Tecnica, contenuti e problemi di linguaggio

di György Lukács

[Intervista di Yvette Biró e Szilárd Ujhelyi a Lukács apparsa sulla rivista ungherese “Film Kúltura” e poi in traduzione italiana su “Cinema nuovo”, n. 196, novembre-dicembre 1968]


Nei mesi scorsi il filosofo György Lukács ha assistito alla proiezione di quei nuovi film ungheresi che hanno ottenuto particolari riconoscimenti in patria e all’estero, e che sono considerati tra i più rappresentativi. Tra le opere di Miklós Jancsó, Igy jöttem (Sono venuto così), Szegénylegények (I disperati di Sandor), Csillagosok, katonák (Stellati, soldati [L’armata a cavallo, Ndr]) e Csend és Kiáltás (Silenzio e grido); tra quelle di András Kovács, Nehéz emberek (Uomini difficili), Hideg napok (I giorni freddi) e Falak (I muri); di István Szabó, Apa (Il padre); e di Zoltán Fábri, Húsz óra (Venti ore); di Ferenc Kósa, Tizezer nap (Diecimila soli). Il complesso dei film ungheresi con i loro temi variati solleva un grande numero di problemi sia artistici, sia legati alla nostra società di oggi, sui quali “Film Kúltura” ha posto alcune domande a Lukács. L’intervista – che pubblichiamo integralmente, per gentile concessione della rivista ungherese e nella traduzione di Ivan Lantos – ha avuto luogo il 10 maggio in casa del filosofo; le domande sono state poste dai redattori Yvette Biró e Szilárd Ujhelyi.

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Rivoluzione e psicologia della vita quotidiana 

di György Lukács

[Rivoluzione e psicologia della vita quotidiana è il testo di un’intervista realizzata a Lukács da András Kovács pubblicata su “Film Kúltura” e poi in italiano su “Cinema nuovo”, n. 217, maggio-giugno 1972.]


Nel 1919, durante la Repubblica ungherese dei consigli, lei partecipò al governo e, come commissario del popolo, per primo nella storia nazionalizzò la cinematografia. Quali ricordi ha di quell’avvenimento? 

Ho pochissimi ricordi. Non possiamo dimenticare che la storia della dittatura del proletariato venne scritta, in genere, in modo stalinista. Sotto questo aspetto si pretendeva una specie di potente sovrano, molto intelligente, in grado di mettere a posto tutto. In realtà non ero assolutamente un tale sovrano. Nella dittatura proletaria del 1919, mio unico merito fu quello di far intervenire, nell’ambito del Commissariato del popolo, con un ruolo di guida, i dirigenti di tutte le correnti progressiste nei vari campi, dall’insegnamento alla musica. Se lei ora mi volesse chiedere chi ha nazionalizzato il cinema, dopo cinquant’anni non potrei proprio rispondere. Personalmente mi occupavo molto di particolari questioni – istruzione pubblica, università, letteratura, arte – ma, le confesso, so pochissimo di quanto è avvenuto nel campo cinematografico. Non si può dimenticare, naturalmente, che nel 1919, il peso del cinema nella vita artistica e culturale era molto minore di quello di oggi. 

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