così ha avuto inizio la liquidazione dell’era staliniana. Essa però non si appuntava alla sostanza, ma si arrestava alla critica ideologica, spesso superficiale, del cosiddetto «culto della personalità». Ma nel frattempo la problematica profonda dell’economia socialista continuava ad esercitare i suoi effetti, senza però che tuttavia ne venissero rivelate le vere cause.

In che modo si è manifestata questa problematica?

In primo luogo nel fatto che tutti i problemi sono stati trattati prevalentemente dal punto di vista ideologico. Molti credevano che i cambiamenti effettuati sul terreno puramente ideologico, innanzitutto con la recezione delle arti e delle scienze moderne dell’Occidente, offrissero una sicura via d’uscita. Da parte mia, naturalmente, ero da molto tempo dell’opinione che i divieti della vecchia direzione a questo proposito siano sempre stati senza senso e nella pratica siano serviti solo ad attribuire a prodotti di valore spesso piuttosto basso e a metodi più che dubbi il prestigio e il fascino delle cose proibite. I dibattiti su queste questioni, proprio per tale ragione, non hanno portato avanti di un solo passo la chiarificazione dei problemi fondamentali. Non la potevano portare, in quanto anche nel caso di una eventuale vittoria completa della tendenza «liberalizzatrice», sarebbe rimasta possibile la sopravvivenza di un burocratismo dogmatico, analogo a quello del burocrate che ha le pareti decorate con i quadri di Picasso, ma che fra queste pareti continua con coerenza ad impedire il progresso economico e sociale: così come nel vecchio bel film su Čapaev il sanguinario generale bianco nelle ore libere suonava le sonate di Beethoven e le interpretava veramente bene. È avvenuta quindi una polarizzazione sterile di questo tipo: da un lato vi era il dogmatismo settario che, a parte il «culto della personalità», consentiva di criticare solo pochi difetti; dall’altro lato si manifestava un’ammirazione smoderata per tutto ciò che era «occidentale». Intanto, i problemi economici che non erano stati risolti continuavano ad esercitare i loro effetti sotto la superficie e la problematicità della vita economica continuava incessantemente ad approfondirsi.

E secondo lei, la risoluzione sulla riforma del meccanismo economico significa una svolta?

Sì. Naturalmente noi ungheresi non siamo gli unici ad orientarci verso la soluzione di questo complesso di problemi. Basta, per esempio, accennare alla Cecoslovacchia. Non si parla da nessuna parte di «soluzioni di validità generale» che risolvono di colpo ogni cosa. Si tratta piuttosto del primo passo, comunque del primo passo chiaro, fatto per raggiungere una soluzione reale dei problemi economici.

Un primo passo in che senso?

Nel senso che fanno un passo reale nella prassi reale, per correggere veramente ciò che è errato nella realtà. Penso – per riprendere l’immagine di Lenin – che si sia afferrato l’anello giusto della catena, per poter dominare così il movimento dell’intera catena. Si tratta del primo passo, perché noi teniamo in mano solo il primo anello e non tutta la catena e per il momento incominciamo a riformare i sintomi e non ancora le basi vere e proprie. Ma è stato compiuto un vero primo passo, perché solo ora si è creata la possibilità reale di indirizzare nella giusta direzione l’intera catena.

Cosa intende dire per giusta direzione?

La via che conduce ad una vera economia socialista. Un tertium datur [esiste una terza via (N. d. R.)] tanto rispetto all’arretratezza settaria dogmatica quanto alla capitolazione incondizionata nei confronti dell’economia capitalista. Questo giusto indirizzo abbraccia secondo me due grandi complessi di problemi.

Quali?

Il primo è la rinascita della teoria e del metodo di Marx. Io stesso sono stato testimone negli anni trenta di come nell’Unione Sovietica lo studio di Lenin – in seguito alle direttive emanate dall’alto – sostituì lo studio di Marx e di come a sua volta mezzo decennio più tardi Lenin sia stato sostituito da Stalin. Se vogliamo creare un’economia pianificata su basi teoretiche solide, per gettarne le basi dobbiamo far rinascere a nuova vita la teoria marxiana della riproduzione allargata.

Non può nascerne un nuovo dogmatismo, una nuova sottospecie della «citatologia»?

Mi pare di no. La rinascita della teoria marxiana della riproduzione allargata mi sembra che abbracci tre complessi di problemi. Il primo è la genuina analisi teoretica della teoria della riproduzione allargata contenuta nel secondo volume del Capitale. Qui però non bisogna mai dimenticare che Engels, l’editore di questo volume, proprio per quanto riguarda tale capitolo rilevò, deplorandole, le «lacune» e la «frammentarietà» della descrizione. Lo studio del testo di Marx deve essere quindi uno studio critico. In linea di principio non è affatto escluso che su questioni specifiche si rendano necessarie correzioni o «integrazioni».
In secondo luogo, Marx ha scritto queste riflessioni circa cent’anni fa. Da allora, il sistema economico del capitalismo è cambiato in modo sostanziale, e oggi abbiamo il compito di dare un’interpretazione teorica di questo cambiamento, sulla base del marxismo. Altrimenti ci troveremmo nuovamente di fronte ad una falsa antinomia: da un lato il dogmatismo che continua ad attendere – come la vecchietta all’estrazione della lotteria – l’esplosione di una nuova crisi, tipo quella del 1929; dall’altra parte i teorici borghesi, i quali affermano che in sostanza non esiste più capitalismo di sorta e che l’analisi marxiana non è altro che un documento storico del secolo XIX.
Pur senza essere un economista, io penso che questa trasformazione possa essere pienamente spiegata con l’aiuto del metodo marxista. È un fatto che la capitalizzazione dell’industria che produce i beni di consumo e della maggior parte dei cosiddetti servizi è avvenuta in questi ultimi cento anni. Ciò però è molto più di una semplice estensione quantitativa della sfera di influenza del capitalismo, ma provoca piuttosto in esso un cambiamento qualitativo: il capitale nel suo complesso è ormai interessato direttamente dal punto di vista economico ai consumi della classe operaia. Pur senza entrare nei dettagli, mi sia permesso constatare che in conseguenza di ciò il plusvalore relativo, come forma di sfruttamento, finisce per avere il sopravvento sul plusvalore assoluto, perché solo questa nuova forma può garantire l’intensificazione dello sfruttamento nel caso dell’aumento contemporaneo dei consumi (e del tempo libero) degli operai. Con ciò però, il capitalismo non cessa affatto di essere capitalismo. Marx scrive in un punto che solo attraverso il dominio del plusvalore relativo, può avvenire nel capitalismo la «sussunzione effettiva» dell’economia. Certamente, è da vedere in che misura questo mio giudizio sia valido. Per poter adottare adeguatamente la teoria marxiana della riproduzione allargata, bisogna metterla a confronto con i cambiamenti strutturali fondamentali del capitalismo.
In terzo luogo, cent’anni fa Marx ha potuto esaminare le leggi della riproduzione della forma sociale della produzione, solo sul capitalismo. Oggi ci si può chiedere se accanto al numero certamente notevole di aspetti comuni esistenti nella riproduzione capitalista e socialista, non vi siano delle costellazioni economiche che si fanno valere in ambedue le formazioni come categorie diverse. Anche questo è un problema teorica molto importante, per cui non si devono anticipare avventatamente i suoi risultati.
A titolo puramente illustrativo, desidero accennare al fatto che, secondo l’economia politica marxista, i beni culturali propriamente detti non possono avere un valore economico, in quanto non può essere valida per loro la categoria del tempo di lavoro socialmente necessario alla loro fabbricazione. Naturalmente nel capitalismo essi hanno un prezzo e di conseguenza si trasformano in merce (Balzac ha descritto gli inizi di questa evoluzione nel suo romanzo Illusioni perdute). Ebbene: il socialismo non ha seguito spontaneamente questa tendenza di sviluppo neppure nel periodo di Stalin. Solo negli ultimi tempi si sono fatti avanti dei teorici particolarmente «progressisti», per fortuna senza trovare notevoli risonanze, i quali desiderano rendere «redditizia» anche la produzione culturale. Ovviamente qui si parla solo dell’aspetto economico dei problemi culturali e non delle brutali manipolazioni staliniste che sono state e sono a buon diritto criticate; e anche questo solo per illustrare la possibilità teorica che si manifesti, talora, una diversità categoriale fra la riproduzione nel capitalismo e nel socialismo.
Ebbene, se la rinascita del marxismo si realizzerà su questa strada, essa non condurrà ad alcun irrigidimento dogmatico. Al contrario farà sì che l’economia pianificata trovi per la prima volta un fondamento teoretico nelle stesse leggi della riproduzione della realtà economica.

Tutto ciò appare per lo meno interessante. Ma perché crede lei che la riforma del meccanismo economico debba provocare tutte queste conseguenze?

Esaminando il problema dal punto di vista teoretico: perché la realizzazione effettiva di una riforma che sia effettivamente di questo genere deve necessariamente portare a questi problemi. Se si intende realizzare veramente questa riforma, è impossibile trascurare queste questioni. Nella realtà ciò naturalmente si esprime come lotta fra varie tendenze e i sostenitori della riforma potranno vincere solo se contemporaneamente alla realizzazione di un meccanismo economico che funzioni in modo giusto, faranno nuovamente rivivere la democrazia proletaria dei primi anni rivoluzionari dell’Unione Sovietica. Come nella teoria, i due aspetti devono essere organicamente fusi anche nei passi concreti della realizzazione.
Si tratta di ottenere con una mobilitazione cosciente e costante la collaborazione democratica e reale in tutti i problemi della riforma di tutti coloro che – direttamente o indirettamente – sono interessati a debellare realmente nella pratica l’indifferenza nata nei lavoratori nei confronti della propria attività, in conseguenza della burocratizzazione. Una simile democrazia reale non può essere «introdotta» con nessun decreto. Può essere solo il risultato di un lavoro di trasformazione, accanito e deciso, operato sulle basi reali della vita stessa. Proprio per questo, il primo giusto passo consiste nel dare la massima autonomia alle aziende nella realizzazione concreta della programmazione. Bisogna eliminare i vincoli burocratici esistenti nelle aziende, negli organismi locali, ecc., bisogna impedire che le iniziative vengano paralizzate; e allora, se i lavoratori stessi parteciperanno attivamente a questo lavoro, sarà possibile ridestare la loro volontà e la loro energia nella edificazione positiva.
In questi ultimi anni vi sono state molte discussioni scolastiche sulla centralizzazione e sulla decentralizzazione. Dietro a queste parole eccessivamente astratte spesso si nasconde il falso dilemma fra la conservazione della tradizione staliniana e la semplice introduzione di forme d’organizzazione capitalistiche. La realtà ha però già prodotto il modello della realizzazione del piano senza prescrizioni burocratiche fino ai minimi dettagli. Marx ha ripetutamente dimostrato che l’organizzazione bellica spesso è più progressiva dell’economia nel suo senso più stretto – si pensi all’economia schiavistica dell’antichità. Ora, la seconda guerra mondiale ha creato un modello per tutte le questioni pratiche, che dimostra come la programmazione globale possa essere veramente effettiva, proprio perché non stabilisce dei provvedimenti meccanici per quanto riguarda la realizzazione, ma prevede per i singoli organismi l’esecuzione di obiettivi – definiti dalla programmazione – che questi devono risolvere con un’autonomia relativamente vasta. Questo accenno vuole solo indicare la possibilità di organizzare un tale metodo di programmazione e vuole mettere in evidenza la prospettiva di un collegamento dialettico della centralizzazione con la decentralizzazione. In uno schema simile non rientra naturalmente la partecipazione democratica, la insostituibilità dell’iniziativa democratica delle masse, il ruolo decisivo dell’opinione pubblica democratica; queste appartengono specificamente alla prassi economico-sociale. Ma senza che si formi un’opinione pubblica che agisca apertamente non è possibile realizzare né nella teoria né nella pratica una vera riforma economica, che sia nello stesso tempo anche riforma del modo di vita delle masse.

Lei attribuisce una grande importanza alla partecipazione delle masse. È proprio convinto che tutte le iniziative provenienti dal basso debbano essere giuste in ogni caso?

Naturalmente no. Nel corso della realizzazione, che esige un lungo periodo di tempo – in alto come in basso – vi possono essere anche in seguito più volte delle decisioni errate. Democrazia proletaria non significa una garanzia contro gli errori, ma solo – e questo «solo» è un intero mondo – la possibilità di riconoscere e superare i difetti più rapidamente di quanto sia possibile in qualsiasi altro sistema.
La condizione per la realizzazione della riforma avviata ora, sta non solo nella democratizzazione effettiva, ma anche nella collaborazione fra i massimi dirigenti e l’iniziativa spontanea delle masse, una collaborazione la cui punta sia rivolta contro l’irrigidimento burocratico e i suoi fautori. Ci vorranno lunghi anni finché lo sforzo produttivo di milioni di uomini possa creare una nuova economia (ben fondata dal punto di vista marxista) e realizzare così la possibilità di una nuova vita (socialista). Ma se in questo momento si presenta nella pratica la prospettiva di una simile evoluzione, si può e si deve salutare il primo passo reale fatto in questa direzione.

Il«Capitale», oggi

08 martedì Lug 2014

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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Althusser, Della Volpe, Esetica, Il Capitale, marxismo, ontologia


di  F.O.

«l’Unità»,15 maggio 1968.


La ragione materialistico-storica di Galvano della Volpe — L’ultraottantenne Lukács continua la sua «lotta per un marxismo autentico»

Leggere il Capitale: l’opera realizzata dal gruppo di filosofi marxisti riunito intorno ad Althusser e pubblicata nel ’65 viene presentata ora in traduzione italiana (Louis Althusser-Etienne Balibar, Leggere il Capitale, Feltrinelli 1968, pp. 336. L. 3.500).

«Leggere il Capitale» è qualcosa di più che il titolo di un seminario di studi sull’opera marxiana (Althusser e i suoi col leghi lo realizzarono all’Ecole Normale di Parigi nei primi mesi del ‘65): è un invito a riprendere la riflessione sul testo-chiave della nuova scienza proletaria. li movimento di «ritorno» al Capitale dopo la riflessione sull’antropologia filosofica sollecitata da un particolare tipo di lettura delle opere giovanili di Marx, dopo la definizione di quel momento nevralgico della produzione di conoscenza rivoluzionaria che è la critica della ideologia come forma organica della falsa coscienza, è di una importanza straordinaria, soprattutto nei paesi di capitalismo matura Non per nulla tale movimento ha sempre contraddistinto fasi decisive per la fondazione di una pratica rivoluzionaria. Basti pensare al momento centrale della polemica condotta da Lenin contro i populisti russi e il cosiddetto «marxismo legale».

Lo stesso Althusser, del resto, ama definire la «funzione maestra» della pratica filosofica emergente dalla sua riflessione sul Capitale con la parola d’ordine leninista «tracciare una linea di demarcazione» teorica, fra «le idee vere» (la scienza, n.d.r.) e le «idee false» (l’ideologia) e politica. Un compito, questo tanto più vitale in un momento in cui la società capitalistica si caratterizza per le sue elevatissime capacità di controllare le crisi cicliche e di riassorbire o erodere le opposizioni politiche.

Dall’antropologia teorica (quel tipo di riflessione, cioè, che ha di mira l’essenza dell’uomo in rapporto alla natura e alla società) si passa dunque, per Althusser, attraverso il Capitale a una definizione della totalità sociale (capitalistica) come struttura e struttura di strutture, nella quale «i veri soggetti che definiscono e distribuiscono sono i rapporti di produzione (e i rapporti sociali politici e ideologici)», non riducibili a semplici rapporti fra uomini.

Sui caratteri della totalità strutturata marxiana, sulla sua sostanziale differenza da quella hegeliana, sulla «rottura epistemologica» (relativa cioè ai fondamenti stessi della concezione del sapere e della scienza) che essa implica a proposito della dialettica nei confronti della filosofia classica tedesca (da Hegel a Feuerbach), Althusser è tornato più volte anche nella raccolta di saggi Pour Marx (Per Marx. pp. 226. Editori Riuniti, 1967, L. 1.500) già ampiamente recensita su queste colonne.

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Significato e articolazione della dialettica come struttura del processo storico, il rapporto Marx Hegel, critica della ideologia come «corpo di idee aspiranti alla universalità e verità la più lata e astratta ma rappresentative soltanto – sebbene inconsapevolmente e dogmaticamente – di interessi storici parziali o di una data classe sociale»: questi i temi della critica dell’Ideologia contemporanea di Galvano Della Volpe (Ed. Riuniti 1967. pagg. 155. L 1800).

Da più di un ventennio ormai la ricerca di Della Volpe si colloca con un timbro particolare nell’orizzonte della moderna cultura marxista: ne sono testimonianza opere come la Logica come scienza positiva, Rousseau e Marx, Critica del gusto, ecc.. di cui questa Critica dell’ideologia si presenta come conseguente messa a punto polemica in relazione a talune recentissime questioni logiche, politiche, sociologiche, estetiche.

La ragione moderna, dice Della Volpe precisando la sua nozione di dialettica come metodo logico-storico di astrazioni determinate, è «materialistico-storica». Essa intende «razionalizzare la storia e regolarne il movimento», partendo dalla analisi delle contraddizioni del presente come presente storico. Tale analisi è «produttiva di storia». La sua determinatezza, infatti, «la rende realmente operativa ossia adeguata alla prassi che repugna massimamente all’indeterminato: onde si tratta di un “conoscere” che è in grado (non retoricamente) di “mutare” il mondo, di rivoluzionarlo, senza fine».

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La vecchiezza di György Lukács non è disarmata e stanca. Il filosofo ungherese continua a impegnarsi in quella «lotta del presente per un marxismo autentico» che, nella prefazione per l’edizione italiana di Storia e coscienza di classe (Sugar, 1967), ha indicato come un compito vitale per il pensiero moderno, oltre che coma l’obbiettivo permanente della sua ricerca.

Nato a Budapest nel 1885, Lukács, la cui biografia è intrecciata ad alcuni momenti chiave della storia della rivoluzione socialista in Europa, ha sempre accompagnato alla milizia politica e di partito una riflessione filosofica volta a definire il nucleo teoretico del marxismo in rapporto al pensiero classico tedesco, in particolare a Hegel, e in polemica con la grande sociologia borghese (tedesca anch’essa) degli inizi del secolo.

Dopo aver completato di recente una monumentale Estetica, che dovrebbe comparire anche in italiano, Lukács sta ora lavorando a una Ontologia, o scienza dell’essere (di un essere storico, naturalmente, non metafisico, quale è sempre stato l’essere oggetto delle ontologie tradizionali) di cui ci forniscono una testimonianza e una anticipazione le Conversazioni con Wolfgang Abendroth, Hans Heinz Holz, Leo Kofler risalenti al ’66 e di recente tradotte in italiano (De Donato editore, Bari, 1968, pp. 207. L 800). Ma i temi affrontati da Lukács sono di grande varietà e interesse. Basti qui accennare, tra l’altro, allo sforzo di definire in termini di manipolazione le tecniche del dominio nelle società di capitalismo sviluppato. Si tratta di un filone intorno al quale hanno lavorato sociologi come Adorno, Horkheimer, lo stesso Marcuse e che ha avuto notevole risonanza nel movimento studentesco. O, ancora, si ricordi la caratterizzazione attuale dello sfruttamento della classe operaia come sfruttamento operato attraverso il plusvalore relativo («Il plusvalore assoluto non è morto, dice Lukács, semplicemente non svolge più il ruolo dominante»).

Sono, questi temi ricorrenti nella riflessione dell’ultimo Lukács. Li ritroviamo, sia pure a margine o appena accennati, anche in Marxismo e politica culturale (Einaudi, 1968, pp. 218. L. 2000). Si tratta di una raccolta di saggi che dal celebre scritto autobiografico «La mia via al marxismo» (1933) con proscritto del 1957, in avanti, affronta sostanzialmente un gruppo di problemi connessi alla milizia dell’intellettuale e in sostanza al rapporto fra cultura e politica.

Da «Poesia di partito» a «Sulla responsabilità degli intellettuali», da «La lotta fra progresso e reazione nella cultura d’oggi» a «Problemi della coesistenza culturale», fino al «Dibattito fra Cina e Unione Sovietica» è presente in tutto il libro (la scelta dei saggi che ne fanno parte è stata stabilita dall’autore) quella consapevolezza del particolare rapporto fra teoria e pratica che il marxismo occidentale, da Gramsci allo stesso Lukács – che più volte lo affrontò esplicitamente fin dai tempi di Storia e coscienza di classe (1922) – ha svolto sulla base delle indicazioni leniniste, in una teoria del partito e in una strategia della rivoluzione socialista nei paesi di capitalismo maturo.

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At the meeting of the Petöfi Cercle on June 27,1956, Arpad Szakasits, social democrat, talks to philosopher George Lukacs.
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Casa di Lukács a Budapest
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Young Lukacs
Festschrift zum achtzigsten Geburtstag von Georg Lukács by Benseler, Frank
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Lukács e Fortini
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Al tempo del suo amore per Irma
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Lukács al Congresso della pace di Helsinki 1955
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Taerga (Casa di Lukács a Budapest)
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Casa di Lukács a Budapest
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Lukács studente universitario
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Tomba di Lukács
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Lukács e Fortini
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Lukács e la moglie
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Bundesarchiv Bild 183-15304-0097, Berlin, Tagung Weltfriedensrat, Georg Lukacz, Anna Seghers
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Lukács e Fortini
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