Lukács, un eretico senza rogo

di Federico Argentieri e Antonino Infranca

«Corriere della sera» 30 maggio 2021


Il pensatore ungherese scomparve 50 anni fa: fu sempre comunista, pur con atteggiamenti critici. Isolato ma non perseguitato, anche dopo avere partecipato alla rivoluzione del ’56, oggi viene svalutato dalla destra di Orbán

Fino a qualche decennio fa, György Lukács – di cui il 5 giugno ricorre il cinquantennale della morte – era considerato uno dei maggiori filosofi del Novecento, poi il crollo del socialismo realizzato e il generale disinteresse verso il marxismo gli hanno fatto perdere immeritatamente l’importanza che aveva raggiunto. Rispetto ad altri autori, però, Lukács vanta una particolarità: era un pensatore di grande livello prima ancora di diventare marxista. Nato il 13 aprile 1885 in una famiglia dell’alta borghesia ebraica di Budapest il padre József, direttore del Banco Anglo-Ungherese, era uno degli uomini più ricchi del Paese – il giovane Lukács sentiva il vuoto di valori etici della classe sociale a cui apparteneva e se ne sentiva estraneo, andando, quindi, alla ricerca di alternative. Da questa consapevolezza nascono molte riflessioni di Lukács che troveranno sbocco nella sua adesione al marxismo. E che manifestano già una maturità teorica straordinaria. Le sue riflessioni giovanili furono indirizzate verso l’arte, nella speranza di un’emancipazione della società civile ungherese dalle forme culturali e spirituali feudali che ancora vi dominavano.

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Il sistema dei Soviet è inevitabile

di György Lukács

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.

DAS RÄTESYSTEM IST UNVERMEIDLICH“, intervista a Der Spiegel, 20 aprile 1970, n. 17, pp. 153-166. L’intervistatore è Dieter Brumm,


Spiegel – Professore Lukács, una volta Lei ha affermato che il parlamentarismo era “invecchiato in termini storico mondiali”. Successivamente Lenin corresse la sua affermazione, sostenendo che questa questione non era di natura ideologica, bensì tattica. Come valuterebbe il parlamentarismo oggi, specialmente in relazione ai paesi socialisti?

Lukács – La questione del parlamentarismo ha straordinariamente assunto le sembianze di un essere androgino, da quando Stalin iniziò la trasformazione dei resti, già corrotti, dei Consigli Centrali dei lavoratori (Soviet) in un parlamento. Secondo la mia opinione, ciò rappresentò un passo indietro, poiché il parlamentarismo è un sistema di manipolazione dall’alto. Continua a leggere

Lukács e lo stalinismo. Parla Timor Szabó dell’Università di Szeged

di Stefano Petrucciani

«il manifesto», 20 luglio 1991


La società ungherese, come tutte quelle dell’Est, vive un processo di trasformazione tumultuoso e radicale. Come si ridefinisce, in questo contesto, il rapporto con una figura come quella di Lukács, che tanto peso ha avuto nella cultura ungherese ed europea del ’900?

«Per discutere questo punto – risponde Tibor Szabó, incontrato a Roma, all’Accademia di Ungheria – bisogna tener presente quella che io chiamo la doppia svolta che ha segnato lo sviluppo ungherese nell’ultimo periodo. La prima svolta, nell’88, andava nella direzione di un socialismo riformato: allora Lukács poteva funzionare come un punto di riferimento importante. Proprio nell’88 fu pubblicato per la prima volta in Ungheria il libro sulla democrazia, che Lukács aveva scritto 20 prima: come filosofo che si era sempre battuto per la riforma del socialismo, offriva uno sfondo utile ai comunisti critici che si muovevano in quella direzione. A partire dall’autunno ’89 le cose sono cambiate profondamente: vi è stata una seconda svolta, e le forze che si battevano per un socialismo riformato sono state sostanzialmente emarginate, hanno perso la loro base di consenso. Oggi perciò è forte la tendenza a considerare Lukács nient’altro che un ideologo del marxismo, appartenente quindi a una fase tramontata della storia ungherese». Continua a leggere

Il dibattito intorno a Lukács e le sue conseguenze

di István Mészáros

da La rivolta degli intellettuali in Ungheria, Einaudi, Torino 1958.

(Cap. 1)

Il 1948 in Ungheria fu chiamato, per iniziativa di Rákosi, “l’anno del cambiamento”, perché in quel tempo si era riusciti a eliminare dalla vita politica i vari partiti, e con essi l’opposizione al di fuori del partito comunista ungherese. Da quel momento i dirigenti stalinisti del partito iniziarono una lotta senza pietà contro l’opposizione interna, inferendole gravi colpi in tutti i campi. La prima mossa di questa lotta sul piano politico fu, nell’estate e nell’autunno del ’49, il processo Rajk, preceduto e anche seguito (data la sua lunghezza) dal dibattito su Lukács, che ne era il corrispondente ideologico-culturale. Fin dall’autunno cominciarono gli attacchi dei settari contro l’indirizzo di Lukács; poi, nel luglio del 1949 (quasi contemporaneamente alle accuse contro Rajk), con uno scritto di László Rudas rimaneggiato per ben quattro volte da Rákosi e da Révai e pubblicato nella “Rivista Sociale” – l’organo ideologico del partito –, questo attacco diveniva la linea ufficiale del partito, e si poneva al centro della vita culturale.

Naturalmente non era la prima volta che il settarismo staliniano ingaggiava una dura lotta contro i principi culturali di Lukács. Già negli anni dell’emigrazione nell’Unione Sovietica i vari Fadeev avevano ripetutamente preso di mira la rivista “Literaturnyj Kritik”, redatta sotto la sua direzione spirituale, che combatteva per il principio del realismo contro le idilliche menzogne chiamate “romanticismo rivoluzionario”, e nel 1941 avevano messo Lukács nella prigione della polizia politica russa, l’NKVD (GPU). Lo salvò solo il fatto che gli intellettuali tedeschi e austriaci – è molto significativo che non siano stati i settari emigrati ungheresi – intervennero in suo favore presso il coltissimo Dimitrov, che riusci, dopo aver penato alcuni mesi, a farlo scarcerare.

Nel 1949 parve che gli avvenimenti di Russia si ripetessero: Lukács fu bollato come “cosmopolita” – anzi da alcuni perfino come “servitore dell’imperialismo” – e gli alti funzionari del partito proibirono la pubblicazione delle sue opere sia in Ungheria che all’estero. Due suoi libri aspettavano di esser pubblicati in Polonia, in Cecoslovacchia e in Francia, ma l’intervento del partito comunista ungherese riuscì a interrompere le trattative editoriali, per cui nessuno dei libri fu stampato; e se questo non ci stupisce in una Cecoslovacchia e in una Polonia rette da stalinisti, ci meraviglia in Francia, dove Aragon avrebbe potuto facilmente mantenere la promessa fatta a Lukács nel 1948 circa la pubblicazione delle sue opere. Al contrario, egli diede severe disposizioni in materia, che non furono cambiate nemmeno durante il periodo di distensione seguito alla morte di Stalin. Solo nella Germania Orientale non si obbedì agli ordini del partito ungherese, e fu per non rinunciare al grande successo che otteneva anche nella Germania di Bonn il loro più popolare scrittore dopo Bertolt Brecht, per cui anche successivamente si pubblicarono tutti i suoi libri.

Oltre alla proibizione della pubblicazione delle sue opere, si ebbero altri elementi che dimostrarono come Lukács si trovasse in una situazione quanto mai pericolosa: furono organizzati contro di lui “grandi raduni”, nei quali si esigeva che egli “tirasse le somme”, e gli furono indirizzati ammonimenti personali. Ma il peggio non accadde. L’eco del dibattito su Lukács fu così grande in Occidente – e non soltanto tra gli intellettuali borghesi, ma anche tra quelli comunisti, molti dei quali si erano anche dimessi – che i capi ungheresi pensarono fosse meglio non mettere in prigione un filosofo di fama internazionale, benché fosse stato pubblicato nell’Unione Sovietica un articolo di Fadeev pieno di minacce.

Ai dirigenti del partito, assai occupati col processo Rajk che aveva un’importanza politica molto maggiore, parve inopportuno suscitare la reazione degli intellettuali con l’arresto di Lukács, dato che era facile comunque radiarlo dalla vita culturale ungherese. Così non si ebbe fortunatamente a ripetere la condanna che Lukács aveva avuto in Russia nel 1941; con un’autocritica formale – che anche Révai più tardi definì tale – e con l’appoggio di tutti gli strati dell’intellighenzia occidentale, egli riuscì a salvarsi dall’arresto.

È facile capire perché lo stalinismo si accanisse in tal modo contro l’opposizione in seno al partito, per la difesa di una sua supposta “unità”: detenendo essi già i pieni poteri, per i dirigenti del partito l’opposizione interna significava – e significa – il pericolo più grande, perché si ispirava ai principi veri del socialismo contro dei dirigenti inumani che li avevano accettati solo a parole ma li rinnegavano nella pratica.

Perché lo stalinismo ungherese doveva combattere la politica letteraria di Lukács? Révai si espresse in questo modo a tale proposito: «In Occidente si è cercato di immischiarsi in questo dibattito letterario e ideologico, e si va dicendo che l’“esecuzione” del compagno Lukács avviene per rompere completamente le relazioni tra la letteratura ungherese e quella occidentale, che la “liquidazione” del compagno Lukács serve a far tacere l’ultimo rappresentante dell’“alto livello” letterario ecc. ecc. Non vale la pena di discutere con la stupidità grossolana dei portavoce degli imperialisti». Ma la vera ragione, sempre secondo Révai, era invece questa: «ed in ultima istanza l’inasprimento della lotta delle classi nella nostra patria e nell’arena internazionale, e in relazione con questo l’aumento della vigilanza politica e ideologica – questi i motivi che suscitarono il dibattito contro certe opinioni del compagno Lukács che obiettivamente giovavano non a noi, alla classe operaia, al partito, ma ai vacillanti, a quelli che la politica del partito accettano di malavoglia, insomma al nemico». «La sua attività letteraria esprimeva una corrente determinata che non può essere considerata altro, dal punto di vista politico e ideologico, che una corrente di destra».

Non stupisce che Révai dovesse lottare contro una “corrente di destra”, perché tutto è a destra dell’estrema sinistra del settarismo. Ma guardiamo più da vicino le citazioni riportate: è chiaro che l’«intrusione occidentale” non ha nulla a che vedere con la “vera spiegazione”, dato che è ormai noto a tutti che gli stalinisti proprio con la parola d’ordine dell’“inasprimento della lotta di classe” ruppero ovunque i ponti con la cultura occidentale, definendola un “cosmopolitismo pericoloso”. Rileggendo con obiettività il dibattito Lukács si vede che non si trattava solamente della “ricerca dei nascondigli culturali del nemico” e di un “aumento della vigilanza”, ma della rottura delle relazioni culturali con l’Occidente – dove il nemico si celava – e dell’annullamento dell’“alto livello” perché quest’ultimo avrebbe significato una “inavvicinabilità aristocratica” e un “ostacolo allo sviluppo della giovane arte socialista”. «Quando il partito intensificava sempre più la lotta contro i capitalisti – scrisse Révai – quando l’anno del cambiamento era già da tempo trascorso, allora, nella primavera del 1949, Lukács si volse verso destra e cominciò a lottare non per il realismo socialista, ma in sostanza contro di esso, contro indirizzi letterari di tal genere e contro i loro portavoce, i quali – bene o male – rappresentavano lo sviluppo verso il “realismo socialista”». Era vero infatti che Lukács, onde salvare un realismo ad alto livello letterario, combatteva contro le cosiddette “direzioni in sviluppo verso il realismo socialista”. Era per questo che Révai doveva opporsi all’esigenza del “livello”, messo da lui tra virgolette ironiche, e al problema, in stretta interdipendenza con esso, delle relazioni con la cultura occidentale. Perché quando non si potevano assolutamente pubblicare Hemingway e Sinclair Lewis, Faulkner ecc., e quando la lettura di Kafka in una qualsiasi lingua contava come una colpa grave, si voleva far credere al pubblico ungherese che la “vera cultura occidentale di oggi” era rappresentata dalla collezione di frasi vuote e irreali di André Stil e, per la pittura, dal Fougeron, invece che da Picasso. Non era ben chiaro che con questo sistema si volevano rompere le relazioni con la cultura occidentale? Non fu certo per merito dei dirigenti del partito se questo non riuscì.

Caratterizzando scherzosamente il dibattito, Lukács raccontò l’aneddoto dei lampioni a gas di Bonn. A Bonn dunque, un tempo, gli studenti avvinazzati avevano l’abitudine di rompere a colpi di ciottoli le lampade dei lampioni a gas, dandosela poi a gambe. Ma lo studente, colpevole o no, che venisse trovato dai carabinieri, doveva pagare tutte le lampadine. Quindi – diceva Lukács – io mi devo pagare tutti i lampioni di Bonn. Il partito, dal 1945 al ’49, era concorde con la valutazione del problema della democrazia popolare data da Lukács nel 1947: «Il principio della democrazia popolare – soprattutto da noi ma anche in altri paesi – si trova all’inizio della sua realizzazione e anche se tradurrà in atto i suoi scopi non ha intenzione di liquidare il sistema di produzione capitalistico e non può quindi pensare alla creazione di una società senza classi». Ma col dibattito Lukács i dirigenti del partito pensavano di fare del filosofo il loro capro espiatorio, facendogli pagare tutte le lampade a gas che erano state rotte in prevalenza da loro.

Nel suo giudizio sulla democrazia popolare, quindi, Lukács non rappresentava una posizione particolarmente di “destra”, poiché tale giudizio era accettato da tutti nel periodo che precedette l’“anno del cambiamento”. La questione della democrazia popolare non fu dunque altro che un pretesto per portare la discussione estetica davanti al tribunale del partito, impedendole di diventare una “faccenda per specialisti”. Ma nello stesso tempo se ne profittò per dimostrare a Stalin che era compiuta quell’autocritica del concetto di democrazia popolare che egli esigeva a quel tempo. Il fine ultimo però restava sempre quello d’eliminare in modo totale i principi di politica culturale rappresentati da Lukács per poter far trionfare l’“estetica” dello ždanovismo.

Fino al 1948 i dirigenti del partito usarono la tattica di evitare i problemi delicati e tacere le loro intenzioni per attirare certi gruppi, o almeno per tentare di neutralizzarli. Questa linea tattico-politica permise che l’attività di Lukács in quel periodo assumesse un carattere quasi ufficiale, identificandosi con la politica culturale del partito. Si aveva bisogno dell’attività di György Lukács, in quel momento, per poter attirare quella parte dell’intellighenzia ungherese che simpatizzava col comunismo. Perciò gli permisero una libertà di azione di cui non si poteva prevedere la durata, e Lukács, non conoscendo i veri piani dei dirigenti del partito, sacrificò la possibilità di lunghi anni di lavoro scientifico per partecipare intensamente alle discussioni di politica letteraria del giorno.

In nessuna lingua straniera sono stati ancora pubblicati i libri tanto discussi e criticati nel corso del dibattito: Letteratura e democrazia e Per una nuova cultura ungherese, contenenti saggi e articoli, scritti, per la maggior parte, in quel periodo, e nei quali vengono espressi nel modo più chiaro i principi di politica della cultura dell’autore, principi in stridente contrasto con lo ždanovismo. In Ungheria, fino al 1948, l’anno della fine della coalizione, diverse tendenze letterarie, artistiche e filosofiche potevano ancora esprimere liberamente le loro opinioni, per cui era possibile guadagnare nuovi elementi al marxismo soltanto attraverso discussioni e analisi. Lo ždanovismo ne sarebbe stato incapace a priori, e infatti quando si è installato al potere non riesce che ad alienare tutti gli uomini ragionevoli a un “marxismo” di tal genere. Lo ždanovismo misura le sue “argomentazioni” sul metro degli ortodossi, che, essendo tali, non hanno bisogno d’esser convinti; per quel che riguarda invece le opinioni di qualsiasi altro indirizzo, non vale la pena di occuparsene, perché – come si espresse Révai – sono «stupidità grossolane dei portavoce degli imperialisti». È facile quindi immaginare che risultati possa avere l’“opera di convinzione” dello ždanovismo, quando si pensi che esso tende più a soggiogare che non a persuadere con argomentazioni convincenti, e che per esso contano più dei ciechi fedeli che non degli uomini dalle solide opinioni. E questa caratteristica dello ždanovismo non risulta da una qualsiasi debolezza personale, che potrebbe esser facilmente corretta dai suoi rappresentanti più colti e di maggior talento, bensì dall’apologetica che gli è propria e che è essenzialmente falsa. Ne è un esempio chiarissimo Révai stesso: egli è incomparabilmente più colto di tutti i creatori e gli apostoli russi dello ždanovismo messi insieme; non per nulla si nutrì della logica hegeliana, più tardi così radicalmente rinnegata. (A Lukács, per esempio, dopo la pubblicazione di Geschichte und Klassenbewusstsein non rimproverava altro che il non saper risolvere i problemi in modo abbastanza hegeliano). Quando però si trattò di divulgare il “realismo socialista”, dimenticò per il primo il gusto artistico che gli derivava dall’esser cresciuto alla scuola delle grandi opere della cultura europea, e, a un cenno del maresciallo Vorošilov dichiarò grande artista nazionale il preferito di quest’ultimo, il mediocrissimo Zsigmond Kisfaludy Stróbl, mentre nelle conversazioni private ne parlava con il massimo disprezzo. Non è quindi accaduto che il talento di Révai correggesse questa tendenza di “cultura” anticulturale; anzi è stato lo ždanovismo a modificare a suo piacimento l’indubbio talento di Révai, che oltre ad essere un settario aveva anche la smania del potere e che, con un cinismo che non conosce limiti, fece tacere ogni rimorso. Ed è proprio questo cinismo sconfinato che costituisce la base dello ždanovismo; esso vuol far credere che ciò che è bianco è nero, ciò che è cattivo è buono, che l’inumanità sia la forma più alta – purché socialista – dell’umanesimo, e che la crisi più profonda sia invece un momento di fioritura mai vista. Questo ždanovismo, nella cultura, non era che il corrispondente dello stalinismo in politica. Oggi, per esempio, in Ungheria i maggiori dirigenti fanno discorsi di questo genere: «Bisogna respingere la calunnia secondo la quale tutto il popolo avrebbe partecipato alla controrivoluzione. Con i delitti commessi in ottobre da briganti, assassini e ladri, la classe operaia ungherese non ha nulla a che fare. I traditori infiltratisi nell’esercito e nella polizia, i Maléter, i Király, i Kopácsi, si preoccuparono perché le armi non cadessero nelle mani degli operai dell’industria. La classe operaia voleva sì combattere, ma non contro il potere popolare, bensì contro le forze della controrivoluzione. La stragrande maggioranza del popolo lavoratore si mantenne salda e incrollabile a fianco del potere popolare». Bisogna riuscire a ipnotizzare la gente per poter dire che la rivoluzione di ottobre è stata fatta da banditi, assassini, ladri o traditori e che la «stragrande maggioranza del popolo lavoratore si mantenne salda e incrollabile» a fianco del sedicente “potere popolare” di Kádár (ovviamente fu per questo che si misero in movimento migliaia di carri armati russi nelle strade di Budapest il 15 marzo, giorno della festa nazionale ungherese), ma non si può pretendere di essere creduti. È comunque chiaro che lo ždanovismo è oggi più vivo che mai, con qualunque nome sia stato ribattezzato. Non è quindi inutile dilungarsi su questo fenomeno.

Al tempo del dibattito Lukács, si rimproverava tra l’altro all’accusato di aver “calunniato Lenin”, confondendo il suo principio della letteratura di partito con la dottrina di Engels sulla “poesia a tesi” (secondo la quale tutte le correnti e le opere hanno una tendenza politica). Lenin dunque così si espresse sul principio della partiticità: «Il lavoro letterario deve diventar parte del lavoro universale del proletariato, “ruota e vite” dell’unica grande macchina socialdemocratica che è mossa dall’avanguardia consapevole di tutta la classe operaia. Il lavoro letterario deve diventare parte creativa del grande lavoro organizzato, pianificato e unitario del partito socialdemocratico». Lukács invece paragonava l’attività degli scrittori nel partito all’attività del partigiano, facendone risaltare il contrasto con la disciplina diretta, per tutti obbligatoria, incondizionata, quasi meccanica, dell’armata, e con i suoi movimenti controllati. Questo paragone tendeva a sottolineare l’indipendenza relativa dello scrittore nei riguardi della rigidità, o almeno dell’interpretazione rigida della formula di Lenin. Lo ždanovismo esige al contrario che lo scrittore abbandoni incondizionatamente tutti i suoi diritti, la sua indipendenza di giudizio, i suoi pensieri e le sue convinzioni per accettare e glorificare qualsiasi forma di menzogna. Ma il principio estremamente idealista-soggettivo del Fichte che dice «se i fatti vanno contro le mie opinioni, tanto peggio per i fatti», principio rinnovato nel supposto materialismo dello stalinismo, per il quale se la realtà è piena di gravi contraddizioni e non corrisponde alle rosee direttive del partito, “tanto peggio per la realtà”, non può essere accettato dagli scrittori che in nome di una disciplina di partito. Sarebbe minacciata d’annientamento l’arte stessa, dato che essa non dovrebbe solo staccarsi dalla realtà, sua indispensabile matrice, ma dovrebbe addirittura “riflettere” nelle sue opere il contrario della realtà, finendo così in un vicolo cieco sia dal punto di vista artistico che morale. Il fatto che questo processo non sia affatto riuscito a imporsi sulla parte migliore dell’arte ungherese, e che anche la media vi si sia sottomessa solo transitoriamente, fu dovuto all’impossibilità di far presa sugli scrittori e sugli artisti con il principio della cieca disciplina di partito. Nel periodo in cui si svolse il dibattito Lukács, tuttavia, lo ždanovismo provò – con successo temporaneo e limitato – a farsi strada in questa direzione.

Lo stalinismo culturale dice ipocritamente: “riflettete la realtà”, ma nello stesso tempo pensa, ed esprime anche, col massimo cinismo: “ma riflettetela in modo che possa piacere anche a me”, quindi proprio tutto il contrario di ciò che vedete. Racconta una fiaba orientale di un tiranno, che, cieco e zoppo dalla parte destra, ordina un ritratto “bello e reale” con la minaccia della pena capitale qualora non riuscisse come egli lo intende. Dopo che alcuni pittori sono già stati uccisi, uno finalmente, più furbo degli altri, esegue il ritratto del tiranno, rappresentandolo a cavallo, visto di profilo da sinistra. L’insegnamento della fiaba è trasparente. Lo ždanovismo, in più, dà anche la ricetta per la rappresentazione di profilo, cercando di dare una forma piacevole a questo suo immorale insegnamento, e chiama la menzogna consapevole “romanticismo rivoluzionario” e quest’ultimo “essenza del realismo socialista”. Ricordo con che giusto orgoglio Lukács diceva, nel corso di conversazioni private, che non si riuscì nemmeno a fargli scrivere l’espressione “romanticismo rivoluzionario”, che egli riteneva assolutamente ascientifica, e tanto meno a fargliela accettare come concetto valido. Fin dall’inizio egli era profondamente ostile a questa parola d’ordine, ma soltanto nell’ultimo periodo poté opporsi ad essa pubblicamente. Il romanticismo rivoluzionario serviva e serve al “realismo socialista” per eliminare dall’arte proprio il realismo, in quanto “obiettivismo borghese e tendenza a veder nero”. Il “realismo socialista” improntato al romanticismo rivoluzionario è quindi una forma particolare di realismo che con questo nulla ha in comune. La vasta propaganda per questo “romanticismo rivoluzionario” e per il “realismo socialista” cominciò in Ungheria proprio col dibattito Lukács.

Un altro problema fondamentale del dibattito fu quello della “superiorità assoluta” dell’arte socialista, mille volte ribadita dal catechismo dello ždanovismo. Quando sorse il dubbio se fosse possibile chiamare arte il tentativo di inculcare la menzogna, di nascondere le contraddizioni della realtà, di sostituire ad essa le immagini irreali di uno “splendido futuro”, lo ždanovismo risolse il problema dichiarando: questo realismo socialista non soltanto è arte, ma l’arte più grande di tutti i tempi, dato che è l’arte della società superiore. Non è nemmeno paragonabile all’arte del capitalismo, e non lo si può mettere sullo stesso piano di questa, proprio perché gode delle conquiste del romanticismo rivoluzionario.

Lukács rispose a simili “argomenti” col paragone del coniglio e dell’elefante: il coniglio che salta in cima alla montagna può illudersi nella sua vanità di esser più grande dell’elefante che sta in pianura, ma naturalmente in realtà non lo è. Per appoggiare teoricamente questo paragone Lukács si riferiva al principio della “ineguaglianza di sviluppo” di Marx, secondo il quale «… non è affatto necessario che tutte le fioriture economiche e sociali determinino una fioritura letteraria, artistica, filosofica ecc.; non è affatto necessario che una società economicamente superiore ad un’altra abbia necessariamente una letteratura, un’arte, una filosofia superiori». Si può facilmente immaginare come in Ungheria il richiamo al principio deill’ineguaglianza di sviluppo dovesse essere considerato un’eresia, in un tempo in cui tutti i prodotti dell’arte sovietica, anche i più scadenti, dovevano essere esaltati, e servire da modello alle opere d’arte ungheresi, poiché, secondo la linea ufficiale del partito, la misura del vero patriottismo era il grado di amore verso l’Unione Sovietica. È ovvio che in tali circostanze il paragone del coniglio proposto da Lukács era uno dei più grandi ostacoli a quella “politica culturale” che si era prefissa lo scopo di far trionfare ovunque il servilismo.

Si rimproverò a Lukács di non essersi occupato della letteratura sovietica, superiore a tutte; e l’autocritica che egli fece in merito fu definita insufficiente, perché «… essa non giunge in profondità, non è abbastanza conseguente». E questo naturalmente era vero. Lukács cercò di parare i colpi dell’accusa dicendo che le sue conoscenze in materia di letteratura sovietica erano troppo limitate. Révai però rifiutò queste spiegazioni «perché Lukács, vivendo nell’Unione Sovietica negli anni ’30, partecipò alle discussioni che si svolsero laggiù ed espresse le sue opinioni su importanti problemi della letteratura sovietica. Non si tratta piuttosto del fatto che il suo silenzio in Ungheria negli anni seguiti al ’40 è in stretta relazione col suo intervento nei problemi della letteratura sovietica a Mosca negli anni seguiti al ’30? Noi pensiamo che si tratti di questo, e non dei difetti nella preparazione scientifica di Lukács. Il dibattito che si svolge oggi intorno alla teoria letteraria del compagno Lukács è in sostanza la continuazione dello stesso dibattito che fu diretto contro di lui negli anni ’30 nell’Unione Sovietica». Révai aveva completamente ragione per quel che riguardava quest’ultimo fatto, come del resto quando esprimeva il suo dubbio a proposito della “profondità dell’autocritica”. Il problema è solo quello di come si debba giudicare questo dibattito, iniziato da tanto tempo, e di come si debba interpretare il rifiuto dell’“autocritica conseguente”. Ma il dirigente settario e infallibile non pensa neanche per un momento di poter sbagliare, e che in una discussione anche l’altra parte in causa possa aver ragione. Egli non ricerca dietro a un atteggiamento le cause che lo hanno determinato, di qualsiasi persona si tratti: egli detta sentenze non sopportando nessun genere di contraddizione e non riflette affatto se incontra una imposizione. Goethe disse una volta con molta saggezza: «se ti batti un libro in testa e senti suonar vuoto, non è detto che sia il libro», ma i settari non sono disposti a imparar nulla da questa metafora. Non ascoltano nemmeno Lukács, chiedendogli le ragioni per cui non si occupa intensamente della letteratura e dell’arte sovietiche, ma semplicemente lo forzano a farlo. E quando egli sceglie per analizzarle le opere di valore del primo periodo della letteratura sovietica, ignorando quasi del tutto i prodotti nati ai tempi e nello spirito dello ždanovismo, non riflettono su ciò, e non cercano le ragioni di questa scelta, perché potrebbero trovarvi insegnamenti loro sgradevoli: si accontentano di condannarla.

Lukács condusse una lotta veramente serrata – purtroppo senza risultato – nell’Unione Sovietica, negli anni seguiti al ’30, contro la pratica letteraria dello ždanovismo e contro la politica culturale dei vari Fadeev, e il dibattito del ’49 non ne era che la continuazione, e vi era sempre implicato Fadeev. Un giorno costui, in stato di ubriachezza “confessò” a Michail Lifšic, amico di Lukács, di saper benissimo quanto fosse immorale la strada che stava seguendo, ma che non era capace di cambiare, perché si sentiva debole ed era quello l’unico modo di farsi valere. (Il giorno seguente, naturalmente, per riparare alla confessione, e per mettersi la coscienza in pace, scrisse un duro attacco contro la tendenza di Lukács, tanto lodata la sera prima). Tuttavia, questo “farsi valere”, se lo fece diventare, come premio per la denuncia e l’arresto di tanti suoi compagni di professione, la figura più in vista della politica culturale, e gli fruttò tutti i riconoscimenti ufficiali possibili, nello stesso tempo trasformò il buon scrittore de La disfatta nel cattivo pubblicista del romanzo giornalistico e superficiale La giovane guardia, scritto con un vuoto pathos retorico che è l’equivalente artistico della degradazione umana. Non è impossibile che anche Révai la pensasse come Fadeev ubriaco, nei momenti di sincerità – se pure aveva tali momenti e se non posava anche con se stesso –: comunque dal periodo del suo eccellente saggio su Kölcsey fino al dibattito Déry, anzi, fino al suo articolo del 7 marzo 1957 scritto in difesa di Rákosi, la via del suo “sviluppo” è molto affine a quella di Fadeev. Ma quale che fosse la sua opinione personale, in pubblico incensava sempre la letteratura e l’arte sovietiche. E Lukács doveva tacere le sue opinioni a questo riguardo. L’indubbia crisi in tutti i campi dell’arte sovietica rifletteva a suo modo, in forma molto indiretta, e cioè nell’enorme abbassamento del livello artistico, la crisi economica e politica della società. Ma i dirigenti politici staliniani non erano disposti ad aprire gli occhi di fronte a questi indizi, come non lo saranno più tardi anche in Ungheria nei confronti degli scrittori ungheresi. Nel dibattito Lukács la parola dell’opposizione fu soffocata senza alcuna pietà e si cercò di costringere i rappresentanti di tutti i campi dell’arte ungherese a fabbricare le loro opere secondo le ricette sovietiche, preparate dai dirigenti del partito, staccandosi completamente dalla realtà magiara. Senza liquidare la tesi sulla ineguaglianza di sviluppo e “il paragone del coniglio e dell’elefante”, propri di quella politica culturale di Lukács, considerata fino al ’48 quasi ufficiale, ovviamente non avrebbero mai raggiunto il loro scopo.

Se ci chiediamo perché il partito ungherese sia divenuto un adepto così entusiasta e zelante dello ždanovismo, la risposta ci è data dal dibattito Lukács: per il suo inguaribile settarismo. E Lukács dovette esser messo in disparte anche perché, fin dal primo momento, combatté contro di esso. Così scrisse Révai contro Lukács – difendendo il settarismo del partito ungherese: «Al compagno Lukács ciò pare “settario” perché egli ritiene settaria la politica comunista di prima del fronte popolare, che aveva come scopo strategico la dittatura del proletariato, ed egli considera giusta la politica dal momento della lotta contro il fascismo, della politica di fronte popolare, dal tempo in cui ci si prefisse come scopo quello della democrazia popolare, dimenticando che non si trattava d’altro che di una deviazione storica alla quale siamo stati forzati dal fascismo; non si trattava del cambiamento di una linea politica interamente ingiusta, settaria, con una giusta politica popolare». Queste righe non sono state scritte da una persona qualunque, ma dal teorico ufficiale del partito comunista ungherese, e quel che è più degno di attenzione è che con esse si voleva contestare l’esistenza del settarismo di partito. E qui non si tratta in primo luogo del problema della parte che ebbe il settarismo del partito comunista tedesco nella vittoria del nazifascismo bensì di qualche cosa di molto più vasto: del concetto cioè che considera il fronte popolare come un transitorio cambiamento tattico causato dalla deviazione storica e non come assoluta necessità dello sviluppo interno storico e sociale. E che cos’è questo se non settarismo allo stato puro? E se così è la “difesa”, si può immaginare che cosa dovesse essere la parte della politica del partito che Révai stesso doveva riconoscere settaria. Révai potè diventare il teorico ufficiale del partito proprio perché aveva principi in perfetta armonia con la prassi settaria del partito. Questa linea politica e questo sfondo ideologico, ambedue fatalmente settari, determinarono l’attività del partito ungherese fin dall’inizio e naturalmente anche negli anni seguiti alla rivoluzione. I suoi dirigenti aspettavano solo il momento in cui l’armata sovietica avrebbe creato una situazione favorevole all’abbandono della “deviazione storica” delle concessioni tattiche di carattere popolare e al ritorno alla via del settarismo, così cara ai loro cuori. E qui appare tutta la profonda differenza che separava Lukács dai rákosisti quando si pronunciavano in modo apparentemente analogo sulla democrazia popolare: Lukács pensava seriamente ciò che diceva, mentre gli altri consideravano le loro promesse, infiorate di detti e proverbi populisti, soltanto come una spiacevole necessità tattica. La stessa cosa avveniva naturalmente anche nel campo della politica culturale: Révai ne parlava assai chiaramente nel 1950, quando non era già più necessario far uso della tattica. Perché, secondo lui, «…proprio la divulgazione e l’analisi seria della letteratura sovietica avrebbe potuto dare, allo sviluppo letterario della nostra democrazia popolare, la prospettiva socialista, in un tempo in cui per ragioni politico-tattiche, non potevamo ancora usare la parola d’ordine del realismo socialista». Non è difficile immaginare, dopo queste parole – quando le ragioni politico-tattiche erano cadute e tutto il potere era nelle loro mani – che genere di politica culturale praticassero i dirigenti del partito in Ungheria, dove l’unica via giusta sarebbe stata quella della democrazia popolare, sia nella vita politico-sociale che in quella artistica.

Il dibattito Lukács ebbe inizio un quarto di secolo fa non soltanto sul piano estetico, ma anche su quello politico, anzi incominciò prima del tempo della lotta contro i Fadeev. Lukács, nel partito ungherese apparteneva all’ala Landler, e fin dal principio fu l’oppositore pili accanito del leader del settarismo, Béla Kún; e già nel 1929, nelle Tesi di Blum (pseudonimo di Lukács) egli proclamava la necessità di una politica di fronte popolare, benché in quel tempo il nazifascismo non rendesse ancora necessaria la “deviazione storica”. Le Tesi di Blum furono naturalmente respinte e condannate dal Komintern dominato dal settarismo, e quando, molto dopo la vittoria del nazifascismo, la politica del fronte popolare divenne la linea ufficiale, a Lukács – sospeso, in seguito alle sue Tesi di Blum, da tutte le attività nella direzione del partito – non fu resa giustizia, ma si nascosero invece le “tesi” per poter mantenere, anche in futuro, le accuse contro di lui. Così, nel corso del dibattito Lukács del 1949, Révai potè molto tranquillamente falsificare il senso delle Tesi di Blum, poiché all’autore era impossibile rispondere con una documentazione. Le tesi furono presentate soltanto nel 1956, a un pubblico ristretto, quando, in seguito alla pressione del movimento intellettuale, furono all’improvviso “ritrovate” nell’Istituto del Movimento Operaio a Budapest. (Il pubblico più vasto non le conosce tuttora).

I rákosisti quindi, nel ’49, con il dibattito Lukács, non vollero ottenere soltanto dei risultati culturali, ma cercarono anche di dar una certa legalità alla loro linea politica interamente settaria, e dissero che le soluzioni nello spirito della democrazia popolare erano un anacronismo, che avevano il significato tattico di una deviazione storica, per poter poi rivestire la loro fatale politica col “pathos eroico” della giustificazione storica, appoggiandosi su questa base teorico-ideologica. Incoraggiamenti in questo senso erano giunti naturalmente, come risulta chiaramente dalla storia delle Tesi di Blum, dall’Unione Sovietica, ma questo non toglie che essi fossero in armonia con lo spirito settario della direzione del partito ungherese. L’intervento di Révai nel dibattito Lukács, scritto nel 1950, servì nello stesso tempo a tesser le lodi degli assassini di Rajk e dei suoi compagni, di quei dirigenti del partito ungherese, che, guidati dal loro settarismo, non indietreggiavano neppure di fronte alla più grande inumanità: ed effettivamente i rajkisti rappresentavano una linea politica molto simile a quella teorica di Lukács.

Lo ždanovismo, con l’aiuto di questo retroscena politico e della violenza, potè così trionfare in Ungheria per un determinato periodo, almeno apparentemente. Esso introduceva nel campo della cultura la disciplina cieca di partito, nella stampa la lode incondizionata e permanente dell’Unione Sovietica, nell’arte il rifiuto di scorgere le contraddizioni della realtà e l’abbellimento di una situazione che andava tempre peggiorando; o almeno pretendeva di ottenere tutto questo. Ma non riuscì a far altro che distruggere i non pochi risultati positivi che la politica culturale di Lukács aveva potuto realizzare negli anni precedenti.

Lukács non aveva mai voluto far credere ciecamente, ma convincere artisti e scrittori, e aveva così spinto i rappresentanti degli indirizzi più diversi a esaminare problemi d’attualità della vita culturale. Zoltán Kodály, per esempio, durante un discorso accademico rivolse un giorno questa domanda a Lukács: «Ma me lo dica sinceramente, qual è poi il marxismo? Quello proclamato da lei o quello che vanno predicando nel partito? Perché se è quest’ultimo io non ne voglio nemmeno sentir parlare». Nel corso del dibattito e anche in seguito pareva che non vi fossero dubbi in proposito: Lukács non avrebbe avuto nulla a che fare con il marxismo, dato che egli sarebbe stato un «cosmopolita», un «revisionista di destra». Lo ždanovismo più settario e limitato usurpò il titolo di «vero marxismo», mentre l’ordine soppiantò la convinzione. Non deve quindi stupire che in Ungheria uomini di grandissimo valore voltassero le spalle, con il massimo disprezzo, a questo tipo di marxismo.

Anche la soluzione settaria del problema delle relazioni con la cultura occidentale produsse enormi danni allo sviluppo culturale ungherese. Perché – anche nel caso che la cultura sovietica fosse stata superiore a ogni altra, come si assicurava – ci voleva un’estrema cecità politica per permettere disposizioni che rompessero radicalmente le relazioni dell’Ungheria con quella cultura cui era legata da tradizioni millenarie, mentre le relazioni con l’arte russa erano sempre state transitorie e casuali. Ma quando il potere supremo dava ordini, «fattori sentimentali così risibili» non contavano più nulla.

I dirigenti del partito risolsero il problema della relazione con la situazione culturale di prima e durante la seconda guerra mondiale con lo stesso “radicalismo” con il quale avevano tagliato i ponti con la cultura occidentale, dimenticando di proposito che nella maggior parte dei casi si trattava di due tappe diverse dello sviluppo delle medesime persone. Ed anche a questo proposito la soluzione di Lukács e quella di Révai stavano in netto contrasto l’una con l’altra. Così Lukács s’accostava a questo serio problema, la cui soluzione era ancora lontana: «… l’inestirpabilità della concezione del mondo della torre d’avorio ha profonde e serie radici sociali. Essa è una protesta contro la fondamentale tendenza antiartistica del capitalismo. Ma questa protesta dell’“arte pura” contro la bruttezza e la mancanza di spiritualità del capitalismo, può volgersi avanti o indietro, può esser progressiva o retrograda secondo quando, contro chi e con quale accento si manifesta. È comprensibile che una parte notevole della letteratura ungherese si sia difesa anche in questo modo nel quarto di secolo della controrivoluzione, e specialmente negli ultimi, terribili anni». Révai, invece, durante il dibattito, così fece tacere Lukács: «Questa “comprensione” verso “l’arte pura” è una deviazione dalla via dell’estetica marxista e rende quasi completamente vani anche gli altri interventi di Lukács contro l’illusione degli scrittori “di essere al di sopra della società”. No, la concezione del mondo della torre d’avorio non è mai stata e non potrà mai essere progressiva! Non bisogna “comprendere” e scusare questa concezione del mondo, ma combatterla!» È noto che la maggior parte dei critici di Lukács gli rimprovera a questo proposito di risolvere troppo categoricamente in alcuni punti il problema della decadenza moderna; ebbene, la posizione di Révai è totalmente opposta, poiché egli definisce la relazione di Lukács come una intollerabile “comprensione” e “giustificazione”. Non v’è alcun dubbio sull’accoglienza che questa “teoria militante” dovette trovare presso gli interessati, cioè presso la parte migliore del mondo della cultura ungherese. Anche se non fu possibile, per lungo tempo, cambiare la situazione, neppure questa “teoria militante” riuscì, nonostante tutti i suoi sforzi, a evitare la possibilità della “resistenza passiva”.

Il dibattito Lukács potè quindi ridurre al silenzio, in questa atmosfera politica, l’opposizione, il che non significava però abolire le contraddizioni, ma inasprirle senza lasciarle sfogare. Qualche anno più tardi, rotto il ghiaccio del silenzio, una volta Rákosi disse a Lukács a proposito degli atteggiamenti critici dell’intellighenzia ungherese (Lukács riferì questa frase davanti al pubblico del Circolo Petöfi): «Che parlino pure, poi romperemo loro la testa». Ai tempi del dibattito Lukács però i dirigenti del partito non conoscevano ancora il significato di questa tattica più astuta, non ne avevano neppure bisogno, ma nella consapevolezza di detenere i pieni poteri usavano invece quest’altra parola d’ordine: «Che osino parlare, romperemo loro la testa!» E naturalmente non poteva andar diversamente all’epoca del processo Rajk.

Il dibattito Lukács aprì la strada allo ždanovismo. Révai da questo momento divenne il padrone assoluto del campo culturale, e va da sé che fece uso del suo potere fino all’estremo limite. Nessuno mai era riuscito, in Ungheria, a nuocere tanto allo sviluppo della cultura quanto Révai per mezzo della sua politica settaria. Egli spazzò via dal suo cammino tutti coloro che osavano manifestare un’opinione contraria alla sua, anche se a bassa voce, fin che fu al potere. Si deve soprattutto a Révai se il periodo che va dal dibattito Lukács al giugno 1953 (data in cui salì al potere Imre Nagy) fu l’epoca più oscura della cultura ungherese.

Di Lukács e di altro

di Antonello Trombadori

«L’Unità», 2 gennaio 1957

Il signor Giovanni Russo, corrispondente romano del Corriere della Sera, ha dato una singolare risposta a Franco Fortini e a tutti coloro che, nelle ultimo due settimane, hanno voluto isolare con particolare risalto dalla tragedia ungherese le personali vicende di Giorgio Lukács. Scrive il signor Russo nel numero di dicembre della rivista Nord e Sud: «Fu Lukács a consigliare Nagy di denunciare il patto di Varsavia e di fare appello all’intervento occidentale». Non sappiamo dove il corrispondente del quotidiano milanese abbia attinto la notizia, né se egli l’abbia coniata di sana pianta nell’intento di calunniare Lukács o nel proposito, non dissimile, di esaltare in lui un tardivo seguace della «scelta della libertà». Se di premeditata calunnia si tratta ai danni del filosofo ungherese, vorremmo tuttavia conoscere che cosa ne pensano Franco Fortini e i suoi più o meno autorevoli imitatori (vedi sull’ultimo numero del Punto anche le lettere dei f.lli Bertelli). Essi saranno di certo, quanto noi, sprovvisti dell’informazione necessaria ma in questi casi più della stessa informazione vale l’ipotesi e l’apprezzamento che se ne deriva. La domanda potrebbe esser questa: è una calunnia o un titolo d’onore qualificare Lukács come promotore di così catastrofiche misure di governo nei giorni della sommossa della disgregazione e del caos?

Uno dei f.lli Bertelli risponde già sua sponte. Egli non fa distinzioni tra Lukács, Nagy e tutti gli altri membri dell’ex governo ungherese che oggi si trovano, a quanto ufficialmente consta, in Transilvania. Sul filo della logica non vi sarebbe, dunque, stato, a suo avviso, un solo momento lungo tutto il corso della tragedia ungherese nel quale le sorti indivisibili della pace e del socialismo abbiano seriamente rischiato d’esser compromesse. Il governo Nagy cedeva alla tracotanza del cardinale. Finalmente un gesto non «settario» verso la gerarchia! Il governo Nagy si lasciava ad ora ad ora sopraffare dagli avventurieri tipo Dudasz? Finalmente un non «settario» riconoscimento delle tradizioni militari della nazione magiara! Il governo Nagy tentennava davanti alle rivendicazioni dei latifondisti sulle terre espropriate? Finalmente una coraggiosa ammissione dei diritti della «produttività»! Il governo Nagy non riusciva a comporre nel quadro della legalità socialista le impetuose e disordinate pressioni delle più contrastanti velleità politiche e ad esso indulgeva con irrealizzabili promesse? Finalmente il libero gioco dei partiti e delle opinioni! Il governo Nagy indicava nell’esercito che un tempo aveva liberato Budapest dai nazisti e dai vilasz il nemico numero uno dell’indipendenza ungherese? Finalmente una critica aperta e leale nei rapporti tra Stati socialisti! Il governo Nagy faceva appello all’intervento occidentale? Finalmente un costruttivo e spregiudicato colloquio col mondo capitalista!

È questa la base di un ragionamento che, come si è detto, ha una sua logica. Questa logica però, se si vuol condurre a fondo e lealmente il dibattito, non deve essere occultata. È la logica di coloro che, per dirla coi comunisti cinesi, «quando l’Ungheria si trovava a fronteggiare la sua crisi, non solo non hanno sollevato la questione di realizzare una dittatura proletaria, ma si sono pronunciati contro i giusti passi compiuti dall’Unione Sovietica per aiutare le forze socialiste in Ungheria. Si sono fatti avanti a chiedere che il governo rivoluzionario operaio e contadino estendesse la democrazia ai controrivoluzionari». È la logica di coloro che, per dirla ancora coi comunisti cinesi, «negano che vi sia una linea di demarcazione tra la dittatura del proletariato e la dittatura della borghesia, tra il sistema socialista e il sistema capitalista, tra il campo socialista e il campo imperialista. Secondo costoro un capitalismo di stato in certi paesi borghesi è già di per se stesso socialismo e perfino la società umana, nel suo complesso, è già maturata nel senso del socialismo». Ed è anche la logica di coloro che, proprio a differenza di quanto comprese Giorgio Lukács fin dal 1919, non hanno mai meditato su una considerazione che dieci anni dopo Bela Kun premetteva a un suo breve saggio sul terrore bianco in Ungheria: «Lo scatenamento della controrivoluzione che ha seguito la rivoluzione proletaria ungherese è una evidente conferma della tesi di Engels, che nel periodo della rivoluzione proletaria tutte le forze della controrivoluzione si raggruppano attorno parola d’ordine della pura democrazia. La socialdemocrazia rappresentò la pura democrazia al tempo della dittatura del proletariato in Ungheria».

Se si ha il coraggio di guardare le cose come stanno e di porre la questione in questi termini, se si ha il coraggio, cioè, di riconoscere che da posizioni simili è inevitabile scivolare fino alla vergognosa (vergognosa in particolare per un uomo di scienza) tesi di Fianco Venturi secondo cui sarebbe finalmente iniziato il periodo dell’accerchiamento socialista dell’URSS (guidato dal Patto Atlantico, dagli azionisti della General Motors e dalla «solidarietà occidentale» – n.d.r.), tutta la nostra contesa con coloro ai quali si è fatto cenno all’inizio può prendere la giusta dimensione, uscire dall’equivoco e svilupparsi sul terreno della chiarezza. Ma perché ciò sia possibile è necessario che tutti i nostri contraddittori accettino fino in fondo le proprie responsabilità. Infatti delle due l’una: o Fortini e i suoi imitatori intendono convenire sul fatto che il governo Nagy fu travolto ad un tempo dalla sua incertezza, dal suo miracolismo democratico e dalla sua pretesa equidistanza dal campo socialista e dal campo imperialista, ammettendo, di conseguenza, che quando quel governo si scisse la ragione fu dalla parte dei Kádár e dei Marosán (la ragione rivoluzionaria) e il torto dalla parte di coloro che optarono per il rifugio nell’ambasciata jugoslava: ovvero Fortini e i suoi imitatori non possono evitare di porsi sul terreno di coloro che se non plaudirono, tollerarono le parole del cardinale quando la radio Budapest, nei giorni in cui si trattava di correggere e di denunciare gli errori compiuti ai danni del socialismo da Rákosi e da Geroe, preferiva lanciare la parola d’ordine della liquidazione del socialismo al cospetto della democratica impotenza di chi, in buona o mala fede, aveva lasciato scatenarsi senza freno le forze mescolate del caos dell’anarchia, della restaurazione e della disperazione popolare.

Alla luce di una delle due scelte non può non essere posta anche la particolare vicenda di Giorgio Lukács. Essa, lo ripetiamo, non deve servire di pretesto a chicchessia: sarebbe infatti grave slealtà tentar di contrabbandare, sotto il velo del disappunto e del dolore che in ogni marxista derivano dal non sapere oggi un uomo come Lukács al fianco del governo ungherese, ben più complesse o inconfessabili operazioni politiche.

Chi oggi rivendica solidarietà per Giorgio Lukács, volendo fare di lui una bandiera della controrivoluzione e della liquidazione del socialismo, dovrebbe più dignitosamente e utilmente ceder la penna ai propagandisti del monopolio, della curia e della socialdemocrazia di destra. Eviterà di barare al gioco.

Chi voglia invece porsi il problema della penosa sorte toccata a Giorgio Lukács dopo la sua uscita dall’ambasciata jugoslava, conservando intatta la speranza di non veder sporcato l’illustre scrittore dalle calunnie del signor Russo e di poterlo rivedere, con rinnovato slancio, a fianco di coloro che in Ungheria portano oggi la duplice croce degli errori di Rákosi e degli errori di Nagy, dovrebbe, come noi abbiamo fatto, giudicare l’operato politico di Lukács nel contesto stesso degli avvenimenti ungheresi, delle loro implicazioni internazionali e delle responsabilità che su ciascuno degli uomini di governo ricaddero fin dal momento delle estreme decisioni di Kádár e dei fondatori del nuovo partito socialista degli operai ungheresi. Anche la condotta di Lukács non deve sfuggire alla severità della critica politica che di qui discende. Rimane tuttavia un quesito: fin dove si spinse in questi giorni confusi e drammatici l’iniziativa di Lukács, fin dove giunsero le sue personali responsabilità? Noi ci rifiutiamo di credere che egli cadde nell’intrigo degli «appelli» calunniosamente attribuitigli dal signor Giovanni Russo. Resta il fatto comunque che da quegli appelli egli non dissentì o non poté apertamente dissentire. Ma anche se così stanno le cose fino a qual punto deve essere spinto il giudizio politico, la critica anche severa verso Lukács, in primo luogo da parte dei suoi compagni, dei comunisti? È quanto vorremmo conoscere da coloro che soli possono fornire l’esatta versione dei fatti: le autorità governative ungheresi, i dirigenti del partito socialista degli operai ungheresi, le autorità sovietiche che diressero l’intervento risolutivo nei giorni in cui l’esistenza stessa dello Stato popolare fu sul punto d’esser travolta.

È solo in base a queste premesse (e solo in base alle informazioni che da nessun altro intendiamo accogliere) che un particolare giudizio sulle conseguenze politiche condivise da Lukács col governo Nagy, potrà essere formulato. Al di fuori delle calunnioso provocazioni, nel quadro sereno ma fermo della critica politica.

È giusto per intanto ricordare a Fortini, ai suoi imitatori, nonché a quei professori e letterati che soltanto sei mesi fa finsero, per paura di compromettersi, di non accorgersi d’un viaggio di Lukács a Roma, a Milano e a Firenze, che qualunque potrà essere il definitivo giudizio dei militanti marxisti sulle responsabilità politiche di Giorgio Lukács, un fatto è certo fin d’ora: che il pensiero del filosofo ungherese nelle questioni dell’arte e della letteratura non potrà mai, per sua stessa natura, diventare sostegno di operazioni revisionistiche del marxismo-leninismo. Accadde anche a Kautsky e a Plechanof di cadere nell’errore politico: ciò non ha mutato il giudizio dei marxisti su quel che di marxista v’è nel loro pensiero. È questa un’affermazione che, al di sopra d’ogni sospetto, possiamo a voce alta proclamare proprio noi comunisti italiani che della tragedia ungherese abbiamo indicato le origini, in primis et ante omnia, negli inammissibili errori commessi ai danni del socialismo da Rákosi, da Geroe e dai loro fallimentari seguaci. Noi che a quei danni intendiamo riparare rinsaldando le fila della direzione operaia, accrescendo la consapevolezza democratica delle masse e percorrendo, in questo spirito, la via della rivoluzione italiana.

L’Ungheria ha festeggiato la liberazione

di Sergio Segre

«L’Unità», 5 aprile 1957


Un messaggio di amicizia e solidarietà del governo polacco. Imminente ritorno di Lukács

János Kádár e gli altri dirigenti del governo e dello Stato hanno deposto stamane, in­sieme ai membri del corpo diplomatico, delle corone di fiori davanti al monumento ai caduti sovietici e all’altare del Milite Ignoto un­gherese, nel dodicesimo an­niversario della Liberazio­ne. In serata il primo mini­stro ha offerto ai parlamen­tari un grande ricevimen­to. Ieri sera, l’anniversario del 4 aprile era stato cele­brato all’Opera di Stato dal ministro György Marosán, il quale aveva rilevato che «i dodici anni di democrazia popolare hanno dato al po­polo ungherese, malgrado tutti gli errori, molto di più di quanto sia stato dato da tutti i secoli precedenti».

Dopo aver ricordato le tappe segnate dalla riforma agraria e dalla industrializ­zazione del paese, Marosán ha reso noto che l’abolizio­ne del sistema delle conse­gne obbligatorie, attuato dal governo Kádár, comporta per i contadini un maggior reddito annuo di quattro miliardi e mezzo di fiorini.

Marosán si è poi intratte­nuto a lungo sugli avveni­menti di ottobre e di novem­bre, rilevando che «senza l’aiuto delle truppe sovieti­che l’Ungheria sarebbe stata travolta dal terrore bianco e da una lunga e terribile guerra civile», ed ha con­fermato l’intenzione del Par­tito di democratizzare la vi­ta del paese, inserendo pra­ticamente il maggior nume­ro possibile di lavoratori nella elaborazione della li­nea politica e nella direzio­ne effettiva della vita del paese.

In occasione del 4 aprile, Budapest ha offerto un qua­dro di assoluta normalità. Le pattuglie di polizia che si po­tevano vedere sulle strade ancora alcune settimane fa, sono quasi completamente scomparse. Per tutta la gior­nata, favorita da un caldo quasi estivo, gli abitanti del­la capitale si sono concessi una «pasquetta» anticipata sulle rive del Danubio.

Fra i messaggi di auguri ricevuti dal governo Kádár, particolare menzione merita un telegramma del governo polacco, in cui si esprimo­no ai dirigenti dello Stato ungherese «le più cordiali congratulazioni e gli auguri di successo nell’edificazione del socialismo e nel raffor­zamento della Repubblica popolare». È stato anche molto favorevolmente com­mentato a Budapest, l’odier­no articolo di fondo dell’or­gano del Partito operaio po­lacco Trybuna Ludu, il qua­le afferma che la creazione, da parte di Kádár, di un go­verno rivoluzionario degli operai e dei contadini «ha rappresentato la sola giusta soluzione».

Vivo interesse ha suscitato la notizia, data ieri personalmente da Kádár, che il famoso filosofo e scrittore marxista Giorgio Lukács ritornerà probabilmente a Budapest.

Nagy e il filosofo Lukács si trovano nei Carpazi.

di Orfeo Vangelista

«L’Unità», 2 dicembre 1956

Nagy e il filosofo Lukács si trovano nei Carpazi. Si precisano i compiti dei Consigli operai

Il Primo ministro Kádár visita le miniere di Tatabanya – Un’intervista con il segretario dei Sindacati ungheresi


 

A Tatabánya, centro minerario a una sessantina di chilometri dalla Capitale ungherese, il primo ministro János Kádár si è incontrato con i rappresentanti dei consigli operai dei minatori.

Tatabánya è una piccola città interamente velata dalla patina scura del carbone. I volti depli uomini recano le tracce del lavoro in miniera: volti duri, permeati dalla polvere sottile dei pozzi. Dopo i moti delle scorse settimane, a Tatabánya è tornata la calma, ma nelle miniere il lavoro viene ripreso con lentezza: la recente paralisi produttiva ha provocato l’allagamento dei pozzi, alcune gallerie e impianti hanno sofferto dello lunga stasi.

Più difficile che altrove si è dunque rivelata la situazione dei bacini minerari, proprio nel momento in cui la ripresa della produzione industriale è subordinata alle forniture di carbone e di materie prime.

Il primo ministro Kádár ha illustrato ai minatori di Tatabánya gli aspetti critici dell’attuale situazione e le cause che l’hanno determinata, sottolineando la necessità di approfondire l’opera chiarificatrice fra le masse lavoratrici, di svolgere una più intelligente attività educativa e orientatrice.

Dal canto loro, i rappresentanti dei consigli hanno parlato con estrema franchezza, esprimendo l’esigenza di un rinnovamento democratico negli apparati amministrativi mediante la gestione autonoma e diretta dei Consigli operai nelle miniere.

In questa occasione, Kádár ha nuovamente ribadito la funzione di direzione economica spettante ai consigli operai.

Su questi ultimi e i loro problemi, ci ha concesso stamane una breve intervista il presidente del Consiglio centrale dei sindacati ungheresi. Sándor Gáspár. «I Consigli operai – ci ha detto Gáspár – sono organi autonomi di direzione della fabbrica, attraverso i quali si realizza la direzione operaia dell’azienda. Essi sono autorizzati a svolgere tutti i compiti relativi alla vita dell’azienda: sistemi di pagamento, piano economico della fabbrica, ripartizione degli utili in base alla quota fissata dagli organi dello Stato, sfruttamento della «capacità libera» della azienda, cioè della parte estranea al completamento del piano, col relativo acquisto delle materie prime e, naturalmente, vendita indipendente dei prodotti.

«Ciò spiepa le caratteristiche principali dei Consigli: essi non sono organi per la difesa degli interessi dei lavoratori, né organi politici, ma di direzione economica.

«Già sono iniziate – ha proseguito Gáspár – le consultazioni per la creazione di organi superiori in ogni settore industriale, simili alle Camere dell’industria. Successivamente, quando la situazione lo permetterà, potrà essere eletto – non su base territoriale – un Consiglio nazionale dei produttori, avente funzioni analoghe a quelle della Camera bassa del Parlamento. Codesti orientamenti sono già largamente condivisi dagli attuali Consigli operai e anche da una parte dei membri del Consiglio centrale provvisorio di Budapest.

«Naturalmente, ciò non vuol dire che in seno agli stessi Consigli provvisori, soprattutto a quelli sorti affrettatamente e su una base scarsamente o per niente rappresentativa, non esistano tendenze ostili a questo orientamento. L’azione chiarificatrice richiederà sicuramente molto tempo, ma è fin d’ora certo che riuscirà ad affermarsi la corrente sorretta dal crescente appoggio delle masse lavoratrici: quella che si ispira ai principi della direzione economica dell’azienda e non a programmi o punti politici di derivazione antidemocratica».

«Quali sono le relazioni – abbiamo chiesto a Gáspár – tra i Consigli operai e i sindacati?»

Gáspár ci ha ricordato l’azione svolta dai sindacati, all’indomani del 23 ottobre scorso, favorevole alla istituzione dei Consigli operai. Furono i sindacati a farsi promotori, sul piano nazionale, di codesta iniziativa. «Oggi – precisa Gáspár – i sindacati appoggiano i Consigli operai. Nella settimana prossima apriremo un corso di studio per presidenti e membri di Consigli, dove verranno approfondite ricerche ed elaborazioni teoriche strettamente pertinenti all’attività e alle nuove esperienze degli organi aziendali. L’obiettivo è di formare presidenti di Consiglio capaci di dirigere una fabbrica».

«Per quale ragione – domandiamo ancora a Gáspár – l’attuale Consiglio centrale provvisorio di Budapest continua a porre al governo questioni e rivendicazioni di carattere politico?»

«Ho già accennato prima alla esistenza di tendenze diverse in seno ai Consigli – ha risposto Gáspár – Lo stesso fatto si verifica evidentemente in seno al Consiglio di Budapest: da una parte vi sono coloro che desiderano collaborare con noi per la ripresa del lavoro, secondo una giusta interpretazione dei compiti e delle finalità proprie di codesti organi, dall’altra si manifestano ancora insofferenze e resistenze di ordine politico, estranee agli interessi immediati del Paese e delle masse lavoratrici».

«E gli operai che ne pensano?»

«La nostra è una situazione di lotta – risponde francamente Gáspár – Nelle maggiori industrie di Budapest, alla Csepel, alla Muvag, alla Ganz, i consigli operai, negli ultimi giorni, meglio orientati da un più attivo intervento delle maestranze, sono sostanzialmente d’accordo con l’impostazione dei sindacati. Sarebbe tuttavia ingenuo pensare che non esistano larghe zone ancora turbate, sconvolte dai recenti avvenimenti. Una settimana fa, quando vi è stata la minaccia dello sciopero di 48 ore la Csepel già assumeva una posizione contraria alla sospensione del lavoro. Oggi la situazione è ulteriormente migliorata».

Le dichiarazioni di Sándor Gáspár, un ex operaio metalmeccanico di 39 anni, eletto lo scorso anno presidente del Consiglio centrale dei sindacati ungheresi, tracciano un profilo esatto della situazione dei Consigli operai, una situazione in lento sviluppo, nella fase iniziale del rinnovamento democratico.

A Budapest frattanto proseguono i lavori di ricostruzione, soprattutto nei quartieri centrali. Accanto a questi sintomi di distensione, bisogna però segnalare episodi di disordine che riaffiorano di tanto in tanto. Gli elementi più irriducibili della controrivoluzione cercano di riaccendere il [illeggibile] col lancio di manifestini ciclostilati annuncianti nuovi scioperi. Non è difficile creare apprensioni e timori in mezzo a gente così turbata dai tragici moti delle scorse settimane: di ciò approfittano i provocatori ed il cammino verso la quiete e la rinascita diviene più lento e difficile. Stasera la radio ha trasmesso un comunicato del Consiglio operaio di Budapest nel quale si attaccano coloro che diffondono manifestini falsi invitanti a scioperi.

Oggi, intanto, abbiamo appreso che l’ex presidente del Consiglio, accompagnato da alcuni suoi amici, tra cui lo scrittore e filosofo Lukács, si troverebbe in una località ai piedi dei Carpazi, nella Transilvania romena, a Sinaia, una ben nota stazione di riposo. Si crede che l’ex primo ministro e i suoi collaboratori siano sistemati in una o più ville della lussuosa stazione climatica, un tempo preferita dai reali di Romania. Un’altra indiscrezione ci ha oggi confermato l’ubicazione della cittadina romena dove attualmente soggiornano Nagy e il suo gruppo. Un collaboratore dell’ex primo ministro avrebbe telefonato ieri direttamente ai suoi parenti a Budapest per informarli della sua ottima sistemazione, del suo buon umore e del tempo magnifico dei Carpazi.

Lukács, un incontro.

di Demetrio Volcic

da Est. Andata e ritorno nei Paesi ex-comunisti, Mondadori, Milano 1997, pp. 166-68.

Mi piacerebbe descrivere l’incontro con un grande dell’epoca, il filosofo György Lukács, ma il ricordo è molto sfumato. A suo tempo affermò che il peggior regime comunista è migliore del miglior capitalismo. Lukács partecipò nel 1956 al governo rivoluzionario di Nagy, pagò con l’esilio in Romania, ma poi fu lasciato più o meno in pace, essendo già il monumento di se stesso, oltre che del pensiero classico marxista. Mi aveva fissato un breve appuntamento, senza registratori né tantomeno telecamere, credo nel ’70. Aveva superato abbondantemente l’ottantina, sarebbe morto di lì a poco.

Sarebbe stato assai scortese estrapolare dal contesto di un’opera che contava migliaia di pagine fondamentali qualche breve parola d’ordine per chiedergli se la ritenesse ancora valida. Nel mio tedesco più forbito – il filosofo aveva trascorso tre decenni di esilio in paesi tedescofoni – mi ero preparato sui libri le solite domande scolastiche. È vero che il decadimento culturale dipende dal capitalismo, e che cosa c’entra Kafka? Gli chiesi anche della sua grande passione per Thomas Mann. Parlottò un po’ dell’umanesimo dei grandi realisti. Dare un più ampio respiro alla teoria marxista con l’innesto del pensiero borghese, mi parve di capire fosse il suo ultimo sforzo sistemico. Intorno, la corte degli allievi attendeva impaziente la fine del colloquio, ovviamente inutile per la televisione, che si aspettava giudizi politici.
Il gruppo di questi allievi, disperso qualche anno dopo, si occupava di politica in senso lato, ma disdegnava quella quotidiana. Uno dei loro principali problemi riguardava l’ampliamento della sfera della società civile per bilanciare la corazza dell’ufficialità. I regimi di stampo sovietico non potevano essere affrontati a muso duro, si era visto con Nagy e con Dubček, ma forse potevano essere circondati, fagocitati. Bisognava costituire gruppi informali, tanti, diversi, dediti persino alla filatelia o alla collezione di farfalle, scrivere, pubblicare su ogni giornale disponibile, anche sottobanco. Sono tesi che nessuno andrà a spiattellare al primo giornalista forestiero.
Andràs Hegedüs, primo ministro staliniano, cacciato dai revisionisti e rifugiatosi a Mosca, passò il suo esilio nelle biblioteche e tornò a Budapest più revisionista di coloro che lo avevano espulso. Fu tra i più attivi in questo tentativo di allargare gli spazi civili. La sua teoria neoevoluzionista produsse fra l’altro all’Est i primi circoli ecologici, dove si poteva contestare la politica del regime senza correre il pericolo di andare in prigione.
Nella prassi eravamo dunque già molto lontani dalla teorizzata supremazia del peggior socialismo sulla migliore democrazia occidentale.
Avevo visto Lukács pochi mesi prima a un’adunanza importante del partito, e mi sembra fosse la prima volta che il pensatore metteva piede in un’assemblea ufficiale dopo il 1956. Kádár si fece incontro al vegliardo, lo prese sottobraccio, sembravano commossi tutti e due e la sala applaudiva. Anche Lukács aveva esaurito il suo disprezzo per il kadarismo. Fu questo, credo, il messaggio. Del filosofo ricordo la testa sparuta, lo sguardo forse annoiato, comunque lontano, il viavai di gente, tanti libri e il desiderio, suo e mio, di trovarsi il prima possibile in strada.