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György Lukács

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György Lukács

Archivi tag: Kant

Berlin vs. Lukács  

27 giovedì Feb 2020

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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Tag

Berlin, Gramsci, Hegel, Hess, Kant, libertà, Marx


di Lelio La Porta

da Karl Marx: riccio o volpe, Editori Riuniti, Roma 2018.


Nella Prefazione del 1977 alla quarta edizione della sua biografia di Marx, Berlin fa esplicito riferimento a Lukács  che, poi, nel testo, come già sottolineato in pre­cedenza, insieme a Gramsci diventa un seguace indi­pendente di Marx. Si può dire che Berlin, revisionando il suo lavoro, riproponendolo alla metà degli anni Set­tanta del secolo scorso, avesse approfondito i suoi studi entrando in contatto con gli scritti sia del filosofo un­gherese sia del comunista italiano, del quale, come si metterà in evidenza in seguito, si intuisce che avesse letto la prima edizione einaudiana dei Quaderni del carcere ma conoscesse anche qualcosa degli scritti precarcerari. Sui due, al di là della definizione che fornisce, la quale, peraltro, ha qualcosa in comune con quell’espressione che sarà coniata per Lukács e per Gramsci, ma anche per altri pensatori marxisti, il “marxismo occidentale”, Berlin non dice molto. Proviamo comunque a definire il punto di vista dei due “indipendenti seguaci” nella forma di una risposta a Berlin che resta legato al suo punto di vista secondo il quale marxismo e comunismo vivono di inganni che essi stessi producono. Continua a leggere →

La responsabilità sociale del filosofo

21 domenica Feb 2016

Posted by György Lukács in I testi, Traduzioni italiane

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Tag

actus purus, altruismo, apragmosini politic, astuzia della ragione, azione, bourgeois e citoyen, Bucharin, Cernysevskij, classe, comportamento etico dell’individuo «gettato» nella vita, dialettica dell'agire sociale concreto, dualismo di ragion «pura» e ragion «pratica», egoismo, Engels, Epicuro, esistenzialismo, generalità, genere, George, Hegel, Hitler, imperativo categorico, innocenza, intenzione, Kant, Kierkegaard, lavoro, Lenin, Machiavelli, Marx, marxismo, neutralità, Platone, prassi e teoria, responsabilità, rifiuto dell’utopismo, Rivoluzione francese, Schiller, Schopenhauer, socialità socialista, Stoa, tecnica


di György Lukács

[Die soziale Verantwortung des Philosophen, 1960 ca., inedito, trad. it. Vittoria Franco, in G. L., La responsabilità sociale del filosofo, Pacini Fazzi, Lucca 989]

Si ringrazia Toni Infranca per aver messo a disposizione questo testo.


Devo scusarmi subito in apertura se arriverò a rispondere alla questione solo dopo lunghi giri. Primo, [perché] mi sembra che la questione in sé non sia stata finora sufficientemente chiarita. Secondo, e più importante, perché scorgo nella situazione attuale problemi del tutto particolari, che rinviano oltre una specificazione normale della questione generale e la cui analisi soltanto consente teoricamente una risposta concreta.

I nostri ragionamenti devono dunque culminare nelle due questioni seguenti, fra di loro strettamente connesse: esiste una responsabilità specifica del filosofo, che va oltre la responsabilità normale di ogni uomo per la propria vita, per quella dei suoi simili, per la società in cui vive e il suo futuro? E inoltre: tale responsabilità nella nostra epoca ha acquistato una forma particolare? Per la teoria dell’etica, entrambe le questioni implicano il problema se la responsabilità contenga un momento storico-sociale costitutivo. È un interrogativo che va posto subito all’inizio, giacché proprio l’etica moderna, specialmente quella che si è sviluppata sotto l’influenza di Schopenhauer prima e di Kierkegaard poi, pone l’accento sul fatto che il comportamento etico dell’individuo «gettato» nella vita mira proprio a tenersi lontano da tutto ciò che è storico-sociale per pervenire all’essere ontologico, in contrapposizione netta a tutto l’essente. È ovviamente impossibile trattare qui, sia pure per grandi linee, tutto questo complesso di problemi. Possiamo occuparci solo di quegli aspetti che riguardano oggettivamente il nostro problema.

1. Nell’etica, così come si è configurata sinora, possiamo osservare – grosso modo* – due correnti decisive. La prima considera rilevante esclusivamente l’atto in sé della decisione etica, del comportamento. Questa concezione ha assunto nel corso dello sviluppo della nostra moralità incarnazioni così diverse che troviamo un tale atteggiamento fondamentale nella Stoa come in Epicuro, in Kant come nell’esistenzialismo, ecc. In base alla nostra impostazione del problema, concentreremo l’attenzione soprattutto sul tratto comune che abbiamo rilevato e tralasceremo di proposito le differenze, il cui significato non deve essere ovviamente sottovalutato; esse non sono tuttavia decisive per le questioni da chiarire in questa sede. Il momento decisivo ci sembra consistere nel fatto che l’atto della decisione etica, dell’assunzione di un comportamento eticamente rilevante viene posto come indipendente dal corso causale della realtà storico-sociale, viene cioè considerato come fondamento dell’etica la completa indipendenza reciproca dei due «mondi» dell’essere e del dover essere. Dei grandi filosofi, Kant è colui che ha compiuto nella maniera più decisa, fino al paradosso, questo sdoppiamento della realtà. La frattura attraversa la personalità che agisce e il suo atto. I presupposti e le conseguenze, anche quelle puramente spirituali, appartengono tutti al mondo fenomenico e sono perciò sottoposti incondizionatamente alla connessione inesorabile della causalità. L’actus purus della decisione etica è invece un noumenon, un momento dell’esistenza intellegibile dell’uomo, completamente indipendente dal fenomeno e dalla sua causalità.

Sembra spezzarsi così ogni collegamento fra l’esistenza interna (etica) dell’uomo e quella esterna (naturale, sociale), per cui, secondo una tale concezione, il nostro problema perderebbe ogni senso persino come questione. Non è assolutamente questo il caso in Kant. La riduzione di ciò che è eticamente rilevante alla personalità puramente intellegibile ha piuttosto, come vedremo subito, lo scopo di subordinare la totalità della vita umana al dover essere etico, di conferire ad essa una razionalità morale più elevata di quanto sia possibile – secondo Kant – sul terreno fenomenico. Solo se, come in Kierkegaard, l’abisso fra interno ed esterno acquista l’ampiezza metafisica di un assoluto, solo se, di conseguenza, l’incognito impenetrabile diviene la forma originaria dell’esistenza umana, la sua essenza ontologica, il sacrificio di Isacco da parte di Abramo, con l’impossibilità di separare dall’esterno il delitto dalla santità devota a Dio, può divenire il paradigma più elevato della prassi, l’espressione della sua irrazionalità ontologica e quindi della sua – altrettanto ontologica – essenza asociale, astorica. Non è così in Kant. Già l’analisi dell’imperativo categorico dimostra che la separazione rigida del fenomeno dal noumeno è rivolta proprio a fornire all’uomo sociale della realtà criteri saldi per la prassi della vita quotidiana. Questa intenzione è ciò che per noi è importante. Se dunque contraddizioni insuperabili vengono in essere, allora vuol dire che la problematica che qui emerge è una dimostrazione indiretta delle nostre tesi. Si tratta del contenuto dell’imperativo, che deve scaturire proprio dalla sua essenza puramente formale. Tutti conoscono il famoso esempio della – presunta – contraddizione logica che sorge necessariamente quando si voglia sottrarre un deposito. Nella sua critica, divenuta altrettanto famosa, Hegel rileva che, in questo modo, Kant abbandona il campo dell’etica, che egli stesso aveva rigidamente delimitato, e vuole determinare la questione se il deposito debba essere e che cosa debba essere con categorie che sono inadatte a questo scopo secondo i suoi stessi principi. (Del tutto diversamente per l’etica e per lo stesso Hegel).

Questo rinviare oltre l’actus purus dell’io noumenico in Kant non è però un caso o una inconseguenza. Proprio i postulati della ragione pratica mostrano che una tale trascendenza è per lui necessaria, se non vuole far sfociare la sua etica nel vicolo cieco dell’individuo ontologicamente isolato. Possiamo richiamarci di nuovo a connessioni universalmente note. Primo, al postulato di una coincidenza, in ultima istanza, fra l’applicazione delle norme etiche purificate da ogni ammiccamento alla fortuna e la felicità come stato permanente; secondo, a quello di un progresso infinito della perfettibilità: ai postulati dell’esserci di Dio e dell’immortalità dell’anima. Si tratta perciò di una trascendenza. Non soltanto si va oltre il mondo terreno, per poter porre la realizzazione di colui che si perfeziona eticamente come parte costitutiva del sistema, ma – in contrapposizione con molte religioni che prevedono la realizzazione dell’essere terreno in un al di là – si deve anche abbandonare l’intero ambito dell’essere, ritornare al dover essere del postulato. Non ci interessa qui la problematicità di una tale posizione. Ciò che abbiamo cercato di dimostrare si limita alla costatazione, che resta molto astratta, che perfino l’etica più decisamente formale e più ostinatamente orientata sull’atto puramente individuale della decisione è costretta a trascendere questo suo punto di partenza e ad elevare le categorie decisive della vita storico-sociale degli uomini (gli oggetti del loro agire, la fortuna, il loro perfezionamento) a momenti integranti del suo sistema. È chiaro che, in questo modo, l’uomo stesso in quanto essenza sociale, la sua relazione con i suoi simili e quindi, in maniera mediata o immediata, la stessa socialità, devono stare – indipendentemente se nell’al di qua o nell’al di là – al centro della sistematica anche in un’etica costruita in maniera soggettivo-formale.

Tale connessione risulta ancora più chiara, quasi fino alla trivialità, in quel gruppo di teorie etiche, che si è soliti etichettare sinteticamente (e in maniera non molto convincente), come utilitarismo. Anch’esse hanno come punto di partenza le intenzioni degli individui. Solo che qui l’altro è posto sin dall’inizio ineliminabilmente come partner. La dialettica fra egoismo e altruismo (non importa come queste espressioni appaiono dal punto di vista terminologico) costituisce necessariamente il tema centrale dell’etica, e pertanto il carattere sociale è metodologicamente assicurato. Da un lato, il motivo egoistico può venire assolutamente in primo piano, specialmente finché la regolazione automatica dell’agire individuale, egoistico, mediante l’economia complessiva vale come dogma incrollabile; dall’altro, proprio per questo, una tale struttura della società può essere astratta dal divenire storico e idealizzata a condizione «eterna» della relazione fra uomo e società. In casi estremi di tal genere, questa considerazione etica si trasforma a tal punto che appaiono rilevanti solo le conseguenze delle azioni umane. Ma ritorneremo fra breve su questa possibilità.

In generale, si tratta tuttavia di una relazione reciproca reale fra egoismo e altruismo; per meglio dire, si tratta del tentativo di far derivare da motivi egoistici le intenzioni e le azioni disinteressate e cariche di abnegazione fino all’eroismo. Ragionamenti siffatti potrebbero apparire spesso estremamente artefatti, sofisticati. Questo non può tuttavia offuscare la grande idea che vi è insita. Cioè che un’etica, che ha come punto di partenza uomini «naturalmente» egoisti, fa scendere tutto ciò che vi è di grande e progressivo nello sviluppo dell’attività umana dal cielo della trascendenza su questa terra della socialità reale, dei doveri e della responsabilità puramente sociali. Se tale concezione ha avuto talvolta, finché si è combattuto in suo nome per il «regno della ragione», un accento sovrastorico, con la vittoria della borghesia si è trasformata in una superficiale apologetica, mentre già con la teoria dell’«egoismo razionale» dei democratici rivoluzionari russi è emerso chiaramente il suo carattere progressivo. Il pensatore guida di questa tendenza, Cernicewskji, nel suo romanzo Che fare? ha indicato vari tipi che, in quanto rappresentanti dell’«egoismo razionale», [che va] da un’attività riformatrice nella vita quotidiana propria e altrui fino all’eroismo rivoluzionario ascetico e pieno di abnegazione, rendono chiare quelle conseguenze della responsabilità individuale e storico-sociale, che derivano con necessità logica dai principi di questa dottrina correttamente intesi.

Sebbene la trattazione adeguata dell’etica marxista sia possibile solo più oltre e anche se essa, per sua essenza, non parte assolutamente dall’intenzione, dall’atto etico, dobbiamo accennare brevemente già a questo punto alla sua relazione con la dottrina dell’«egoismo razionale». Già il giovane Engels, in una lettera a Marx, criticava il rifiuto astratto di ogni egoismo da parte degli idealisti «veri socialisti» e rilevava che anch’essi «sono comunisti anche per egoismo». Non è questa la sede per soffermarsi sul come tale dottrina si sia formata innanzitutto attraverso lo sviluppo della lotta di classe, degli interessi di classe, ecc. È importante solo che, in questo modo, si è sostanzialmente concretizzata la corrente storico-sociale in cui è inserita ogni vita individuale, che la vita etico-individuale deve farsi carico inevitabilmente di una responsabilità storico-sociale verso le decisioni, i comportamenti, ecc. e – ciò che è più decisivo – che perfino le virtù più elevate, le più socialmente determinanti, non sono contrapposte in maniera ascetico-dualistica all’uomo «naturale», ma in circostanze favorevoli possono essere sviluppate organicamente dalle sue proprietà «naturali». Questo è il fondamento etico-sociale del fatto che, per Lenin, anche nel socialismo gli uomini devono diventare uomini nuovi attraverso la realizzazione dei loro interessi individuali all’interno della nuova società; tutte le misure economiche di una corretta via al socialismo hanno una tale intenzione pedagogico-sociale: incanalare l’egoismo giustificato su base naturale in una socialità socialista. Potremo tornare solo più oltre sul come queste tendenze, qui rapidamente sfiorate, diventino le determinazioni più prossime della responsabilità sociale.

2. L’unità dell’etica si manifesta ancora più chiaramente là dove essa ha come punto di partenza l’estremo opposto, l’accentuazione solo o prevalentemente delle conseguenze. Una tale concezione, considerata in senso stretto nella sua applicazione coerente, dovrebbe negare ogni etica, considerarla irrilevante per l’essere e il divenire della società, in quanto la dottrina del diritto e dello Stato (o magari l’economia) farebbero le sue funzioni. Questa dottrina non è mai stata applicata in maniera conseguente. Essa emerge nel paradosso di Machiavelli, secondo cui il legislatore deve partire dal fatto che tutti gli uomini sono cattivi (amorali); sta, cioè, alla base della concezione machiavellica secondo cui azioni individuali cattive possono avere conseguenze socialmente utili. Ma una dottrina orientata semplicemente sulle conseguenze, che esclude completamente l’intenzione soggettiva, non può essere applicata nemmeno a livello giuridico. Anche un’imputazione puramente giuridica è costretta a prendere in considerazione momenti soggettivi come l’intenzione, la convinzione, il quadro reale o possibile delle circostanze, ecc. La questione del perché un uomo possa essere considerato responsabile delle conseguenze del suo agire non può essere dedotta dalla semplice catena delle cause e degli effetti, nemmeno da un punto di vista giuridico. Ha, dunque, ragione Hegel quando rifiuta tanto la priorità dell’intenzione quanto quella delle conseguenze.

Il necessario inserimento dell’intenzione nell’elaborazione etica delle conseguenze mostra però già al primo sguardo una dialettica alquanto complicata. Sarebbe ovvio e semplice affermare che nessuno è eticamente responsabile per le conseguenze imprevedibili delle sue azioni. Sarebbe comunque sostenibile una tale affermazione? Supponiamo che un uomo voglia sparare a Pietro, la sua pallottola manca l’obiettivo e colpisce a morte Paolo. Non vi è nessuna intenzione, e però non può nemmeno essere negata la responsabilità morale appellandosi al caso. Infatti, ogni azione si stacca – più o meno – da colui che la compie, acquista un suo proprio sviluppo immanente nel mezzo delle relazioni reciproche degli uomini. «Un proposito è condiviso, non è più tuo», dice il Wallenstein di Schiller. Il problema della responsabilità consiste in questo, che la dialettica propria dell’azione non [ne] elimina la paternità nel soggetto, nella sua intenzione e convinzione. Diventa un problema solo questo: fino a che punto, sotto quale aspetto, fino a quali conseguenze, diramazioni e implicazioni esiste una responsabilità? Non vi sono dubbi sul collegamento in genere fra azione e agente anche nelle mediazioni più complesse. Ciò che andrebbe concretamente elaborato in una casistica etica sono la misura e la proporzione.

Ma naturalmente ciò è impossibile in questa sede. È tuttavia necessario fornire almeno alcuni accenni metodologici sulle linee di soluzione. Sotto questo aspetto, Hegel ha intravisto l’essenza della questione quando ha detto: «devo conoscere la natura generale della singola azione». Entrambe queste determinazioni, la natura generale e la conoscenza, sono ugualmente importanti e problematiche.

Infatti, una semplice generalizzazione unilineare dell’azione non fa fare un solo passo avanti dal punto di vista etico. Il paragrafo del codice sotto cui deve essere giuridicamente sussunta un’azione singola esprime nella maniera più chiara questa generalità astratta e dimostra, nel contempo, che esso non può dare il minimo suggerimento per la soluzione etica. (E d’altra parte, si può viceversa dire: le grandi difficoltà, che emergono talvolta in tali sussunzioni giuridiche, derivano dal fatto che l’opinione pubblica, e anche la coscienza giuridica della problematica etica, si rendono conto della semplificazione). La generalità (die Allgemeinheit) eticamente proficua, che illumina la responsabilità, può essere trovata solo se noi consideriamo l’azione singola come momento mosso di un agire storico-sociale nella sua concreta e altrettanto mossa totalità e continuità. Infatti, solo sotto tale aspetto, la generalizzazione non è un’astrazione formale e priva di contenuto, ma è un tipo di astrazione che viene compiuto dallo stesso processo e riprodotto più o meno correttamente dalla coscienza esterna (anche da quella dell’agente). La generalità ha cioè, in una decisione etica, il suo passato storico-sociale e un futuro che sorge dallo stesso processo. È dunque importante il posto che occupa nel processo storico-sociale, in virtù della dialettica interna del suo nucleo essenziale, l’intenzione «di per se stessa» – quella che è, in maniera oggettivamente immanente, alla base della singola azione e che non è affatto necessariamente identica all’intenzione consapevole dell’azione in questione –, in quale connessione essa si inserisce, quali tendenze favorisce o ostacola. Solo così può venire in essere con chiarezza crescente una generalità concreta, eticamente vincolante. Prendiamo la relazione del poeta Stefan George con Hitler. L’esteta aristocratico ha comprensibilmente rifiutato con asprezza la grettezza plebea di Hitler ed è morto in esilio volontario piuttosto che divenire il poeta laureatus dell’hitlerismo. E tuttavia, nella sua poesia più tarda si esprime un’idea, un atteggiamento, la cui intenzione intima è orientata verso l’essenza storico-sociale dell’hitlerismo incombente ed è oggettivamente parte della preparazione di quest’ultimo. Il fatto che George abbia forse salutato un fascismo aristocratico alla Mosley e rifiutato solo l’aspetto ordinario delle forme fenomeniche tedesche non può diminuire la sua responsabilità, in quanto il generale, nel senso in cui lo intendiamo noi, dell’hitlerismo è, in tutti i fenomeni piccolo-borghesi, un aristocraticismo irrazionalistico, una generalizzazione dell’intenzione più profonda di George.

Non è naturalmente necessario che questa generalità acquisti una forma così chiara solo nel corso della storia. Può essersi già delineata nel corso dello sviluppo sociale fino a questo momento. Si pensi ancora una volta all’esempio del deposito di Kant. Simmel l’ha criticato in questi termini: se l’individuo che lo sottrae nega in generale la proprietà privata, l’argomentazione di Kant perde il suo fondamento. Io credo che qui Simmel non colga il reale senso profondo di Kant. Egli è rispetto a Hegel nel torto quando chiarisce che la sua sottrazione contraddice logicamente il concetto oggettivo di deposito; ma l’intenzione – nel senso stabilito sopra – di colui che se ne appropria contiene un’affermazione della proprietà privata e, insieme, del deposito e fa emergere quindi una contraddizione etica.

Proprio queste analisi delle conseguenze dimostrano che Hegel ha rigettato con buone ragioni entrambe le concezioni etiche, unilaterali ed estreme. Infatti, la responsabilità etica deriva da una particolare sintesi che unifica in sé tanto l’intenzione quanto la conseguenza, ma in un modo che le supera e le modifica entrambe. L’idea che così ne deriva si rafforza ancora se riflettiamo sul momento soggettivo della determinazione hegeliana trattata sopra: sulla conoscenza (della generalità). Che cosa conosciamo e come? Non si tratta nemmeno, in questo caso, di un concetto di imputazione astrattamente giuridico, come forse nella cura previdente del diligens pater familias. La conoscenza appartiene da un lato alla vita storico-sociale, è dunque momento di un processo; dall’altro non è identica alla previsione delle conseguenze attese nel momento dell’azione. Ciò è impossibile già per il fatto che l’oggetto di questa conoscenza è il generale già trattato. Se però, d’altro canto, vogliamo prendere in considerazione la dialettica soggettiva strettamente collegata con questa dialettica oggettiva, dalla quale deriva, dobbiamo tener conto del fatto che è possibile prevedere il corso della storia – e anche questo soltanto col marxismo – solo in modo molto generale. Dietro l’espressione hegeliana, che suona forse mitologica, dell’«astuzia della ragione», vi è il fatto indiscutibile della vita storico-sociale: che, cioè, le conseguenze delle azioni umane – siano esse individuali o collettive – non corrispondono alle intenzioni, che esse vanno qualitativamente oltre queste ultime.

Se questo è giusto – e si tratta di un fatto fondamentale dell’essere umano – quale senso può ancora avere il «conoscere» hegeliano? Noi crediamo che proprio in questo si esprime il giusto significato etico del generale. Se le conseguenze fossero esattamente prevedibili – per un intelletto addestrato a tale scopo –, l’agire sociale diventerebbe qualcosa di meramente tecnico. La responsabilità per il sì o per il no riguarderebbe un semplice calcolo e non necessiterebbe di un’analisi etica, proprio come l’ingegnere è responsabile del fatto che il ponte non crolli. Ciò che viene affermato o negato è tuttavia un generale più o meno determinato, ma in ogni caso concreto; ad esempio, i seguaci o gli oppositori della Rivoluzione francese non sapevano, e non potevano sapere, che favorivano o ostacolavano oggettivamente il sorgere del capitalismo francese. Per la loro responsabilità etica, questa conoscenza a posteriori non entra nemmeno in discussione.

L’«astuzia della ragione» determina dunque un orizzonte – storicamente diversificato – ma sempre ampiamente definito, nel cui ambito si può parlare di responsabilità in senso etico. In questo ambito di vita essa tuttavia sussiste e l’individuo non vi si può sottrarre. Certo, possono sopravvenire circostanze che provocano un pentimento, un cambiamento, ma neanche ciò può cancellare completamente la responsabilità precedente. I girondini a partire da un dato momento hanno combattuto contro i giacobini, ma una tale svolta non poteva annullare la loro corresponsabilità per tutto ciò che era accaduto fino a quel momento. Proprio l’accanimento con cui gli apostati lottavano contro coloro che erano stati loro compagni di ideali dimostra come questa struttura sia profondamente ancorata all’essenza dell’uomo.

Il medesimo stato di cose emerge, in maniera forse ancora più chiara, se tentiamo di chiarire ulteriormente l’essenza etico-sociale dell’agire. Finora abbiamo parlato solo di quella responsabilità che si lega ai fatti concreti degli uomini. Il concetto sociale di agire ha però anche un’altra dimensione. Nessun atto umano si esaurisce, infatti, in un ambiente sociale esattamente determinabile, ma è nel contempo e inseparabilmente, nei limiti in cui si riconnette alla vita pubblica, un momento che favorisce e ostacola un processo sociale. Da ciò consegue che il concetto di neutralità, dell’astenersi dall’agire qui non ha senso; sotto questo aspetto, anche il non agire è un agire che – in relazione alla responsabilità – non si differenzia, in linea di principio, dall’agire attivo vero e proprio. Hegel ha formulato in maniera molto plastica questa costellazione nella Fenomenologia: «Innocente è quindi soltanto il non operare come l’essere, non di un fanciullo, ma addirittura di una pietra». Questo vuol dire che l’astenersi dall’agire implica sempre un’accettazione o una negazione di quella situazione, struttura, istituzione, ecc., ciò che di solito in un’azione attiva, orientata positivamente o negativamente, forma il nocciolo dell’intenzione.

Vi sono qui naturalmente differenziazioni, che possono perfino avvicinarsi a zero, se l’azione in questione ha un carattere prevalentemente privato. (Va qui notato di passaggio che una simile dialettica si ha anche nella vita privata, solo che oggetto dell’intenzione sono gli individui singoli). Naturalmente, le situazioni che la vita sociale produce sono, proprio sotto questo aspetto, enormemente diverse. E questo già in relazione alla semplice possibilità del non agire; se, ad esempio, scioperano le maestranze di una fabbrica, vi è oggettivamente solo un sì o un no; l’«astensione» è qui semplicemente identica al no. Ma anche là dove la situazione, considerata in astratto, consente molto bene una neutralità, questa ha comunque, a seconda dello stadio dello sviluppo storico, una convergenza sull’accettazione o sul rifiuto della generalità in questione e questa tendenza si fa strada o si blocca a seconda della situazione storica. Il giovane Hegel si richiama al fatto che ad Atene, all’epoca delle rivolte, era stata pronunciata la sentenza di morte contro gli «apragmosini politici» e prosegue, nella direzione delle nostre considerazioni iniziali: «l’apragmosina filosofica, per sé [non disposta] a scegliere un partito, è per se stessa carica di morte per la ragione speculativa». Per lo stadio attuale della nostra ricerca, da ciò consegue, in primo luogo, che per quel che riguarda la responsabilità, tutti questi modi di comportamento devono essere straordinariamente differenziati anche a seconda dell’individualità, della sua situazione sociale, ecc. Può variare profondamente non solo il reale giudizio degli individui, ma – ciò che è più importante – anche la possibilità oggettiva della conoscenza di quella generalità che è in ultima analisi alla base dell’intenzione espressa nell’azione. L’espressione di Cristo «non sanno ciò che fanno» indica qui un polo [della questione], mentre l’espressione hegeliana citata sopra sull’apragmosina politica e filosofica indica l’altro.

Tuttavia, la differenziazione storica procede ancora oltre. Si pensi alla nostra conoscenza attuale circa la mancanza di sbocchi economici dell’economia schiavistica antica. È chiaro che dobbiamo, di conseguenza, giudicare le utopie reazionarie dell’antichità in maniera storicamente diversa da quelle dell’epoca moderna, con le prospettive oggettive dell’economia capitalistica che si allargano; dunque Platone diversamente da De Maistre. Sebbene in nessuno dei due casi potesse essere presente questa idea né su un piano oggettivamente sociale, né su quello soggettivo personale, resta tuttavia aperta la questione se essa non sia stata attiva, e non in maniera latente-immanente, in ciò che sin qui abbiamo chiamato intenzione dell’azione. Perfino in un consenso condizionato la responsabilità dovrebbe essere formulata diversamente. Oppure, prendiamo l’esempio del don Chisciotte. La inevitabile comicità delle sue azioni, che scaturisce dalla sua convinzione più pura, rinvia a una tale ignoranza oggettiva della generalità che è impossibile trascurarla completamente nell’analisi della responsabilità.

Tutto questo deve circoscrivere semplicemente l’ambito della problematica che sorge a questo punto e non vuole affatto significare che si pretenda di elencare anche solo le possibilità tipiche più importanti e, ancora meno, di trattarle concretamente.

Ma già questo quadro astratto rinvia a tratti essenziali del modo etico di trattare la responsabilità. Vediamo che la storia crea per l’etica un Giano bifronte di continuità e cambiamento qualitativo della struttura. Prendere in considerazione soltanto il secondo momento potrebbe portare facilmente a un relativismo storico. Solo nella inseparabilità dialettica dal primo – e quindi dalla continuità dell’eredità etica, dei valori etici – può sorgere quell’assoluto etico, i cui tratti essenziali sono da un lato una contraddittorietà dialettica (quindi, all’opposto di Kant: il conflitto dei doveri, il conflitto all’interno della responsabilità come uno dei punti centrali dell’etica); e, dall’altro, un assoluto che contiene in sé sempre la relatività storico-sociale come momento superato e da superare. Una trattazione soddisfacente di un problema quale il conflitto Antigone-Creonte ci sembra altrimenti impossibile. E anche a un livello più generale della connessione e del conflitto nella trasformazione storica del bourgeois e del citoyen, incontriamo la stessa connessione, la quale può essere chiarita solo mediante il riferimento dialettico reciproco e il superamento reciproco di continuità e trasformazione qualitativa e strutturale.

3. Crediamo: con l’entrata in scena del marxismo tutte le questioni qui trattate, che riguardano la responsabilità, si pongono in una luce nuova. Sembra dunque opportuno discutere brevemente almeno i principi più generali della nuova impostazione. Cominciamo con una delimitazione negativa: la dissoluzione, divenuta necessaria e di cui abbiamo parlato finora, delle due polarizzazioni unilaterali dell’etica non è una proprietà distintiva del marxismo. La si trova – sia pure in termini contenutistici e metodologici diversi – in Aristotele, nella Scolastica, in Hegel; il marxismo dà a questa tendenza solo un accento nuovo. In quanto detto finora, abbiamo mostrato che qualunque sia il punto di partenza ideologico e metodologico dell’etica, le sue sintesi sfociano sempre necessariamente nello sviluppo storico-sociale dell’umanità. Fra atto etico, convinzione etica e responsabilità da un lato, e destino sociale dall’altro, vi è dunque una connessione che, sia pure complessa e mediata, è tuttavia ineliminabile. L’elemento comune a ogni etica premarxista è tuttavia che in questa relazione reciproca le tendenze etiche che privilegiano l’individuo detengono il primato su quelle sociali. Anche quando i singoli sistemi sono contrapposti sotto tutti gli altri aspetti – pensiamo semplicemente a Platone e a Epicuro –, su quest’unica questione regna tuttavia un accordo generale. E nemmeno eventi così violenti come la grande Rivoluzione francese sono riusciti a smuovere completamente tale convinzione. Si può tutt’al più notare in alcune rappresentazioni pessimistiche, come le lettere estetiche di Schiller, una ritirata appena accennata. Resta comunque predominante l’etica dell’individuo, sia pure in una relazione più o meno conseguente col suo destino sociale.

Si esprime qui una grande idea: l’uomo, in quanto creatore responsabile del suo proprio destino, determina così il destino dell’umanità, di quel tipo di uomo che diventa predominante. Molte tendenze significative dell’etica concentrano le forze essenziali nell’elaborazione dei tratti fondamentali di quei tipi che sono adatti a condurre l’umanità sulla strada giusta. È sufficiente richiamare qui: l’antico saggio, il suo ritorno sotto diversa forma nel sage dell’Illuminismo, la dottrina dei discepoli di Cristo. (Anticipando ciò che sarà detto più oltre, emerge già qui almeno un lato del nostro problema specifico. La questione non è, infatti, che il filosofo in certi casi si assuma una particolare responsabilità per la dimostrazione sociale del tipo da lui indicato come modello). Solo per accennare alla ricchezza dei problemi che qui sorgono, si pensi al dramma di Tolstoj La luce nelle tenebre.

Ritorniamo al tema specifico: il marxismo ha una posizione radicalmente nuova proprio sulla questione del primato: in breve, è lo sviluppo sociale, più precisamente lo sviluppo delle forze produttive, che crea gli uomini ad esso necessari. Poiché, sin da quando il marxismo è sorto, si è sentito ripetere l’obiezione che non ha un’etica e che sostituisce questa con l’economia o la sociologia, vogliamo inserire qui alcune note chiarificatrici. Prima di tutto: non si può scambiare il principio sociale del marxismo con nessuna delle teorie del milieu sociale, ecc. Queste rispecchiano la cosificazione delle relazioni umane nel capitalismo e le fanno irrigidire concettualmente molto oltre il modello; contrappongono perciò l’individuo (l’uomo) a un ambiente codificato soggetto a una legalità propria, estranea all’uomo, inumana. Le leggi dell’economia e quelle della società sono certo anche per il marxismo leggi oggettive, cioè tali che funzionano indipendentemente dalla coscienza conoscente. Però non è un’oggettività estranea all’uomo a costituire l’oggetto e il sostrato dell’economia, bensì solo e soltanto il sistema (e il mutamento) delle relazioni fra gli uomini, le cui leggi essi – considerati individualmente – non hanno creato, ma che possono essere poste esclusivamente mediante il loro agire, le loro influenze reciproche, il loro influsso individuale e comune sulla natura in movimento. Nel marxismo viene dunque elaborata per la prima volta in maniera coerente l’idea che economia, società, storia non sono altro che lo sviluppo del sistema delle relazioni umane, che le leggi oggettive specifiche che in esse sorgono – d’altronde complicate e largamente mediate – sono sintesi delle azioni umane. Ciò che in Hegel appare ancora in forme mitologiche, acquista qui un’oggettività scientifica.

Questa presentazione sommaria, piuttosto unilaterale, deve semplicemente servire a dare una prospettiva ai problemi dell’etica e prima di tutto, naturalmente, a quelli che riguardano la responsabilità. Se dianzi abbiamo definito una grande idea la considerazione che l’uomo è il creatore del suo proprio destino, il marxismo diventa sotto questo rispetto la concretizzazione e il coronamento dello sviluppo dell’etica fino a questo momento. Infatti, la tesi secondo cui l’uomo crea se stesso viene condotta fuori dalla concezione idealistica hegeliana solo dal materialismo dialettico: il lavoro, in cui l’uomo diventa uomo, fa di se stesso un uomo, può acquistare un significato universale solo quando venga considerato alla lettera come lavoro fisico (che è nello stesso tempo anche spirituale, il demiurgo della spiritualità), se dunque dall’ontologia dell’uomo sparisce ogni trascendenza sovrumana.

Non è oggetto della nostra ricerca approfondire una concezione immanente del mondo. Sia consentita solo un’osservazione: che in questo modo anche dal concetto etico di responsabilità viene eliminato altrettanto radicalmente ogni rinvio a elementi trascendenti – abbiano questi il carattere di un essere trascendente, come in molte religioni, o quello di un postulato trascendente come in Kant. Questa negazione si trasforma però qui in un’affermazione concreta: il rifiuto di ogni al di là non fa ricadere su un’individualità isolata né conoscenza, né coscienza, come nel vecchio materialismo, ma, all’opposto, stabilisce un’unione intima, anche se certamente contraddittoria e alquanto mediata, fra l’uomo in quanto personalità e in quanto ente generico; e qui è da notare che per il marxismo il genere è un concetto non soltanto biologico-antropologico, ma anche, e soprattutto, storico-sociale. Non si deve dunque costruire un ponte complicato – come in ogni etica idealistica – su un dualismo autocreato; l’unità dialettica delle tensioni è, piuttosto, data naturalmente e socialmente. «L’individuo è – dice Marx – l’essenza sociale (…) La vita individuale e quella generica dell’uomo non sono distinte». Solo la loro forma relativa di realizzazione, la dialettica dell’unità delle contraddizioni si trasforma costantemente nel corso dello sviluppo storico-sociale. Il fondamento di questa unità, che si ottiene e si riproduce continuamente nel mutamento, è il lavoro. Dice Marx: «L’oggetto del lavoro è (…) l’oggettivazione della vita generica dell’uomo».

Questa immanenza in tutto ciò che riguarda l’uomo, la stringente necessità oggettiva in tutto ciò che segue dalle leggi di movimento delle relazioni umane, sono state molto spesso equivocate come fatalismo e, perciò, come esclusione dell’etica dal sistema del marxismo. Le due cose sono connesse e sono facilmente confutabili. Anche chi conosce Marx solo superficialmente deve sapere che nella sua economia le leggi si trasformano continuamente in tendenze, che esse in casi decisivi delimitano solo uno spazio oggettivo all’interno del quale l’azione umana prende la decisione. Si pensi alla definizione della giornata lavorativa. Marx mostra le tendenze capitalistiche che spingono verso il massimo e quelle proletarie che aspirano al minimo, un’antinomia i cui due termini «vengono entrambi stabiliti allo stesso modo dalla legge dello scambio delle merci». È dunque la lotta fra capitalista complessivo e operaio complessivo che decide sulla giornata lavorativa.

Non si dica che qui si tratta solo di categorie «sociologiche»; una tale affermazione non tiene, infatti, in nessun conto l’essenza della cosa: che, secondo la concezione di Marx, il sociale non è altro che una determinazione precisa dell’uomo stesso, della sua relazione con gli altri uomini. Capitalista complessivo e operaio complessivo sono dunque qui solo sintesi sociale; in realtà, si tratta del fare e del tralasciare degli uomini, i quali, nella grandezza come nella miseria, fanno la propria storia, però «non in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinata dai fatti e dalla tradizione». Per quanto le leggi dell’economia, le mediazioni fra individuo e ente generico possano essere così molteplici e mediate, la struttura indicata sopra di uno spazio concreto – entro il cui ambito concreto vengono prese dall’uomo decisioni concrete – di un’antinomia concreta che lo induce a una scelta responsabile, continua a sussistere per la totalità della vita umana.

Non possiamo qui naturalmente nemmeno accennare a tutta la ricchezza delle determinazioni che così sorgono. Basti solo ricordare il fatto che Marx, per l’individuo, concepisce perfino l’appartenenza di classe, che l’idea fondamentale di Lenin, per quel che riguarda la concezione del partito e di altre organizzazioni sociali, negli aspetti decisivi, prende questa direzione. Se noi dunque concludiamo la nostra breve panoramica con l’accenno alla relazione del marxismo con l’utopia, lo facciamo prima di tutto per mettere in luce in maniera ancora più chiara di quanto sia stato fatto finora la sua essenza determinante per l’etica. Il rifiuto dell’utopismo ha qui due momenti importanti. Il primo contesta al marxismo la possibilità di una predeterminazione utopica di quelle concrete forme di società che sono chiamate a sciogliere le contraddizioni di una formazione sociale. Proprio perché qui, per la prima volta, sta al centro la conoscibilità scientifica delle leggi e della tendenza di sviluppo della vita sociale, viene sottolineato con forza il suo carattere di approssimazione, la sua riduzione ai principi della linea evolutiva. Lenin rifiutò, perché metodologicamente impossibile, l’ideale conoscitivo di Bucharin, di una sociologia capace di fare previsioni «astronomicamente esatte». In secondo luogo, questo rifiuto teoretico-conoscitivo dell’utopismo è collegato con i processi di pensiero che, attraverso la mediazione della concezione generale della storia, sfociano nei problemi dell’etica. L’utopia come forma pone uno stadio già pronto, i cui contenuti e le cui forme devono garantire la convivenza armonica degli uomini, la quale – in qualche modo sempre – agli uomini, in quanto singoli e in quanto genere umano totale, piove dal cielo. Al contrario, il marxismo sottolinea, anche per il futuro, che gli uomini fanno da sé la loro storia, che essi e il sistema di riferimento ai loro simili sono il risultato della loro propria attività, che tutti i contenuti e le forme del futuro si sono sviluppate e si svilupperanno dal concreto fieri dell’umanità, indipendentemente dal fatto che questo avvenga con falsa o giusta coscienza. La giusta coscienza del socialismo fondato da Marx è dunque, prima di tutto, quella della giusta strada: dello scopo nei suoi principi generali, dei rispettivi mezzi nella loro particolare, spesso mutevole specificità, dei passi successivi nella loro particolarità. Che da qui seguano differenziazioni specifiche della responsabilità lo si può vedere – crediamo – già da questo brevissimo schizzo. La teoria della conoscenza del marxismo, secondo cui la prassi fornisce il criterio della teoria, ha conseguenze profonde anche per l’etica (supera, in un certo senso, il dualismo di ragion «pura» e ragion «pratica»).

Non è questo il luogo per trattare dell’influsso del marxismo sul pensiero filosofico. Esso è molto più forte di quanto di solito si supponga ufficialmente; se, infatti, la polemica impone a una filosofia una determinata struttura nell’impostazione dei problemi, uno spettro di posizioni, uno svuotamento della concezione dell’uomo che non porta a nulla, allora è presente un influsso, proprio come nel caso di filiazioni che tendono a sminuirlo. Inoltre, determinate analogie sorgono anche dal fatto che il marxismo, come molte altre correnti, è una reazione alla crisi dell’umanità iniziatasi nella metà del XIX secolo. In tali casi, possono sorgere parallelismi metodologici nella domanda e nella risposta, anche nella totale contrapposizione delle direzioni. Quanto più acuta diventa questa crisi, quanto più chiaramente si delineano le divergenze, tanto più fortemente tali tendenze possono giungere a espressione.

4. Tralasciamo la storia dello sviluppo del marxismo con i suoi molteplici punti di svolta, per riuscire a concretizzare il problema che ci siamo posti partendo dalla situazione del presente, dalle decisioni di cui essa ci fa carico, dalla responsabilità che queste ultime comportano.

Considerato dal punto di vista della nostra questione, neanche il marxismo è lo stesso di un secolo fa. Proprio a partire da questa distanza, non è la stessa cosa se si tratta di un piccolo gruppo, spesso illegale, di un partito di massa nel capitalismo, di un partito dominante della lotta per il socialismo in un paese minacciato da un intervento armato, ecc. Il presente è certamente il risultato di tutta questa storia. Esso contiene però – crediamo – anche qualcosa di qualitativamente nuovo. Bisogna perciò prima di tutto domandarsi: l’attuale situazione dell’umanità contiene effettivamente momenti che si possono con ragione considerare realmente nuovi nella storia? Giacché, altrimenti, il problema dovrebbe essere riferito primariamente alla generalità della storia e solo determinate applicazioni contenutistiche designerebbero l’esigenza del giorno. Mentre, a nostro avviso, si tratta di molto di più: che il problema dell’oggi si fonda naturalmente sui risultati della storia, è accresciuto da questi.

In che cosa consiste il nuovo per un agire responsabile ai nostri giorni? Cominciamo con lo sviluppo della tecnica: durante le due guerre mondiali essa ha imposto una crescente totalizzazione della strategia di guerra. È superfluo parlare del suo ulteriore sviluppo dopo il 1945. È noto che, con l’entrata nell’epoca atomica, si è affermata sempre più a livello di massa la sensazione della decadenza della cultura umana. Non senza fondamento oggettivo. Certo, a livello politico è spesso al servizio di un dominio imperialistico del mondo, a livello ideologico si mescola altrettanto spesso con gli accenti fatalistici secondo cui la tecnicizzazione è già andata molto in là nel controllo dell’umanità e la «massificazione», altrettanto fatale, costituisce il tratto fondamentale della vita sociale della nostra epoca. Questa tendenza è stata ancora più rafforzata da un’altra caratteristica essenziale della guerra divenuta totale. Mentre ancora la prima guerra mondiale scoppiò cogliendo di sorpresa l’opinione pubblica, ora la guerra ha bisogno di un’ampia preparazione ideologica di tutte le masse. È allora un contrassegno importante del nostro tempo che la propaganda ideologica dell’annientamento fatale inevitabile si sia trasformata in una rivolta senza precedenti contro tale fatalità. Centinaia di milioni credono ormai fermamente che lo scoppio della guerra si possa evitare, che il raggiungimento di tale obiettivo dipenda dall’attività delle masse – e quindi degli individui che le compongono. E queste non sono cieche speranze, illusioni infondate. Si tratta piuttosto di un prodotto di importanti eventi storico-mondiali. Sarà sufficiente elencare semplicemente i più rilevanti: il superamento del socialismo in un solo paese, costantemente minacciato, e la formazione di Stati socialisti con una popolazione di 800 milioni di persone; la lotta di liberazione dei popoli coloniali che trasforma una riserva materiale e umana esclusiva dell’imperialismo aggressivo in una zona potenzialmente neutra. La volontà sempre più determinata e consapevole delle masse a conquistare la pace poteva crescere solo su questo terreno; il suo rafforzamento retroagisce, tuttavia, sul solidificarsi di tali condizioni.

Viene così disegnato – crediamo – lo spazio storico e delineato l’ambito reale per esprimere chiaramente il problema della specifica responsabilità sociale oggi. Il contenuto centrale ci è già divenuto chiaro: è la responsabilità della guerra o della pace. Ciò che prima era la responsabilità di una cerchia relativamente ristretta, ora è diventata una questione dell’umanità. Soprattutto nell’epoca moderna, le masse sono diventate sempre più semplici oggetti della guerra. A partire dal contromovimento, il pacifismo ha annunciato una pura etica dell’intenzione: il rifiuto individuale di ogni partecipazione ad esso ha l’accento di un modello, di un comportamento intenzionalmente imitativo. Poiché, tuttavia, la struttura ideologica scaturisce da azioni individuali – e passive – ed è esclusivamente da ciò spinta a scatenare una reazione a catena, e poiché il rifiuto generalmente astratto della guerra elimina ogni concretezza sociale, dall’etica dell’intenzione sorge necessariamente un utopismo. Il tipo di comportamento socialista rivoluzionario (trasformazione della guerra imperialistica in una guerra borghese) pone certamente il problema storico-sociale in termini affatto concreti; contiene la negazione della guerra concepita in termini determinati e concreti e carica l’individuo che agisce di una grande responsabilità: egli non deve fermarsi alla semplice negazione e alle conseguenze che ne derivano per il suo proprio destino, ma porta una responsabilità anche per il mezzo a cui ricorre nella sua mediazione e per il risultato degli atti compiuti. Già queste linee molto generali mostrano la complicata dialettica nell’agire sociale concreto. La responsabilità primaria decisiva è per la deliberazione stessa: nella decisione qui presa viene infatti negato un determinato fenomeno storico-sociale, la guerra imperialistica. La responsabilità della deliberazione contiene dunque già la responsabilità per la giustezza del giudizio che vi è sotteso. Inoltre, il no qui espresso non è più una negatività astratta come nel pacifismo; esso contiene in maniera inseparabile un controstrumento sociale, il dovere di suscitare un contropotere sociale di opposizione alla guerra. La responsabilità si allarga e si concretizza dunque anche qui a partire dal contenuto sociale del movimento di opposizione da porre in moto. Infine, poiché suscitare un agire sociale concreto di quanti più uomini possibile è lo scopo posto, i mezzi impiegati, il destino degli uomini che vi prendono parte sono allo stesso modo oggetto di responsabilità.

*Così nel testo. (N.d.T.)

La critica dell’irrazionalismo.

22 martedì Dic 2015

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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di Giuseppe Bedeschi

«Il Contemporaneo-Rinascita», 30 luglio 1971.


Rileggendo «La distruzione della ragione»

Per capire bene, in tutte le sue implicazioni, l’interpretazione che Lukács ha dato del fenomeno dell’irrazionalismo nel suo celebre libro La distruzione della ragione, occorre partire, a mio avviso, da quello che è senza dubbio il concetto del marxismo lukacsiano; dalla tesi, cioè, della realtà oggettiva della contraddizione, sempre presentata da Lukács (fin dai tempi di Storia e coscienza di classe) come l’elemento di continuità fra il metodo di Marx e quello di Hegel. Approfondiamo quindi prima di tutto questo punto.

La contraddizione appare in Hegel – ha scritto Lukács in Il giovane Hegel – «come il principio più profondo di tutte le cose e dei loro movimenti», «come il principio vitale e motore», che «non può essere mai definitivamente abolito, ma [che] si riproduce continuamente ad un livello superiore». «Questa dottrina della contraddizione può apparire in forma adeguata e realmente conseguente solo all’interno di una dialettica materialistica, quando cioè questa concezione viene formulata solo come rispecchiamento teoretico delle mobili contraddizioni della realtà oggettiva. Ma la coscienza di questo limite insuperabile dell’idealismo filosofico di Hegel non diminuisce la grande opera da lui prestata con questa conoscenza del carattere reale delle contraddizioni nella realtà e nel pensiero».

In piena coerenza con questa impostazione, Lukács fa propria (come aveva già fatto in Storia e coscienza di classe) tutta la critica hegeliana dell’intelletto (che – diceva Hegel – «determina e tien ferme le determinazioni»), nonché la dialettica hegeliana del finito e del sensibile in genere. In che cosa consiste questa dialettica, che percorre tutto il sistema di Hegel e che di questo sistema costituisce la molla e il segreto? Il lettore può trovarne una formulazione pregnante nella Scienza della logica, per es., laddove Hegel dice che «è la natura stessa del finito, di sorpassarsi, di negare la sua negazione e di diventare infinito», e che «il finito è soltanto questo, di diventare infinito esso stesso per sua natura. La infinità è la sua destinazione affermativa, quello ch’esso è veramente in sé». Quando l’intelletto tiene ferma come una diversità qualitativa la relazione tra finito e infinito, nell’affermarli nella loro determinazione come separati, e precisamente come separati in maniera assoluta, esso compie, dice Hegel, una vera e propria falsificazione. L’intelletto dimentica che «la finità è solo come un sorpassar se stesso; in essa è quindi contenuta l’infinità, il suo proprio altro». Qualcuno intende «che questo accada senz’alcun pregiudizio del finito, che non sarebbe toccato da codesto sollevamento a lui estrinseco»; è vero invece che «il finito non viene tolto dall’infinito quasi da una potenza che fosse data fuori di lui, ma è la sua infinità, di toglier via se stesso». In altri termini, il finito si distrugge, si annichila, liberando da sé quell’infinito che è il solo affermativo. «Il vero infinito – dice ancora Hegel – non si comporta soltanto come l’acido unilaterale, ma si conserva: la negazione della negazione non è una neutralizzazione: l’infinito è l’affermativo, e solo il finito è superato».

Quando, dunque, Lukács fa propria la teoria hegeliana della realtà oggettiva della contraddizione, egli fa propria, inevitabilmente, anche la concezione hegeliana dello intelletto e del finito. È opportuno osservare, intanto, che questa posizione metodologica lukacsiana – che trasferisce, ripetiamo, la dialettica hegeliana così com’è all’interno del marxismo – determina in Lukács una serie di contraddizioni e di oscillazioni assai significative. Così egli da un lato sottoscrive interamente la critica di Feuerbach alla dialettica hegeliana della certezza sensibile nella Fenomenologia dello spirito («Feuerbach dimostra – dice Lukács – che Hegel rimane anche qui all’interno del pensiero, della coscienza, che il suo appello alla percezione sensibile del mondo esterno è una pura illusione»; «l’illusione idealistica nella deduzione hegeliana dell’oggettività è chiaramente smascherata [da Feuerbach] come illusione»); dall’altro lato Lukács sottoscrive interamente la critica di Hegel a Kant, il quale avrebbe isolato «artificialmente» le categorie dell’intelletto, e sarebbe caduto, «mediante questo isolamento, nella rigidezza del pensiero metafisico, mentre un’attenta ricostruzione della dialettica interna delle determinazioni della riflessione conduce, con necessità dialettica, al di là di esse, fino alla conoscenza dell’assoluto». E quindi, da un lato, Lukács, con Feuerbach, rifiuta l’annichilimento hegeliano dell’elemento materiale o sensibile (il finito); dall’altro lato egli accetta tutta la critica di Hegel a Kant, incentrata sul fatto che per Kant i concetti «sono condizionati dalla materia data, per sé sono vuoti, ed hanno la loro applicazione ed uso solo nell’esperienza» (Hegel, Enciclopedia, pagg. 43 e 44). Lukács, insomma, fa propria a un tempo e la critica di Feuerbach a Hegel, perché questi non ha riconosciuto al finito o sensibile una propria consistenza e autonomia, e la critica di Hegel a Kant, perché questi ha conferito al molteplice dell’intuizione una relativa consistenza e indipendenza.

Allo stesso modo Lukács accetta integralmente, in Il giovane Hegel, la critica hegeliana dell’intelletto, nella quale egli vede «la leva principale (…) della costruzione dialettica, il fondamento metodologico della forma specifica della (…) dialettica (hegeliana), della sua concezione specifica della storia come momento dell’evoluzione della dialettica stessa»; nello stesso tempo, però, poiché egli è consapevole in qualche misura del fatto che la distruzione dell’intelletto è la distruzione del principio stesso del materialismo, dell’oggettività materiale, Lukács si sforza di accreditare un atteggiamento non completamente negativo di Hegel verso l’intelletto, insistendo sulle divergenze fra Hegel e Schelling. «Il disprezzo di principio – scrive infatti Lukács – per le “comuni” categorie dell’intelletto, che non avrebbero alcun rapporto con l’assoluto, è il fondamento metodologico del disprezzo di Schelling per i filosofi dell’illuminismo. Mentre la ricerca di questi passaggi e mediazioni conduce Hegel a scorgere nell’illuminismo un antecedente storico-sistematico della propria dialettica. Così Schelling è spinto, dal formalismo della costruzione filosofica, sempre di più in una sorta di astoricismo; mentre Hegel sviluppa, parallelamente all’elaborazione dei passaggi metodologici della sua filosofia, una comprensione sempre più profonda per i problemi della storia». Senonché, come risulta anche sia pure implicitamente, dall’esposizione di Lukács (egli riconosce infatti, come si è visto, che in Hegel le determinazioni dell’intelletto possiedono una dialettica interna – la dialettica del finito, il suo autodistruggersi e sorpassarsi! – che conduce necessariamente al di là di esse, all’assoluto), l’accoglimento è solo apparente o «formale». Hegel – aveva scritto Feuerbach nel saggio Per la critica della filosofia hegeliana, pur citato da Lukács – ha sì notato in Schelling la mancanza dell’intelletto o del principio formale (dato che l’uno e l’altro sono per lui la stessa cosa), ed elevando la forma ad elemento essenziale ha effettivamente dato una determinazione dell’assoluto diversa da quella di Schelling; tuttavia la forma ha avuto di nuovo un significato meramente formale, e l’intelletto di nuovo un significato meramente negativo. Lukács tende a sottovalutare questo accoglimento puramente formale e negativo dell’intelletto in Hegel: e ciò perché, da un lato, egli sottoscrive sostanzialmente tutta la critica hegeliana dell’intelletto, e dall’altro lato vorrebbe in qualche modo salvarne l’istanza.

Se ci siamo soffermati sull’accettazione lukacsiana della critica idealistica dell’intelletto, è perché essa ha, a nostro avviso, serie conseguenze anche sull’impostazione metodologica generale del problema dell’irrazionalismo nella Distruzione della ragione. Nel suo libro, infatti, Lukács vuole mostrare che l’irrazionalismo moderno «è sorto ed ha operato in continua lotta col materialismo». Al tempo stesso, però, egli pone all’origine dell’irrazionalismo «le questioni che sorgono in conseguenza dei limiti e delle contraddizioni del pensiero semplicemente intellettivo». «L’imbattersi in questi limiti – dice Lukács – può diventare per il pensiero umano il punto di partenza di un ulteriore sviluppo del pensiero stesso, cioè della dialettica, se si vede in essi un problema da risolvere, e, come Hegel dice molto a proposito, “un cominciamento e un barlume della razionalità”, vale a dire di una più alta conoscenza. L’irrazionalismo invece – per riassumere qui provvisoriamente cose che si tratta di esporre in seguito in modo concreto e particolareggiato – si ferma proprio a questo punto, rende assoluto il problema, irrigidisce i limiti della conoscenza intellettiva facendone i limiti della conoscenza in generale, anzi falsa il problema, reso così insolubile, in una risposta “sovranazionale”. Equiparare intelletto e conoscenza, i limiti dell’intelletto coi limiti della conoscenza in generale, far intervenire la “sovrarazionalità” (dell’intuizione, ecc.), dove è possibile e necessario procedere oltre verso una conoscenza razionale: ecco le caratteristiche più generali dell’irrazionalismo filosofico».

Come si vede, Lukács pone alla radice dell’irrazionalismo il modo di atteggiarsi verso lo intelletto. Se si identifica, egli dice, l’intelletto con la conoscenza, e dunque si pongono dei limiti alla conoscenza che sono i limiti stessi dell’intelletto, allora diventa inevitabile il ricorso alla «intuizione», alla conoscenza «sovrarazionale», ecc. Quello che occorre, invece, è, secondo Lukács, il «passaggio», di tipo hegeliano, dell’intelletto alla ragione, e dunque occorre riconoscere la dialetticità delle determinazioni dell’intelletto, il loro dirompersi e trapassare in altro, ecc. Hegel, egli dice, ha fornito la vera soluzione, con «la sua dialettica di fenomeno ed essenza, esistenza e legge, e anzitutto la sua dialettica dei concetti intellettivi, delle determinazioni della riflessione, del passaggio dell’intelletto alla ragione».

Ora, a nostro avviso, questa impostazione à la Hegel del problema dell’irrazionalismo, ha, da un lato, una serie di riflessi negativi su tutto l’impianto dell’analisi in La distruzione della ragione, e, dall’altro lato, lascia completamente disarmati di fronte ad alcune manifestazioni dell’irrazionalismo stesso.

Per quanto riguarda il primo aspetto, non possiamo, ovviamente, svolgere qui un esame analitico: ci limiteremo ad un esempio, e cioè alla lettura tipicamente hegeliana che Lukács fa dell’opera filosofica di Schelling.

Quest’ultima, infatti, viene divisa in due periodi: il primo periodo (che va fino al 1803) è quello del «sincero pensiero giovanile» di Schelling, e in esso sarebbero presenti tendenze relativamente progressive, nella misura in cui Schelling cerca «un superamento dialettico delle contraddizioni che si manifestano nella realtà oggettiva immediatamente data, una via alla conoscenza dell’essenza delle cose in sé, e quindi un superamento gnoseologico della fissazione e dell’irrigidimento di questa contraddittorietà fenomenica ad opera delle categorie del semplice intelletto, delle categorie del pensiero metafisico dell’illuminismo, ma anche di Kant e di Fichte». Dopo il 1803 inizierebbe il secondo periodo dell’attività filosofica di Schelling, «quando venne meno l’effetto diretto del contatto con Goethe e con Hegel»: a questo punto si manifesterebbe una svolta decisiva nel pensiero schellinghiano, caratterizzata dal fatto che non più l’arte, ma la religione diventa l’organo della filosofia. Prevale così definitivamente in Schelling una intuizione intellettuale di tipo irrazionalistico; fra intelletto e ragione non c’è contraddittorietà dialettica come in Hegel, ma solo opposizione rigida: di qui un «salto» nell’intuizione intellettuale, ecc. A proposito di questa impostazione lukacsiana dei rapporti fra Hegel e Schelling, ci sembra che si debba sottoscrivere interamente quanto uno studioso italiano, Pietro Rossi, ebbe a osservare a suo tempo, e cioè che è difficile accettare questa contrapposizione, almeno nella forma in cui Lukács la presenta. «Che Hegel abbia aspramente polemizzato contro i “romantici” e contro Schelling, è certo vero; ma ciò non toglie che la concezione hegeliana del processo storico sia sorta sul terreno stesso della visione romantica della storia, e sia a questa legata da una comunanza di presupposti fondamentali che rendono possibile il riferimento della totalità dei fenomeni storici all’opera di autorealizzazione di un principio assoluto – nel quale è indicato il soggetto del processo storico. Che questo principio in un caso sia un principio irrazionale (e che quindi il suo manifestarsi possa venir colto solo intuitivamente, mediante il ricorso a un organo extrarazionale), oppure sia la ragione immanente alla storia (che si sviluppa dialetticamente, e che può venir riconosciuta nel suo procedere attraverso il ricorso alla dialettica), è una distinzione di orientamenti culturali e filosofici interna alla cultura romantica. La scoperta della dialettica non è il superamento del Romanticismo, ma è la conclusione di una direzione di sviluppo della speculazione romantica…» (cfr. Pietro Rossi, «La distruzione della ragione e la crisi della filosofia tedesca», in Rivista di filosofia, 1956, pp. 345 ss.).

Ma, come abbiamo detto, oltre a questi inconvenienti, impliciti nella impostazione hegeliana del problema dello irrazionalismo, e prescindendo anche dal rapporto troppo immediato e meccanico che viene spesso istituito nella Distruzione della ragione fra sviluppo della filosofia tedesca e sviluppo politico-sociale della Germania, con tutte le forzature che questo schema comporta nell’analisi dei singoli pensatori – a parte tutto ciò, dicevamo, c’è ben altro da osservare. E cioè che una critica dell’irrazionalismo fondata su una critica, di tipo hegeliano, dell’intelletto, rischia di lasciarci disarmati di fronte a varie manifestazioni dell’irrazionalismo stesso. Facciamo un esempio, tratto da Ragione e rivoluzione di Marcuse. Nelle prime tre sezioni della Fenomenologia dello spirito di Hegel, Marcuse vede «una critica al positivismo», cioè ad ogni filosofia basata sull’esperienza del «senso comune», e anche maggiormente, egli dice, alla «reificazione». Ricordiamo al lettore che le prime tre sezioni della Fenomenologia richiamate da Marcuse, contengono tra l’altro quella dialettica della «certezza sensibile», mediante la quale questa certezza viene distrutta nella sua singolarità e mostra l’universale come sua verità. Alla domanda: che cosa è l’ora?, rispondiamo per es., dice Hegel, che l’ora è la notte. Se ora, a mezzogiorno, ritorniamo a quella verità, dovremo dire che essa sa ormai di stantìo. «Quell’ora che è la notte viene conservato, ossia viene trattato come ciò per cui è stato spacciato: come un essente; ma esso si dimostra piuttosto come un non-essente. Senza dubbio l’ora si conserva, ma come tale ora che non è notte; similmente, rispetto al giorno che adesso è, l’ora si conserva come tale che neppure è giorno, o si conserva come un negativo in generale». L’ora, che poteva sembrare un immediato, è invece un mediato: «è indifferente verso tutto ciò che gli gioca da presso». Un alcunché, però, di così semplice e che è per via di negazione, che è né questo né quello, un non questo, noi lo chiamiamo un universale. «L’universale – conclude Hegel – è dunque in effetti il vero della certezza sensibile».

Ora, questa distruzione hegeliana dell’empirico e del finito, questo inizio di liberazione dall’oggettività mediante una scepsi negativa, sono interpretati da Marcuse in questo modo: «Hegel dimostra – egli dice – che l’uomo può conoscere la verità solo se supera il suo mondo “reificato”»! La reificazione, dunque, è l’oggettività materiale, il feticcio è la cosa, l’oggetto naturale. L’alienazione non è data dall’opposizione fra lavoro salariato e capitale, e dalla scissione fra il lavoratore e le condizioni oggettive del suo lavoro – che non gli appartengono, e che gli si contrappongono estranee e nemiche – bensì è quella morta oggettività naturale che è esterna alla coscienza dell’uomo. E nella misura in cui il senso comune e la scienza assumono quell’oggettività nella sua esteriorità, per farne oggetto di indagine, essi costituiscono per Marcuse l’espressione per eccellenza dell’alienazione.

Non c’è dubbio, a nostro avviso, che alla base di queste posizioni di Marcuse c’è una concezione, di tipo hegeliano, del finito e del sensibile in genere: dunque c’è una critica, di tipo hegeliano, dell’intelletto. Quella stessa critica che Lukács ha posto a fondamento della sua concezione del fenomeno dell’irrazionalismo nella Distruzione della ragione. La nostra convinzione è che, in questo modo, una critica reale dell’irrazionalismo diventa assai problematica, anzi impossibile, e che l’impostazione logico-metodologica lukacsiana, se ragionata coerentemente fino in fondo, porta a colludere con quelle moderne forme di irrazionalismo che attribuiscono l’alienazione dell’uomo contemporaneo alla tecnica e all’organizzazione industriale del mondo moderno.

Per questo, nonostante la vastità del disegno e la ricchezza del materiale storico e filosofico che il lettore può trovare nella Distruzione della ragione, noi siamo convinti che un’analisi e una storia dell’irrazionalismo filosofico siano ancora tutte da scrivere.

Lukács fra Marx e marxismo

17 martedì Nov 2015

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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di Tom Rockmore

da Karl Marx. Rivisitazionie e prospettive, Mimesis, Milano 2005.

Se Marx deve sopravvivere come fonte di ineguagliata penetrazione della natura del mondo moderno, bisogna recuperarlo. Questo mio contributo comincerà con l’esame di alcune difficoltà che si incontrano quando si tenta di recuperare Marx, la prima delle quali è costituita dalla necessità di liberare Marx del marxismo.

Marx è stato sempre conosciuto e studiato attraverso il marxismo, quindi in una maniera che deforma profondamente il suo pensiero filosofico. Se si elimina il “filtro” marxista, si scopre un pensatore alquanto diverso da quello cui siamo stati abituati, più interessante dal punto di vista filosofico e cioè l’allievo più importante di Hegel, un esponente a pieno titolo dell’idealismo tedesco, che più di chiunque altro coglie la natura del mondo industriale moderno.

Max e il marxismo

Il marxismo nasce da Engels, il primo marxista, che rivendica un legame privilegiato con Marx. Per varie ragioni, il marxismo deriva direttamente da Engels ma solo dire indirettamente da Marx. In virtù del lungo periodo di collaborazione tra Marx ed Engels, sembrò normale fare riferimento ad Engels per presentare la loro supposta concezione comune, che da parte sua lo stesso Engels rivendicò più volte.

Quest’uso non era del tutto immotivato, dato che gli scritti di Engels erano diffusi ovunque, mentre molti scritti di Marx erano per lo più inaccessibili, sicché parve più agevole fare riferimento ad Engels. Il fatto che molti degli scritti più importanti di Marx, fra cui i Manoscritti economico-filosofici del 1844, L’ideologia tedesca e i Grundrisse, siano stati pubblicati postumi comportò che il marxismo, di fatto, si fossi già interamente costituito allorché vennero pubblicati dei testi essenziali per la comprensione delle teorie di Marx. Del resto, la semplicità stilistica di Engels pareva una ragione di più per fare affidamento su di lui. I lettori di Engels raramente si trovano di fronte ad argomentazioni astruse, mentre Marx, pensatore notoriamente complesso, usava il terribile stile accademico dei professori tedeschi1. A ciò si aggiunge il ruolo di Engels editore e amministratore del lascito letterario di Marx, un ruolo che gli consentì di redigere per la pubblicazione il II e il III volume del Capitale, di apportare cambiamenti nella quarta edizione del primo volume in base alle presunte intenzioni di Max, di modificarne il testo per la traduzione inglese e così via2.

Marx morì nel 1883 quando non era ancora per nulla chiaro quale direzione avrebbe preso il movimento che si ispirava alle sue teorie. Dodici anni dopo, nel 1895, quando Engels amori, stava già prendendo forma il movimento politico che avrebbe portato alla rivoluzione russa e il gruppo di uomini che preparava la rivoluzione era sicuramente più incline a far politica che a condurre uno studio accurato delle opere di Marx. Non sorprende quindi che Lenin, che orientò in modo decisivo il marxismo nel periodo bolscevico, tenesse presente soprattutto Engels, e non Marx, fra i suoi scritti autorevoli3. Nella maggior parte dei casi, i marxisti sovietici, compresi politici come Stalin e esponenti della filosofia “ufficiale” sovietica come T. I. Oizerman4, svilupparono ed elaborano, senza tuttavia deviare mai da essa, la linea marxista ufficiale basata sull’interpretazione e l’adattamento leninano di Engels alla situazione russa.

Se la questione dell’origine del marxismo in Engels è rilevante, ciò dipende dal fatto che le differenze tra Marx e Engels sono profonde e, insieme, bene individuabili5. Queste differenze riguardano anche il loro rispettivo approccio alla filosofia, che Marx, il quale aveva conseguito il dottorato, aveva studiato approfonditamente, mentre Engels era, nel migliore dei casi, un dilettante dotato ma senza studi regolari. Perciò Marx fu incomparabilmente più sensibile alle sfumature filosofiche, qualità, questa, che mancò ad Engels.

Un’ulteriore differenza fondamentale è costituita dalla conoscenza di Hegel, le cui opere Marx, come egli stesso attesta, lesse da cima a fondo quando non era ancora neppure ventenne; non pare invece che Engels, che pure scrisse su Hegel, le padroneggiasse. E poi c’è la cosiddetta teoria della conoscenza come rispecchiamento (Widerspiegelungtheorie), introdotta da Engels e adottata dal marxismo ufficiale, che è del tutto assente negli scritti di Marx e che, in effetti, è incompatibile con le sue idee intorno alla conoscenza. Infine c’è la questione delle loro rispettive posizioni filosofiche. In proposito basterà dire che Marx resta un hegeliano e quindi si mantiene all’interno dell’idealismo tedesco inteso in senso lato, mentre Engels sostiene una forma di anti-idealismo molto prossima al positivismo. Queste e le altre differenze che potrebbero essere menzionate creano una situazione insostenibile: ogni marxista che conosca bene Marx si trova nella posizione schizofrenica di doversi riconoscere in due teorie incompatibili. Le teorie di Marx, come quelle di Hegel nei cui riguardi egli ha un forte debito, sono teorie storiche; le teorie di Engels sono molto distanti da quelli di Hegel – che non ha mai conosciuto bene e di cui diffidava – e profondamente antistoriche. Provocatoriamente, ma senza discostarmi dal vero, dico che non è possibile dichiarare di seguire Marx, che è soprattutto un filosofo idealista tedesco – una tesi, questa, che certamente esige una motivazione più ampia di quella che posso dare in questa occasione – e, al tempo stesso, dirsi seguaci anche di Engels, che è un anti-idealista, con chiare ed evidenti inclinazioni positiviste.

Lukács filosofo marxista

Credo che l’approccio filosoficamente più interessante a Max sia quello che privilegia il suo complesso rapporto con Hegel e, dal momento che l’interpretazione marxista del rapporto di Marx con Hegel culmina in Lukács, ogni tentativo di recuperare Marx dovrà evidenziare i limiti della lettura lukacsiana del rapporto di Max con Hegel.

All’inizio del nuovo secolo due cose appaiono evidenti: da un lato, tra tutti gli scrittori di talento Lukács si distingue come il più importante filosofo marxista. Nella vita lunga del marxismo “ufficiale” ci sono stati scrittori marxisti molto interessanti, in Occidente autori come Kosík, il primo Kołakowski, Schaff, Petrović, Kojève, Althusser, l’ultimo Sartre, Gramsci e così via. Per ovvie ragioni politiche Engels, Lenin, Stalin, Mao e altri furono abitualmente ma erroneamente definito i filosofi di rango mondiale. Gli abusi connessi a quest’uso non soltanto impoveriscono immaginazione, ma rendono anche difficile prendere sul serio il marxismo come movimento attuale. P. es., nonostante i recenti tentativi di riabilitarlo come filosofo6, Lenin non ha ovviamente alcuna credibilità filosofica se lo si paragona ad un Lukács. Per secoli, sin dall’antichità greca, la mente filosofica enciclopedica per antonomasia è stata Aristotele, per «il maestro di color che sanno». Ed Hegel è stato giustamente detto il moderno Aristotele. Come Hegel, anche se ad un livello inferiore, Lukács è stato uno di quei rari uomini capaci di cultura enciclopedica. Le sue competenze specialistiche in diversi campi del sapere lo resero comunque più interessante di molti in possesso di credenziali solamente o principalmente ideologiche. I suoi testi testimoniano, infatti, le straordinarie capacità intellettuali dell’autore.

Dall’altro lato, non si dovrebbe mai perdere di vista che, quando si convertì al marxismo nel 1918, Lukács vi rimase estremamente fedele, fino al punto di ripudiare ben presto Storia e coscienza di classe (1923)7 – il libro più importante della sua immensa bibliografia8 – quando esso sembrò in conflitto con la dottrina marxista che allora passava per ortodossa. I suoi scritti letterari, politici e filosofici sono concentrati sulle analisi della relazione di Marx con la tradizione filosofica non marxista, segnatamente con la filosofia classica tedesca e soprattutto con Hegel.

Quest’opera straordinaria soprattutto il suo lungo e complesso saggio centrale – il giustamente celebrato capitolo La reificazione e la coscienza del proletariato attorno al quale ruota l’intero discorso – è tipico dell’approccio di Lukács a Marx, al marxismo ed alla filosofia classica tedesca; al tempo stesso, è una pietra miliare fra i suoi scritti di filosofia che in seguito non riuscì ad eguagliare. Qui, come in altre opere, l’ambivalenza di Lukács nei confronti di Engels, il primo marxista, è la chiave del suo marxismo e dunque della sua visione della filosofia classica tedesca, della sua interpretazione rapporto di Marx con essa e della sua lettura di Max.

Questo saggio è importante perché contiene una critica della posizione engelsiana che, nel clima dell’ortodossia marxista, risultò essere assai poco ortodossa ma senz’altro utile. In seguito Lukács la ritrattò, per esempio nell’Ontologia dell’essere sociale, il suo ultimo studio incompiuto sull’ontologia sociale9. Ma persino in Storia e coscienza di classe la sua interpretazione della filosofia classica tedesca, e dunque anche di Marx, è indebolita dal suo atteggiamento ambivalente nei confronti di Engels e, di conseguenza, del marxismo. Pur criticando a buon diritto interpretazione superficiale di Kant data da questi, egli sbaglia quando basa la propria lettura di Marx ed del milieu filosofico in cui si formò sulla non meno superficiale interpretazione engelsiana di Hegel (e della filosofia classica tedesca in generale).

“Reificazione e coscienza di classe del proletariato”

Lo sforzo aporetico di Lukács di mantenersi fedele tanto a Marx quanto al marxismo dette luogo ad una difficoltà insormontabile che per tutta la lunga fase marxista della sua ancor più lunga carriera di intellettuale ne indebolì costantemente la posizione teorica, minandone le fondamenta ed infine vanificandone gli sforzi. Come molti altri prima e dopo di lui, egli non fu in grado di servire due padroni. Se i suoi scritti ora ci sembrano datati, non è tanto perché egli fu un brillante ed assai colto teorico marxista, quanto perché egli, attento e competente conoscitore di Marx, tentò, senza riuscirvi, di mantenersi fedele sia al Moro sia il marxismo. La difficoltà non risiedeva negli sforzi di Lukács, ma dipendeva piuttosto dalla natura stessa del suo programma, che, come la quadratura del cerchio, era palesemente irrealizzabile.

Questa difficoltà è evidente in Storia e coscienza di classe, soprattutto nel suo saggio centrale. Il marxismo ha sempre voluto essere un’alternativa praticabile alla filosofia tradizionale ed ortodossa. Il marxismo, che pretende di distinguersi non soltanto nel grado ma anche nel genere dalla filosofia ordinaria o borghese, pretende altresì di “risolvere” o di “risolvere in modo nuovo” i problemi filosofici che non possono essere “risolti” o di “risolti in modo nuovo” dai filosofi non marxisti.

È ovviamente più facile screditare determinate concezione dicendo che esse rappresentano il cosiddetto pensiero filosofico borghese, piuttosto che fare i conti con esse; è più facile trovare ragioni per non discutere invece che discutere teorie avversarie. Un certo numero di scrittori marxisti, in pratica quelli non informati sulle concezioni avversarie, preferiscono considerarle, in linea di principio, errate in quanto appartenenti a chi le professa. Questa strategia, che non è stata inventata dal marxismo, risale tutta ai tempi biblici; per esempio all’idea di San Paolo che lo spirito del Cristianesimo possa essere compreso soltanto da chi lo accetta, creando così una cerchia chiusa di interpreti autorizzati che esclude tutti gli altri. Invece Lukács si distingue per la profondità del suo approccio e per il suo desiderio di confrontarsi con i cosiddetti filosofi borghesi.

In Storia e coscienza di classe, lo scopo principale del saggio menzionato è duplice: mostrare che il problema della filosofia classica tedesca, cioè del movimento che inizia con Kant e che riflette sulla conoscenza della cosa in sé, non è risolto da quella filosofia ma lo è da Marx e dal marxismo. Poiché ho discusso ampiamente altrove questo punto, non c’è bisogno che ritorni a farlo10. Basterà dire che rispetto ad altri scrittori, marxisti e non marxisti, l’analisi di Lukács si distingue per una conoscenza eccezionale – veramente enciclopedia – di tutti i più importanti autori della filosofia classica tedesca e per la sua capacità argomentativa, che gli consente di non limitarsi ad affermare semplicemente le sue convinzioni.

Il saggio di Lukács è ricco di idee e a tratti brillante. Due punti fondamentali sono la nozione di totalità, che Lukács riprende da Hegel e l’efficace interpretazione del concetto di reificazione (Verdinglichung) in Marx. L’attenzione alla totalità è importante specialmente in quanto dà rilievo all’approccio olistico di Hegel al problema della conoscenza. Non si tratta soltanto di un’importante novità rispetto a Kant, ma anche di un argomento all’ordine del giorno nella discussione corrente11. La celebre esposizione della reificazione si basa sulla confusione fra le nozioni di oggettivazione e alienazione, che Lukács corresse non appena ebbe la possibilità di leggere i manoscritti marxiani del 1844. Così facendo egli richiamò l’attenzione sulla profonde base filosofica della critica dell’economia politica di Marx, dando vita, insieme a Karl Korsch, al cosiddetto marxismo hegeliano, che si è rilevato fecondo per la comprensione di Marx.

Nonostante sia molto acuto, ove lo si consideri complessivamente, il ragionamento esposto nel saggio centrale ed in altri testi mi sembra errato per due ragioni fondamentali. Da un lato, Lukács non è in grado di mostrare che la supposta inadeguatezza della filosofia borghese è dovuta al suo “carattere borghese”12 né che questa filosofia è incapace di “risolvere” o di “risolvere in modo nuovo” la questione della cosa in sé. Dall’altro, egli non riesce a dimostrare che Marx e il marxismo “risolvono” o “risolvono in modo nuovo” questo problema né che la loro pretesa capacità di farlo dipenda dalla loro collocazione sociale, che è “non-borghese” o, forse, “proprietaria”.

Il ragionamento di Lukács

Ho già osservato altrove13 che la principale difficoltà del ragionamento di Lukács dipende dal suo rapporto ambivalente con Engels.

Nel Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca e in altri scritti, Engels sostiene che coni Hegel ha termine la filosofia, che Hegel ci indica la via d’uscita dalla filosofia e che la concezione marxista della storia espelle la filosofia dal regno della storia. Con alcune varianti, e nonostante la sua critica della carente lettura engelsiana di Kant, Lukács fa sua questa impostazione relativa al rapporto di Marx con la filosofia classica tedesca in un brillante ma inutile tentativo di svolgere nei particolari quanto Engels si era limitato ad affermare. Lukács non va molto oltre il modo in cui Engels concepisce il marxismo ovvero come la scienza che supera l’idealismo, che, in Hegel, aveva raggiunto il suo culmine e la sua fine e che, pertanto, supera anche la filosofia, risolvendone così i problemi. Dunque Lukács, nel saggio sulla reificazione, non si discosta molto dall’impostazione di Engels14.

La sortita più avanzata del saggio di Lukács è costituita dalla complessa triplice asserzione che si può sintetizzare come segue: in primo luogo, il tentativo di Kant di conoscere la cosa in sé fallisce; in secondo luogo, questo problema attraversa tutta la filosofia tedesca fino a Hegel che lo affronta, senza però riuscire a risolverlo; in terzo luogo, questo problema viene risolto alla fine da Marx. Credo che tutte e tre le parti della complessa argomentazione di Lukács siano errate.

Esaminiamo queste asserzioni. L’intento di Kant non è, chiaramente, quello di conoscere la cosa in sé, che è pensabile ma, dal momento che non può essere data nell’esperienza, non è conoscibile. Il problema di Kant, come egli stesso ribadisce nella famosa lettera a Herz del 21 luglio del 1772, è piuttosto quello di comprendere la relazione della rappresentazione con l’oggetto (Vorstellung zum Gegenstand)15. La rappresentazione di qualcosa è molto diversa della sua conoscenza. La rappresentazione di un oggetto inconoscibile, situato al di là di ogni possibile esperienza, non è identica alla conoscenza di quell’oggetto. È possibile rappresentare, in linea di principio, ciò che esiste fuori dell’esperienza; ma non è possibile conoscere in che modo le rappresentazioni stiano in rapporto con ciò che rappresentano, se ciò che è rappresentato non può essere dato nell’esperienza. Quindi è sbagliato sostenere che Kant fallisce nel suo tentativo di conoscere la cosa in sé.

L’affermazione che il problema della cosa in sé attraversi la filosofia classica tedesca è soltanto parzialmente corretta. La cosa in sé è invocata nel contesto del tentativo di Kant di cogliere le condizioni della possibilità di esperienza e conoscenza degli oggetti a partire dal presupposto che la conoscenza inizi con l’esperienza, ma non si limiti ad essa. La soluzione di Kant sta nella posizione che spesso viene definita “rivoluzione copernicana” in filosofia, benché Kant non abbia usato questa espressione16. La svolta copernicana di Kant consiste nella tesi “costruttivista” per la quale possiamo conoscere soltanto ciò che in un qualche senso “poniamo”, “produciamo” o “facciamo”17. La Critica della ragion pura e poi gli scritti di personalità come Hegel, Marx e Dilthey furono dedicati all’approfondimento ed allo sviluppo di questa concezione.

Lukács, che correttamente mette in evidenza l’influenza della rivoluzione copernicana di Kant nella filosofìa posteriore, eccede quando afferma che tutta la filosofia moderna sta sotto il segno di questa questione. La forma anti-cartesiana del costruttivismo di Vico, Kant, Hegel, Marx ed altri ancora è contrastata dall’anti-costruttivismo cartesiano, ossia, semplificando, dall’idea che la conoscenza consista in una presa cognitiva del mondo come è in sé, indipendente dalla mente, un’idea che oggi ha continuatori non solo in Davidson, McDowell, Putnam e Quine ma anche in Husserl, Heidegger e Sartre.

Il copernicanismo di Kant ha influenzato in modo decisivo la filosofia tedesca posteriore18. Ma i filosofi tedeschi dopo Kant voltano le spalle alla cosa in sé concepita alla maniera di Kant. Tipica è la posizione di Jacobi, che, in uno scritto su Hume, sostiene, come è ben noto, che senza la cosa in sé egli non sarebbe entrato nella filosofia critica di Kant, ma che la cosa in sé non gli consentì di restarci.

Lukács ha ragione nel considerare enorme l’influenza di Kant sulla filosofia posteriore, ma sbaglia riguardo alla dottrina della cosa in sé. Kant non fece mai un tentativo non riuscito di conoscere la cosa in sé, né dopo Kant lo fecero altri. Diversamente da Kant, la filosofia classica tedesca non s’è occupala della conoscenza della cosa in sé, ma, piuttosto, del problema della conoscenza in generale. A Marx, questo problema non interessa e tanto meno lo “risolve” nella sua analisi delle merci, anche se ci aiuta a capire un problema più interessarne, forse più difficile, relativo alla natura del mondo moderno nato in seguito alla Rivoluzione Francese,

Con l’analisi delle merci Marx ci dà una visione profonda e valida della struttura economica della moderna società industriale. Se la concezione di Marx è la chiave per comprendere la società moderna, ciò non vuol dire che egli risolva il problema centrale della filosofia classica tedesca o, addirittura, il problema di Kant. E sarebbe un errore capitale equiparare la cosa in sé ad una merce19. Infatti la cosa in sé si riferisce alla realtà indipendente dalla mente, che possiamo pensare ma mai conoscere; la merce si riferisce invece all’elemento chiave della moderna società industriale, che,come Marx dimostra, non soltanto può essere pensata, ma può anche essere conosciuta.

Marx hegeliano

Il rapporto ambivalente di Lukács con Engels, cui egli muove alcune obiezioni su questioni particolari, ma col quale è e sarà d’accordo sui principi per tutta la sua lunga fase marxista, e dunque il suo rapporto ambivalente col marxismo è una costante delle opere composte nei lunghi anni in cui fu marxista. Se in Storia e coscienza di classe criticò Engels, in seguito divenne meno critico e nell’Ontologia dell’essere sociale revocò molte delle sue obiezioni.

Si potrebbero dire molte cose sul suo rapporto problematico col marxismo. Se egli non avesse ammesso la prevalenza degli imperativi politici sull’analisi filosofica e fosse stato meno ortodosso, avrebbe ovviamente potuto sviluppare assai meglio le sue idee. E tuttavia non ha senso porsi il problema di ciò che avrebbe potuto essere. Basterà esaminare quel che egli è stato in grado di fare.

Per quanto riguarda Marx, Lukács indica e al tempo stesso ostacola una prospettiva importante. Heidegger amava dire che ciò che svela nasconde. Forse questo principio non vale in tutti i casi, ma si applica bene alla lettura lukacsiana di Marx. La proposta di leggere Marx alla luce di Hegel, fatta da Lukács quando erano ancora inediti i Manoscritti economico-filosofici ed i Grundrisse, fu un’idea assiai importante che aiutò il suoi lettori a cogliere la grande influenza di Hegel sulla formazione delle teoria di Marx. Ciononostante quella proposta occultò, al tempo stesso, l’importanza di Hegel per Marx, poiché, seguendo Engels ed il marxismo dopo Engels, essa sostiene che Marx è estraneo e avverso alla filosofia classica tedesca. In questo modo, l’approccio di Lukács indica ed insieme impedisce decisamente una corretta considerazione dell’influenza che Hegel ebbe su Marx, non consentendo pertanto che Marx sia considerato un filosofo tedesco.

In effetti, il rapporto di Marx con Hegel, e dunque con la filosofia, è diverso dal modo in cui lo ha rappresentato il marxismo ed è filosoficamente più interessante. La filosofia classica tedesca, che non si conclude con Hegel, ovviamente continua con Marx. Gli idealisti tedeschi post-kantiani sono separati da Kant dalla grande Rivoluzione Francese. Questa serie di eventi, che rivelarono che la realtà umana è fondamentalmente storica, provocò una svolta in direzione della storia nei tentativi idealisti post-kantiani di continuare e portare a compimento la rivoluzione copernicana di Kant in filosofia.

La principale differenza ira Kant e Hegel sta nell’attenzione che quest’ultimo presta alla storia. Hegel si differenzia da Kant nel suo modo decisamente storico di concepire la conoscenza, la filosofia e la società. Hegel scrisse dopo la Rivoluzione industriale e ne ebbe profonda consapevolezza. Nella sua Filosofia del diritto egli traccia i contorni di una concezione storicistica della moderna società industriale, includendo espressamente le sue basi economiche nella famosa trattazione del “sistema dei bisogni”20. Secondo Hegel, che in ciò segue gli economisti ortodossi come Adam Smith, gli uomini soddisfano i loro bisogni entro le strutture economiche della moderna società industrializzata.

A cominciare dal suoi primi testi filosofici del 1843 e, comunque, sia nella sua prima fase sia in quella più tarda, Marx è un critico di Hegel. Ciò non significa però che sia un anti-hegeliano, dal momento che la posizione di Hegel, che in questo è assimilabile a pochi altri grandi filosofi, è talmente ampia che il criticarne un aspetto è spesso affatto compatibile con un’adesione al suo pensiero visto nel suo complesso.

Le scissioni nella scuola hegeliana dopo la morte di Hegel nel 1831 provocarono una serie di interpretazioni erronee del suo pensiero che persistono ancora oggi. Come chiunque altro, e come Hegel stesso, anche Marx appartenne al suo tempo. Come altri giovani hegeliani, come Feuerbach, la critica marxiana di Hegel si rivolge contro un’interpretazione teologica, per lo più di destra, di posizioni che, come è ben noto, è difficile ritrovare nei testi hegeliani. Appunto col rifiutare ogni forma di interpretazione teologica della storia, insistendo sulla spiegazione storica in quanto fondata sull’agire degli uomini e delle donne, Marx respinge una diffusa deformazione di Hegel, mentre si mantiene nell’ambito generale del pensiero di Hegel. Egli critica Hegel ma non per questo abbandona la filosofia. Anzi egli fa proprie, sviluppa e trasforma una lunga serie di idee di Hegel, ivi compresa la concezione che gli uomini soddisfano i loro bisogni nel quadro della moderna società industriale, una concezione che Marx porrà alla base della propria critica dell’economia politica e della sua teoria della moderna società industriale.

Mettendo in evidenza l’hegelismo di Marx, Lukács anticipa una riconsiderazione di Marx fondamentalmente non-marxista. Egli non attuò una simile riconsiderazione, ma, dopo l’irreversibile declino del marxismo, egli è indispensabile per recuperare le teorie di Marx. Indiscutibilmente Lukács aveva tutti gli strumenti per elaborare un’interpretazione completa di Marx come hegeliano, alternativa all’interpretazione che vuole che Marx sia colui che abbia risolto i problemi lasciati insoluti da Hegel. Non credo che sia stato un caso che Lukács non ci abbia dato questa interpretazione. Egli non ce la ha data non perché non lo abbia voluto ma, piuttosto, a causa del suo marxismo.

L’apertura di Lukács al marxismo hegeliano avvenne nel contesto del fervore rivoluzionario che si ebbe immediatamente dopo la Prima Guerra Mondiale; esso corrispondeva alla situazione prevalente negli anni in cui Hegel pubblicò la Fenomenologia dello spirito, apparsa nel 1807, cioè subito dopo la Rivoluzione Francese. È ovvio che i tempi cambino. L’оsservazione tarda di Hegel, fatta negli anni della Restaurazione, che la situazione non pareva più matura per un radicale cambiamento sociale21 sembra adattarsi perfettamente al momento storico che viviamo. Il repentino declino del marxismo ufficiale significa che il capitalismo è ora e rimarrà nel prossimo futuro probabilmente l’unico sistema dominante nel mondo industrializzato. La particolare forma del marxismo rivoluzionario che ispirò Lukács ha perso la sua presa su di noi.

Lukács resta oggi importante non per il suo tentativo di sviluppare il marxismo ortodosso, che oggi appartiene al passato, ma per il suo contributo alla comprensione di Marx nel contesto della filosofia classiсa tedesca. Chiarisco in breve: i grandi filosofi non vengono compresi subito, ma soltanto dopo l’avvicendarsi di più generazioni, spesso molto tempo dopo la loro uscita di scena. Marx appartiene al ristretto gruppo dei più importanti pensatori moderni. Le sue teorie presero forma nel momento storico in cui il contesto intellettuale era dominato da Hegel. Se Marx è hegeliano, allora l’importanza, oggi, della scoperta di Lukács di un marxismo hegeliano e di un libro come Storia e coscienza di classe sta nel fatto che egli ci indica la direzione giusta per intendere Marx, ossia non in contrapposizione alle teorie di Hegel sullo stato moderno, ma secondo una linea di sviluppo nella continuità.

Hegel è un filosofo moderno, un nostro contemporaneo, il primo grande pensatore che abbia capito come e perché gli uomini e la realtà umana siano in tutto e per tutto storici. Ritengo che il lavoro di questo nuovo secolo consisterà in buona parte nel ripensare i problemi filosofici più importanti su una base storica.

Recentemente ci si è accalorati molto li proposito della modernità, senza però contribuire al chiarimento di questo concetto. L’analisi di Lyotard della cosiddetta condizione postmoderna ci dice in maniera caratteristica che la modernità è quell’età nella quale non sono più possibili le spiegazioni narrative (méta-récits)22. Dietro questa affermazione c’è un profondo scetticismo su quello che siamo in grado di conoscere e addirittura il dubbio antiscientifico che, al massimo, possiamo giungere a sapere di non sapere, il che equivale ad una ritirata al di qua delle posizioni del pitagorismo greco arcaico, che, agli inizi, insegnava che la realtà poteva esser colta mediante il numero. Io credo che l’inverso si avvicini di più al vero. Come Hegel già sapeva, gli uomini soddisfano i loro bisogni entro la matrice della moderna società industriale. La Rivoluzione Industriale e la crescita della componente economica hanno creato una situazione nuova e senza precedenti. Nell’analisi del capitalismo Marx applica, critica, approfondisce, modifica e completa le implicazioni dell’analisi di Hegel. In tal senso, Marx è e rimane hegeliano, il principale fra i numerosi allievi di Hegel e ancora, forse, il teorico più importante per la comprensione della natura del mondo moderno.

In virtù dell’ascesa del moderno capitalismo, la vita moderna stessa si rivolge alla sua componente economica. Il recente dibattito sulla cosiddetta globalizzazione non è altro che una tacita ammissione dell’estensione della moderna società industrializzata ai paesi sviluppati e a quelli sottosviluppati del mondo. Ovviamente le teorie di Marx presentano molte difficoltà, come la teoria del plusvalore, che dovrebbero essere riconosciute anche dai lettori che più apprezzano Marx. Ma le teorie di Marx sono ancora le migliori esistenti per comprendere la moderna società industrializzata, sono ancora la migliore spiegazione di ciò che noi siamo. Il marxismo ha ormai fatto il suo tempo e dovrebbe essere abbandonato, ma, finché vi sarà una società industriale avanzata, Marx è e sarà sempre un essenziale punto di riferimento.

1 Per una recente discussione di Engels non impacciata dall’ideologia marxista, cfr. Engels after Marx, ed. Manfred B. Steger and Terrell Carver, University Park, Pennsylvania State University Press 1999.

2 I mutamenti introdotti da Engels nella traduzione del Capitale, che egli curò, sono importanti e non sono mai stati corretti. Si possono fare numerosi esempi: nel I volume, capitolo XV, sezione 9, viene aggiunta una proposizione dalla quarta edizione tedesca, che fu pubblicata dopo la morte di Marx. Un altro esempio è costituito dalle pagine (circa 3) che furono aggiunte ad alcune, ma non a tutte le versioni della edizione inglese per uniformarla alla stessa quarta edizione tedesca. Cfr. K. Marx, Capital, vol. I, ed. F. Engels, trans. S. Moore and E. Aveling, New York, International Publishers 1975, pp. 584-587. Ancora un altro esempio è costituito dalla divisione in 33 capitoli, nella traduzione inglese, dei 25 capitoli dell’originale tedesco.

3 È noto che Lenin cia spesso Engels e solo raramente Marx. Cfr. in proposito Bertram D. Wolfe, Marxism: 100 years in the Life of a Doctrine, New York, Delta Books 1968.

4 Cfr. p.es. T.I. Oizerman, Naučno-filosofkoe mirovocrenie Marksizma, Moskva, Nauka 1989.

5 Per la discussione della differenza fra le idee filosofiche di Marx e quelle di Engels cfr. L. Kolakowski, Main Currents of Marxism, 3 voll., Oxford, Clarendon Press 1978, vol. I, pp. 399-421.

6 Cfr. Kein Anderson, Lenin, Hegel, and Western Marxism, Urbana, University od Illinois Press 1995.

7 Cfr. G. Lukács, History and Class Consciousness, trans. Rodeney Livingstone, Cambridge, MA, MIT Press, 1971 [trad. it. Storia e coscienza di classe, Milano, Sugarco 1991].

8 Cfr. F. H. Lapointe, Georg Lukács and His Critics: An International Bibliography with Annotations (1910-1982), Westport, CT, Greenwood Press 1983.

9 Cfr. G. Lukács, Zur Ontologie des gesellschaftlichen Seins, 2 volumi, Neuwied, Luchterhand, 1984, 1986 [tr. it. Ontologia dell’essere sociale, 2 voll., Roma, Editori Riuniti 1976-1981]

10 Sul punto cfr. T. Rockmore, Engels, Lukács, and Kant’s Thing-In-Itself, in Steger and Carver, Engels after Marx, cit., pp. 145-162.

11 Intendo ad es. il dibattito fra i pensatori analitici, come Quine e molti altri, sulle varietà dell’olismo epistemologico. Cfr. J. Fodor and E. LePore, Holism: A Shopper’s Guide, Cambridge, Blackwell 1992.

12 Il mito secondo il quale v’è una differenza decisiva fra il marxismo e la cosiddetta filosofia “borghese” è una delle illusioni fondanti della filosofia marxista. Cfr., p.es., K. Korsch, Marxism and Philosophy, trans. F. Haòòiday, London, New Left Books 1979.

13 Cfr. T. Rockmore, Irrationalism: Lukács and the Marxist View of Reason, Philadelphia, PA, Temple University Press 1992.

14 Per la ritrattazione posteriore di quell’errore, come anche per la valutazione retrospettiva del libro, si veda la Prefazione alla nuova edizione (1967) in Lukács, History and Class Consciousness cit. , pp. IX-XL.

15 Cfr. la lettera a Herz del 21 luglio 1772 in I. Kant, Philosophical Correspondence, 1759-1799, trans. A. Zweig. Chicago, IL, University of Chicago Press 1967. pp. 71 -76.

16 Si avvicina di più a questa espressione in una celebre nota a pie di pagina. Cfr. I. Kant, Critica detta ragion pura, Rorna-Bari, Laterali 1983, pp. 23s.

17 Il locus classicus per la enunciazione di questa tesi, che è l’idea centrale della filosofia critica, si troverà in op. cit., p. 19.

18 Cfr. la lettera di J. S. Beck a Kant del 20 giugno 1797, in Philosophical Correspondence cit. p. 229.

19 Cfr. Lukács, History and Class Consciousness, cit., p. 83. (tr. it. cit., 107 s.)

20 Cfr. G. W. K Hegel, Lineamenti della filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza detto Stato in compendio, a. c. di G. Marini, Roma-Bari, Laterza 19902, §§ 189-208, pp. 159-169.

21 “Per dire ancora una parola a proposito del dare insegnamenti su come dev’essere il mondo, ebbene, per tali insegnamenti, in ogni e caso la filosofia arriva sempre troppo tardi”. Cfr. Hegel, Lineamenti della filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello Stato in compendio, cit., p. 17.

22 Cfr. J-F. Lyotard, La Condition postmoderne, Paris, Editions de Minuit 1979.

La passione durevole per una filosofia dell’emancipazione.

13 sabato Dic 2014

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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di Costanzo Preve

da Una nuova storia alternativa della filosofia, petite plaisance, Pistoia 2013.

Note di analisi sull’ontologia dell’essere sociale di Lukács e proposta articolata di sua rifondazione categoriale critica

Nell’ultima parte della sua vita (1956-1971) il filosofo ungherese di lingua tedesca G. Lukács (1885-1971) si accinse ad un’impresa filosofica che per la sua serietà ed il suo livello qualitativo può essere paragonata senza esagerazione a quelle compiute da autentici geni del pensiero come Spinoza, Kant, Hegel e Marx. Prima scrisse una monumentale Estetica, che non deve essere confusa con un’opera specialistica sul giudizio estetico puro e semplice, ma che ha come oggetto la cosiddetta «missione defeticizzante dell’arte», rivolta a combattere quello che chiamava «l’ateismo permanente alla manipolazione ideologica» (su questo punto Lukács ha incontrato felicemente l’Antonio Gramsci della rivalutazione del cosiddetto «senso comune» come matrice della filosofia). Terminata l’Estetica, Lukács si ripropose di scrivere un’Etica. E, tuttavia, egli si rese immediatamente conto del fatto che un’Etica scritta senza prima accertare le categorie dell’essere sociale non può che sboccare inesorabilmente in un’etica dell’intenzione di tipo kantiano, o in un’etica della responsabilità di tipo weberiano, o in una interminabile, sfiancante ed inutile “disputa sui valori”, oppure in un’interminabile casistica di tipo gesuitico su cosa si dovrebbe fare in situazioni-limite, scelte appositamente per evitare di prendere in considerazione le normali situazioni della vita quotidiana (del tipo: è possibile cavare gli occhi al torturato se in questo modo gli si può far confessare dove ha messo una bomba che ucciderebbe centomila persone? È lecito tagliare la gola alla propria madre se questo comporta la salvezza di dieci persone?). Lukács si rese presto conto che è del tutto inutile scrivere un’Etica, o se si vuole una Morale, se prima non ci si è chiariti bene la natura prima dell’essere sociale in generale (in quanto è appunto categorialmente distinto dall’essere naturale oggetto delle scienze moderne di tipo galileiano, newtoniano ed einsteiniano), e poi dell’essere sociale specifico (in quanto appunto è capitalistico, e non primitivo, antico-orientale, asiatico, schiavistico o feudale-signorile).

Fra il 1964 ed il 1971, infatti, Lukács si accinse a scrivere un’ontologia dell’essere sociale. Non mi riferisco affatto all’opera in due volumi e tre tomi conosciuta con questo nome. Mi riferisco all’insieme delle sue opere del periodo 1964-1971, dalla vera e propria Ontologia dell’Essere Sociale, ai Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, dall’Uomo e la Democrazia all’autobiografia in forma di dialogo intitolata Pensiero Vissuto, dalle conversazioni tenute con Kofler, Holz e Abendroth, dalla corrispondenza con Hoffmann alle numerosissime interviste rilasciate a singoli, riviste e giornali. Si tratta infatti di un complesso unitario di posizioni contenute in volumi diversi e diseguali per esposizione e livello di astrazione.

Devo una spiegazione al lettore. Lukács ha scritto questo complesso monumentale fra i settantanove e gli ottantasette anni di età, quando ormai la fine è imminente e si tratta di stilare un bilancio complessivo dell’attività filosofica di un’intera vita. In quel periodo io invece andavo dai ventuno ai ventotto anni, e mi trovavo in una congiuntura politica ed ideale ben diversa. Fra me e Lukács si instaurava di fatto una vera e propria «non-contemporaneità» (Ungleichzeitigkeit), per usare il termine proposto da Ernst Bloch. Io sono vissuto allora nel contesto delle rifondazioni filosofiche e superscientifiche del “marxismo” alla Della Volpe ed alla Althusser, mentre Lukács era stato allievo di giganti come Georg Simmel e Max Weber, e contemporaneo di pensatori epocali come Herbert Marcuse, Adorno, Sartre, Heidegger, Bloch, ecc. Inoltre, aveva dovuto fare i conti con Stalin e lo stalinismo, e con il connesso dilemma tragico se accettarlo, sia pure interiormente non condividendolo, oppure rompere con esso, ed in questo modo uscire anche dal movimento operaio organizzato (come fece ad esempio un altro grande pensatore esemplare dell’epoca come il tedesco Karl Korsch).

Dilemmi tragici, mentre i dilemmi del mio tempo erano soltanto comici, se cioè strisciare davanti ad un barone universitario per riuscire a sostituirlo dopo avergli portato la borsa per vent’anni, inserirsi in cordate partitiche introiettando servilmente i parametri ideologici della cultura di schieramento, oppure scegliere una sorta di solitudine metodologica che però non implicava affatto pericoli di morte, incarcerazione o licenziamento ma soltanto ridicole difficoltà di pubblicazione e di recensione. Ritengo di aver capito abbastanza presto la differenza fra un’epoca tragica di dilemmi esistenziali assoluti ed un’epoca comica di simulazione situazionistica alla Debord, e per questa ragione non mi sono mai ridicolmente “identificato” con Lukács. E tuttavia in una cosa mi sono effettivamente identificato psicologicamente, e la potrei formulare grosso modo così: come si fa a sopportare il peso del conflitto schizofrenico fra una causa storica che si ritiene legittima (la causa di Marx, e cioè della legittimità della critica radicale al capitalismo) ed un profilo politico che si ritiene pessimo e da sostituire il più presto possibile (lo stalinismo e le sue pratiche massacratone e dispotiche)?

Non esiste ovviamente nessuna “formula di salvezza” che possa fornire un formulario di questo tipo. Eppure Lukács, nella sua vita concreta, ha mostrato di possedere almeno concettualmente questo dilemma. In questo suo aspetto mi sono certo soggettivamente identificato, e non vedo perché debba rimuoverlo o silenziarlo.

E tuttavia, sia ben chiaro, non sono un fan di Lukács, e Lukács non solo non è il mio guru, ma non è neppure il mio principale pensatore di riferimento. Conosco abbastanza bene il piccolissimo gruppo dei “lucacciani”, ne stimo alcuni e ne disprezzo altri. Non ho quindi alcuna preoccupazione di ortodossia lucacciana. Da tempo sono disceso dalla sella dei nobili cavalli di pensatori di riferimento grandissimi (Spinoza, Hegel, Marx), o semplicemente grandi (Adorno, Bloch, Sartre, Gramsci, lo stesso Lukács, ecc.). Mi sono comprato un asinello, che però è mio, che nutro, mantengo e di cui sono responsabile. Meglio essere proprietario di un asinello, che essere costretto da altri a scendere da cavallo, o meglio dal cammello, perché l’appartenenza ideologica è un fenomeno da cammelli nel senso preciso dato a questa parola da Nietzsche. Dunque io non sono un fan di Lukács, ma un pensatore radicalmente indipendente. Mi merito quindi integralmente le lodi che mi possono essere fatte, e nello stesso tempo non ho scusanti per le sciocchezze che inevitabilmente mi sarà capitato di dire.

Ritengo semplicemente che l’ontologia dell’essere sociale, intesa non come un titolo di libro, ma come una prospettiva filosofica praticabile, sia quanto di meno peggiore (e cioè di migliore) il “mercato filosofico” di oggi ci offre. Non sento quindi il bisogno di criticare Lukács, e quindi nemmeno ovviamente di approvarlo o “giustificarlo”. Seguendo il motto metodologico di Ernst Bloch del «camminare eretti», io cammino eretto anche nei confronti di Lukács, e penso a lui idealmente come ad un amico anziano nel frattempo defunto. Defunto nel frattempo è anche Cesare Cases, il germanista che fu amico personale di Lukács, e con cui invece ho potuto scambiare valutazioni e rilievi su Lukács, così come ho potuto farlo con filosofi di livello come Kofler e, naturalmente, con Nicolae Tertulian, esempio ineguagliabile di competenza filosofica e di onestà intellettuale.

Considerando Lukács come un amico anziano nel frattempo scomparso, so bene di ricollegarmi idealmente a quella catena di conflitti filosofici che ho fatto iniziare con Eraclito. Il lettore è quindi avvertito: non leggerà qui un commento esegetico-critico all’ultimo Lukács, ma leggerà soltanto un insieme di considerazioni personali sulla prospettiva filosofica dell’ontologia dell’essere sociale. In questo insieme di considerazioni, si avrà un compendio critico riassuntivo dei trentanove capitoli precedenti, che trovano qui un loro (provvisorio) coronamento. Una regola basilare del discorso filosofico, forse la regola più importante di tutte, è quella di confrontarsi con i punti più alti possibile del discorso filosofico stesso, in particolare quando i punti alti sono quelli della propria tradizione di scuola. Solo i mediocri si confrontano con i “punti bassi”, e lo fanno per la meschina soddisfazione di uscirne facilmente vincitori. Confrontandosi con i “punti alti”, invece, si rischia facilmente la sconfitta, perché è probabile che questi “punti alti” stessi si trovino ad un’altezza concettuale che noi non potremmo mai raggiungere. E tuttavia il discorso filosofico si distingue da tutti gli alti tipi di agone sportivo, di concorrenza economica e di prestigio sociale per il fatto che non ci sono mai né vinti né vincitori, ma solo la Filosofia vince (la scrivo volutamente con la maiuscola per enfatizzare il concetto).

Questa tradizione viene direttamente da Socrate, che non era interessato a “vincere sul campo” la tenzone retorica, ma ad avviare un processo problematico-maieutico che coinvolgesse entrambi gli interlocutori per giungere ad una accettabile definizione concettuale comune. Certo, Socrate non aveva ancora letto Marx, ed aveva tutto il diritto di non sapere la cosa fondamentale, e cioè che esiste uno sbarramento invalicabile ad ogni argomentazione razionale, e questo sbarramento è l’interesse di classe, che rende ad un certo punto impossibile la prosecuzione del flusso argomentativo bipolare, inserendovi in mezzo l’elemento ideologico.

Ma mentre Socrate aveva tutto il diritto di non saperlo, il seppellitore dei francofortesi Habermas non ha il diritto di non saperlo. E così come lo studioso di scienze naturali non ha il diritto di non sapere che Darwin è esistito, e quindi bisogna fare i conti con la sua teoria dell’evoluzione, nello stesso modo oggi non si ha il diritto di non sapere che esiste un sistema filosofico – piaccia oppure no – che spiega come il flusso argomentativo dialogico bipolare non passa, in presenza di interessi di classe divergenti. Non è possibile “convincere” un membro della oligarchia finanziaria globalizzata, che consuma in lussi quanto sarebbe necessario per la sopravvivenza fisica di diecimila persone, che la sua ricchezza si basa sul lavoro sfruttato di altri. Il flusso argomentativo necessariamente si interrompe. Ripeto, Socrate poteva non saperlo, ma quando Habermas propone una teoria generale dell’argomentazione che prescinde totalmente dai rapporti di diseguaglianza sociale, ed afferma egualmente che essa mira ad un convincimento possibile, ci si chiede se egli menta sapendo di mentire, sia istupidito, oppure marxianamente sia in mezzo alla falsa coscienza ideologica necessaria degli agenti storici. Siccome si chiama “dialettica” l’insieme dei metodi dialogici per rendersene parzialmente conto da soli, non ci si stupisce più quando Habermas sublima la propria falsa coscienza ideologica con il rifiuto metodologico della dialettica.

Ciò detto, la filosofia non ha nulla del dialogo buonista e del chiacchiericcio esibizionistico da caffè letterario. Essa è un «campo di battaglia», come ha giustamente detto Kant (Kampfplatz). Ma questo Kampfplatz, a differenza di Canne e di Waterloo, non vede mai vincitore uno dei due schieramenti, ma solo la Filosofia in quanto tale. Il concetto (Begriff) può essere definito in molti modi, ma forse il modo migliore per definirlo è «ciò che non può diventare per sua natura proprietà privata di nessuno». Anche Heidegger affermò che la filosofia non si può amministrare (verwalten), e qui sta infatti la differenza fra filosofia ed ideologia: l’ideologia per sua propria natura è amministrata da capillari apparati ideologici, mentre la filosofia si muove liberamente, e si fa beffe di chi la vuole amministrare e regolamentare.

Bisogna quindi sempre confrontarsi con i punti più alti possibili del pensiero filosofico, rischiando di uscire battuti dall’inevitabile campo di battaglia (Kampfplatz). Ed allora ho deciso nel mio ultimo capitolo conclusivo di confrontarmi con il punto più alto possibile del pensiero della scuola marxista novecentesca, che per me appunto è Lukács. Il motivo per cui lo considero il più alto, naturalmente, verrà progressivamente analizzato in questo capitolo. Se alla fine del capitolo Lukács risulterà vincitore, ed io perdente, mi riterrò soddisfatto egualmente.

Lukács ha incarnato nella sua lunga vita (1885-1971) l’intreccio fra filosofia e politica, e nello stesso tempo il rifiuto sistematico di sciogliere la filosofia nella politica. E poiché i politici di professione se ne fregano della filosofia, e sono soltanto interessati al suo uso ideologico di manipolazione, è evidente che per tutto il corso della sua vita Lukács sia stato assai più tollerato e sospettato che riconosciuto nella sua grandezza oggettiva. A volte ha dovuto piegarsi – e vedremo perché – ma nell’essenziale ha sempre «camminato eretto» – come direbbe Bloch – e la sua biografia lo mostra ampiamente. E tuttavia, prima di affrontarne il pensiero – e di criticarlo quando lo ritengo opportuno – ci sono quattro determinazioni generali che intendo subito segnalare.

In primo luogo, Lukács è stato un modello di comportamento intellettuale per quanto riguarda il fare i conti con Marx. C’è un testo del 1933 (con un post-scriptum del 1957) che si intitola La mia via al marxismo (Mein Weg zu Marx) che è assolutamente esemplare in proposito. Scrive Lukács: «Il rapporto con Marx è la vera pietra di paragone per ogni intellettuale che prenda sul serio il chiarimento della propria concezione del mondo, lo sviluppo sociale, in particolare la situazione presente, la propria posizione stessa ed il proprio atteggiamento rispetto ad essa. La serietà, lo scrupolo e l’approfondimento con cui egli si dedica a questo problema ci indica se ed in quale misura egli voglia, consciamente o inconsciamente, sottrarsi ad una chiara presa di posizione nelle lotte della storia attuale».

Parole d’oro. E parole d’oro perché esse non scendono correttamente nei dettagli della particolare interpretazione che possiamo dare al pensiero generale di Marx, al materialismo storico, alla dialettica, ai suoi rapporti o meno con Hegel, ai veri e propri macroscopici errori di previsione che fece sul decorso storico del capitalismo, ai “residui” positivistici o messianici più o meno secolarizzati, ecc. Tutto questo è ovviamente importante, e fa parte della necessaria esegesi marxiana e della ancora più importante ricostruzione sociale materialistica della storia del marxismo. Ma tutto questo non è essenziale, e viene soltanto dopo. Prima è necessaria una presa d’atto, che non tocca certamente sciocche classificazioni di “inferiorità” o di “superiorità” rispetto a Platone, Aristotele, Spinoza, Kant, Hegel, ecc. Non si tratta di stilare classifiche dossografiche per giochi di società o di chi verrà buttato prima dalla torre. Si tratta di qualcosa che in effetti presuppone una decisione esistenziale totale, che consiste nel rifiuto dell’adattamento (Anpassung) alla società capitalistica, intesa come totalità alienata, e quindi non-vera, e quindi falsa. Questo atto esistenziale totale è la mossa primaria, quella a cui tutto il resto verrà poi di fatto ricondotto come conseguenza necessaria. Il fatto di considerare la totalità sociale capitalistica (e poi imperialistica, ecc.) come alienata, e quindi non-vera, e quindi falsa, pone necessariamente il problema filosofico (e non solo giuridico, economico, sociologico, politico, ecc.) della verità. In questo senso il problema della verità è un problema pratico prima ancora di essere teorico. E qui bisogna riflettere sui due termini di «serietà» e di «sottrazione» (cioè del sottrarsi) che presenti nella citazione di Lukács.

È assolutamente normale che ci si voglia «sottrarre» alle lotte della storia in cui si vive. Queste lotte, infatti, non sono soltanto stressanti e pericolose, ma sono anche incerte, opache ed ambigue, per cui si può scoprire (ed anzi necessariamente si scopre) che coloro che tu credevi i tuoi disinteressati e generosi compagni di lotta sono in realtà una banda di “ultimi uomini” nicciani, soggettivamente quasi sempre più spregevoli dei borghesi stessi. La scoperta traumatica di questa realtà, caratteristica del movimento comunista del Novecento, ha causato una serie lunghissima di scoperte pittoresche e tragicomiche del cosiddetto “Dio che ha fallito”. Tipico degli intellettuali è prima credere che il comunismo sia storicamente il sostituto immanente di Dio nella storia, e poi scoprire che in esso pullulano numerosi tipi umani più ripugnanti dei vermi in un cadavere, con successiva inevitabile riadesione al capitalismo più sfrenato, che diventa in pochi anni prima il “male minore”, poi il “bene maggiore”. Questo è un modo classico di sottrarsi, caratteristica della tipologia umana del comunista “deluso” (quello, appunto, del Dio che ha fallito). Ma ci sono anche modi molto più nobili di “sottrarsi”, e nulla è più stupido e fastidioso del moralismo del cosiddetto “impegno” che li colpevolizza. Ci si può tranquillamente rifugiare nella scienza, nella famiglia, nella professione, nell’arte, negli studi eruditi, nei viaggi, nella carriera, ecc. In proposito, Lukács sostiene che in casi del genere «il soggetto in quanto tale avvizzisce per lo più nell’ampio arco che va dallo specialismo alla stravaganza».

È possibile che Lukács sia stato troppo severo nel mettere nello stesso mazzo il chirurgo, l’ingegnere progettista, il traduttore letterario (lo specialismo) con il produttore di merda d’artista ed il pagliaccio mediatico-televisivo (la stravaganza). A mio parere lo è stato. Ma io vivo ormai in un’epoca “ellenistica” in cui il ripiegamento protetto nel privato è spesso rimasto il solo modo per razionalizzare la sconfitta storica attuale provvisoria di tutti i tentativi storici di emancipazione, e quindi non si può condannare troppo in fretta l’avvizzimento pendolare fra specialismo e stravaganza. Lukács è vissuto in un’epoca “classico-ellenica”, e non “ellenistica” come la nostra; è quindi naturale che sia severo con coloro che in vario modo si «sottraggono» alle sfide del tempo.

È invece più importante riflettere sul termine «serietà», applicato al rapporto che instauriamo con Marx. Questo rapporto non può essere lo stesso di quello che instauriamo con Dante, Cervantes, Goethe o Shakespeare, e non può essere neppure lo stesso di quello che instauriamo con Platone, Aristotele, Epicuro, Spinoza, Kant, Hegel, Weber o Heidegger. Marx ci provoca (nel senso che ci pro-voca, ci chiama fuori, ci grida di venir fuori) a dire apertamente che cosa pensiamo del nostro presente e come lo valutiamo. In proposito, i filosofi di professione sono maestri nella mancanza di serietà, perché credono sinceramente di cavarsela con ricostruzioni sofistiche del pedigree teorico marxiano. Ma anche se fosse vero (e non lo è) che il pensiero di Marx è una tarda secolarizzazione della escatologia ebraico-cristiana (Löwith), oppure una forma rinnovata di neoplatonismo laico basato sulla confusione fra contraddizione dialettica ed opposizione reale senza contraddizione (Colletti), e via elencando almeno altre venti interpretazioni consimili, quasi tutte liberamente derivate dalla teoria del disincanto di Max Weber, ebbene, anche se tutto questo fosse vero (e non lo è), resta poco serio il pensare di “sbrigarsela” in questo modo con il problema reale oggettivo della totalità capitalistica. Una volta che si sia “smontato” tutto Marx con l’abilità con cui un meccanico smonta un motore (ed il filosofo accademico, con tutta la sua prosopopea, non è altro che un normale meccanico che anziché avere a che fare con dei pistoni e con delle valvole ha a che fare con apparati concettuali, di cui però, a differenza del meccanico, che gli è molto superiore, non conosce assolutamente la provenienza, ma che crede che gli siano “caduti” dal tetto dell’officina), resta il problema del nostro rapporto esistenziale soggettivo con la totalità sociale. Qui sta il concetto lucacciano di serietà. Credere che siano sufficienti stroncature gnoseologiche del pensiero di Marx è veramente poco serio, ed in proposito i più esilaranti sono gli economisti di “sinistra”, che pensano veramente che l’impresa filosofica di Marx cada perché risulta impossibile o incerta la cosiddetta (totalmente e ridicolmente irrilevante) «trasformazione dei valori in prezzi di produzione». La critica alle prove ontologiche, cosmologiche e fisico-teleologiche all’esistenza di Dio non sono mai riuscite ad abolire la religione. Si tratta di una pittoresca deformazione dell’intellettuale universitario, che crede di avere risolto definitivamente una questione storica quando riesce a trovare degli “errori”, e li cancella con la sua comica matita rossa e blu.

In secondo luogo, Lukács ha chiarito in modo veramente esemplare il concetto di passione durevole. Questo punto è ancora più importante e decisivo del precedente. Cito Lukács: «Nei giovani la frequente dedizione entusiastica ad una causa può terminare al medesimo modo o nella fedeltà (lucida o ottusa) ad essa, o nel passaggio ad un diverso campo, oppure ancora nella perdita di capacità di dedizione in genere […]. I movimenti giovanili così frequenti nell’ultimo mezzo secolo lo mostrano con la massima evidenza, e tanto più quanto più danno valore centrale alla giovinezza stessa […]. Occorre esaminare se e fino a quale punto una dedizione è in grado di indurre l’individuo ad innalzarsi sopra la propria particolarità, oltre che a dar luogo ad una passione durevole».

Credo che si tratti di una citazione stupenda, che una volta analizzata e scomposta in elementi concettuali ci può permettere di cogliere l’essenziale della questione. Qui Lukács ci propone una vera e propria antropologia sociale della elaborazione della dedizione giovanile (la fedeltà alla causa abbracciata in gioventù, lucida o ottusa, il passaggio ad un diverso campo, e la perdita della capacità di dedizione in genere). Se ad esempio, quarantacinque dopo (1968-2013), esaminiamo i cosiddetti “reduci” dell’anno domini 1968, troviamo tutte e tre le tipologie descritte da Lukács, la fedeltà lucida o ottusa, il passaggio ad un diverso campo, ed infine la perdita di dedizione in genere. Certo, Lukács aveva avuto vent’anni nel 1905, in un contesto storico ben diverso sia da quello del 1968 sia da quello del 2013, ma si nota immediatamente la capacità, tutta hegeliana, e tutta derivata dal metodo dialettico della Fenomenologia dello Spirito, di cogliere la natura della figura sociale della gioventù. Il primo filosofo moderno che mette la gioventù in quanto tale al centro del suo sistema filosofico è Fichte, che usa la metafora del «ringiovimento» (Verjungen) per indicare il rinnovamento emancipativo della società, ed individua nella gioventù come categoria sociale il suo soggetto storico capace di portarci fuori dall’epoca della compiuta peccaminosità. Oggi tutto questo può sembrare illusorio e “romantico”, ma non bisogna dimenticare che la gioventù di cui parla Fichte non aveva vissuta un’infanzia all’ombra della play-station e dei modelli di consumo televisivi, un’adolescenza in una scuola degradata, ed un’incipiente maturità in un contesto di lavoro salariato flessibile e precario. In altre parole, ed usando una terminologia marxiana, Fichte non poteva neppure immaginare che cosa sarebbe potuto avvenire in un’epoca di sottomissione crescente del lavoro al capitale e di approfondimento orizzontale (la globalizzazione) e verticale (la manipolazione capillare) del modo di produzione capitalistico.

La fedeltà, lucida o ottusa (generalmente ottusa) alla causa sposata in gioventù è molto rara, e spesso caratterizza il tipo umano che Nietzsche aveva definito degli “eremiti”. Personalmente, conosco (ed apprezzo umanamente) alcuni eremiti che cercano incessantemente di ricostruire gruppi eretici del marxismo rivoluzionario, trotzkisti, stalinisti, operaisti, anarco-comunisti, ecc. Nell’epoca attuale, essi vivono come se la signora Rosa Luxemburg fosse ancora fra noi, come se Stalin inseguisse ancora Trotzky armato di piccozza, e come se si potesse ancora credere sinceramente al crollo del capitalismo a causa della caduta tendenziale del saggio di profitto. Eppure – lo dico chiaramente – pur essendomi demarcato da tempo da ogni forma di eremitaggio ideologico, umanamente stimo molto di più questi eremiti di quanto stimi e consideri le due tipologie antropologiche del passaggio all’altro campo e della perdita di capacità di dedizione in genere. Meglio infatti l’eremita dell’«ultimo uomo».

Eppure lo stesso Lukács, morto nel 1971 e quindi ben prima del triennio di dissoluzione del comunismo storico novecentesco 1989-1991, ci mette giustamente in guardia dallo spirito eremitico e dalle tentazioni dell’eremitaggio. Scrive Lukács: «Dobbiamo convincerci che oggi, quanto al risveglio del fattore soggettivo, non possiamo rinnovare e continuare gli anni Venti, ma dobbiamo cominciare da un nuovo punto di partenza, sia pure utilizzando tutte le esperienze che sono patrimonio del movimento operaio e del marxismo. Dobbiamo renderci conto infatti chiaramente che abbiamo a che fare con un nuovo inizio, o per usare un’analogia, che noi ora non siamo negli anni Venti del Novecento, ma in un certo senso all’inizio dell’Ottocento, quando dopo la rivoluzione francese si cominciava a formare lentamente il movimento operaio. Credo che questa idea sia molto importante per il teorico, perché ci si dispera assai presto quando l’enunciazione di certe verità produce solo un’eco molto limitata».

Considero questa citazione di Lukács ancora più decisiva ed importante delle precedenti, perché essa stringe insieme i tre elementi psicologico-concettuali della «passione durevole», del nuovo inizio, e della disperazione nel rendersi conto che quanto si dice produce un’eco talmente limitata da provocare necessariamente non tanto il passaggio ad un diverso campo, quanto proprio la perdita della capacità di dedizione in genere. La tematizzazione di questo intreccio suggerito genialmente da Lukács è infatti assolutamente decisiva.

Iniziamo dall’analisi di quella particolare disperazione, che potremo chiamare disperazione del filosofo. L’atleta non si dispera, ma perde oppure vince. L’imprenditore non si dispera, ma ha successo e si arricchisce oppure va in fallimento e perde tutto. Il ricercatore scientifico non si dispera, ma verifica le sue ipotesi, oppure vi rinuncia e sceglie un’altra strada. Il filosofo, invece, è quella peculiare figura che da un lato è spesso convinta di aver colto la “verità” della totalità sociale in cui vive, ma non potendo dimostrarla né con metodi scientifici (Galileo), né con metodi argomentativi (Habermas), e restandone tuttavia convinto, si dispera necessariamente per la sua penosa impotenza. Il problema sta allora nel modo in cui si elabora questa impotenza, dal momento che – come dice giustamente Lukács – «ci si dispera assai presto quando l’enunciazione di certe verità produce solo un’eco molto limitata».

In generale, l’elaborazione di questa disperazione porta a due strade entrambe bloccate. Da un lato, si comincia a pensare che quelle che noi riteniamo verità, producendo un’eco molto limitata, non siano poi quelle “verità” che crediamo, ma siano solo pure illusioni ideologiche falsificate dal mondo esterno. Questo atteggiamento è suicida, perché le verità filosofiche non sono come le certezze fisiche o le esattezze matematiche, e quindi il consenso ed il dissenso esterni non possono certo verificarle o falsificarle. Tutte le teorie e tutti i criteri della falsificabilità popperiana, postpopperiana o anti-popperiana, valgono solo per le scienze naturali, e non valgono per la filosofia. La filosofia non ha date di scadenza temporali, dal momento che parte sempre dal «proprio tempo appreso nel pensiero», ma arriva anche e sempre a «ciò che è, ed è eternamente». La filosofia se la ride di Popper, Lakatos o Feyerabend. Si commette quindi un errore, quando si comincia a dubitare della propria visione filosofica, necessariamente indimostrabile con i metodi della fisica, perché raccoglie solo un’eco molto limitata. Dall’altro, si può cominciare a pensare che ciò che noi diciamo sia giusto, ma che il mondo esterno sia troppo coglione e corrotto per capirlo. In sostanza, al mondo ci sarebbero soltanto pochi saggi, cioè noi stessi ed i nostri più stretti sodali. Questa via, che definirei paranoico-nicciana, può soltanto portare alla distruzione fisica di chi la pratica. Dal momento che il buon senso è relativamente diffuso nel mondo, pur consentendo che il buon senso è quasi sempre l’ultimo dei metafisici, perché baluardo della «pseudo-concretezza» (Kosík), è storicamente poco probabile che nel mondo gli unici saggi siamo noi ed i nostri sodali. Bisogna quindi percorrere un’altra via.

Questa via non può essere che quella del carattere storico-disvelativo della verità. Questo non significa accettare il relativismo ed il convenzionalismo, per cui la verità non esiste, ma viene chiamata così e così a seconda della relatività del tempo storico e della convenzionalità delle sue definizioni.

La «passione durevole» per il comunismo, o se si vuole per la critica al capitalismo, presuppone dunque – per esistere e per essere coltivata e sviluppata – che ci si renda conto che essa da un lato coincide con il percorso della nostra vita umana concreta, necessariamente e fatalmente breve, ma che dall’altro essa è ideale, nel senso che va al di là della nostra stessa vita umana. Del resto, si tratta dello stesso concetto di «immortalità» presente in una lettera di Antonio Gramsci a sua madre, che era cattolica e non certo “marxista”, e il marxismo lo aveva probabilmente solo sentito nominare. Il marxismo è quindi idealismo non solo nel senso della scienza filosofica “tedesca” delle lettere di Marx ad Engels ed a Lassalle, ma in questo senso ben preciso. Mi rendo conto che questo provocherà una smorfietta epistemologico-positivistica nel marxista medio, ma non so proprio che cosa farci.

Oltre a segnare profondamente il rapporto fra marxismo ed idealismo (per cui potremmo dire – con un certo grado di approssimazione – che senza un certo grado di idealismo non è neppure possibile coltivare una scienza non-filosofica – e quindi non-idealistica – come lo stesso materialismo storico inteso come teoria “pura” e “scientifica” dei modi di produzione), il concetto di «passione durevole» è una vera e propria “porta girevole” per tematizzare un insieme di problemi essenziali del nostro tempo.

In primo luogo, il concetto di «passione durevole» riprende il concetto greco di bilancio filosofico di una vita intera, senza alcun privilegiamento del “momento magico” della giovinezza. I Greci sapevano bene che il bilancio di una vita si fa solo alla fine. Fichte aveva le sue ragioni per sostenere che la gioventù era il solo soggetto che sfuggiva alla corruzione generalizzata dell’epoca storica della compiuta peccaminosità. Dal momento che egli, del tutto correttamente, definiva metaforicamente il «finito» come l’accettazione conformistica del dispotismo signorile-feudale, ed «infinito» la tensione al suo superamento nella prassi concreta (ho già ripetutamente affermato – e qui lo ripeto – che Fichte, e non Marx, è il fondatore della filosofia della prassi, e Marx l’ha solo “applicata” al comunismo), è normale che egli si rivolgesse alla gioventù, intesa come il soggetto complessivo del «ringiovanimento» del mondo (Verjungen). È del tutto possibile sostenere che la classe proletaria di Marx, intesa come soggetto risolutore e non corrotto, non sia che il sostituto-successore della gioventù fichtiana. E tuttavia Fichte ha torto, e Lukács ha ragione. La gioventù deve essere onorata, ma non privilegiata come soggetto storico. Ciò che conta è la «passione durevole», non la passione giovanile. La passione è il minimo comun denominatore di tre generazioni, giovani, persone di mezza età ed anziani. E del resto, il “giovanilismo” ha smesso da tempo di essere pensato come lo aveva pensato il grande Fichte (il Verjungen come metafora del superamento della corruzione dell’epoca della compiuta peccaminosità), per diventare feticcio pubblicitario, in quanto la merce si vende meglio se è associata a carni piene e non a carni rugose e cascanti. La vecchiaia, ancora “veneranda” nei tempi antichi, medioevali e protomoderni, è oggi una vergogna da nascondere con il lifting della chirurgia estetica oppure con la segregazione degli anziani in città protette per pensionati (qui gli USA e lo Stato “caldo” della Florida sono all’avanguardia, anche se si può sempre sperare che il resto del mondo non li segua). E non è neppure vero che la gioventù sia meno “corruttibile” della mezza età e della vecchiaia. In un’epoca postmoderna della «produzione flessibile» (Jameson), dello spostamento del parametro simbolico dal tempo del progresso allo spazio dell’economia liberale globalizzata (Harvey), del disincanto socialmente indotto verso le «grandi-narrazioni» (Lyotard), della fine della vecchia alleanza fra critica economica e critica artistico-culturale al capitalismo (Boltanski e Chiapello), ecc., la gioventù diventa insieme un feticcio pubblicitario dell’esaltazione dei corpi come supporto degli oggetti di consumo e un soggetto facilmente ricattabile da quel “politicamente corretto”, che funziona oramai come codice di accesso ideologico alle funzioni di potere sociale in un mondo senza Dio e composto da ultimi uomini. Il politicamente corretto dice (enumero brevemente e senza alcuna pretesa di classificazione completa) che magari Marx è un barbone interessante, ma che non c’è più l’imperialismo, e che solo dei militanti attardati e fanatici ancora lo sostengono; che Dio è soltanto più un oggetto di credenza per ignoranti del tutto ignari della risolutiva teoria di Darwin, ma che una religione “civile” è ancora necessaria, il culto della memoria del genocidio ebraico (e solo di quello, gli altri assai numerosi sono tutti derubricati a generiche atrocità contestualizzabili), il quale è “imparagonabile”, ed essendo imparagonabile è di fatto religiosizzato (solo l’unicità veritativa delle religioni è infatti imparagonabile), e funzionerà per sempre come complesso di colpa per l’Europa, che resterà sempre militarmente occupata per espiare; che è “vietato vietare”, dal momento che tutto ciò che è acquistabile potrà essere acquistato e tutto ciò che è tecnicamente fattibile potrà essere fatto (Günther Anders), ecc. Dal momento che il giovane non è ancora entrato nel mondo delle istituzioni economiche e politiche che fanno accedere al mondo del privilegio (global middle class, e cioè nuovo ceto medio borghese senza la coscienza infelice della vecchia piccola-borghesia illuministico-romantica), egli ha necessità del “politicamente corretto” come indispensabile codice d’accesso. Già da tempo la cosiddetta “democrazia” non è più l’insieme di interessi sociali da rappresentare in nome di un voto popolare “libero”, ma è diventata un codice d’accesso obbligatorio fissato da bande non elette di politici di professione (circo mediatico), cosiddetti “grandi intellettuali” che rappresenterebbero la cosiddetta (ed inesistente) “opinione pubblica”, con in più la copertura ideologica della casta universitaria. Oggi il giovane è un soggetto indebolito e ricattato, anche per le difficoltà enormi che si frappongono ad una sua autonomizzazione economica, professionale, e quindi anche sessuale e matrimoniale (nella storia dell’intera umanità non è mai avvenuto che una generazione potesse arrivare ad un’autonomia reale soltanto intorno ai trent’anni, a causa dei salari flessibili e precari, per poi dover sopportare cinici mascalzoni che dopo aver creato questa situazione insultano i giovani come “bamboccioni”).

Ho volutamente aperto questa parentesi sulla condizione giovanile oggi per poter far rilevare le ragioni storiche e sociali del tramonto dell’illusione fichtiana sul soggetto giovanile, ritenuto l’unico in grado di abbattere la corruzione dell’epoca della compiuta peccaminosità, e per evidenziare la pertinenza del concetto lucacciano di passione durevole, che rilegittima attraverso l’astrazione filosofica il concetto greco dell’alleanza fra le tre generazioni (giovani, persone di mezza età ed anziani). E tuttavia, non è soltanto questo il nodo del concetto di «passione durevole».

La «passione durevole» lucacciana si nutre della consapevolezza della necessità di un nuovo inizio, sia pur “mediato” dalle esperienze di un secolo di movimento operaio e di marxismo. Morto nel 1971, Lukács era impregnato dell’idea di “riformabilità in extremis” del baraccone socialista, poi crollato definitivamente circa vent’anni dopo la sua morte. In realtà Lukács si sbagliava: il baraccone era corrotto al punto di essere arrivato all’ultimo stadio della produzione di massa della figura antropologica dell’«ultimo uomo» (con un necessario correlato minoritario di “eremiti”), era giunto allo stadio dell’epoca della compiuta peccaminosità, e se Lukács fosse arrivato all’età di cento e dieci anni avrebbe assistito alla scena, ad un tempo ridicola, grottesca e tragica, della formazione di un’alleanza fra speculatori, pescecani della finanza internazionale, bande mafiose assassine interne ed esterne, burocrati riciclati ed altri mostri sociali, che privatizzano tutto ciò che tre generazioni “socialiste” avevano costruito. Pur essendo un ammiratore della capacità previsionale di Lukács, ritengo che il nostro autore non disponesse delle categorie teoretiche necessarie per comprendere questo maestoso fenomeno. E ritengo che non le avesse per il suo sostanziale rifiuto delle correnti letterarie alla Kafka, e per la sua adesione all’estetica realistica alla Thomas Mann. Thomas Mann non può spiegare gli oligarchi russi, i loro consumi e soprattutto i loro stili di vita. Ci vogliono Aristofane, Teofilo Folengo, Kafka, Borges, ecc. Non nego che anche Balzac abbia descritto qualcosa di simile, accaduto nell’epoca 1815-1848. Ma nella dissoluzione del socialismo reale c’è stato qualcosa di più, un’eccedenza grottesca e tragica che va al di là dei canoni del cosiddetto «realismo socialista».

La centralità del concetto lucacciano di «passione durevole» non è stata a mio avviso ancora pienamente colta dalla critica. Il fatto che Lukács la leghi strettamente al concetto di «resistenza alla disperazione soggettiva» nel vedere che ciò che si pensa ottiene un’eco soltanto molto limitata mi sembra molto importante. Significativa è l’analogia storica proposta da Lukács: non siamo negli anni Venti del Novecento, ma se proprio si vuole cercare un’analogia (e non dovrebbe essere necessario, dato il carattere strutturalmente ingannatorio di tutte le analogie storiche) siamo piuttosto negli anni Venti e Trenta dell’Ottocento. Naturalmente Lukács sapeva benissimo che stava usando un’analogia un po’ impropria. E tuttavia in questo modo egli si differenzia da tutte le letture messianiche del marxismo, coltivate da suoi grandi coetanei come Bloch e Benjamin (e non a caso poi privilegiate come facile oggetto di critica e di stroncatura da pensatori come Löwith, Colletti, ecc.), per proporre una lettura integralmente razionalistica di esso. Vorrei insistere molto su questo cruciale concetto.

Chi intende criticare il pensiero di Marx nel suo complesso deve necessariamente interpretarlo in senso messianico-prometeico, per il semplice e banale fatto, accessibile anche ad un normale studente liceale intelligente, che il messianesimo prometeico non tiene, non è difendibile, è fatalmente condannato ad essere presto o tardi distrutto dal disincanto (le avventure della dialettica di Maurice Merleau-Ponty, la fine delle grandi narrazioni di Jean-François Lyotard, ecc.). La riflessione di Lukács, essendo essa stessa fondata su di un radicale rifiuto del messianesimo escatologico e delle attese teologico-teleologiche, non può diventare oggetto di una “stroncatura” alla Löwith, ed è per questo necessario che venga socialmente silenziata il più possibile.

Passiamo ora ad un terzo punto essenziale, dopo il fare i conti con Marx e dopo la «passione durevole» non solo giovanistico-generazionale. Si tratta del modo con cui Lukács affronta il venerando concetto marxiano di «alienazione». Qui, a mio avviso, la sua interpretazione è veramente buona, o almeno la migliore che conosca.

Il dibattito sul concetto di alienazione e sul giovane Marx non è mai stato un puro dibattito filosofico-filologico per addetti ai lavori, ma è sempre stato (nel senso che lo è da circa ottanta anni, da quando sono stati pubblicati i Manoscritti economico-filosofici del 1844) uno schermo per un dibattito politico. Mai come in questo caso la filosofia – come sistema razionale delle conoscenze categoriali (Schulbergriff) – è diventata l’insieme dei pensieri che interessano necessariamente ogni uomo (Weltbegriff). In un certo senso, il problema dell’interpretazione dell’alienazione è l’equivalente marxista dell’interpretazione del dogma dialettico della trinità nella teologia cristiana. Dimmi come interpreti l’alienazione e la trinità e ti dirò che razza di marxista o di cristiano sei. Ritengo necessario fare alcune considerazioni preliminari sull’alienazione per poi giungere in modo contrastivo a Lukács, premettendo però che Lukács ha sempre tenuto fermo (dagli anni Trenta alla sua morte avvenuta nel 1971) il principio dell’essenzialità del concetto di alienazione nel pensiero marxiano. Togli a Marx il concetto di alienazione, e Marx muore. Ho inteso formulare in modo volutamente estremistico la mia opinione in proposito per non lasciare dubbi al lettore su questo punto.

Ripeto qui per comodità del lettore le mie due concezioni fondamentali sul concetto di alienazione (Entfremdung) in Marx. In primo luogo, è evidente che Marx non si “inventa” questo concetto, ma lo eredita da pensatori come Rousseau, Hegel e Feuerbach. E tuttavia, egli modifica qualitativamente questo concetto, applicandolo al lavoro salariato, qualificato come lavoro alienato. In sostanza, il lavoro salariato è anche sempre lavoro alienato, in quanto è anche e sempre lavoro sfruttato. Il concetto di sfruttamento (Ausbeutung) e quello di alienazione (Entfremdung) coincidono. Ma non sarebbe giusto dire che il primo è un concetto economico, ed il secondo un concetto filosofico, che fanno quindi parte di due aree disciplinari distinte (il primo cibo per economisti, il secondo cibo per filosofi), in quanto per Marx esiste solo un’unica critica dell’economia politica borghese-capitalistica, che non permette separazioni disciplinari fra economia e filosofia.

Inoltre, il fatto che ci sia sfruttamento (Ausbeutung) nel rapporto fra lavoro salariato e capitale, e che ci sia sotto l’apparenza dello scambio fra equivalenti (il che comporta che il fenomeno non coincida con l’essenza, e sia quindi del tutto illusorio l’approccio alla Locke ed alla Hume, ma ci voglia invece un approccio dialettico alla Hegel), comporta una conseguenza decisiva, e cioè che tutta la società è alienata, e quindi “falsa” nel senso concettuale hegeliano per cui “vero” è soltanto il tutto, mentre la “parte” è volta a volta certa, esatta, sbagliata, ecc., ma comunque mai vera o falsa (al massimo, può essere veridica o ipocrita).

Ha quindi avuto sostanzialmente ragione l’economista-filosofo italiano Claudio Napoleoni (1924-1988) a sostenere, primo, che la teoria filosofica dell’alienazione coincide con la teoria economica del valore-lavoro e, secondo, che nella società capitalistica solo alcuni (sia pure generalmente la maggioranza statistica della popolazione) sono sfruttati, mentre tutti sono alienati. Queste due tesi di Napoleoni mi sembrano esattissime. Si possono certo rifiutare, ma a mio avviso in questo modo si rifiuta anche Marx.

In secondo luogo, il fatto che Marx non riprenda esplicitamente questo concetto nelle sue opere dette “mature” non significa affatto che lo abbia – per così dire – “respinto”. Ritengo invece che lo abbia “metabolizzato” ed incorporato pienamente nel suo processo di pensiero (Denkweg), per cui non era più necessario che lo ripetesse ossessivamente. E del resto, studi filologici recenti (come quello di Roberto Fineschi sui rapporti fra Hegel e Marx) hanno accertato il continuo e documentabile “ritorno” di questo concetto anche nelle sue opere mature.

Ho qui riassunto per comodità del lettore il mio punto di vista sul problema dell’alienazione. Ed è però importante soprattutto rilevare che nei discorsi rivolti a “stroncare” Marx si ha – in un certo senso – una duplicazione della strategia argomentativa prima indicata, per cui ci si fa prima un idolo polemico manifestamente indifendibile, e poi lo si distrugge gioiosamente. E così come si riduce il pensiero di Marx ad (insostenibile) messianesimo prometeico, ed in questo modo lo si distrugge gioiosamente con infantile facilità, nello stesso modo si interpreta il concetto di alienazione come rottura di una felice e non alienata unità comunitario-sociale originaria, che costituisce un mondo a testa in giù, che poi viene progressivamente raddrizzato dalla storia universale necessitata, fino al comunismo concepito come il ristabilimento naturalistico “autentico” di un mondo finalmente con i piedi per terra. Il lettore informato sa ormai che il primo modello di stroncatura (Karl Löwith), ed anche il secondo modello di stroncatura (Lucio Colletti) stroncano in entrambi i casi una caricatura precedente. È quello che si chiama in linguaggio ordinario il “vincere facile”.

La pulsione ad eliminare dal profilo teorico marxiano il concetto di alienazione è un fenomeno talmente diffuso e pittoresco da meritare un’indagine sociale, e non solo culturalistico-concettuale. Personalmente, ho vissuto il clima ideologico degli anni Sessanta del Novecento, e so bene che allora vi fu un tentativo di togliere al marxismo i suoi lati “sgradevoli” di lotta di classe per affermare una sorta di innocua teoria sociale del generico disagio psicologico-esistenziale tipico della società industriale connotata come “avanzata”. È evidente che il concetto di alienazione in quel contesto storico preciso (e questo capitava anche ai correlati concetti di “uomo” e di “umanesimo”) mirava ad una sorta di neutralizzazione universitario-psicologica del marxismo, che passava così da Lenin e Rosa Luxemburg a Eric Fromm ed a Umberto Galimberti. La reazione althusseriana, che negava radicalmente il mantenimento nel Marx “maturo” e “scientifico” del concetto di alienazione, era quindi socialmente del tutto giustificata, ma lo era soltanto dal punto di vista della “lotta di classe ideologica nella congiuntura politica” (1956-1968, e per di più solo a Parigi), mentre era catastroficamente errata nel contesto storico generale Novecentesco. Detto questo, insisto nel non identificare le due correnti “scientiste” di Lucio Colletti e di Louis Althusser. Il programma dellavolpiano di ritraduzione dell’intero pensiero di Marx in un modello galileiano di scienze della natura del tutto “affrancato” da Hegel e dalla dialettica non può che portare ad un suicidio programmato a tempo, e dobbiamo essere grati (parlo sul serio, ed alla lettera) a Lucio Colletti per aver mostrato in piena luce l’esito autodistruttivo e suicida di questo programma. Il programma althusseriano è infinitamente più serio, perché spinge giustamente a fissare gli sguardi sulla scienza non-filosofica dei modi di produzione sociali, e non certo sulla gnoseologia, scienza della delegittimazione di ogni pretesa di conoscenza della totalità (si chiami Dio oppure Capitale), o tantomeno sulla metodologia, pittoresca ed irrilevante scienza per nullatenenti. Dunque, nessun segno di eguaglianza fra Colletti ed Althusser. Nel linguaggio pittoresco dei maestri di scuola, daremo a Colletti un bel quattro, ed a Althusser addirittura un generoso sette (mi perdonino i rispettivi fans, ed accettino il fatto che non sempre si può utilizzare il lessico serioso della conferenza filologica).

E tuttavia non si può e non si deve evitare di riflettere sulle conseguenze provocate dal rifiuto del concetto di alienazione e dalla teoria della cosiddetta “rottura epistemologica”. Si va infatti da una concezione di episteme che oscilla dal concetto positivistico di Auguste Comte al concetto sociologico di Max Weber (in entrambi i casi nessuno capisce perché si debba lottare contro il capitalismo se non lo si giudica negativo, e non si vede come sia possibile giudicarlo negativo con una semplice visione strutturalistica della dinamica dei modi di produzione), che scivola poi nella (fastidiosa e riduzionistica) definizione di filosofia come “lotta di classe nella teoria”, ed infine sfocia nell’apologia della aleatorietà come sublimazione della propria (peraltro giustificata) critica alla precedente (ed insostenibile) filosofia necessitaristico-teleologica della storia, insaporita ed aromatizzata con il peperoncino rosso del messianesimo e del prometeismo. Ma questo comporterebbe una critica all’intero Denkweg di Althusser, che non mi interessa affatto fare in questa sede, se non per contrapporlo idealmente alla molto maggiore sobrietà di Lukács.

Vi sono ovviamente molte altre varianti, tutte cattive, del rifiuto della centralità del concetto di alienazione. Un’ultima variante italiana (Roberto Finelli), storicamente poco importante, ma comunque socialmente significativa, propugna una sorta di marxismo ridotto al concetto di “astrazione reale” che rifiuti esplicitamente, e quindi espunga del tutto dal quadro teorico, i due concetti di alienazione e di contraddizione. Tralascio qui le argomentazioni, del tutto sofistiche, con cui questi due concetti vengono “licenziati”. Senza alienazione e senza contraddizione avremmo egualmente un corpo, ma senza gambe e senza braccia. Se il marxismo è uno sgabello a tre gambe, e metaforicamente lo è, queste tre gambe sono effettivamente i concetti di astrazione reale (il mondo sensibilmente sovrasensibile), di contraddizione dialettica (che include peraltro come suo momento particolare l’opposizione reale economica fra sfruttati e sfruttatori, che restano comunque i due poli di una correlazione essenziale), ed infine di alienazione sociale. Devo ammettere che la proposta di trasformare uno sgabello a tre gambe in uno sgabello ad una gamba sola è esilarante, ma socialmente parlando si tratta soltanto dell’ennesima “pensata” sofistica universitaria per togliere al marxismo qualunque residuo potenziale eversivo. Ed effettivamente un marxismo senza esplicita eversione per me è come una pastasciutta senza sugo. A qualcuno potrà piacere, ma a me no.

L’esemplarità, ed a mio avviso l’insuperabilità, del modo in cui Lukács tematizza la categoria di alienazione sta in una specifica fusione di Marx e di Hegel. Da Marx Lukács ricava l’assoluta oggettività esistente della categoria di alienazione, ed il fatto che essa non possa essere “posta” e poi “tolta” con un semplice atto del pensiero autocosciente (vi è qui chiaramente una critica ad Hegel, cui viene attribuita una concezione puramente logica e coscienziale di alienazione). Da Hegel, ed in particolare dalla dottrina del concetto della Scienza della Logica, Lukács ricava il rapporto fra l’universalità, la particolarità e l’individualità come momenti logici del concetto stesso, che resta unitario. Una breve spiegazione ulteriore permetterà di cogliere la grande correttezza del pensiero di Lukács.

In una lettera a Lucien Goldmann, Lukács sostiene che «il pensatore sostanziale è preoccupato da un unico pensiero per tutta la vita». E Lukács è veramente stato un pensatore «sostanziale», la cui sostanza può essere individuata in una sua singolare affermazione, per cui egli affermò di se stesso: «Non parteciperò più alla mia stessa alienazione» (ich mache meine eigene Entfremdung nicht mehr mit). Si tratta peraltro della stessa formula che era servita come parola d’ordine dei membri della scuola di Francoforte, il che significa che molte distinzioni di “scuola” vengono meno quando si tratta di “stringere” la cosa stessa. Ma cerchiamo di commentare, sia pure brevemente, questa ottima formulazione.

In primo luogo, vi è il riconoscimento del fatto che l’alienazione esiste oggettivamente, ed è una categoria logico-ontologica della produzione capitalistica in quanto tale, e non certo una sofisticata opinione sul disagio esistenziale in un mondo mercificato. Questo disagio esistenziale ovviamente c’è, anche se le tendenze esistenziali postmoderne (tipica ancora una volta è la posizione del filosofo delle riviste femminili italiane, Umberto Galimberti) tendono a staccarlo dalla coscienza infelice, ed a negargli così ogni carattere di sintomo superficiale di un universalismo impossibile.

In secondo luogo, c’è l’ovvio riconoscimento del fatto che l’alienazione riguarda in primo luogo noi stessi, e non certamente soltanto gli altri. Tipico del moralismo dell’intelletto astratto (Verstand) è il separare noi stessi dagli altri, e pensare che gli altri siano alienati, tranne noi che non lo siamo, perché abbiamo capito tutto quel che c’era da capire, come se fossimo un laicizzato Dio hegelo-marxiano. La cosa suona subito ad un tempo grottesca ed esilarante, eppure è proprio il modo in cui la falsa coscienza del marxista medio ha a lungo impostato le cose. Tutti sono alienati, perché non capiscono che il capitalismo è cattivo, tranne me ed i miei sodali e correligionari, che invece lo abbiamo capito. Nel paranoico mondo marxista la cosiddetta “autocritica” è sempre stata un rituale di confessione religiosa, di pentimento servile e di adeguamento al potere (classiche in proposito le cosiddette “autocritiche” di tipo staliniano, peraltro mantenute in vita fino al triennio dissolutivo 1989-1991). In realtà appare chiaro che la critica non può essere fatta da un soggetto destoricizzato e desocializzato, e quindi incapace di tematizzare anche se stesso (come è il caso di tutte le costituzioni formalistiche del soggetto, da Cartesio a Kant, e di tutte le “sparizioni” del soggetto sostituito da flussi di abitudini e/o di volontà di potenza, da Hume a Nietzsche). La critica deve essere fatta da un soggetto che, almeno in via di principio, è disposto non solo a farsi criticare da altri (cosa che peraltro neppure il più grande dei paranoici potrà mai di fatto socialmente impedire), ma è disposto a criticare se stesso. Ed il suo modo di poter criticare se stesso è quello di accettare l’inserimento della propria particolarità individuale all’interno di una dialettica oggettiva delle “figure” delle forme di coscienza, il che fa diventare la Fenomenologia dello Spirito di Hegel il modello insuperato di questa possibilità di inserimento autocritico.

In quanto universale concreto, il concetto è l’universalità riferita all’individualità. L’individualità non è altro che me stesso, in quanto mi penso in rapporto alla particolarità concreta che forma la mia personalità. Ma la particolarità (per Hegel come per Lukács) non è altro che la semplice negazione diretta dell’universalità, in un certo senso la semplice “sottrazione” dell’universalità. Peraltro l’universalità stessa, come ogni realtà, può soltanto concretamente esistere nella forma di una sua determinazione (Bestimmung), che è poi sempre e solo una concretizzazione storico-sociale. E tuttavia l’individualità reale e concreta dell’uomo non può identificarsi con la particolarità, in quanto tutte le determinazioni particolari devono essere prese in considerazione, e non una sola. In questo caso l’alienazione è certamente una determinazione dell’universalità del concetto di capitale, ma è una determinazione anche la volontà libera soggettiva di non partecipare ad essa. Questo è il significato della scelta libera soggettiva di non voler più partecipare (mitmachen) alla propria stessa alienazione (Entfremdung).

Lukács identifica così correttamente il concetto marxiano di libertà con la scelta di non partecipare più alla propria stessa alienazione, oppure, utilizzando il linguaggio hegeliano, di “spostare” la propria particolarità di adesione all’universalità della produzione capitalistica, ad un tempo sfruttata ed alienata in quanto unione di alienazione e di valore, alla propria individualità di adesione all’universalità di una realtà emancipata. Questa concezione di libertà si differenzia radicalmente da tutte le altre concezioni di libertà di tipo aprioristico (la libertà del volere come postulato dalla possibilità della morale categorica in Kant), di tipo religioso (la libertà come “dono” di Dio, che vuole così renderci liberi e simili a Lui, in modo che possiamo scegliere se essere salvati o essere dannati), o infine di tipo neoliberale (la libertà del soggetto proprietario di “intraprendere” nel mondo delle merci e del denaro). L’alienazione non è così la presunta rottura di una (inesistente) unità organica originaria, ma è una condizione oggettiva che riguarda tutti. Tutti siamo infatti alienati, ma c’è chi decide di parteciparvi e chi decide invece di non parteciparvi più. Il concetto di alienazione, inteso come scelta di interrogare la propria particolarità (alienata) in nome della propria individualità (libera), viene in questo modo ad ereditare la grande tradizione di Spinoza e di Hegel. Di Spinoza, perché la sua filosofia non è affatto una filosofia della necessità (come ripete pigramente la manualistica), ma è una filosofia della libertà dell’individualità che però tiene conto dell’esistenza oggettiva della necessità (in questo caso, dell’esistenza oggettiva della alienazione capitalistica). Di Hegel, perché accetta la problematizzazione dialettica del soggetto, e del fatto che universalità, particolarità ed individualità non possono essere ontologicamente separate. Hegel infatti ha scritto che «la separazione delle realtà dalla verità è specialmente cara all’intelletto, che tiene le sue astrazioni ed i suoi sogni per alcunché di vero». E per finire Hegel ha scritto: «Ma quando io parlo di realtà, si deve pur tenere presente il senso in cui adopero questa espressione, dal momento che nella mia Scienza della Logica ho trattato ampiamente la nozione di realtà e l’ho accuratamente distinta dall’accidentale che ha esistenza e da altri consimili concetti».

Il quarto ed ultimo aspetto generale del pensiero di Lukács è parimenti di grande importanza. Fino ad ora abbiamo insistito sui tre punti del prendere sul serio il proprio rapporto con Marx, della passione durevole come alternativa esistenziale alle concezioni mitico-sociologiche del privilegiamento fichtiano della giovinezza come soggetto privilegiato, della lotta alla corruzione dell’epoca della compiuta peccaminosità, ed infine della decisione di non partecipare più alla propria stessa alienazione. Tocchiamo ora il cuore della natura filosofica del pensiero di Lukács, che molti commentatori lucacciani non hanno colto sufficientemente, e che io invece sottolineerò con particolare enfasi.

Ho già ampiamente fatto riferimento in precedenza alla distinzione kantiana fra il concetto scolastico della filosofia intesa come sistema organizzato delle conoscenze razionali (Schulbegriff), ed il concetto mondano di essa, intesa come ciò che interessa necessariamente ogni uomo (Weltbegriff). In proposito, ho ricordato che Habermas ha scritto che Hegel è stato il primo che li ha fusi insieme, ma è anche in un certo senso l’ultimo, perché la modernità consiste appunto nella rinuncia alla “normatività” della verità filosofica cui Hegel credeva fermamente. In proposito, quella fusione dei due elementi che Habermas attribuisce a Hegel come al “primo” (ed anche però l’ultimo, per cui di fatto Hegel diventerebbe l’unico – attributo che neppure i più entusiasti ammiratori di Hegel – come chi scrive – sarebbero disposti ad attribuirgli) caratterizza invece tutta la storia della filosofia occidentale (ma anche indiana e cinese), almeno fino alla sua istituzionalizzazione universitaria neokantiana e post-neokantiana. Solo questa istituzionalizzazione, che caratterizza quasi tutta l’istituzione universitaria odierna (le brillanti eccezioni purtroppo confermano la regola), ha rotto il precedente rapporto organico fra il concetto scolastico ed il concetto mondano di filosofia, e vedremo più avanti che il punto di partenza del giovane Lukács sarà appunto quello di rompere con il giuramento gnoseologico neokantiano e di decidere (grazie anche all’incontro con Ernst Bloch) di filosofare nel modo in cui lo avevano fatto Aristotele ed Hegel. In breve, ritengo che Lukács sia stato nel Novecento il punto più alto della fusione fra Schulbegriff e Weltbegriff, che sia possibile pacatamente dimostrarlo, e che qui stia la sua inarrivabile specificità, al di là dell’accettazione o meno della prospettiva dell’ontologia dell’essere sociale. Questo, però, presuppone una ennesima breve ricognizione della precedente storia della filosofia occidentale. Essa è necessaria, perché se non si inserisce Lukács in questa nobile tradizione si corre il rischio di perdere la specificità del suo contributo. Se infatti si legge Lukács, ci accorgiamo subito che i riferimenti allo stalinismo si uniscono a considerazioni su Epicuro e Spinoza, e che note sulla vita quotidiana si mescolano ad interpretazioni originali di Marx e di Hegel. Questo non può che irritare i sacerdoti della filologia universitaria, e non può al contrario che confermare a studiosi indipendenti come chi scrive di essere sulla via giusta. Chi volta le spalle all’unione fra Schulbegriff e Weltbegriff, infatti, non può interessare a nessuno, che non sia un irrilevante animale accademico preso dai suoi grotteschi riti di identità.

La costituzione del sapere filosofico in disciplina erudita autoreferenziale e fine a se stessa è relativamente recente, e risale grosso modo a metà Ottocento. In quel momento storico, in particolare dopo la svolta del 1848 ed il clima controrivoluzionario di normalizzazione reazionaria che si diffuse in Europa (testimoniato da autori diversi come il De Sanctis di Schopenhauer e Leopardi ed il Lukács della Distruzione della Ragione) i poteri dominanti non ritennero sufficiente legittimarsi con la pura scienza evoluzionistica (esemplare è il caso di Spencer come ideologo del darwinismo sociale), ma considerarono opportuno togliere alla riflessione filosofica qualunque potere contestativo rispetto all’esistente attraverso la sua istituzionalizzazione universitaria integrale. Questa istituzionalizzazione avviene storicamente con modalità diverse nei vari paesi europei, ed in Germania, il paese guida della seconda rivoluzione industriale, avviene con l’organizzazione di un sistema di “filtraggio” basato sull’erudizione positivistica, da un lato, e sulla riduzione neokantiana della filosofia a gnoseologia, dall’altro. È questa la ragione per cui Lukács non sbaglia dicendo che dopo il 1848 Hegel passa in un certo senso il “testimone” a Marx. Si può contestare e ritenere schematico questo giudizio, ma è un fatto che il concetto mondano di filosofia (Weltbegriff) inteso come l’insieme di ciò che interessa necessariamente ad ogni individuo, passa veramente da Hegel a Marx.

Nel mondo degli antichi Greci l’idea di una facoltà universitaria di filosofia era letteralmente impensabile. Fino ad Epicuro ed agli stoici compresi (e quindi senza alcuna differenza fra periodo presocratico, socratico, platonico, aristotelico e stoico delle origini) si dava assolutamente per scontato che la filosofia esistesse soltanto nel suo significato mondano (Weltbegriff). In periodo ellenistico nasce peraltro la filologia fine a sé stessa (il Museo e la Biblioteca di Alessandria d’Egitto), ed i romani ricchi cominciano a seguire corsi di filosofia in greco come forma di cultura di status (Cicerone, ecc.). Il distacco del sapere filosofico dal suo concetto mondano, essenziale nei trecento anni che vanno da Eraclito allo stoico Zenone, è dunque storicamente e socialmente legato ad un periodo storico di crematistica scatenata, dispotismo del denaro, fine del metron, indebolimento del katechon, ripiegamento nell’individualità politicamente del tutto impotente, ecc. E nonostante tutto questo, la filosofia continua ad essere praticata come forma di vita comunitaria dei saggi, ed il fatto che potesse essere fatta diventare un oggetto di specialismo socialmente neutralizzato non avrebbe neppure potuto essere immaginato dagli antichi in modo fantascientifico.

Il cristianesimo medioevale non avrebbe potuto avere facoltà separate di filosofia, a meno che queste ultime potessero essere identificate con la facoltà di “arti” nel periodo averroista parigino. Le facoltà canoniche erano tre (diritto, medicina e teologia), e questo non è un caso, perché era socialmente impensabile che si potessero costituire facoltà separate di filosofia, che sarebbero inevitabilmente potute diventare centri di contestazione globale alla legittimazione religiosa dell’ordine sociale feudale e signorile. Ma questo non bastò. L’esperienza di Occam (ed in parte dell’averroismo latino) dimostra come si fosse sviluppato un uso rivoluzionario e contestativo della teologia (nominalismo, chiesa invisibile, ecc.).

Molti filosofi del tempo, anche in area cristiana, erano in realtà medici prestati alla filosofia (come l’aristotelico Pietro Pomponazzi, laureatosi in medicina a Padova nel 1487). Spinoza era del tutto estraneo all’università, e rifiutò un’offerta ad Heidelberg per timore di non poter esprimersi “liberamente”. Chi conosce la corruzione della disciplina universitaria odierna può trovare addirittura comico che qualcuno si sia posto il problema di “esprimersi liberamente”, dal momento che il codice d’accesso alla filosofia universitaria di oggi si basa sulla adesione mimetica (e priva ormai di coscienza infelice) alle opinioni dei cattedratici che dispongono delle chiavi degli accessi per concorso, in una totale assenza di qualsivoglia “meritocrazia”.

La grande maggioranza degli illuministi francesi del Settecento, su cui sono state costruite centinaia di carriere universitarie, era composta da persone totalmente estranee agli apparati universitari dell’epoca. Kant e Hegel, invece, erano certamente prodotti universitari integrali (come poi, più di un secolo dopo, Husserl e Heidegger), ma erano ancora personaggi in cui si univano gli aspetti scolastici e gli aspetti mondani della filosofia. Kant utilizzava la sua cattedra per delegittimare il potere politico-normativo della metafisica (e per questo fu anche “richiamato”) ed Hegel intendeva rappresentare nel pensiero l’epoca nuova di gestazione e di trapasso che riteneva di interpretare adeguatamente. Persino i pensatori che inaugurano il pittoresco periodo di odio verso il sapere universitario (Schopenhauer e Nietzsche sopra ogni altro) sono prodotti integrali del curriculum universitario del tempo.

Tutto ciò si interrompe a metà Ottocento dopo il 1848, per ragioni di tipo storico e sociale prima ricordate. Il potere pubblico e mondano della filosofia come insieme di pensieri che interessano necessariamente ad ogni uomo (Weltbegriff) era infatti inversamente proporzionale al sapere positivistico erudito ed al neokantismo gnoseologico. Lukács è quindi ad un tempo un rivoluzionario ed un restauratore. Un rivoluzionario, perché cerca di innestare nel concetto scolastico della filosofia, intesa come sapere sistemico, i contenuti della critica dell’economia politica di Marx, che essendo una disciplina globale non integrabile nella divisione universitaria delle discipline, spezza e distrugge il falso sapere compartimentalizzato, ed in questo modo neutralizzato e disinnescato. Un restauratore, perché restaura il bimillenario carattere mondano (Weltbegriff) della filosofia. La filosofia torna ad essere ciò che interessa necessariamente ad ogni uomo, senza per questo cessare di essere anche l’esposizione categoriale e razionale del sapere.

Per finire con la segnalazione di questi punti generali, ve n’è forse ancora un quinto che fa da “cifra” interpretativa per la personalità di Lukács. Questo allievo novecentesco di Hegel e di Marx, che accettò Stalin per puro “realismo” storico e non certo perché ne condividesse i comportamenti e l’ideologia, mise sempre al primo posto le sue convinzioni soggettive, e non si adeguò mai al cosiddetto “giudizio dei fatti”. Per lui (come per altro per Marcuse) il realismo hegeliano non era mai l’effettuale o il vincente (e cioè ciò che i giornalisti filosoficamente analfabeti chiamano hegelismo), ma sempre ciò che storicamente avrebbe potuto essere portato al suo concetto (Begriff). Ripetutamente ricordò un verso della Pharsalia di Lucano che diceva: «La causa vincente piacque agli dei, ma quella vinta piacque invece a Catone» (causa victix diis placuit, sed victa Catoni). Ancora nella autobiografia in forma di dialogo rilasciata poco prima della morte (cfr. Pensiero vissuto) Lukács ricordò il motto Ugocsa non coronat per indicare la cifra del suo pensiero. Nel 1723 l’assemblea nazionale ungherese, formata dai rappresentanti di ciascuna regione o comitato, votò la Prammatica Sanzione, che prevedeva la successione di Maria Teresa al trono di suo padre, Carlo d’Asburgo. Gli unici che rifiutarono la propria approvazione furono i rappresentanti di Ugocsa, la più piccola regione dell’Ungheria di allora. Lukács intende dire con questo esempio storico che si può e si deve dire: «Mi oppongo, pur non contando nulla», oppure «Mantengo il mio disaccordo, pur sapendo che le cose andranno diversamente». E Lukács dice: «Per me Ugocsa non coronat, e cioè io non mi lascio comandare, ha sempre fatto da musica di accompagnamento per la Fenomenologia dello Spirito e per la Scienza della Logica di Hegel».

Ora che conosciamo la musica di accompagnamento alla filosofia di Lukács possiamo passare alla decifrazione filosofica della sua vita. Figlio dell’alta borghesia ebraica bilingue (tedesco e ungherese) di Budapest, Lukács è stato caratterizzato per tutta la vita da queste tre determinazioni. In quanto bilingue (ungherese e tedesco) ha subito avuto un rapporto universalistico con la lingua, scegliendo quella che gli sembrava più adatta alla comunicazione delle sue idee in quanto più conosciuta (e per questa ragione è passato abbastanza precocemente dall’ungherese al tedesco). Teniamo presente che per tutti gli anni Venti il tedesco era la prima lingua dell’Internazionale Comunista (solo dopo il 1929 fu sostituita dal russo – conseguenza inevitabile della costruzione del socialismo in un solo paese), era la lingua di comunicazione di tutta l’Europa centrale, settentrionale ed orientale, ed esercitava la funzione del greco nel mondo antico, del latino nel mondo medioevale e dell’inglese nella società odierna. Ma le lingue non sono mai strumenti neutrali di comunicazione.

Esse si portano dietro un mondo di simboli, in questo caso il mondo della grande letteratura (Goethe in primo luogo), e soprattutto il mondo della grande filosofia classica tedesca, che non comprende affatto soltanto il cosiddetto “idealismo”, ma anche Lessing, Herder, Kant, il dibattito postkantiano, fino a Schopenhauer ed allo stesso Feuerbach (e per quanto mi riguarda anche Marx, a tutti gli effetti, ma non credo che Lukács redivivus sarebbe d’accordo). Lukács appartiene alla lingua tedesca come Aristotele appartiene alla lingua greca. Non riesco a pensarlo all’interno dello spirito un po’ frivolo e razionalistico della lingua francese o all’interno dello spirito pragmatico, scettico-empirico ed operazionalistico della lingua inglese.

L’essere stato figlio dell’alta borghesia ebraica di Budapest è stato certo un caso, ma a mio avviso ne ha anche determinato lo spirito. Quando nacque, nel 1885, Hitler era ancora al di là da venire (anche se in realtà Hitler, come Lukács, nacque come cittadino dell’impero degli Asburgo nel 1889 – lo stesso anno di Heidegger e di Wittgenstein). Siamo lontanissimi dal clima politico-culturale che è poi sfociato in Auschwitz oppure nel sionismo nazionalistico-identitario come nuovo profilo di appartenenza del popolo ebraico. Allora gran parte della cultura ebraica dell’Europa Centrale era il luogo della problematizzazione universalistica (e quindi nient’affatto ebraica) della condizione umana.

Ci è difficilissimo comprendere oggi questa situazione storico-epocale del grande pensiero ebraico, particolarmente in un’epoca in cui gli ebrei sono stati consacrati ad una sorta di sacerdozio levitico europeo ed americano della nuova religione laica della cosiddetta “eccezionalità dell’olocausto”, con pellegrinaggi, scolaresche e giornate esclusive della “memoria” (laddove tutte le altre numerose “memorie” dell’ingiustizia e della oppressione non sono evidentemente ritenute degne di sacralizzazione postuma – penso soltanto alle centinaia di migliaia di vittime del colonialismo italiano in Libia ed in Etiopia, addirittura ignorate nei nostri indecenti manuali scolastici di storia). Si tratta – purtroppo – dell’ultima vittoria postuma di Hitler. Ma Lukács (che pure ebbe un fratello ucciso in un battaglione del lavoro riservato agli ebrei nel tempo del dominio dei fascisti ungheresi delle cosiddette Croci Frecciate) fa parte ancora dell’ultima leva del grande universalismo ebraico europeo, che ha nutrito fra l’altro il miglior pensiero comunista novecentesco (su questo punto l’odierna operazione di silenziamento mediatico-universitario è in pieno svolgimento, e sembra quasi che il grande pensiero filosofico ebraico del Novecento abbia soltanto prodotto la modesta professoressa Hannah Arendt), pensiero che mi ostino a pensare si trovi soltanto “silenziato” in una eclissi temporanea.

Di questo grande pensiero ebraico novecentesco Bloch ha interpretato il lato utopico-messianico (quello contro il quale i vari Löwith hanno pensato di “vincere facile”), mentre Lukács ne ha interpretato il lato razionalistico-realistico, quello appunto più difficile da stroncare, e che appunto per questa ragione viene preferibilmente silenziato e diffamato (stalinista, ecc.).

È bene comprendere fino in fondo la genesi del pensiero di Lukács, e su questo punto purtroppo la maggior parte delle monografie critiche non aiuta. Lukács, così come Marx, passò da studi giuridici alla filosofia, anche se si laureò egualmente in legge nell’università di Koloszvàr (oggi Cluj in Romania). Il passaggio dagli studi di diritto agli studi di filosofia è un vero e proprio topos della situazione esistenziale ottocentesca e novecentesca. In termini filosofici, potremmo dire che si tratta della pulsione esistenziale che spinge a passare dall’intelletto (Verstand) alla ragione dialettica (Vernunft).

Il diritto è il regno dell’intelletto astratto, della formalizzazione delle norme, dell’applicazione della fattispecie concreta all’astrazione universalizzante della norma, del superamento della vecchia giustizia del “caso per caso” (quella che Max Weber chiamava la «giustizia del cadì», cioè del giureconsulto arabo che giudicava in base alla propria saggezza ed esperienza). Esso è una scuola per l’intelletto, in quanto abitua alla precisione terminologica ed alle distinzioni (esemplare in proposito è stato per me il magistero epistemologico di Norberto Bobbio, ed esemplare anche il mio correlato rifiuto di accettare che si possa filosofare per dicotomie oppositive e non invece – ça va sans dire – per contraddizioni logico-dialettiche), ma nello stesso tempo invita a riconoscere nella “concretezza” del mondo così com’è il solo mondo possibile. Ma il mondo apparentemente “concreto” è in realtà il mondo completamente “astratto” di quella che Karel Kosík ha chiamato «pseudo-concretezza», ed il passaggio dalla facoltà di legge alla facoltà di filosofia rappresenta proprio il passaggio dall’accettazione metodologica della pseudoconcretezza dell’intelletto (Verstand) alla problematizzazione dialettica del significato espressivo della totalità (Vernunft).

Questo ha riguardato molte persone, dal giovane Marx al giovane Lukács. Ma qui appunto si situa esistenzialmente il «disincanto» (Entzauberung) di Lukács, disincanto peraltro ammesso apertamente da Lukács nella sua ultima autobiografia in forma di dialogo. È bene soffermarci un poco, perché non si tratta solo di un episodio della biografia lucacciana, ma di una vera e propria «figura dialettica universale» nel senso della Fenomenologia dello Spirito.

Sembra oggi che il termine «disincanto» (Entzauberung) debba essere inteso esclusivamente nel senso di Nietzsche (morte di Dio), di Weber (approdo della lunga storia del razionalismo occidentale al politeismo “infondato” dei valori), di Lyotard (disincanto verso la precedente credenza nelle grandi-narrazioni emancipative), di Löwith (scoperta che la presunta scienza marxista non è altro che secolarizzazione della vecchia escatologia ebraico-cristiana nel linguaggio dell’economia politica), di Colletti (scoperta che il pensiero di Marx non è altro che neoplatonismo riverniciato), ed infine di Heidegger letto secondo la coppia postmoderna Vattimo-Galimberti (presa d’atto che il mondo si è rinchiuso sopra di noi in una tecnica planetaria intrascendibile da accettare fatalmente). A pochi viene ormai in mente che questa sorta di fine della storia (attribuita sempre erroneamente ad Hegel, magari letto alla Kojève ed alla Fukuyama) non è che una formazione ideologico universitaria frutto di una congiuntura storica del tutto temporanea, che fra mezzo secolo verrà probabilmente storicizzata e riferita ad un clima culturale che non fa che registrare nel rarefatto e pittoresco mondo ideologico la vittoria tennistica del capitalismo neoliberale sul comunismo storico novecentesco realmente esistito nel ventennio 1985-2005.

Per Lukács il “disincanto” fu una cosa totalmente diversa. Fu il disincanto nei confronti dell’inserimento nel mondo delle istituzioni e dello spirito borghese, disincanto che si consumò nel decennio 1905-1915, e che si originò dalla scoperta semitraumatica della totale insensatezza dello specialismo universitario. E si noti bene che non si trattò di una delusione nei confronti di pittoreschi baroni e tromboni mediocri ed analfabeti, ma di un «disincanto» che sorse dalla frequentazione di maestri assoluti come Simmel e Weber. Vorrei insistere molto su questo punto: Lukács non fu disincantato dalla mediocrità di anonimi analfabeti saliti in cattedra per cooptazione tribale-mafiosa, ma fu disincantato dopo essere stato allievo di Simmel e di Weber.

Si tratta ovviamente di un disincanto che non sorgeva da una delusione psicologica contingente e “aleatoria”, ma di un disincanto verso la totalità della cultura “borghese” nel suo complesso, che trovava nell’insensatezza specialistica della cultura universitaria tedesca semplicemente il suo punto di “deviazione” (clinamen, parekklisis) per dirla con Epicuro. E Lukács ricorda un aneddoto che fu quasi decisivo per la sua vita. Aveva letto un ponderoso saggio accademico che discuteva del colore degli occhi di Lotte nel Werther, che Goethe afferma che erano blu, mentre in realtà erano neri. E Lukács scrive: «Io vidi in questo l’incarnazione di ciò che Hatvany chiamò la scienza di ciò che non vale la pena di sapere [Die Wissenschaft des Nichtwissenswerten]».

L’insensatezza dello specialismo universitario non era evidentemente che il riflesso superficiale di una ben più profonda e pericolosa insensatezza generale. E qui Lukács ebbe la fortuna di incontrare Ernst Bloch (suo coetaneo, un ebreo tedesco nato nel 1885). La decisività di questo incontro è testimoniata sempre in Pensiero Vissuto. Dice Lukács: «Su di me ebbe enorme influenza Bloch. Egli infatti mi convinse con il suo esempio che era possibile filosofare alla maniera tradizionale. Fino a quel momento io mio ero immerso nel neokantismo del mio tempo, ed adesso incontravo in Bloch il fenomeno di qualcuno che filosofava come se l’intera filosofia odierna non esistesse, e che era possibile filosofare al modo di Aristotele e di Hegel».

Considero questa citazione decisiva per l’interpretazione complessiva non solo di Lukács, ma dell’intero progetto di ontologia dell’essere sociale, e più modestamente del contenuto di tutti e quaranta i capitoli di questo mio saggio. È possibile, ed è anzi necessario, riprendere a filosofare nel modo di Aristotele e di Hegel. Questo non significa (sembra quasi sciocco doverlo dire!) che si debba coltivare l’illusione di riuscire a filosofare al loro livello. La storia della filosofia dispensa l’immortalità a pochissimi grandi del pensiero, e sono molti i chiamati, ma pochi gli eletti. Qualunque filosofo di medie capacità, che si metta a leggere Platone, Aristotele, Spinoza, Kant o Hegel, si rende conto immediatamente di non essere in grado di raggiungere la loro profondità e la loro capacità di analisi e di sintesi. Avviene un po’ come nel film di Forman Amadeus, in cui sia Giuseppe II che Salieri, dopo aver composto un motivetto ed aver ascoltato quello proposto da Mozart, si rendono immediatamente conto di trovarsi di fronte a qualcuno di superiore a loro.

Non si tratta quindi di voler competere con Aristotele o con Hegel. Chi si mettesse su questo piano ne uscirebbe sconfitto, e la delusione porterebbe a sicuri momenti di depressione. Si tratta di filosofare al modo di Aristotele e di Hegel, con la pretesa cioè di unire al «proprio tempo appreso nel pensiero» ciò che «è, ed è eternamente», o, se si vuole, di unire il concetto scolastico con il concetto mondano di filosofia, in cui l’esposizione sistematica delle categorie del pensiero, che passa anche necessariamente per la ricostruzione di tutta la storia della filosofia precedente, deve sempre essere rivolta a ciò che interessa necessariamente ad ogni uomo.

Nella sua vita, Lukács ha filosofato come Aristotele ed Hegel. Per questo è stato un esempio ed un maestro (quantomeno un mio maestro, insieme ad Hyppolite e pochissimi altri), e questo del tutto indipendentemente dall’accordo o dal disaccordo con singole tesi interpretative.

Senza Bloch, Lukács sarebbe forse rimasto invischiato nel neokantismo e nella gnoseologia, tipica disciplina per nullatenenti. E tuttavia, vale la pena esaminare tre dei suoi maestri, e cioè Simmel, Weber e Lenin. In proposito, al di là di precisazioni monografiche, mi limiterò ad esprimere il mio pensiero sul contributo di questi tre illustri personaggi.

Lukács considera nell’essenziale Simmel un po’ “frivolo”, mentre riconosce sempre la “serietà” di Weber. Dal momento che Lukács ha conosciuto personalmente Simmel, ed io l’ho soltanto letto sui libri, non ho nulla da eccepire. E tuttavia considero la Filosofia del Denaro di Simmel un capolavoro assoluto, ed un libro “paradossalmente” hegeliano. Si tratta di un’opera che considero intrisa di “marxismo involontario”, in un senso che ora spiegherò. I “marxisti volontari” del tempo, e cioè coloro che si autocertificavano soggettivamente come tali (ma anche i pazzi si autocertificano soggettivamente in modo sincero e veridico come Napoleoni), affrontavano il problema del denaro in modo trogloditico, come se esso fosse soltanto il vecchio “sterco del diavolo” di medioevale memoria, oppure fosse per definizione qualcosa di non-filosofico, ma semplicemente di “economico”, da lasciare cortesemente ai colleghi di economia. Simmel affronta la questione del denaro in modo dialettico, dal momento che da un lato il denaro è la sostanza astratta e generica del valore di scambio puro (ma questo lo aveva già detto bene Marx), ma dall’altro concretizza invece la fioritura di diverse forme sociali di vita. E sono appunto queste forme sociali di vita diverse la vera forza del capitalismo, che da un lato non si fonda su nessuna ideologia e neppure su nessuna grande narrazione (come opina erroneamente Lyotard), ma dall’altro trova un robustissimo consenso passivo proprio nella moltiplicazione di diverse forme di vita, che potremmo chiamare la concretizzazione sociale dell’astrazione economica. Nel noioso cimitero della filosofia marxista della Seconda internazionale (1989-1914) il non-marxista e marxista involontario Simmel è l’unico che di fatto porta avanti le intuizioni marxiane sul denaro. È impressionante altresì che in un’epoca in cui non esisteva ancora per nulla una vera “società dei consumi”, che sul continente europeo non arriva prima degli anni Sessanta del Novecento e che soltanto negli ultimi anni comincia ad articolarsi come dittatura leggera della pubblicità e della coazione all’uniformazione pluralistica delle varie forme di vita consentite, Simmel abbia individuato l’«errore metafisico» basato sul privilegiamento dei mezzi sui fini nel consumo e nell’uso dei prodotti della tecnica.

Ritengo poco probabile che Lukács non sia stato influenzato dalla teoria di Simmel sul carattere dialettico del denaro (che socialmente parlando rappresenta la concretizzazione plurale di una precedente astrazione singolare), e sull’errore metafisico che ne discende. Ripeto, si tratta di una stupenda teoria marxista-inconsapevole, del tutto degna di Hegel e di Marx. Certo, avendo letto Simmel, la “frivolezza” accademica della sua scrittura risulta ad occhio nudo. Quando Simmel morì nel 1918 Lukács ne scrisse un “necrologio filosofico” che ancora oggi si legge con interesse. E tuttavia, è il confronto con Max Weber il cuore della “risposta” di Lukács. Ancora una volta, vale la pena di confrontarsi con i punti più alti, e non certo con scagnozzi lottizzati di nessuna importanza. E proprio la grandezza di Weber ci permette di inquadrare il problema-Lukács al punto più alto possibile.

Da un lato, infatti, è oggi generalmente accettata la tesi per cui Weber discende direttamente da Nietzsche nel “nucleo metafisico” delle sue opinioni, ed il neokantismo funziona solo come metodologia scientifica delle sue categorizzazioni. La teoria weberiana del nesso fra teoria del razionalismo occidentale, disincanto del mondo, politeismo dei valori ed insuperabilità della gabbia d’acciaio deriva direttamente dall’annuncio nicciano della morte di Dio, che però viene “smussato” nei suoi angoli acuti togliendone gli aspetti profetico-esagitati, eliminando ogni “superamento” da parte del superuomo-oltreuomo della fatale gabbia d’acciaio del capitalismo, e soprattutto chiamando ipocritamente “etica della responsabilità” la semplice presa in carico delle compatibilità riproduttive della società borghese-capitalistica. Lukács, essendo stato allievo diretto di Weber, capisce benissimo che tutto il pensiero di Weber gira intorno al nesso fra fine della filosofia e accettazione “destinale” dell’insuperabilità della società borghese-capitalistica, ieraticamente travestita con il pomposo e supponente nome di “modernità” (Weber, morto nel 1920, non poteva ovviamente immaginare la ridicola semplificazione del suo pensiero da parte dell’ingrato seppellitore dei francofortesi Juergen Habermas). E la filosofia, ovviamente, cui si intima di smettere di esistere come giudizio sulla totalità del mondo, viene seppellita proprio perché bisogna togliere progressivamente qualsiasi istanza “esterna” alla riproduzione “destinale” del mondo. Lukács capisce bene tutto questo, ed appunto per questo tutto il suo pensiero deve essere interpretato in termini di restaurazione della grande tradizione che va da Aristotele ad Hegel. Non si capisce altrimenti il significato della frase «fare come se la filosofia moderna non esistesse, e riprendere a filosofare come Aristotele ed Hegel». L’ontologia dell’essere sociale (non alludo ai titoli dei saggi, ma alla prospettiva filosofica espressa con questo termine) non è altro che questo: filosofare nel Novecento come se fossimo Aristotele ed Hegel, consapevoli certamente di non poter arrivare al loro livello, ma nello stesso tempo seguire il loro esempio.

Dall’altro lato, il fatto che Lukács dopo il 1918 abbia aderito ad un “marxismo” basato sulla (erronea ed incorreggibile) teoria del rispecchiamento non poteva permettere di portare fino in fondo questo progetto di restaurazione del modo di filosofare come Aristotele e come Hegel. È noto che il capolavoro del giovane Lukács (cfr. Storia e coscienza di classe, scritta peraltro da un trentottenne, neppure poi molto “giovane”) non si basa sulla teoria del rispecchiamento, ma sulla teoria “idealistica” dell’unità fra soggetto ed oggetto (e cioè sul proletariato come lato soggettivo e sulla storia universale dell’umanità come lato oggettivo), ma è altresì noto che a partire dal 1926-1931 Lukács aderisce formalmente al canone filosofico marxista staliniano. Questo canone non prevede (ed anzi condanna esplicitamente come “idealismo”) il carattere veritativo della pratica filosofica, che viene anzi degradata a pratica ideologica. Lukács accetta formalmente questa degradazione, con quella che potremmo chiamare una “guerra di guerriglia” e di sopravvivenza, e continua a fare dell’alta filosofia chiamandola nello stesso tempo “ideologia”. Ma alla fine l’accettazione della teoria del rispecchiamento si vendica, perché nella sua stessa formulazione dell’ontologia dell’essere sociale egli deve necessariamente limitarsi ad elencare tre e solo tre forme di rispecchiamento conoscitivo (quotidiano, artistico e scientifico), ed in questo modo la filosofia sparisce. Dal momento che la filosofia non può avere per sua natura un carattere “rispecchiante” di un oggetto esistente al di fuori di noi, ne consegue che essa non può avere alcun carattere conoscitivo, e quindi ovviamente nessun carattere veritativo. Ecco, questo è in poche parole la contraddizione-Lukács, che però rivela non solo un suo “limite”, ma esprime la contraddizione fondamentale del marxismo dell’intero Novecento. Contraddizione che riformulerò brevemente così: da un lato, soltanto la ripresa esplicita della tradizione conoscitiva e veritativa della filosofia, da Aristotele ad Hegel, avrebbe potuto “salvare” l’autocoscienza dei marxisti stessi rispetto ai processi storico-sociali in atto; dall’altro, questa ripresa esplicita era impossibile, perché l’ideologizzazione del marxismo operata dagli apparati politico-burocratici, con la connessa imposizione del materialismo dialettico inteso come mistificata naturalizzazione della storia e con la connessa diffamazione dell’idealismo inteso come difesa della religione, costringeva ad imprigionare la filosofia stessa nella prigione dell’ideologia, forma di conoscenza che per sua stessa natura è oggetto di manipolazione e di amministrazione gestita da apparati appositi.

Lukács evitò la guerra 1914-1918, non so se perché era raccomandato o perché fu “riformato” per ragioni di salute. In Ungheria ho ascoltato entrambe le ragioni. Nel 1918, alla fine della guerra, andò ad iscriversi al partito comunista ungherese di Bela Kun, personaggio che non stimò mai (e che sparì poi nelle purghe di Stalin del 1936-38), e disse: «Prima o poi bisognerà comunque farlo». Restò comunista in interiore homine, ma anche pubblicamente (morì nel 1971 con la tessera del Partito ungherese del lavoro). Nel 1919 fu commissario nell’effimera Repubblica comunista ungherese dei consigli, e sarebbe sicuramente stato fucilato dai controrivoluzionari vincitori, se non fosse scappato a Vienna. E tuttavia ritengo che l’avvenimento decisivo della sua vita si determinò quando fu costretto ad ordinare la fucilazione di alcuni disertori al fronte, in occasione dell’invasione dell’esercito romeno. Essere costretti a sporcarsi le mani di sangue è un’esperienza che è stata risparmiata alla mia generazione (sono nato nel 1943). Da un lato, ne sono ovviamente ben contento, dall’altro sono consapevole che non è giusto condannare troppo in fretta persone che si sono trovate in questo tragico dilemma. Lukács conosceva ovviamente la figura hegeliana della cosiddetta “anima bella”, che vive all’interno di dilemmi morali astratti, e crede di essere “morale” perché la storia non la costringe mai a “sporcarsi le mani”. È facile avere le mani pulite quando la storia non ci costringe – lo vogliamo o no – a sporcarcele. Lukács pare se le sia sporcate. Anche Bobbio se le è sporcate scrivendo una lettera servile a Mussolini in occasione del suo brevissimo arresto. Personalmente, seguo il principio di non salire in cattedra per condannare persone che hanno vissuto un periodo storico più tragico di quello che mi è toccato in sorte. Ma questi dilemmi sono per loro stessa natura irrisolvibili. Risolvibile è invece il dilemma etico (etico, non morale) dell’eventuale adesione al comunismo nel 1918, e cioè non in una congiuntura astratta, ma in una congiuntura storica ben concreta, che si tratta appunto di comprendere fino in fondo.

L’adesione di Lukács al comunismo leninista (perché il suo comunismo fu sempre incrollabilmente “leninista” fino alla fine) fu da subito un dilemma etico. La comprensione di questo fatto non è affatto difficile, se ci si riporta a quegli anni, e si pensa alla spaventosa e sanguinosa mattanza cui furono sottoposti i popoli europei a causa delle scelte imperialiste della borghesia europea nel 1914. Il fatto è che la tendenza egemone oggi è quella di dimenticare questa sanguinosa mattanza e “retrodatare” la condanna dello stalinismo al 1917. Esemplare è in proposito la bibbia di questa retrodatazione, il Passato di una Illusione di François Furet. Il comunismo diventa una figura filosofica della propria personale illusione giovanile (Furet fu ovviamente un comunista in gioventù, poi ovviamente “deluso”, che trasforma l’elaborazione della propria precedente illusione in visione disincantata della storia universale secondo il vecchio consolidato modello del passaggio dall’utopia al terrore), ed in questo modo si dimenticano le scelte oligarchiche del 1914, fatte alle spalle dei popoli ridotti a carne da cannone, che sono l’unica legittimazione storica reale del successivo comunismo storico novecentesco. È chiaro che questa legittimazione non può essere trovata in un barbuto signore tedesco chiamato Marx, e neppure nel marxismo deterministico-evoluzionistico di Kautsky, che a posteriori possiamo considerare una delle più infondate ed illusorie teorie dell’intero sistema solare (Plutone incluso).

Si può essere “marxisti” senza essere “leninisti”? Ovviamente sì, si può esserlo. Ad esempio Rosa Luxemburg, Kautsky, Bernstein, il govane Lyotard, Korsch, Mattick, Pannekoek, lo sono stati. Anche Adorno e Bloch non sono certo stati “leninisti”. Ma Lukács lo è stato (e sulla sua scia, il modesto scrivente). Ora, ognuno può definire il leninismo come vuole, e per esempio Stalin lo ha fatto in due importanti scritti del 1924 e del 1926. Ho già espresso un giudizio molto severo sulla filosofia di Lenin, che personalmente rifiuto radicalmente. Ma, a parte la (per me) sacrosanta iniziativa rivoluzionaria del 1917 esiste una rivoluzione copernicana fatta da Lenin rispetto allo stesso Marx, che è la teoria dell’imperialismo. Dal momento che lo stesso Lukács la condivideva, mi sembra opportuno parlarne, dopo aver però segnalato il punto nodale dell’interpretazione lucacciana di Lenin, che è pressoché identica a quella di Antonio Gramsci. Lenin, in altre parole, come portatore dell’attualità della rivoluzione.

Antonio Gramsci definì la rivoluzione russa del 1917 in termini di rivoluzione contro il Capitale, intendendo non certo il primo volume del Capitale di Marx, ma l’interpretazione evoluzionistica e deterministica del marxismo prevalente nella Seconda Internazionale socialista. Il libretto di Lukács intitolato Lenin, e pubblicato nel 1924, sostiene esattamente la stessa tesi di Gramsci. Un esame comparativo dei lavori filosofici rispettivi di Lukács e di Gramsci porterebbe a riscontrare somiglianze molto forti. Ad esempio le critiche di Gramsci e di Lukács al meccanicismo del Manuale di Bucharin sono praticamente identiche. Lukács era nato nel 1885 e Gramsci nel 1891, in posti che più diversi non avrebbero potuto essere, Budapest e la provincia sarda. Ma entrambi facevano parte di quella vera e propria “generazione magica” per cui la filosofia raggiunse il massimo del Weltbegriff, cioè della concezione per cui essa tratta di ciò che interessa necessariamente ad ogni uomo. Le differenze di dettaglio, pur esistenti, vengono dopo.

Non può esistere in Marx una compiuta teoria dell’imperialismo, per il semplice fatto che l’imperialismo vero e proprio è un prodotto della grande depressione economica 1873-1896, che tra l’altro produsse anche la formazione ideologica marxista engelsiano-kautskiana del ventennio 1875-1895 e la correlata teoria del cosiddetto (e completamente inesistente) crollo del capitalismo. Esiste però (eccome se esiste!) una teoria del colonialismo, e del fatto che il commercio colonialistico è stato uno dei presupposti per lo sviluppo capitalistico (secondo Paul Sweezy il principale, secondo Maurice Dobb invece soltanto un fattore coadiuvante, il principale essendo invece la trasformazione capitalistica settecentesca dell’agricoltura inglese). Se è così (e mi sembra che sia filologicamente ineccepibile!), cadono allora tutte le interpretazioni sul carattere “progressivo” del capitalismo e sulla giustificazione indiretta che può essere data alla colonizzazione capitalistica.

È vero che Marx (ma solo nei primi anni cinquanta, dopo sempre meno, e negli ultimi anni per nulla) si è lasciato andare a (stupide) affermazioni sul carattere “progressivo” del colonialismo (in particolare riguardo all’India, ma anche lì solo fino all’indegno massacro che seguì l’insurrezione dei cepoys del 1857), ma in un contesto più largo queste (stupide) affermazioni devono essere contestualizzate, e se le si contestualizza queste (stupide) affermazioni rivelano che Marx ancora dipende dalla filosofia occidentalistica ed eurocentrica di Hegel. Per ammirare Marx, e ritenersi suoi allievi critici ed indipendenti, non c’è mica bisogno di sottoscrivere bovinamente tutte le frasi che può aver scritto nella sua vita! Gli antichi dicevano: quandoque dormitat atque Homerus, e chi non lo capisce se lo vada a cercare nel dizionario!

Lo “spirito” di Marx era totalmente anticoloniale, e possiamo quindi ipotizzare che sarebbe stato anti-imperialista, come possiamo ipotizzare che non si sarebbe riconosciuto nel modello socialista di Stalin, ed avrebbe avuto solo disprezzo e disapprovazione integrale per il modello nazionalsocialistico di Hitler. Non si tratta allora di evocare Marx in una seduta spiritica per fargli dire con i tavolini che ballano che cosa ha pensato di Bush e di Bin Laden, ma semplicemente di interpretare il suo spirito generale. E allora la mia conclusione è questa: chi nega il carattere “marxiano” della categoria di imperialismo uccide Marx per la seconda volta. L’accettazione della categoria di imperialismo è la cartina di tornasole per sapere se è possibile essere marxisti oggi.

Il geografo marxista David Harvey ha scritto recentemente un’opera (cfr. The new Imperialism) che aggiorna creativamente le opere precedenti, tenendo conto dei nuovi dati storico-politici. Harvey distingue tre fasi successive del dibattito sull’imperialismo. La prima è quella classica (Hobson, Lenin, Rosa Luxemburg), che si basava soprattutto sui tre elementi della sovraccumulazione del capitale, del sottoconsumo che ne derivava e della spartizione del mercato mondiale e dell’accesso alle materia da parte delle principali potenze del periodo (Germania, Inghilterra, Francia, Russia, Giappone, ecc.). Questa prima forma classica è stata com’è noto la principale causa del sanguinoso macello della grande guerra 1914-1918, ed anche della benemerita e mai abbastanza lodata rivoluzione russa del 1917. La seconda fase ha avuto il suo coronamento negli anni Sessanta del Novecento, e si è soprattutto fondata sulle nuove relazioni neocoloniali che si sono sviluppate dopo le grandi lotte anticoloniali dei due decenni precedenti (Samir Amin, Paul Sweezy, Gunder Frank, ecc.). La terza fase, quella attuale, si basa sulla globalizzazione, sul dominio dell’impero americano e sulle nuove contraddizioni che questo odioso dominio comporta (resistenze nazionali e religiose, emergenza di nuovi poli imperialistici ancora dominati, tipo India, Cina, Brasile, ecc.). In una seria ontologia dell’essere sociale questi temi dovrebbero coprire uno spazio più grande ancora di quello che è stato dedicato a Cartesio, Spinoza, Kant e Nietzsche. Non potendolo fare per ragioni di spazio me ne scuso, ma neppure voglio dimenticare di sottolineare la mia opinione così: la questione dell’imperialismo è ancora più importante della questione del rapporto fra Hegel e Marx, e solo Dio sa quanto importanza io dia al rapporto fra Hegel e Marx!

Tutto questo lo dovevo a Lukács. Detto questo, prima di affrontare il nostro problema centrale, quello della natura dell’ontologia dell’essere sociale di Lukács, voglio ancora soffermarmi liberamente su due temi importanti e generalmente poco trattati dai commentatori lucacciani, quelli del rapporto rispettivo di Lukács con Hitler e con Stalin.

A proposito di Hitler, Lukács si muove in direzione opposta al modo in cui i due circhi complementari mediatico ed universitario affrontano il problema di Hitler. Il politicamente corretto di oggi, la cui dittatura corrisponde a tutte le forme precedenti di costrizione ideologica (ma che per la natura fluida del capitalismo può limitarsi a demonizzazioni e silenziamenti, diffamazioni e ridicolizzazioni, senza bisogno di ricorrere ad artigianali e pittoreschi roghi e tenaglie roventi), non riesce a discutere realmente di Hitler, ed oscilla fra la demonizzazione inesplicabile, l’irruzione metafisica del diabolico nella storia, la banalità del male, l’eccezionalità espiatorio-religiosa di Auschwitz, la necessità di negare addirittura il legittimo fatto nazionale tedesco per limitarsi ad un impossibile e demenziale “patriottismo della costituzione”, ecc. Si ha in questo modo una classica rimozione psicoanalitica di Hitler, che viene così interamente destoricizzato, desocializzato e deculturalizzato. Chi pensa in questo modo di poter “tenere lontane” le giovani generazioni da un nuovo Hitler sappia che con questo insieme di demonizzazione, desocializzazione, destoricizzazione, deculturalizzazione (insieme ideologicamente necessario per costituire la nuova religione atea dell’olocausto, la cui funzione è l’apologetica indiretta – il termine è lucacciano, e quindi utilizziamolo – del sionismo e del suo garante strategico, l’impero USA e le sue basi militari che costellano il mondo) otterrà l’effetto contrario. Il solo modo di condannare Hitler, che merita ovviamente una condanna senza appello e senza giustificazione (è infatti vero che Auschwitz, pur non essendo affatto stato “unico”, non consente nessuna giustificazione), consiste nella sua collocazione storica. In questa ottica deve essere letto il capolavoro di Lukács La Distruzione della Ragione, che non è affatto una “lavagna dei cattivi”, e neppure la cucitura storica di una grande narrazione demoniaca, ma è una riflessione sulle vicende del razionalismo occidentale. L’ebreo Lukács non si sogna neppure di scrivere una storia sacra giudeocentrica del Novecento (l’espressione «giudeocentrica» è di Domenico Losurdo). Egli ne scrive una storia culturale, e su questo deve essere giudicato.

A proposito della visione del mondo complessiva (Weltanschauung) nazionalsocialista Lukács sostiene che essa si basa sul “trasferimento” alla strada di quanto era stato a lungo soltanto attività di salotti, caffè e studi degli eruditi. E mi sembra proprio che sia così. Altro che irruzione del demoniaco nella storia, banalità del male ed altre pittoresche sciocchezze! Non è forse vero che oggi salotti, caffè, studi degli eruditi teorizzano la necessità storica di un impero americano? E possiamo allora stupirci che negli USA i tifosi mascalzoni dei politici repubblicani inalberino cartelli con su scritto “Bomb Iran”? I Sudeti, che Hitler occupò nel 1938, ed in cui c’era un’inequivocabile stragrande maggioranza tedesca, sono forse diversi dal Kosovo del 1999, in cui c’era una stragrande maggioranza albanese? Perché portare via una provincia alla Cecoslovacchia nel 1938 è demoniaco, e portare via una provincia alla Jugoslavia nel 1999 è una meritoria difesa dei diritti umani?

Il lettore capisce perfettamente che non intendo affatto “giustificare” Hitler. Tutto al contrario! Io penso che Hitler debba essere condannato senza appello, ma questa condanna deve essere storica, sociale, filosofica, razionale, e non deve dar luogo a nuove religioni con i rituali ed i pellegrinaggi del caso. Chi vuole condannare Hitler legga invece la Distruzione della Ragione, e capirà il rapporto fra l’elaborazione di concezioni sofisticate ed il loro “trasferimento” nella strada.

A parte questo, l’opera lucacciana è un vero tesoro di stimoli, ed è appunto per questo che oggi è diffamata ed ignorata. Lukács ha elaborato per il comportamento diffuso degli intellettuali il termine «Grand Hotel dell’Abisso» (Hotel Abgrund), per indicare quegli alberghi di lusso costruiti sulle cascate, in modo che sorseggiando il tè ed ascoltando buona musica classica l’ospite potesse dare di tanto in tanto uno sguardo d’orrore sul burrone che si apriva sotto il suo sicuro balcone. Si tratta (e non intendo affatto nasconderlo) di uno dei maggiori contributi alla sociologia degli intellettuali che sia mai stato scritto. Un’altra categoria lucacciana assai utile è quella di «apologia indiretta». Se infatti un sistema sociale appare troppo ingiusto per essere direttamente difendibile, un buon modo per farne l’apologia è sostenere che è il “meno peggiore possibile”. Vediamo oggi, a quarant’anni dalla morte di Lukács, che il capitalismo imperialistico globalizzato si legittima con la continua ed insistita retroazione della condanna del socialismo. E poi c’è chi dice che Lukács sarebbe sorpassato!

Allievo di Max Weber, Lukács non si stanca di ripetere che la tesi fondamentale di Weber è quella dell’impossibilità del socialismo, per cui (cito) «l’apparente storicità delle considerazioni sociologiche tende – sia pure mai in modo esplicito – a giustificare il capitalismo come sistema necessario e sostanzialmente non più modificabile, ed a scoprire le pretese contraddizioni economiche e sociali del socialismo che ne devono rendere impossibile la realizzazione sia nel campo teorico che nel campo pratico». Non si poteva dire meglio, ed inquadrare meglio il problema.

Le osservazioni intelligenti nel campo della storia della filosofia sono innumerevoli. Mi limito a segnalare che Lukács afferma che l’attribuire una mentalità antistorica all’illuminismo è un’infondata leggenda borghese, perché anzi l’illuminismo ha a tutti gli effetti scoperto la storia in senso moderno (e richiamo qui le autorevoli opinioni di Cassirer e di Koselleck). Egli afferma anche che Fichte, volendo dedurre l’intero mondo della conoscenza dalla dialettica dell’Io e del Non-Io (quella che Kant definì uno «scandalo della filosofia») riprende la stessa rigorosa immanenza con cui Spinoza deduceva il suo mondo dall’estensione e dal pensiero, e questo rilievo, a mio avviso, consente una rilettura alternativa dell’intera storia della filosofia (come quella che il lettore ha sotto gli occhi). Per finire, Lukács sostiene che la lotta di Hegel contro Schelling non deve essere ritenuta un semplice battibecco accademico fra specialisti, ma deve essere ritenuta una lotta fra la costruzione della dialettica e la fuga da essa nell’irrazionalismo.

La difesa del razionalismo dialettico in Lukács deve quindi essere letta come l’unico vaccino possibile non solo contro Hitler, ma contro qualsiasi “ritorno” di Hitler. Com’è chiaro, si tratta di una strategia filosofica e culturale opposta a quella dominante oggi, che si fonda sulla tesi irrazionalistica ed antidialettica della demonicità incomparabile di Hitler, per cui i cosiddetti “negazionisti”, assimilati ai bestemmiatori medioevali, sono l’unica corrente culturale del mondo (occidentale) cui viene negato il diritto di parola, che viene invece consentito a tutti gli altri bestemmiatori. Naturalmente, so bene che nel chiacchiericcio diffamatorio del Gerede odierno, simili affermazioni vengono subito intese in termini di cripto-nazismo, antisemitismo ed approvazione del negazionismo. È del tutto inutile negare che sia così. So bene che le kantiane regole della prudenza consigliano di non svegliare il cane che dorme. E tuttavia non si può fare a meno di ritornare sempre al punto essenziale, che riformulerò ancora una volta così: volete condannare Hitler? Volete che in futuro un nuovo Hitler non possa affacciarsi più nel teatro della storia? Bene, avete ragione, perché quello che ha fatto Hitler è completamente inaccettabile e non può essere in alcun modo giustificato. Auschwitz, ad esempio, è del tutto inaccettabile. Ma sappiate che la strategia irrazionalistica della demonizzazione, della destoricizzazione e della mescolanza fra banalità del male ed irruzione del diabolico nella storia non serve agli scopi che vi proponete. Anzi, il modo ieratico-rituale-religioso che avete scelto è il modo migliore per fare sì che quando un nuovo Hitler si riaffaccerà non potrà essere riconosciuto. Solo uno sciocco, infatti, può pensare che si ripresenterà eguale a quello precedente, con i baffetti e la stridula pronuncia tedesca. Si ripresenterà totalmente diverso, ovviamente, e solo un’educazione filosofica razionale e dialettica potrà forse permettere di riconoscerlo, e quindi di combatterlo. Persino il medioevale più scemo sapeva che il diavolo non si presenta mai con il forcone e la coda arricciata. Vogliamo forse essere al di sotto del medioevale più scemo?

Ho riassunto qui non tanto le opinioni specifiche di Lukács su Hitler (che erano ovviamente pessime), quanto l’approccio razionalistico al problema-Hitler. Esporrò ora le mie considerazioni sull’approccio di Lukács al problema-Stalin. Queste considerazioni sono infatti molto più importanti di quelle svolte in precedenza. L’ostilità di Lukács verso Hitler è infatti del tutto evidente, ed è sufficiente sottolinearne l’elemento critico di tipo dialettico-razionalistico. L’approccio di Lukács verso il problema-Stalin è invece immensamente più significativo, perché è esemplare di molti approcci, sia di contemporanei sia di pensatori posteriori. Ammetto apertamente che il mio personale approccio al problema-Stalin è sostanzialmente simile a quello di Lukács, e perciò prenderò “due piccioni con un fava”, perché parlerò di Lukács, ma dirò anche come io vedo la questione nei suoi tratti essenziali.

È stato Lukács uno “stalinista”? Bisogna ovviamente intendersi bene sul termine. Se mettiamo nel grande cesto degli “stalinisti” tutti i comunisti novecenteschi che non hanno rotto politicamente in modo esplicito con il comunismo maggioritario “ufficiale” di Stalin allora sì, lo è stato. Ma, appunto, nego che il criterio della rottura esplicita con Stalin sia un parametro storiografico utile. E così come a proposito della collocazione politica di Hegel ho utilizzato in un precedente capitolo un modello spaziale a tre lati (i vecchi ceti di Metternich, la furia del dileguare del contrattualismo rivoluzionario di Rousseau e di Robespierre, ed infine la società civile che fonda lo Stato dell’economia politica liberale inglese), nello stesso modo utilizzerò per Lukács un modello simile, basato sulle possibilità politiche concrete che aveva Lukács nel corso della sua vita terrena, e non sulla retrodatazione religiosa che è oggi corrente, retrodatazione basata sulla demonizzazione di Stalin come incarnazione del male assoluto (sia pure un pochino meno di Hitler, perché ha fatto le fosse di Katyn ed il sistema schiavistico dei gulag, ma non ha fatto l’imparagonabile ed eccezionale Auschwitz). Si tratta di un’analisi molto importante, che non riguarda solo Lukács, ma l’intero Novecento politico-filosofico.

Lukács si riconosceva in una filosofia della storia universale basata sull’idea per cui il capitalismo, lungi dall’essere il coronamento razionale della storia universale (Weber), era un momento di passaggio necessario (e cioè l’hegeliano potere del negativo) verso una società emancipata, che chiamava “comunismo” perché così l’avevano chiamata i suoi due maestri Marx e Lenin (è importante la paroletta due, perché non si pensi che Lukács sia stato un allievo “diretto” di Marx). Bene, si tratta esattamente della stessa filosofia della storia che io coltivo, ed ecco perché trovo ridicolo che si possa dire che il pensiero di Marx non è una filosofia della storia, e non la contiene neppure implicitamente. Il fatto che una simile tesi, analoga a quella della terra piatta, venga sostenuta seriamente, può per me essere spiegato soltanto in termini di pressione sociale sugli intellettuali, cui viene “ordinato” di essere moderni, postmoderni, post-metafisici, scientifici e via ordinando. Non è quindi possibile capire Lukács se non lo si colloca in questo quadro di storia universale.

La storia universale, però, può essere pensata con le categorie astratto-dicotomiche dell’intelletto (Verstand), oppure con le categorie dialettico-ontologiche della ragione (Vernunft). Se penso la storia universale (e non posso fare a meno di pensarla – persino i suoi negatori più feroci, come i neopositivisti e gli althusseriani, in realtà la pensano, ma poiché non la tematizzano, finiscono per cadere in forme grottesche come la fine capitalistica della storia, l’aleatorietà oppure le moltitudini desideranti in lotta con un impero deterritorializzato e privo di Stato-nazione), e la penso sulla base dell’intelletto (Verstand), non posso fare a meno di pensarla con le categorie aporetiche, dicotomiche ed astratte dell’intelletto, ed allora si scatena un carnevale di contraddizioni logiche e di opposizioni reali. Ma la contraddizione è ontologica, e non è mai solamente logica (ed ecco perché la preferenza di Hegel nei confronti di Kant non è un affare di seminario universitario, ma è una questione che «riguarda direttamente ogni uomo», Weltbegriff). Se affronto il problema-Stalin in chiave intellettiva (Verstand) ne risultano un mucchio di conseguenze, fra le quali il fatto che egli non applica Marx e Lenin, e quindi non si comporta come avrebbe dovuto comportarsi se avesse veramente “applicato” Marx e Lenin. Ma Lukács cercava di affrontare il problema-Stalin con la ragione dialettica (Vernunft), ed è così giunto a questa conclusione: in termini di filosofia della storia, il passaggio dal capitalismo al socialismo è ad un tempo necessario e buono (l’unione di questi due attributi costituisce un concetto, Begriff); e tuttavia questo passaggio non riesce a compiersi secondo le ipotesi di Marx prima e Lenin dopo; bisogna hegelianamente cercare di capire perché non si compie in quel modo, ma in un modo nuovo ed inedito; una volta che lo si sia capito (o creduto soggettivamente di capire), si può pensare che si tratti di una deformazione grave, ma correggibile una volta che si sia superata la fase “tattica” dell’emergenza, per raggiungere una fase “strategica” in cui il passaggio al socialismo possa essere “ripreso” su nuove basi.

Questo è forse stalinismo? Non lo credo proprio. È forse un errore sulla natura dello stalinismo, ma non è assolutamente “stalinismo”. Forse che riconoscersi in una filosofia della storia del superamento del capitalismo è “stalinismo”? Forse che il pensare (magari sbagliandosi – ma è facile dirlo nel 2013 con il noto “senno del poi”) che lo stalinismo sia solo una malaugurata fase storica “immatura” destinata ad essere superata è stalinismo? Non lo credo proprio.

Agnes Heller, che senza essere mai stata una “allieva” di Lukács (non condivideva nulla del progetto dell’ontologia dell’essere sociale, unico vero testamento di Lukács, odiava il socialismo reale, ed ha accolto con rauche grida di gioia la restaurazione del capitalismo) ne ha però studiato seriamente la personalità, ed ha a mio avviso risolto brillantemente l’enigma teorico del cosiddetto “mistero-Lukács”. La Heller distingue due tipi di marxismo, riferiti al sistema socialista di tipo sovietico-staliniano, il marxismo dottrinario ed il marxismo ideologico. Per “dottrinario” intende l’unica dottrina ufficiale obbligatoria di Stato, per “ideologico” intende la libera coltivazione pluralistica delle interpretazioni di Marx. La terminologia è cattiva, perché in realtà c’era da un lato una dottrina ideologica, e dall’altra una libera coltivazione filosofica, e questa confusione terminologica dice tutto sul livello penoso del pensiero della Heller. E tuttavia prendiamo provvisoriamente per buona questa terminologia. Secondo la Heller nel sistema di dominio sovietico tutti i tipi di marxismo ideologico (compreso paradossalmente quello che ritiene che Stalin abbia avuto ragione) sono fuori legge per la semplice ragione che essi implicano il pluralismo per la loro stessa natura “ideologica”.

Ma la stessa esistenza di una “ideologia marxista” è una sfida al diritto assoluto del sovrano a porsi come il solo interprete autentico della dottrina. Scrive la Heller, e devo ammettere che scrive qualcosa di geniale: «Quando accusò Lukács di “stalinismo”, neppure Deutscher afferrò il nocciolo del problema. Lukács poteva accettare tutte le teorie di Stalin che voleva, ma non poteva egualmente diventare stalinista, per la semplice ragione che praticava un marxismo di tipo ideologico. Il suo marxismo restava comunque illegale, rappresentava una forma di pluralismo, nonostante il contenuto dei suoi scritti. Egli non rinunciava al suo diritto di interpretare in modo indipendente la teoria, un diritto che non era affatto garantito. […] la logica del sistema non poteva tollerare una teoria sociale originale ed indipendente, almeno non senza le tendenze eufemisticamente definite “amministrative” del regime». Per chi conosce la logica riproduttiva di queste fogne a cielo aperto, che mettevano in prigione particolarmente gli oppositori “marxisti” indipendenti, “amministrativo” significava nell’ordine richiamo, minaccia, ricatto, licenziamento, prigione e morte.

Devo ammettere che nonostante la mia irrefrenabile antipatia per la cosiddetta (ed inesistente) “scuola di Budapest”, che ha usato Lukács per autosponsorizzarsi nell’accademia occidentale per poi pugnalarlo dopo morto (in pittoresco e sintomatico parallelismo con ciò che Habermas ha fatto con i suoi maestri francofortesi – si tratta evidentemente di un fatto sociale, cioè di un rinnegamento funzionale ad un codice d’accesso alla nuova rispettabilità post-comunista), la Heller coglie veramente in modo eccellente il nocciolo della questione. Lukács poteva anche condividere quasi tutte le idee di Stalin, ma non poteva per questo diventare “stalinista”, perché lo stalinismo non consiste in un insieme di libere opinioni, ma in una rinuncia ad avere opinioni indipendenti. La teoria politica dello stalinismo non può essere spiegata attraverso Rousseau, Hegel o Marx, ma soltanto attraverso Hobbes, che teorizza il monopolio assoluto del Leviatano statale sull’unica religione consentita, non certo perché questa religione fosse quella giusta (Hobbes era totalmente ateo e materialista), ma unicamente perché il solo modo di garantire l’ordine sociale dalle rivolte era la garanzia statale-poliziesca-militare sull’unicità della dottrina. E questo Lukács non poteva garantirlo, perché la sua educazione filosofica hegelo-marxiana non poteva permettergli di rinunciare a pensare.

C’è qui lo spazio per una ulteriore osservazione. A partire da Thomas Mann, esiste una pittoresca (ed infondata) tradizione che connota Lukács come il gesuita della rivoluzione. In questo caso, ovviamente, il “gesuitismo” è usato come metafora per indicare i sofistici allineamenti alle giustificazioni del potere, in questo caso quello papale. Ma qui si dimentica che il fondatore dell’ordine dei gesuiti, il basco spagnolo Ignazio di Loyola, aveva teorizzato che bisognava obbedire al papa come un “corpo morto” (perinde ac cadaver). Ma Lukács, proprio per le ragioni esposte dalla Heller, non poteva certamente essere un “gesuita”, in quanto non rinunciava e non poteva non rinunciare a quello che la Heller impropriamente chiama il marxismo di tipo ideologico, e cioè la libera riflessione indipendente.

Quale fosse la natura dello stalinismo, Lukács l’aveva capito benissimo. In una stupefacente pagina di Pensiero Vissuto, richiesto di dire in che modo era sopravvissuto agli anni terribili dei processi sovietici 1936-1939, rispose che ciò era probabilmente dovuto al fatto di vivere a Mosca in una specie di sottoscala, e cioè in un alloggio che nessun delatore poteva volere. Se fosse vissuto in una bella villetta con giardino, sarebbe stato arrestato in piena notte, deportato e non sarebbe probabilmente sopravvissuto. Una persona che ammette candidamente qualcosa del genere può restare “comunista” soltanto se distingue accuratamente la materialità storico-sociale empirica chiamata “comunismo” (e cioè i delatori ed i poliziotti) e l’idealità storico-processuale della sua filosofia universalistico-emancipativa della storia. È questa un’ennesima ragione che spinge a ridefinire il rapporto teorico fra materialismo ed idealismo, o per meglio dire fra materialità effettuale e congiunturale ed il trascendimento di questa materialità in una filosofia idealistica del processo storico. E a questo punto uno si può definire ed autocertificarsi in termini di “materialista a diciotto carati” (magari perché non crede in Dio e chiama questo suo privato ateismo “materialismo” – come faceva Lukács) ma nessuno può impedirmi di connotare come “idealismo” (nel senso di Fichte e di Hegel, ma anche addirittura di Platone) la capacità di trascendimento del dato empirico fattuale. Evidentemente per Lukács il “reale” non si riduceva al sistema di spionaggio e di assassinio di quegli anni.

La storia raccontata da Lukács sul suo alloggetto-sottoscala che non attirava i delatori apre comunque uno squarcio di interpretazione sulla natura dei grandi processi degli anni 1936-39. Come nel caso di Hitler, anche in questo caso è comodo spiegare tutto con la “follia assassina” di Stalin. E tuttavia, secondo la corrente storiografica di Arch Getty e di Ludo Martens (certo minoritaria, ma in casi come questi solo il minoritario è credibile e rilevante, mentre il maggioritario è solo la ricaduta conformistica del politicamente corretto universitario), il periodo dei grandi processi è interpretabile come una gigantesca rivolta plebea contro i privilegi dei burocrati, rivolta plebea che Stalin cavalcò per ragioni politiche (più o meno come fece Mao trent’anni dopo, fra il 1966 ed il 1969, con la mia generazione di maoisti religiosi e sciocchi che pensava si trattasse di un “ritorno a Marx” – ma Lukács, che era ancora vivo, vi riconobbe un “già visto” e non vi cascò), salvo poi a fucilare sia Yagoda che Yezov, i due capi-assassini. Tutto questo viene censurato, perché il politicamente corretto di “sinistra” non può ammettere a sé stesso che il popolo non è sempre “buono”, ma talvolta è invidioso, spietato e cattivo. Meglio cullarsi nell’illusione per cui il “male” è sempre fatto da singoli demoniaci e crudeli (Mussolini, Franco, Hitler, Stalin, Pol Pot, ecc.), esentandone sempre e dovunque i normali capitalisti non-politici.

Ma torniamo al quadro storico in cui dovette muoversi Lukács nella sua vita, applicando il metodo della contestualizzazione già usato a proposito di Hegel. Solo in questo modo, infatti, potremo pretendere di capire qualcosa su Lukács ed i suoi tempi. E se vogliamo esaminare alcune possibilità concrete, trascurandone ovviamente altre astrattamente possibili (farsi prete cattolico, convertirsi al sionismo ed andare in Palestina e cacciare via gli abitanti dalla loro terra in nome di lontani diritti biblici, diventare bonzo buddista, ecc.), io vedo per Lukács solo quattro possibilità: ritornare al capitalismo liberale dopo un adeguato pentimento, farsi tentare dalla demagogia nazionalsocialista e fascista, scegliere la strada testimoniale del marxismo “puro” dei consigli, ed infine aderire alla grande eresia trotzkista del tempo. È bene esaminare una per una queste quattro possibilità, in modo sfacciatamente spregiudicato e realistico, per capire come la scelta di continuare ad essere fedele alla sua scelta esistenziale del 1918 non implica affatto nessuno “stalinismo”.

La scelta di tornare a succhiare i capezzoli della grande madre borghese-liberale, e quindi capitalistica-imperialistica, dopo il normale sbandamento giovanile “comunista”, è sempre stata la più ovvia e convenzionale di tutti, ed è infatti stata la scelta prevalente della grottesca e sciagurata generazione europea detta del “Sessantotto” (1968). Secondo un vecchio detto (che non si può più applicare alle giovani generazioni post-borghesi e new middle-class di oggi, ma implica la persistenza della hegeliana coscienza infelice della piccola borghesia classica), chi non è comunista a vent’anni è uno stupido, ma chi lo resta ancora a quarant’anni è ancora più stupido.

È per questo che Lukács contrapponeva la «passione durevole» al passaggio ad un diverso campo oppure alla perdita di dedizione in genere. La gioventù è pensata come il luogo biologico dell’ideale, e la maturità come il ritorno disincantato al materiale. Max Weber spiegato ai deficienti. Si crede che il comunismo sia la nuova religione di salvezza dell’umanità, poi si incontrano i comunisti veri in carne ed ossa, con inclusa la figura del cinico burocrate, dello straccione invidioso e dell’intellettuale mediocre per cui tutto diventa “ideologia”, non perché lo sia, ma perché l’idiota è incapace di capire l’arte, la religione, la filosofia e la scienza, e allora sopravviene prima il Dubbio Iperbolico (ma questo comunismo sarà mai possibile?) e poi il Disincanto Definitivo (ma certo che è impossibile, e se possibile detestabile, e quindi meglio il capitalismo, prima come male minore, e dopo qualche anno di intrallazzo come bene maggiore).

A questo punto il ritorno al capitalismo neoliberale è garantito: il Dio ha fallito, si ritorna al Mondo (e cioè ai soldi, oppure alle querimonie contro il totalitarismo in favore della libertà). L’idea che un grande filosofo critico come Lukács potesse seguire questa penosa e ridicola trafila a metà fra Aristofane e Alberto Sordi e che l’allievo di Simmel e di Weber potesse comportarsi come Cohn-Bendit o Adriano Sofri è un vero insulto per l’intelligenza.

La scelta nazionalsocialista e fascista non era solo preclusa a causa della origine ebraica di Lukács, ma era resa impossibile proprio dai suoi presupposti filosofici. Ho volutamente previsto questa fattispecie a prima vista assurda, perché si tende a rimuovere il fatto che molti convinti comunisti della prima ora (il norvegese Quisling, il francese Doriot, l’italiano Bombacci, e molti comunisti tedeschi) passarono al fascismo. E vi passarono per una ragione semplicissima, che la storiografia politicamente corretta di oggi tende a rimuovere, e questa ragione semplicissima sta in ciò, che il fascismo era realmente molto più sociale del normale capitalismo liberale, ed era quindi in grado di lottare contro la disoccupazione ed il parassitismo del capitale finanziario molto più di quanto lo fosse il capitalismo liberale, che dopo il 1929 era invece a tutti gli effetti disoccupazione e parassitismo del capitale finanziario. Lungi infatti dall’essere una dittatura degli elementi più reazionari del capitale finanziario (come recitava la dilettantesca formula di Dimitrov al VII congresso dell’Internazionale Comunista), il fascismo tedesco era una dittatura del capitale industriale e produttivo, che aveva come base di massa la piccola borghesia e come apparato politico di comando il partito nazionalsocialista. È del tutto normale – e quindi niente affatto “demoniaco” – che quando si riduce in un anno la disoccupazione da sette milioni ad un milione, e quando si mettono in opera le solite strutture sociali del consenso di massa (assistenza pubblica, ostelli della gioventù per giovani, ecc.), con correlate forme ideologiche di scarico del normale odio plebeo verso i capri espiatori (ebrei, zingari, malati mentali, “improduttivi” vari) si possa avere un buon consenso sociale. È questa la ragione per cui gli intellettuali di stupidità media (e cioè la stragrande maggioranza della categoria) furono tentati dalla demagogia fascista. E persone come Quisling, Doriot, Bombacci, Céline, Pound, ecc., ne furono tentati non certo perché fossero “peggiori” dei neoliberali che scappavano a servire gli interessi imperiali di Londra e di New York, ma perché la loro “socialità” non si radicava – come nel caso di Lukács – in una filosofia universalistica della storia.

È questo il cuore della questione, che né i neoliberali né i comunisti ortodossi potranno mai capire (e neppure i fascisti in buona fede). Vedere fra il 1933 ed il 1945 il fascismo come la “terza via” fra il capitalismo liberale imperialistico (pensiamo all’orrido colonialismo inglese in India, ed all’altrettanto orrido colonialismo francese in Indocina) ed il dispotismo staliniano non era per nulla l’irruzione del demoniaco nella storia o la banalità del male, ma era una tentazione del tutto comprensibile. Il fascismo era infatti non solo più “sociale” del “capitalismo liberale”, ma anche meno soffocante e dispotico dello stalinismo (non parlo ovviamente dei crimini di guerra 1939-1945, ma del fascismo 1933-1939). Solo in Spagna (guerra civile spagnola 1936-1939) il fascismo era a tutti gli effetti tradizionalismo reazionario puro. In Germania non lo era, e neppure nella trasformistica Italietta lo era.

Ciò che era propriamente insopportabile nel fascismo era la sua ostentata e provocatoria non-universalità. Coltivava il razzismo biologico, e si trattava di un delirio positivistico che attirava medici ed igienisti vari, ma non poteva che ripugnare a persone educate nella concezione universalistica di Spinoza, Hegel e Marx (non parlo qui del cosiddetto neo-hegelismo fascista, che è un semplice culto veteroliberale dello Stato colonialista ed imperialista, che chiamava “etico” il colonialismo ed il razzismo mussoliniano). Parlava della “nazione”, e schiacciava le nazioni degli altri, mandando la plebe in divisa a massacrare gli arabi della Cirenaica e gli eroici combattenti etiopici del 1935-1941. Forse che la Libia e l’Etiopia non avrebbero avuto il diritto di essere anche loro “nazioni” come l’Italia? Chi è stato realmente educato all’umanesimo di Kant, di Hegel e di Marx (non parlo ovviamente dei neokantismi e dei neohegelismi universitari) non poteva accettare questa doppia morale e questo doppio registro. Ed è questa la ragione per cui possiamo ipotizzare che gli ex-socialisti aderenti al fascismo e poi al nazionalsocialismo (Mussolini sopra tutti) fossero persone il cui legittimo odio “sociale” verso il capitalismo liberale e verso il dispotismo staliniano non era nutrito dall’umanesimo universalista. Conclusione: il solo reale antidoto alla tentazione fascista, comunque si ripresenti ed in qualunque modo si travesta (certo, è improbabile che si ripresenti con saluti romani e camicie nere o brune), è il razionalismo universalistico. L’essere “sociali”, di per sé, non solo non è una vaccinazione, ma può addirittura essere un fattore di adesione. Soltanto l’umanesimo universalistico è realmente un fattore strategico di dissuasione.

Vi era una terza possibilità per tutti coloro che, delusi della “realizzazione” stalinista e della soffocante organizzazione di partito leninista, che chiedeva pur sempre un sacrificio dell’autonomia assoluta del giudizio filosofico compatibilizzato con i vincoli della formazione ideologica di appartenenza politico-identitaria, continuavano ad identificarsi con il pensiero di Marx e con il marxismo. Si trattava del cosiddetto minoritarismo testimoniale del cosiddetto “comunismo dei consigli” (Rätekommunismus), la corrente che fino al 1918 aveva rifiutato la concezione leninista del partito (Gorter), ed aveva quindi rifiutato di aderire alla Terza Internazionale Comunista. Non si può negare che costoro, ritenuti “eretici marxisti”, fossero paradossalmente dei “fondamentalisti ortodossi” marxiani. Essi rifiutarono il modello leninista, ritenendo che la struttura inevitabilmente burocratica dell’organizzazione comunista, una volta preso il potere ed avviato un processo di “accumulazione primitiva socialista” non avrebbero potuto fare altro che costruire un capitalismo di Stato, in cui le categorie del rapporto sociale di capitale sarebbero state conservate, in una forma semplicemente statalizzata. In questo modo essi da un lato riprendevano le vecchie critiche di Marx a Lassalle (ma anche in parte le vecchie critiche di Bakunin a Marx), e dall’altro anticipavano di quarant’anni le critiche del gruppo Socialisme ou Barbarie (Castoriadis, Lyotard, ecc.). Si tratta appunto di un gauchisme ante litteram.

Questa corrente, inevitabilmente testimoniale nella sua ortodossia marxiana integrale (dove hanno vinto, infatti, sia pure provvisoriamente come ora sappiamo, gli operai hanno vinto con il partito e con lo Stato, e non certo con gli inattuabili, confusionari ed inefficienti consigli di base – i consigli infatti, soviet, sono serviti per rompere in modo rivoluzionario lo Stato capitalista, ma non hanno mai potuto “gestire” nulla, replicando la frammentazione produttiva tipica dello Stato capitalistico stesso) non poteva che fare del minoritarismo la propria bandiera. Eppure questa corrente espresse almeno due marxisti novecenteschi di primo livello, l’olandese Anton Pannekoek ed il tedesco Karl Korsch. I contributi teorici da loro apportati al pensiero critico non sono stati a mio avviso inferiori a quelli portati da Adorno o da Gramsci, ed il fatto che siano meno conosciuti è dovuto soltanto alla pigrizia della casta intellettuale, che segue le mode e seppellisce non solo chi è morto, ma chi sarebbe ancora vivo ma non più di moda. In Marxismo e Filosofia, opera del 1923, in mezzo ad osservazioni molto intelligenti (ma anche in mezzo ad estremistiche sciocchezze, come quella per cui per ora la filosofia è ancora utile – a differenza di come pensa Bucharin – ma quando sarà realizzato il comunismo esprimerà «solo il punto di vista superato di un passato ancora immerso nell’ignoranza», sic!), Korsch rileva l’ovvietà, che era però allora una vera e propria bestemmia, per cui «si deve considerare tendenza fondamentale della filosofia borghese non quella che si ispira ad una concezione idealistica, ma quella che si ispira ad una concezione materialistica influenzata dalle scienze naturali».

Questa assoluta ovvietà fu scritta, stampata, diffusa e discussa nel 1923, ed è allora evidente che l’averla respinta può soltanto essere spiegato come un fatto sociale, e non solo come un’idiozia estremistica di recensori e di burocrati dell’ideologia. Fin dal 1923 Korsch insiste sul fatto che quella di Marx è una “critica”, e non una scienza positiva, e nello stesso tempo il bel libro di Emmanuel Renault, stampato in Francia nel 1995, e che sostiene la stessa identica tesi di Korsch, non porta neppure il nome di Korsch nei riferimenti bibliografici. Il fatto che la storia del marxismo, pur perfettamente ricostruibile, sia costellata da queste incredibili dimenticanze, fa pensare che i giochi di oblii e riscoperte siano spiegabili unicamente con motivazioni “estremistiche” di clima politico. Per quanto riguarda Pannekoek, il suo libro sulla filosofia di Lenin è a mio avviso un classico assoluto, perché spiega in modo chiaro che il materialismo di Lenin è un materialismo di tipo francese settecentesco, completamente premarxiano, e corrisponde a bisogni di lotta ideologica tipici non dei momenti avanzati della storia del capitalismo, ma di una situazione arretrata di necessaria lotta contro la simbiosi di dispotismo zarista semifeudale e di sacralizzazione di questo dispotismo da parte della chiesa ortodossa russa.

Lukács non volle scegliere la via dell’autoemarginazione testimoniale, che considerava una forma di manifestazione della figura morale (morale, non etica) dell’«anima bella». Pur stimando Korsch, che abbandonò il movimento comunista organizzato nel 1926 (e morì poi negli USA nel 1961), egli scrisse ripetutamente che non aveva voluto finire emarginato come Korsch, ma aveva voluto «poter partecipare in forma organizzata alla lotta contro il fascismo tedesco». Personalmente, rispetto pienamente questa scelta, e non ha alcun senso dire che la si condivide o meno, perché viviamo in un diverso periodo storico in cui questi dilemmi non si pongono più. Oggi essere considerati come “rinnegati” dalle bande di ridicoli pagliacci dei residui partitini politicamente corretti della cosiddetta “sinistra radicale” (sic!) è ad un tempo onorevole e del tutto irrilevante, mentre allora le cose stavano diversamente, dal momento che si era ancora vicini al grande evento esplosivo della rivoluzione russa del 1917. Detto questo, poiché fra non molto sarà passato un secolo da questi eventi, possiamo ora rispettare sia la scelta di Lukács di restare “interno” al movimento comunista sia la scelta di Korsch di restarne “esterno”, con la conseguenza inevitabile di essere connotato come “traditore”, “rinnegato” e “nemico del popolo”.

Nell’essenziale, la filosofia di Korsch può essere connotata come una forma di marxismo dell’empirico. Erroneamente indicato da alcuni frettolosi commentatori come hegeliano, il marxismo di Korsch è in realtà una forma di positivismo empiristico quasi popperiano. Korsch parte dal fatto che il marxismo può essere “verificato” soltanto dalla constatazione della capacità “attuale” della classe operaia, salariata e proletaria di agire in modo rivoluzionario senza mediazioni partitiche, e considera “falsificata” questa ipotesi marxiana dalla constatazione che nei fatti in URSS c’è Stalin, in Germania c’è Hitler, e negli USA c’è Roosevelt. Gli operai non ci sono da nessuna parte. Questo gioco di verificazioni e di falsificazioni, a mio avviso, è figlio delle correnti neopositivistiche di Vienna e di Berlino, e non esprime in alcun modo un rinnovamento hegeliano del marxismo. Più di trent’anni dopo, ma con una volgarità teorica imparagonabile con la nobiltà classica di Korsch, la scuola marxista italiana impropriamente autodefinitasi come “operaismo” riprese in modo pressoché integrale, l’apparato concettuale di Korsch, identificando la capacità rivoluzionaria con l’attualità dei movimenti autonomi della classe operaia di fabbrica. E tuttavia, come ho detto, vi è un abisso fra Korsch e gli operaisti, perché Korsch teneva fermo il carattere totale ed integrale della capacità rivoluzionaria del proletariato, mentre gli operaisti effettuano una tragicomica riduzione del concetto marxiano (e koschano) di rapporti sociali di produzione complessivi a semplici rapporti di fabbrica (e di fabbrica fordista per di più) fra innovazione tecnologica capitalistica e resistenza operaia all’estorsione di plusvalore relativo attraverso il casino sindacale ed il sabotaggio. È proprio il caso di dire che certe volte un fenomeno si presenta prima come tragedia, e la seconda volta come farsa. L’operaismo, a mio avviso, può essere interpretato come una riproposizione farsesca del nobile (e completamente errato) pensiero di Korsch.

Se il pensiero di Korsch può essere interpretato in termini di marxismo dell’empirico di origine neopositivistica, la grande eresia di Trotzky può essere interpretata come il punto massimo del marxismo dell’intelletto astratto (Verstand). Da un punto di vista formalistico astratto, infatti, non c’è dubbio che il trotzkismo sia molto più “ortodosso” dello stalinismo, e questo spiega perché il trotzkismo sia politicamente una minoranza organizzata che si riproduce incessantemente, e tuttora è presente in Europa, in America Latina e nel mondo intero. Il pensiero marxiano propriamente detto, pur essendo sempre rimasto incompiuto come il Torso del Belvedere di Michelangelo, non poteva certamente prevedere quello che poi è successo nel Novecento. Non poteva prevedere che le classi operaie dei paesi capitalistici avanzati sarebbero state integrate in modo subalterno e pittoresco attraverso i due processi di economicizzazione sindacalistico-politica del conflitto (Bauman) e della nazionalizzazione imperialistica delle masse (Mosse). Non poteva prevedere che, a causa di questa integrazione, i proletari di tutto il mondo non si sarebbero affatto uniti (almeno per ora), ma si sarebbero vicendevolmente massacrati al servizio dei profitti imperialistici. Non poteva prevedere che la rivoluzione non avrebbe avuto luogo nei punti alti della produzione capitalistica, ma nel principale anello debole della catena mondiale imperialistica. Non poteva prevedere che, in mancanza di questa rivoluzione, sarebbe stato necessario intraprendere la costruzione di un modello socialista in un solo paese. Non poteva prevedere che questa costruzione avrebbe necessariamente implicato la formazione di strutture politico-burocratiche di tipo dispotico, e che ogni progetto di “esportazione” della rivoluzione in altri paesi sarebbe stata resa impossibile da ragioni di tipo diplomatico (alleanze fra Stati capitalisti), militare (bomba atomica), sociale (formazione di ceti medi non interessati al socialismo ma anzi ostili ad esso), ecc.

Dal momento che il canone trotzkista è un canone ortodosso (in quanto deriva da un’interpretazione estremistica di “sinistra” del marxismo della Seconda internazionale 1889-1914), un canone testimoniale (in quanto testimonia la permanenza infinita nel tempo di un modello del tutto inapplicabile, ma anche “morale”, in quanto non si è “sporcato le mani” con la bassa realtà fangosa della storia), e soprattutto un canone dell’intelletto astratto (Verstand) e non della ragione concreta (Vernunft), è inevitabile che esso si scinda continuamente in scissioni ripetute ed ossessive, che hanno caratterizzato, caratterizzano, e certamente caratterizzeranno in futuro, il movimento trotzkista. La scissione caratterizza infatti il mondo dell’intelletto astratto (Verstand), perché per sua propria natura l’intelletto astratto si nutre di astrazioni isolate e non dialetticamente correlate. Non è un caso, infatti, che il movimento trotzkista abbia prodotto buoni storici, ma quasi nessun filosofo, in quanto per sua natura il trotzkismo rifiuta di stabilire un rapporto teorico forte fra il proprio modello astratto di storia e la storia reale. Astrattamente, infatti, la classe operaia non dovrebbe produrre una “burocrazia”, dovrebbe sempre agire in modo “rivoluzionario” (e se non lo fa – come ovviamente non si sogna affatto di fare – la colpa è delle sue “direzioni” politiche burocratizzate), dovrebbe rifiutare di fare il socialismo in un solo paese, dovrebbe perseguire una rivoluzione permanente, ecc., tutte determinazioni dell’intelletto astratto (Verstand), e non certamente di un corretto uso della ragione dialettica (Vernunft).

Lukács respinse quindi sia la versione empiristico-neopositivista di Korsch sia la versione astratto-intellettualistica di Trotzky non certo perché era “stalinista”, dal momento che – come ha correttamente rilevato Agnes Heller – non poteva essere stalinista in quanto praticava un libero marxismo di tipo “ideologico” e non “dottrinario” (la terminologia è scorretta, ma il concetto è chiaro), ma perché seguiva una sua autonoma linea di pensiero. Nel 1956 si prestò a far parte dell’effimero governo Nagy, ma il suo realismo lo portò a votare contro l’irresponsabile rottura del patto di Varsavia, mostrando ancora una volta che un pensiero filosofico veramente profondo non è affatto incompatibile (tutto al contrario!) con la capacità di realismo politico. Già nel 1929 (cfr. Tesi di Blum) Lukács aveva preceduto di alcuni anni la linea politica antifascista dei fronti popolari, accettata solo nel 1934, e per questa sua preveggenza fu espulso dall’attività politica e dovette (ma fu una fortuna per l’umanità) limitarsi a studiare le questioni teoriche (che sono per definizione inutili ed irrilevanti per i bestioni burocratici che si vantano sempre di essere “pratici”, e la cui praticità conduce sistematicamente la causa del comunismo alla rovina!). Nel 1949 Lukács cercò di opporsi alla deriva estremistica del governo del comunista ungherese Rakosi, e per questo fu emarginato, cacciato e punito. Nel 1957 gli fu proposto di testimoniare contro Nagy, di cui pure aveva disapprovato i comportamenti, e lui rispose che lo avrebbe fatto solo se Nagy avesse passeggiato libero per le strade di Budapest (Nagy fu invece fucilato l’anno dopo ed il suo cadavere fu gettato in una fossa comune). A mio avviso, il rifiuto di collaborare al rituale dei processi comunisti dell’epoca equivale alla scrittura di quell’Etica che non scrisse mai. Che cos’è infatti l’etica? L’etica è il rifiuto di collaborare all’iniquità, o se si vuole il rifiuto di collaborare alla propria stessa alienazione (ich mache meine eigene Entrfremdung nicht mehr mit). Il lettore avrà notato che giriamo, giriamo, ma torniamo sempre allo stesso punto.

Possiamo ora “stringere” finalmente la discussione, e concludere sia tutti questi quaranta capitoli sia questo quarantesimo ed ultimo. Si tratta, infatti, non certo di analizzare ulteriormente il progetto ontologico lucacciano, in quanto entrambe le versioni date in piena e totale solitudine dall’ultimo Lukács (l’Ontologia propriamente detta in due volumi ed i Prolegomeni in un unico volume) non sono esposte in modo rigoroso. Si tratta invece di congedarsi dal lettore dandone un’interpretazione generale convincente, e per questo torneremo ad alcune considerazioni già proposte nel Prologo e nell’Introduzione. Mi sembra giusto che un testo filosofico torni alla fine al punto di partenza, arricchite però dalle considerazioni svolte nel corso dell’opera. Era questo il metodo di Hegel, un metodo insuperabile cui essergli per sempre grati.

In estrema sintesi, il progetto di ontologia dell’essere sociale dell’ultimo Lukács (progetto aperto ed ancora incompiuto, e quindi da non identificarsi con i due libri editi intitolati Ontologia e Prolegomeni) è caratterizzato da una rifondazione della filosofia che si ispira alla filosofia comunista della storia derivata da Marx (il termine “che si ispira” a Marx deve essere preferito al termine “marxismo”, che segnala soltanto una successione di formazioni ideologiche, quasi tutte irrecuperabili e da archiviare nella storia del pensiero del passato). Questa rifondazione si caratterizza per un consapevole reinserimento di questo progetto nella tradizione classica del pensiero occidentale (e per tradizione classica intendo la tradizione che va da Aristotele a Hegel passando per Spinoza), e questo reinserimento avviene passando per una autocritica radicale dei precedenti modelli “marxisti” di tipo deterministico-positivistico, da Kautsky a Stalin, e soprattutto di tipo estremistico-messianico-utopistico.

In altre parole, il reinserimento nella tradizione classica passa necessariamente attraverso l’autocritica consapevole della propria (storicamente inevitabile, in quanto sorta come effetto ideologico necessaria della rottura rivoluzionaria del 1917) autocoscienza precedente di tipo messianico, utopistico, prometeico e teleologico. Ad un marxismo soteriologico di tipo paolino è necessario contrapporre un marxismo sobrio, ispirato a Spinoza ed a Hegel.

Questa operazione non può essere condotta a termine con semplici mezzi filologico-universitari, per il semplice fatto che dentro Marx, e non solo dentro la lettera, ma anche dentro lo spirito, coesistono contraddittoriamente statuti teorici diversi, si intrecciano insieme una scienza filosofica della totalità espressiva ed una scienza non-filosofica delle strutture dei modi di produzione sociali, si accavallano categorie ispirate alla possibilità ontologica senza necessità (dynamei on) a categorie ispirate alla categoria apodittico-previsionale di necessità storica, ed in definitiva non possiamo trovare una esposizione sistematica delle categorie caratterizzate dall’unità ontologica di pensiero e di essere che secondo lo Hegel della prefazione alla Fenomenologia dello Spirito era la precondizione per il passaggio dalla filosofia alla vera e propria scienza filosofica. Non possiamo quindi ritornare semplicemente a Marx, e quindi possiamo escludere che il progetto di ontologia dell’essere sociale sia un progetto definibile come “ritorno a Marx”, e tantomeno come un ritorno al “vero” Marx. Il vero Marx è una postulazione religiosa, del tipo del ritorno al vero Gesù, al vero Maometto, al vero Budda. Non esiste il vero Marx, perché la verità non è mai un accertamento filologico, ma è sempre un processo storico. Essa connota certamente ciò che è, ed è eternamente, ma per coglierlo siamo costretti a passare necessariamente per il nostro tempo appreso nel pensiero. Il nostro tempo non è più quello di Hegel (1790-1830), non è più quello di Marx (1840-1880), non è più quello di Lukács (1910-1970), e fra qualche anno e decennio non sarà più il mio tempo, in cui sto pensando e scrivendo. Questo non comporta affatto il cosiddetto “relativismo”, e neppure la cosiddetta incommensurabilità delle filosofie (secondo il modello esposto da Thomas Khun in epistemologia e da Richard Rorty nella filosofia vera e propria). Questo comporta unicamente la determinazione storica della verità nel tempo, in cui il termine “verità” indica l’infinito e l’assoluto, ed il termine determinazione storica indica il finito. L’infinito ed il finito non sono quindi contrari antinomici, ma opposti in correlazione essenziale. Analizziamo ora separatamente (ma è una pura astrazione scolastica, dal momento che si tratta di un processo unitario) il momento del reinserimento consapevole nella tradizione classica del pensiero occidentale ed il momento del superamento autocritico delle versioni estremistiche, messianiche e prometeiche del marxismo. La ragione per cui Lukács ha saputo fare questo è molto semplice: negli anni venti egli era stato colui che aveva portato al massimo grado sistemico questa tentazione messianico-estremistica, ed è appunto perché la conosceva perfettamente, avendola elaborata lui stesso, era in grado di “superarla” nel senso hegeliano del termine.

A costo di ripetere per l’ennesima volta cose già ripetutamente dette in precedenza (ma è meglio ripetere dieci volte la stessa cosa piuttosto che rischiare che non venga capita perché troppo “straniante” rispetto ad abitudini che rifiutano anche solo la possibilità di un radicale riorientamento gestaltico), bisogna risottolineare che il progetto ontologico di Lukács non ha nulla, ma proprio nulla a che vedere con tutte le impostazioni classiche che ci consegna la storia del marxismo.

I soli pensatori importanti che considero parzialmente “compatibili” con Lukács sono Antonio Gramsci e Karel Kosík. E ripetiamo ancora una volta queste incompatibilità. Qualcuno ha scritto: “Mi ripeterò fino a che non sarò capito”. Ebbene, mi ispiro a questo aureo detto.

Il progetto di ontologia dell’essere sociale è incompatibile con la filosofia che ha ispirarla prima formazione ideologica marxista del ventennio 1875-1895. Questa filosofia, di impronta positivistica, basata su una concezione neokantiana di rispecchiamento di un «oggetto esterno della conoscenza» (Lange) e su di una concezione classificatoria della storia della filosofia occidentale basata su di una contrapposizione fra idealisti antiscientifici e positivisti scientifici (Laas), si ispirava alla concezione della necessità previsionale delle «leggi scientifiche dell’evoluzione sociale» (Engels, e poi Kautsky). La categoria di necessità era quindi fusa con una filosofia necessitaristica della storia, al punto da ispirare una definizione di libertà come coscienza integrale della necessità (Plechanov). I tentativi di opporsi a questa concezione, prevalentemente ispirati all’insegnamento di Henri Bergson (Georges Sorel ed altri) non riuscirono a coagularsi in un sistema coerente, e questo fatto può essere spiegato soltanto attraverso una deduzione sociale delle categorie: la classe operaia sublimava la propria palese impotenza storica complessiva in una teoria religiosa dell’evoluzione necessaria dal capitalismo al socialismo, ed il marxismo di Kautsky funzionava così da “messa della domenica” che santificava le attività feriali di tipo riformistico (Matthyas).

Il progetto di ontologia dell’essere sociale è incompatibile con qualunque forma di materialismo dialettico, non importa se engelsiana, leniniana o staliniana. Nonostante l’accettazione (che ritengo errata) da parte di Lukács della teoria engelsiano-leniniana del rispecchiamento (Widerspiegelung), che a mio avviso funziona (ammesso che funzioni) soltanto per quanto riguarda la ricerca nel campo delle scienze naturali (Geymonat), ma certamente non funziona nel mondo sociale caratterizzato dalla prassi attiva di trasformazione dei soggetti individuali e sociali, egli respinge la naturalizzazione teleologica della dialettica, le tre cosiddette (ed inesistenti) «leggi della dialettica», ed in questo modo respinge in toto il materialismo dialettico (Diamat). Possiamo notare che forse è sempre stato troppo timido ed incerto nel respingerlo con il disprezzo e la radicalità che questa buffonata filosofica meritava, ma è bene notare che egli visse in «tempi oscuri» (il termine è di Bertolt Brecht), in cui i dissidenti potevano essere arrestati ed uccisi. Appare inoltre chiaro che il Diamat come filosofia era pessimo, ma come ideologia era stupendo e performativo, perché avallava con la sua teoria naturalistico-positivistica la pretesa della direzione politica staliniana di essere «coerente con le leggi della storia».

Il progetto di ontologia dell’essere sociale è incompatibile con qualunque forma di realizzazione integrale della filosofia nella storia, per cui la filosofia sarebbe una forma di coscienza temporanea, e temporanea perché “alienata”, della coscienza sociale degli agenti storici. Questa concezione messianico-religiosa della realizzazione “integrale” della filosofia nel comunismo, e quindi nel comunismo inteso come fine della storia, è stata sostenuta da pensatori onesti e rivoluzionari (ad esempio dal francese Henri Lefebvre, che ho avuto l’onore di conoscere personalmente), ma resta inaccettabile e radicalmente sbagliata. La filosofia, come del resto l’arte, la religione e la scienza, tutte radicate nella vita quotidiana degli uomini in società ed in comunità, è una forma di coscienza e di attività permanente. Fa parte della condizione umana in quanto tale, e caratterizza l’uomo come animale contraddistinto dal lavoro, dal linguaggio, ed infine dalla consapevolezza anticipata della propria sicura morte individuale, che per ciò stesso lo spinge a dare un significato (o anche solo a cercarlo, e addirittura paradossalmente a negarlo) al segmento temporalmente limitato della propria esistenza. Non esiste quindi, e non può esistere, una fine della filosofia attraverso la sua presunta realizzazione. La sua realizzazione, infatti, è infinita, mentre il massimo di comunismo cui possiamo aspirare è un «comunismo della finitudine», come si esprime opportunamente il grande marxista francese André Tosel.

Il progetto di ontologia dell’essere sociale è incompatibile con qualunque forma di verificazione e/o falsificazione storico-empirica, per cui viene data alla classe operaia di fabbrica una sorta di data ultimativa di “scadenza” per la sua attesa rivoluzione sociale totale, pena l’annuncio disincantato di “morte del marxismo” per incapacità manifesta del soggetto che dovrebbe esserne il portatore. Tralasciando tutta la pittoresca banda neoliberale, il rappresentante marxista maggiore di questa concezione è stato Karl Korsch (considero gli operaisti italiani soltanto un’appendice sociologica filosoficamente irrilevante). Ma la verità del marxismo (o se si vuole per i suoi oppositori la sua falsità) non può essere oggetto di verificazione e/o falsificazione storica. Soltanto il certo, l’esatto ed il veridico sono oggetto di falsificazione, perché dispongono di parametri e di protocolli appositi. La “verità” del marxismo (ammesso ovviamente che sia “vero” come io ritengo) non ha date empiriche di scadenza. Le avrebbe se il suo fondamento ontologico fosse la capacità “misurabile” della classe operaia e di fabbrica. In questo caso, il marxismo si potrebbe “falsificare” per manifesta incapacità rivoluzionaria intermodale. Ma la classe operaia, salariata e proletaria è solo una parte di un possibile (dynamei on) insieme plurale di soggetti collettivi e comunitari, a pari grado con i contadini, i popoli oppressi, le nazioni minacciate dal furore imperiale, i lavoratori flessibili e precari dell’odierna globalizzazione neoliberale, ed in più i soggetti sociologico-politici nuovi che per il momento non possiamo neppure immaginare, ma che saranno certamente visibili nel 2050, 2100 o 2150.

Korsch è stato un grande pensatore, ma è stato anche influenzato dalla corrente antifilosofica del neopositivismo logico di Vienna e di Berlino (poi ampiamente emigrata in USA e in Gran Bretagna). Questa scuola si basa sull’assorbimento della categoria ontologica hegelo-marxiana di verità nelle strutture di certificazione e/o falsificazione delle scienze naturali. In proposito Karl Popper, che si vantava di essere il “seppellitore” del neopositivismo, per aver compiuto l’irrilevante passaggio dall’irrilevante verificazionismo all’irrilevante falsificazionismo (li chiamo “irrilevanti” perché sono certamente rilevanti per l’epistemologia delle scienze naturali, ma sono del tutto irrilevanti per la conoscenza filosofica propriamente detta), è stato in realtà il culmine del (l’irrilevante) neopositivismo. Ma qui Korsch è caduto vittima della pressione sociale del tempo, per cui tutti si affrettavano a giurare di non voler aver nulla a che fare con la “filosofia per la filosofia” (Löwith), con la metafisica (orrore! orrore!) e con il «punto di vista superato di un passato ancora immerso nell’ignoranza» (Korsch, ecc.). La filosofia di Marx, ammesso che abbia un soggetto portatore (e ce l’ha), ha come soggetto di riferimento l’ente naturale generico umano (Gattungswesen) che non fa né l’operaio, né il contadino, né il medico, né l’ingegnere, che non è né uomo, né donna, né gay, che non è caratterizzato dal colore della pelle o da un riferimento etnico o religioso privilegiato, che non è né occidentale, né orientale, né nordista né sudista, ma che può essere o fare tutte queste cose. Si possono “falsificare” i contadini in India, gli operai in Francia, i tecnici in Svezia, ecc., ma non si falsifica l’unità di teoria economica del valore e della filosofia dell’alienazione. L’accettazione neopositivistica (erroneamente scambiata per “hegeliana” persino dall’amico di Korsch, Bertolt Brecht) della data di scadenza della falsificazione di Marx da parte di Korsch ci mostra le conseguenze di queste sociologismo rivoluzionario. Il marxismo si identifica con un certo ciclo storico di lotte operaie, poi queste lotte operaie sono sconfitte, o semplicemente rifluiscono, e si trovano subito degli ingenui a proclamare solennemente che il “marxismo è morto”, l’unico mondo possibile è il liberalismo imperialistico, sono finite le grandi narrazioni, e la sola cosa che c’è rimasta è il bombardamento degli Stati-canaglia (rouge states) per affermare i “diritti umani” a geometria variabile con missili USA a puntamento rapido.

Il progetto di ontologia dell’essere sociale è incompatibile con qualunque riproposizione di un modello utopico-messianico di marxismo, non importa come argomentato o variamente “secolarizzato”. Le ragioni di queste riproposizioni possono essere le migliori di questo mondo, come ad esempio la distinzione di Ernst Bloch fra corrente fredda e corrente calda del marxismo. Alla corrente fredda, evoluzionistica, positivistica, scientista, deterministica, meccanicistica, ecc., Bloch contrappone la corrente calda, che recupera sia la tradizione del giusnaturalismo rivoluzionaria settecentesca, sia la tradizione biblico-messianica. Il pensiero di Marx, tuttavia, non è una vasca da bagno con due rubinetti, uno d’acqua fredda ed uno d’acqua calda. L’acqua calda scotta, e l’acqua fredda gela. È noto che si apre un po’ l’uno e un po’ l’altro, alla fine l’acqua tiepida non è più né fredda né calda, e per questo è gradevole.

È del tutto normale che Bloch abbia voluto contrapporsi al cosiddetto “marxismo ufficiale” dottrinario, qualificandolo come “freddo”. Ma il suo rimedio è peggiore del male. Il marxismo non può sopportare dosi da cavallo di messianismo religioso imperfettamente secolarizzato. Naturalmente, Bloch non ha tutti i torti. È vero che esiste una “sinistra aristotelica” di tipo averroista, e che Avicenna e Maimonide sono fonti del pensiero comunista non inferiori a nessun’altra. È vero che esiste un Experimentum Mundi, e che la stessa ontologia non è ancora del tutto compiuta, terminata e realizzata. È vero che Lenin, parlando delle tre fonti e tre parti integranti del marxismo (economia politica inglese, filosofia classica tedesca e socialismo politico francese) ha dimenticato altre due fonti del tutto legittime, il diritto naturale rivoluzionario e l’impulso messianico-religioso a ribellarsi contro l’ingiustizia. Tutto questo è vero, purché non si dimentichi che il messianismo escatologico può essere certamente un fattore ideologico positivo in una concreta situazione sociale (Münzer nel 1525, rivoluzione iraniana nel 1979, ecc.), e questo è molto buono, ma resta profondamente sbagliata la scelta di dare al pensiero di Marx un fondamento religioso e messianico.

Non si tratta certamente soltanto di non “cadere” nelle critiche alla Weber o alla Löwith. Qualsiasi cosa facesse il marxismo, Weber e Löwith lo criticherebbero lo stesso, perché dietro alla loro critica teorica alla secolarizzazione messianica ci sarebbe sempre e soltanto il rifiuto politico del comunismo e l’accettazione strategica del capitalismo. Si tratta di una necessità interna allo statuto dell’ontologia dell’essere sociale, che prescinde del tutto dalle cosiddette “critiche esterne”. L’ontologia dell’essere sociale è incompatibile con uno statuto messianico del marxismo. Se si crede di curare la corrente fredda con la corrente calda, ebbene può soltanto trattarsi di una cura temporanea e sintomatica, come il mettere in un bel bagno caldo un naufrago rimasto a lungo in acque fredde. Ma il pensiero di Marx non può essere un messianesimo. Sul messianesimo credo che abbia sostanzialmente ragione Max Weber: l’annuncio messianico caratterizza tutte indistintamente le religioni occidentali (e quindi anche la religione comunista di Marx, nel momento in cui essa “incontra” le speranze sociali di emancipazione di massa), ma nello stesso tempo esso non può essere che temporaneo, per il semplice fatto che è socialmente ed ontologicamente del tutto impossibile, e deve quindi “razionalizzarsi” in una forma di vita quotidiana e comunitaria consolidata e diffusa. È questa mancata razionalizzazione che ha “ucciso” il comunismo dopo più di settant’anni, non certo la mancata «realizzazione messianica» (Bloch), e neppure quella versione pallida e moderata della mancata realizzazione messianica che è il rifluire dei «gruppi-in-fusione» dotati di finalità-progetto nella serialità cosiddetta «pratico-inerte» (Sartre).

Il progetto di ontologia dell’essere sociale è incompatibile con qualunque riproposizione di un marxismo puramente “scientifico”, di una scientificità indifferentemente galileiana (il modello previsionale della scienza della natura) oppure weberiana (la scienza priva di giudizi di valore etico-politici). Lukács era troppo vecchio e impegnato nel suo lavoro per perdere tempo con le nuove versioni di questa testardaggine scientista (Galvano Della Volpe, Lucio Colletti, e soprattutto Louis Althusser e la sua scuola). Ma non ne aveva neppure bisogno, perché queste scuole post-1945 non facevano che riproporre con una nuova riverniciatura gnoseologica (Della Volpe) ed epistemologico-ideologica (Althusser), concezioni che si erano presentate con frequenza asfissiante nei settant’anni precedenti. Il sogno positivistico di un marxismo senza fondazione filosofica percorre infatti tutta la sua storia, a partire dal ventennio di costituzione 1875-1895, e si tratta di un dato sociale prodotto dall’ingiunzione a “scientificizzarsi” per poter essere presi sul serio dagli apparati ideologici universitari. Ma un marxismo senza fondazione filosofica diventa un puro pragmatismo, ed il pragmatismo è sempre puro utilitarismo. Oggi si esalta molto il filosofo americano recentemente scomparso Richard Rorty, nemico di ogni fondazionalismo filosofico, relativista dichiarato (ha infatti affermato di non aver fatto altro che applicare alla filosofia il relativismo epistemologico dell’incommensurabilità dei paradigmi scientifici di Thomas Khun), sostenitore della derubricazione della filosofia a conversazione fra le altre (nemmeno i sofisti greci erano giunti a tanto!), ecc. Mi sono già espresso in proposito, ma data l’importanza del tema mi ripeterò: togliere alla filosofia ogni pretesa “fondazionalità” non significa affatto (se non per gli sciocchi!) togliere ogni fondazionalità in generale in direzione di un presunto (ed inesistente) “sapere senza fondamenti”, ma significa lasciare un solo fondamento implicito, il fondamento dell’assolutezza indiscutibile della riproduzione capitalistica ed imperialistica. Oggi togliere ogni pretesa fondazionale alla filosofia equivale all’affermazione medioevale della possibilità di dimostrare Dio. Così come la legittimazione ideologica di quei tempi si basava sul fondamento trascendente di Dio (e quindi sulle concesse “prove teologiche”), nello stesso modo la legittimazione ideologica di oggi si basa sulla performatività pura del flusso di produzione e di consumo, e quindi si basa sul fondamento immanente della riproduzione capitalistica, che non ha bisogno di nessun altra fondazione. Ogni altra fondazione, infatti, potrebbe in qualche modo metterla in discussione, e quindi è bene che si dica (e gli sciocchi ovviamente lo ripetono come ripeterebbero un mantra buddista alla moda) che non ci può essere nessuna fondazione filosofica di nulla (e particolarmente della società).

Lukács ovviamente capiva benissimo tutto questo, e capiva che esisteva quella che chiamava «solidarietà antitetico-polare fra esistenzialismo e neopositivismo». Con questo, il codice ideologico del tardo capitalismo era messo allo scoperto. Certo, ci si può lamentare che Lukács, anziché usare il bel termine di “filosofia”, abbia usato il cattivo ed ambiguo termine di “ideologia”. Lukács sapeva perfettamente che Marx aveva usato il termine di “ideologia” in senso negativo, come falsa coscienza, organizzata o no, e come riflesso deformato degli interessi sociali classisti contrapposti. Ma sapeva anche che Lenin aveva modificato radicalmente il significato del termine, dandone una valenza positiva, per cui l’ideologia diventava il punto di vista complessivo della coscienza di classe e della visione del mondo del proletariato rivoluzionario e delle forze “progressiste”. È questa la ragione per cui sia nell’Ontologia sia nei Prolegomeni il termine “ideologia” è utilizzato in modo positivo, nel senso dello smascheramento comunista delle ideologie capitalistiche (fra cui – prima di ogni altra – l’ideologia della deideologizzazione, che gli apparati ideologici del capitalismo ripetono sempre in modo asfissiante e protervo).

Vi è ovviamente un’altra ragione di fondo per la preferenza lucacciana del termine ideologia rispetto al termine filosofia, che porta il paradosso per cui il più grande filosofo marxista del Novecento si vergogna costantemente del termine “filosofia”. Si tratta dell’accettazione lucacciana della teoria gnoseologica del rispecchiamento, che in effetti una volta accettata toglie alla filosofia qualunque pretesa conoscitiva e veritativa di tipo fondazionale, e che non consente nessuna scienza filosofica di tipo hegeliano e marxiano. Una volta accettata la (a mio avviso profondamente errata) teoria del rispecchiamento, utile forse per le scienze della natura, ma non certamente per la trasformazione fichtiano-marxiana della società alienata, si ricade inevitabilmente nella dicotomia Materialismo/Idealismo, con la correlata necessità di “combattere” l’idealismo in nome del materialismo, che non può che portare ad un vicolo cieco. Ma non possiamo pretendere che Lukács, uomo del suo tempo, rinunciasse alla teoria del rispecchiamento ed alla correlata dicotomia Materialismo/Idealismo. È impossibile camminare oltre l’ombra che il sole ci proietta sulla sabbia. Chi scrive – ma ormai lo hanno capito tutti, a causa delle continue volute ripetizioni – è favorevole all’ontologia dell’essere sociale, ma è contrario sia alla teoria del rispecchiamento sia all’inutile, positivistica e gnoseologica dicotomia Materialismo/Idealismo.

Il progetto di ontologia dell’essere sociale è incompatibile, infine, con la stessa riproposizione del marxismo messianico-estremista del giovane Lukács di Storia e Coscienza di Classe e più in generale dei suoi scritti marxisti del settennato 1919-1926. Lukács non avrebbe infatti mai potuto mettere tanto bene a fuoco il problema dell’ontologia dell’essere sociale se non fosse stato lui stesso quaranta armi prima a produrre il profilo migliore possibile del marxismo messianico-estremistico. E parlo del profilo migliore possibile con conoscenza di causa, avendo a suo tempo studiato con cura tutte le opere in cui questo modello è esposto. Dopo la rivoluzione del 1917 il comunismo si trovò privo di una vera legittimazione ideologico-filosofica, al di là delle risposte polemiche di Lenin a Kautsky ed a Rosa Luxemburg. Il primo tentativo di fornire una legittimazione filosofica al nuovo comunismo fu dato da Nicolai Bucharin nel 1921 con un Manuale di materialismo storico, capolavoro “negativo” di riduzionismo, economicismo e determinismo. Il fatto che questo libro orribile e dilettantesco abbia potuto essere preso sul serio dimostra che un grande evento rivoluzionario non può certamente dotarsi in tempo reale di una sufficiente autoconsapevolezza. Lukács propose un paradigma filosofico diverso ed anzi opposto, basato sull’identità idealistica di soggetto e di oggetto, in cui il soggetto era l’idealtipo di proletariato rivoluzionario universale (e qui l’influenza idealtipicizzante di Max Weber è palese), e l’oggetto era il corso della storia universale (e qui l’influenza della filosofia hegeliana della storia è parimenti palese).

Si trattava di un buon modello filosofico, certamente superiore a quello di Bucharin ed anche a quello imposto nel 1931 da Stalin. E nello stesso tempo si trattava di un modello messianico-estremistico, perché investiva il proletariato di una sorta di missione metastorica complessiva che ben presto il proletariato reale (e non quello idealtipico maxweberiano) avrebbe mostrato di non poter realizzare.

Vorrei insistere molto su queste sette distinte incompatibilità (le ripeto nell’ordine dandone un nome per indicarle: Engels, Stalin, Lefebvre, Korsch, Bloch, Althusser, lo stesso giovane Lukács) perché se non le si è capite fino in fondo come pars destruens non si potrà mai capire che il progetto di ontologia dell’essere sociale è la pars construens che risulta dal superamento dialettico di queste distinte sette unilateralità. Ed è appunto questa comprensione che è mancata, ed evidentemente non poteva che mancare, al modo con cui la proposta di Lukács fu valutata.

Eppure la questione è chiarissima, e può anche essere espressa in modo concettualmente chiaro: abbiamo bisogno socialmente di un anticapitalismo radicale moderno, ma questa radicalità non può essere raggiunta attraverso il messianesimo estremistico in filosofia ed attraverso l’avanguardismo provocatorio nell’arte; questa radicalità, paradossalmente (ma tutta la filosofia è paradosso, unico avversario del pregiudizio!), può essere conseguita soltanto attraverso un reinserimento consapevole del pensiero comunista di Marx nel grande alveo della tradizione filosofica occidentale più “tradizionale” possibile, quella che passa da Aristotele ad Hegel. Questo paradosso non poteva evidentemente essere socialmente compreso ai tempi di Lukács, per cui egli non poteva che morire senza eredi (non parlo qui di luminose eccezioni come Nicolae Tertulian e Werner Hofmann). Lukács ha lasciato un messaggio in una bottiglia, e questa bottiglia galleggia ancora sul mare. Il rifiuto di accettare il messaggio lucacciano è stato così diffuso da far sì che anche questo rifiuto deve essere socialmente dedotto.

I più vergognosi furono i quattro filosofi ungheresi membri della cosiddetta (ed inesistente) scuola di Budapest (Heller, Féher, Markus, Vajda). Costoro si dichiarano “allievi” di Lukács fino al 1971, anno della sua morte, in quanto attaccarsi al suo nome era pure sempre una “sponsorizzazione” nel mondo accademico occidentale. Poi, appena morto il “maestro” (ma la cosa assomiglia molto al seppellimento di Adorno fatto da Habermas – per questo ritengo sia un fatto sociale, e non solo accidentale), pubblicarono documenti in cui non solo prendevano le distanze dal progetto dell’ontologia, ma lo demolivano totalmente punto per punto con ipocrita acredine, in favore di una mescolanza eclettica di filosofia dei valori alla Scheler, di disincanto alla Max Weber e di neokantismo alla Habermas (e cioè tutto ciò che Lukács aveva consapevolmente respinto). Una volta crollato il socialismo reale ed affermatosi pienamente il monopolio militare dell’impero americano, la Heller si è lasciata andare ad oscene grida di gioia, che varrebbe la pena rileggere (sono state pubblicate anche in italiano). Non critico i “quattro” di Budapest per il loro profilo filosofico. Li critico per aver lasciato passare per anni il mito di essere “allievi di Lukács”. L’allievo non è certamente chi ti frequenta. L’allievo è chi, almeno in parte, è solidale con te e condivide il tuo progetto filosofico. Per quanto mi riguarda, ho frequentato a lungo Ludovico Geymonat e Norberto Bobbio, ed ho anche goduto della loro stima ed amicizia (peraltro ricambiata), ma non mi sognerei mai di definirmi loro “allievo”, perché non condivido praticamente nulla del loro progetto teorico e filosofico. Si può essere amici personali, ed avversari filosofici, per cui i quattro budapestini sono stati tra i più accaniti ed ingenerosi avversari di Lukács.

Se i liberali anticomunisti di Budapest furono avversari di Lukács, ci si potrebbe aspettare che almeno i “marxisti” lo vedessero con favore. Ma neppure per sogno! Nella principale rivista filosofica della Germania Orientale un certo Beyer pubblicò nel 1969 un articolo intitolato: “Ontologia marxista. Una moda idealistica”. Non c’è bisogno di ulteriori commenti. Cesare Cases, il germanista italiano che fu amico di Lukács, non perse mai occasione di dire che l’Ontologia era un ritorno alla vecchia filosofia universitario-accademica, inutile per qualunque progetto rivoluzionario.

I commentatori sessantottini ignorarono sempre l’Ontologia, ed invece facevano l’apologia di Storia e Coscienza di Classe del 1923, senza tenere alcun conto nella loro stolidità motoria che lo stesso Lukács aveva detto che, per usare un’analogia, non si era più negli anni Venti del Novecento, ma all’inizio dell’Ottocento, quando incominciava soltanto a formarsi il movimento operaio. Il polacco Leszek Kołakowski, che scrisse un’acutissima storia critica del marxismo, che era anche l’elaborazione della sua personale totale rottura con esso, dedicò a Lukács un capitolo sprezzante che ignorava completamente l’esistenza del progetto ontologico, parlava di “mitologia” marxista, ed era intitolato La ragione al servizio del dogmatismo.

Non poteva mancare in questa galleria Juergen Habermas. Come riferisce la Heller, non appena gli fu esposta la trama concettuale del progetto ontologico, «Habermas ebbe una reazione di rifiuto per principio. Un tentativo di questo genere gli sembrava contrastare con una visione storica del marxismo, e dirigersi verso il ripristino dei grandi sistemi razionalistici, il che fa parte del passato filosofico».

Habermas coglie veramente qui il centro della questione. È infatti esattamente così. Lukács intendeva veramente ripristinare i grandi sistemi razionalistici, ed in questo modo ricollegarsi al «passato filosofico». E tuttavia io rovescio di 180 gradi la sua valutazione. Appunto per la ragione che dice Habermas ciò che Lukács voleva era bene, ed è anzi fin troppo timido in questa restaurazione. Questa restaurazione deve essere non solo perseguita, ma anzi deve essere ancora ulteriormente radicalizzata, senza curarsi di usignoli, corvi e cornacchie, e del loro coro di “sapere senza fondamenti”, ecc.

Siamo giunti finalmente al cuore della questione. Ci sono volute centinaia di pagine per arrivarci, ma in questo modo ci siamo arrivati meglio, senza lasciarci alle spalle penosi equivoci storiografici ed interpretativi. Possiamo quindi, in chiusura, tentare un ennesimo bilancio di chiarificazione.

La deduzione sociale delle categorie del pensiero è indispensabile, perché in caso contrario tutta la storia sociale del pensiero umano si riduce necessariamente a quella che Hegel ha definito «una disordinata filastrocca di opinioni». È anche possibile chiamare “materialistico” in senso marxiano il metodo della deduzione sociale delle categorie, ma non è obbligatorio farlo, perché ad esempio Hegel, che era indubbiamente “idealista”, utilizza di fatto questo metodo nel disegnare lo sviluppo dialettico delle figure sociali nella sua mirabile Fenomenologia dello Spirito. E allora è meglio chiamare questo metodo “genetico” per sfuggire alla falsa dicotomia materialismo/idealismo. Il metodo genetico è però anche un metodo storico, l’unico metodo storico possibile, da non confondere con il cosiddetto “storicismo”, che è invece una negazione della storia, perché sovrappone alla storia reale un insieme ideologico variamente improntato al relativismo, oppure alla teleologia predeterminata. Il metodo genetico è però anche un metodo ontologico-sociale, perché l’essere sociale nelle sue diverse configurazioni storico-classiste è la matrice ed il fondamento della struttura portante su cui si sviluppano le categorie. In questo senso Marx ha ragione, e continua ad averla anche dopo il crollo sociale dei sistemi economici del comunismo storico novecentesco 1917-1991, crollo sociale che invece porta con sé nella sua dissoluzione gran parte delle formazioni ideologiche marxiste posteriori al ventennio di costituzione 1875-1895.

L’apparato ideologico universitario delle facoltà di filosofia, al di là delle sue pretese maxweberiane di “oggettività”, è appunto un apparato ideologico, e come tutti gli apparati ideologici non può avere gli strumenti concettuali per potersi vedere come tale. Esso (salvo luminose eccezioni, che come tutte le eccezioni confermano la regola) deve quindi obbedire ai vincoli ideologici che gli impongono indirettamente (ed in alcuni casi anche direttamente) le classi dominanti dell’attuale società capitalistica globalizzata largamente postborghese e postproletaria. Questa assunzione di vincoli sistemici viene generalmente fatta con quella che Marx chiama «falsa coscienza necessaria degli agenti storici». I vincoli sono molti, ma qui potremo per brevità riassumerli in due. In primo luogo, bisogna appunto che la storia della filosofia venga concepita come disordinata filastrocca di opinioni, il che permette da un lato l’esercizio della filologia riferita appunto esclusivamente alle opinioni stesse, e dall’altro contribuisce a dare socialmente un’immagine di inutilità della filosofia stessa, perché nessuno potrebbe ritenere socialmente utile una successione erudita di una filastrocca destoricizzata e desocializzata di opinioni. In secondo luogo, bisogna diffamare in tutti i modi come tradizionale, metafisica, arretrata e premoderna qualsiasi “fondazionalità” della filosofia, in modo che la normatività dei comportamenti individuali e sociali venga riservata esclusivamente ai vincoli sistemici della riproduzione capitalistica, per cui chi si sottrae a questi vincoli viene subito accusato di sottrarsi alla cosiddetta «etica della responsabilità» alla Max Weber (Max Weber è il Tommaso d’Aquino della razionalità capitalistica). Insisto su questo punto: l’apparato ideologico universitario nel suo complesso deve strutturalmente e funzionalmente depotenziare il carattere di razionalismo critico del pensiero filosofico, e le due forme convergenti di depotenziamento sono la sua riduzione a filastrocca di opinioni premoderne e la negazione di qualunque suo carattere fondazionale. Non è sempre stato così. Ad esempio, al tempo di Kant e di Hegel non era così. Ma oggi è così, e chi non lo capisce, per stupidità e/o opportunismo, paga con il prezzo del codice d’accesso politicamente corretto al sistema ideologico universitario la rinuncia a qualsiasi critica radicale indipendente ai rapporti di produzione dominanti. Nicchie di professori universitari “marxisti” vengono ovviamente tollerate, sia pure marginalizzate e tenute sotto controllo, ma si fa in modo che costituiscano ghetti autoreferenziali sostanzialmente innocui, oltre che di volta in volta ignorati, ridicolizzati e travisati dal cannibalismo del sistema mediatico.

Individuare la necessità di una deduzione sociale delle categorie non significa però avere risolto il problema. Se questo infatti è adoperato senza un’accurata distinzione fra valore filosofico e valore ideologico delle categorie, ed i due valori vengono identificati, allora il metodo appena scoperto è subito da gettare via, perché non può che dar luogo ad un carnevale relativistico e sociologistico che nega ogni valore conoscitivo e veritativo alla filosofia. Per usare il lessico di Hegel, la filosofia tratterebbe certo del «proprio tempo appreso nel pensiero», ma ignorerebbe il suo vero oggetto, che è «ciò che è, ed è eternamente». Il benemerito scopritore novecentesco di questo metodo, Alfred Sohn-Rethel, è spesso caduto in questo errore, ma lo si deve scusare, perché una scienza non deve mai rimanere al livello del suo scopritore, ma deve continuamente correggersi ed autocorreggersi. Tutto il mio lavoro può essere interpretato come una cortese correzione a Sohn-Rethel (per quanto riguarda il metodo genetico delle categorie) ed a Lukács (per quanto riguarda le categoria dell’ontologia dell’essere sociale). E tuttavia, pur rivendicando la mia originalità in proposito, non ho nessun problema ad ammettere di volermi collocare nel solco di Sohn-Rethel e Lukács.

Fin qui, però, abbiamo soltanto girato intorno al punto essenziale della questione. Ed il punto essenziale sta in ciò, che la filosofia per sua propria natura è l’unione di due elementi inscindibili, il sistema delle conoscenze razionali e l’insieme di ciò che interessa necessariamente ad ogni uomo, elementi inscindibili che Kant connotò con i nomi rispettivi di Schulbegriffe di Weltbegriff. L’avverbio “inscindibilmente” è qui la parola concettualmente più importante.

Da un lato, infatti, l’apparato ideologico universitario, a partire dalla svolta positivistica e neo-kantiana di metà Ottocento, ha separato questi due elementi inscindibili, ed ha limitato la filosofia al suo solo Schulbegriff, diffamando, isolando ed intimidendo tutti coloro che volevano servirsi degli apparati universitari per praticare un Weltbegriff, che si affermava ormai impossibile, premoderno, metafisico, ecc. (e da Habermas a Rorty abbiamo qui solo l’imbarazzo della scelta). Dall’altro lato, ed in segreta solidarietà antitetico-polare (o se vogliamo in manifesta divisione funzionale del lavoro ideologico), gli apparati politico-ideologici, che si servono della filosofia esclusivamente per la sua “ricaduta” ideologica, ma non hanno alcuna intenzione di rispettarne l’autonomia e soprattutto la veritatività indipendente da ogni manipolazione, hanno ritenuto di poterne utilizzare l’aspetto mondano (Weltbegriff) disprezzandone nello stesso tempo il rigore sistematico, che richiede necessariamente un apprendimento lento e faticoso, per nulla inferiore ai tempi di apprendimento della medicina, dalla chimica e della farmacologia, in una parola del suo Schulbegriff. Concetto scolastico senza concetto mondano, e viceversa concetto mondano senza concetto scolastico, ecco le membra dilacerate e scomposte dell’unico corpo concettuale della filosofia.

Con questo, non intendo dire affatto che gli unici abilitati a dare giudizi sulla totalità del mondo sociale in cui viviamo sono i filosofi muniti di dottorato a Parigi ed a Oxford, ed in possesso non solo della conoscenza della lingua inglese come strumento di comunicazione dei sudditi dell’unico impero legittimo dello spazio globalizzato imperialistico mondiale (Harvey), ma anche del greco antico di Platone e di Aristotele e del tedesco di Kant e di Hegel. Una simile concezione elitistico-demenziale non farebbe che riproporre in modo farsesco la tragica illusione di Platone di poter garantire ed assicurare la scienza filosofica intesa come riferimento normativo dell’organizzazione sociale attraverso l’istituzionalizzazione di una casta non elettiva di governanti muniti della scienza filosofica (episteme) del Vero, del Giusto, del Bene e del Bello.

La tentazione di simili riproposizioni si è affacciato molto spesso nella storia, anche se quasi mai in modo direttamente filosofico-platonico, e quasi sempre prima in modo teologico-religioso (dalla controriforma cattolica ai puritani protestanti inglesi) e poi in modo direttamente economico-dispotico (e si pensi alle canaglie oligarchiche che governano il mondo tramite apparati come la Banca Centrale, il Fondo Monetario Internazionale, ecc.).

È chiaro che l’esaltazione della filosofia come luogo di fusione fra il suo concetto scolastico ed il suo concetto mondano, fusione per loro propria natura esclusa dagli apparati ideologico accademico-universitari e politico-militanti, è incompatibile con il suo sequestro elitario in apparati snobistico-elitari di supercolti (o presunti tali) con la puzza al naso e con la convinzione di essere migliori degli altri. Al contrario, ho enfatizzato in precedenza l’interpretazione data da André Tosel alla filosofia di Spinoza in termini di coesistenza egualitaria sociale fra i dotti ed i non-ancora-dotti, ma potenzialmente in grado di diventarlo (dynamei on). E fra tutti i pensatori marxisti novecenteschi ho soprattutto lodato Antonio Gramsci e György Lukács, come coloro che hanno messo alla base di tutto il “senso comune” (Gramsci) ed il “rispecchiamento quotidiano” (Lukács). È infatti del tutto secondario, anche se meritevole di analisi, il fatto che la teoria del rispecchiamento sia o no esatta, o il fatto che il nuovo senso comune possa essere portatore di fattori di impedimento ad una visione dialettica della realtà. Ciò che invece conta è il comune carattere democratico, e quindi non elitario, della concezione di pratica della filosofia in Spinoza, Gramsci, e Lukács.

Il lettore avrà notato che ho parlato di “pratica della filosofia”, e non solo di “filosofia in generale”. La filosofia, infatti, è un sapere pratico, nello stesso modo in cui peraltro è anche un sapere teorico (uso qui i significati aristotelici dei due termini). L’ateniese Socrate non è stato infatti l’“inventore” della filosofia, ma è stato il primo che ha inaugurato la pratica comunitaria della filosofia stessa. Nei primi capitoli di questo saggio non ho nascosto la mia fermissima opinione, per cui la filosofia ha un’origine sociale, e quindi in un certo senso anonima e strutturale, e sorge da una problematizzazione politica delle leggi (nomoi), viste come il principale fattore frenante (katechon) nei confronti della dismisura infinita ed indeterminata (apeiron), cui opporre in modo consapevole (logos) una misura sociale (metron) delle ricchezze (chremata), e questo non solo per impedire la dissoluzione della città (polis), ma anche per perseguire lo scopo del vivere bene (eu zen), vivere bene che corrisponde alla natura (physis) dell’uomo, che per sua natura appunto è un animale politico, sociale e comunitario (politikòn zoon), ed un animale dotato di capacità di linguaggio, ragione e calcolo (zoon logon echon). Ed è appunto questo che consente, al di là delle differenze di scuola, di parlare di un complessivo “umanesimo greco”, come risulta da una illuminante trilogia del filosofo italiano Luca Grecchi.

Questa è però soltanto la genesi della filosofia, non ancora la genesi della pratica filosofica come pratica sociale comunitaria. Di quest’ultima è invece inventore l’ateniese Socrate, tenendo conto però che il socratismo non è in alcun modo una scuola particolare fra molte altre (in proposito il Socrate di Platone non è affatto socratismo, ma platonismo al cento per cento), ma è semplicemente il nome che si dà ad una pratica comunitaria della filosofia prima inesistente. Come ha correttamente rilevato Olaf Gigon, più che di socratismo bisognerebbe parlare di sokratikòs logos, e cioè di una forma di ragione comunitaria ispirata da Socrate. Il sokratikòs logos è un altro dei molti doni inestimabili offerti dalla polis degli ateniesi all’intera umanità, insieme alla tragedia di Eschilo, Sofocle ed Euripide, alla commedia di Aristofane, alla storiografia di Tucidide ed alla scultura di Fidia. Tutti questi doni sono stati resi possibili da una concezione profondamente religioso-comunitaria della vita associata, concezione del tutto incomprensibile per chi ragiona sulla base di un individualismo ispirato a Hume o a Kant, di una fallacia naturalistica o di un presunto politeismo dei valori.

La religione dei Greci non disponeva ovviamente di libri sacri di riferimento e di apparati sacerdotali di tipo inquisitorio, e per questa ragione era a tutti gli effetti più “religiosa” del successivo cristianesimo, come del resto a loro tempo sia Hegel che Marx capirono molto bene, e come invece Nietzsche non riuscì mai a capire, ipnotizzato nelle sue ossessive dicotomie e soprattutto nella sua errata concezione del mondo sociale greco classico, fondato su di un modo di produzione di piccoli produttori indipendenti e di piccoli proprietari “misurati” (metron), e non certo su di un modo di produzione schiavistico incontrollato in cui schiavi ed iloti mantenevano nell’«ozio creativo» individui pigri ma dialoganti. La vita dei Greci, oltre ad essere religiosa, era anche comunitaria, e per questa ragione incomprensibile, inattingibile ed irrapresentabile per chiunque si ostina ad interpretarla secondo schemi posteriori che non le corrispondono in alcun modo, come l’individualismo borghese, il moralismo kantiano, la concezione formalistica del soggetto di tipo cartesiano, il cosiddetto “laicismo”, l’estetismo neoclassico, la cosiddetta “scienza disinteressata”, e via via sempre più fraintendendo.

Socrate fu l’inventore non certo della “filosofia”, ma della pratica filosofica comunitaria, perché ad Atene era politicamente impossibile continuare a far passare contenuti politici attraverso lo schermo di filosofie naturalistiche (l’acqua di Talete, l’aria di Anassimene, il «fuoco semprevivo» di Eraclito, la permanenza nel tempo della buona legislazione di Parmenide definita in modo metaforico con il termine to on, l’essere «sferico»). L’accesso di tutti all’agorà, ed il diritto di tutti i cittadini all’uguaglianza dei diritti (isonomia) ed all’accesso eguale della parola pubblica (isegoria), non potevano non riflettersi sull’eguale accesso di tutti alla parola filosofica (sokratikòs logos). Socrate è quindi per definizione, ed anzi a priori, l’unico filosofo che non poteva aver scritto nulla, perché il fondatore di uno spazio pubblico della pratica filosofica aperta a tutti coloro che la vogliono appunto “mettere in pratica” non può aver sostenuto qualcosa di particolare, ma può soltanto sostenere di sapere di non sapere, e con questo limitarsi ad un metodo di ironia e di maieutica.

Ho ripetuto qui cose già ampiamente sostenute nei primi capitoli per una ragione ben precisa. Si tratta infatti di sapere se l’esempio del grande sokratikòs logos possa essere ancora riproposto oggi, oppure se faccia parte di un passato tramontato per sempre. Ebbene, a mio avviso il mondo spirituale dei Greci non potrà mai tornare, perché i suoi presupposti storici e sociali non sono più in alcun modo riproponibili e restaurabili, in quanto il cristianesimo lo ha ucciso per sempre (e questo sia che questa uccisione sia valutata positivamente, alla Hegel, oppure invece negativamente, alla Nietzsche). E però, se il mondo complessivo dei Greci non potrà più tornare, purtroppo (il purtroppo è una mia esclusiva valutazione, di cui porto tutta la responsabilità), il sokratikòs logos invece non è morto, perché il sokratikòs logos è semplicemente l’equivalente antico di quello che Kant ha chiamato l’aspetto mondano della filosofia (Weltbegriff), quello per cui la filosofia è ciò che interessa necessariamente ad ogni uomo.

È questa l’angolatura con cui ho scelto di considerare il progetto di ontologia dell’essere sociale, il meno peggiore dei profili filosofici oggi presenti sul “mercato ideale” dei sistemi filosofici (Schulbegriff), e nello stesso tempo il meno peggiore dei sistemi filosofici il cui “risvolto pratico” può interessare ad ogni uomo (Weltbegriff). Per poterlo valutare con tutti gli elementi di conoscenza possibili, non si poteva fare a meno di ripercorrere tutta l’intera storia della filosofia occidentale, intesa nel senso datole a suo tempo da Hegel. La storia della filosofia non è in alcun modo un succedersi casuale di opinioni, ma è il riflesso sistematico della storia dell’autocoscienza umana. Con questo, non è affatto necessario “dare ragione” ad Hegel in tutte le sua valutazioni specifiche (personalmente, io non ne condivido moltissime), ma è sufficiente accettare come legittima la sua impostazione generale.

Il progetto di ontologia dell’essere sociale unisce insieme inscindibilmente l’elemento scolastico e l’elemento mondano della filosofia, e proprio per questa ragione non può fare a meno di assumere la forma di un sistema razionalistico alla Spinoza, Kant e Hegel. E proprio per questa ragione non poteva piacere a Cesare Cases, figlio di una generazione critica, che per questa stessa ragione era piuttosto attratta da filosofie puramente critico-negative, come l’innocuo messianismo testimoniale di Benjamin e come la dialettica negativa di Adorno. Ed è proprio per questa ragione che piace molto a me. Con tutto il rispetto per Benjamin ed Adorno, che rispetto molto, la loro critica negativa all’esistente, unita ad un innocuo discorso di principio sulla bontà astratta del messianismo, è qualcosa di totalmente compatibile con l’apologia dell’esistente, che è anzi compiaciuto narcisisticamente della sua capacità di “tollerare” l’enunciazione testimoniale di una negazione radicale dell’esistente, tanto radicale da non permettere alcuna “mediazione” (Vermittlung) a cui attaccare la leva di un possibile cambiamento.

Il sistema della odierna «tolleranza repressiva» (il termine è di Marcuse, e non si poteva sceglierne uno migliore) non ha nulla in contrario a che si formulino negazioni apocalittiche, messianiche e “totali”, mentre non sopporta assolutamente punti di vista, esposti in forma pacata e tradizionale, che mettano realmente in discussione la sovranità assoluta della riproduzione capitalistica riproponendo il carattere “fondazionale” della filosofia. Ma non scherziamo, signori! Il solo fondamento di oggi è la sovranità della merce capitalistica (quella che l’economista emiliano Romano Prodi chiama insistentemente «il giudizio dei mercati»)! Non esistono altri fondamenti! Mica sarete per caso tanto metafisici, conservatori ed arretrati dal riproporre la natura “fondazionale” della filosofia? Ah! Ah! Oh! Oh!

Il progetto di ontologia dell’essere sociale restaura la posizione classica di tutta la grande filosofia da Aristotele ad Hegel, e cioè l’unità ontologica delle categorie del pensiero e delle categorie dell’essere. Abbiamo visto in alcuni precedenti capitoli che Kant è l’unico grande filosofo tradizionale che la contrasta e la nega, ma per comprenderne la ragione ci soccorre la deduzione sociale delle categorie. Kant doveva infatti delegittimare le pretese normative della metafisica religiosa, e l’unico modo per farlo era appunto la separazione fra categorie del pensiero e categorie dell’essere, in quanto solo le prime erano dimostrabili (i fenomeni), mentre le seconde erano indimostrabili (il noumeno come cosa-in-sé o concetto-limite). Ma fu poi il successivo neokantismo che trasformò la gnoseologia in teologia, o più esattamente in equivalente borghese della teologia.

Il meccanismo della riproduzione capitalistica, infatti, è la sola ed unica cosa-in-sé rimasta, perché non è più cosa-per-noi pretendere di poterla trascendere e sostituire (gabbia d’acciaio di Weber, fine delle grandi narrazioni di Lyotard, fine della storia di Kojève, Gehlen e Fukuyama, fine delle illusioni di Furet, e così via sempre “finendo” qualcosa). È questa la ragione dell’irritata reazione di Habermas. Ma come, tanta fatica per seppellire Horkheimer ed Adorno, e adesso arriva un signore che vuole “ripristinare i grandi sistemi razionalistici, il che fa parte del passato filosofico”!

Ma chi decide che qualcosa faccia parte del passato filosofico, e non piuttosto del presente e del futuro? È evidente che questo, e solo questo, è il problema. E non è un problema di abilità argomentativa, perché le classi dominanti sono sorde a qualunque argomento razionale, se appena questo argomento mette in discussione una struttura di potere e di dominio. Ed è questo il maggiore contributo portato da Marx rispetto a Socrate. Socrate partiva ancora dal principio “dialogico” per cui in via di principio tutti possono essere convinti (anche se già nei suoi dialoghi alcuni si sottraggono andandosene prima di essere sconfitti nel confronto). Marx sa già che questo non può avvenire, a causa della natura classista dei rapporti sociali di produzione. Ma non è questo il sintomo di una “ammissione indiretta” dell’impotenza della filosofia? La questione merita una riflessione particolare di tipo ontologico-sociale.

Che il metodo dialogico in Socrate non fosse fine a se stesso, e non avesse come unica finalità il conoscere se stessi in senso psicologico-individualistico (gnothi seauton) a me sembra non possa essere realmente messo in dubbio. Il dialogo di Socrate aveva come sua finalità il convincimento razionale dell’interlocutore (e qui sta infatti il carattere normativo della filosofia – convincere razionalmente l’interlocutore), e questo può essere dimostrato in molti modi, di cui mi limiterò qui a segnalarne due. In primo luogo, il dialogo socratico non era per nulla una cortese e pluralistica discussione, ma era una faticosissima macchina argomentativa che implicava una attenzione spasmodica. Il sokratikòs logos aveva regole altrettanto ferree delle rappresentazioni tragiche e comiche. Iniziava con l’ironia (che non significava affatto “fare dello spirito” in senso moderno, ma ammettere preliminarmente di sapere di non sapere, e perciò di essere potenzialmente aperto a qualunque esito del confronto), procedeva con la maieutica (l’arte di far partorire le idee attraverso lo scambio dialogico e le domande ben poste) e mirava al consenso attraverso la definizione concordata (la cosiddetta omologhici). In molti dialoghi socratici il consenso non viene raggiunto, mentre in altri sì, ma è difficile dubitare che la struttura del dialogo socratico non mirasse ad un consenso sopra una definizione comune.

In secondo luogo (e questo secondo punto è molto più importante del primo), Socrate non viveva in una società individualistica liberale, per cui non ha senso retrodatargli il nostro atteggiamento (che risulta non certo dalla “natura umana”, ma da una svolta individualistica ed antimetafisica posteriore alla seconda metà del Settecento europeo), ma viveva in una società politica. Vivere in una società (Gesellschaft) e vivere in una comunità (Gemeinschaft) non è certamente la stessa cosa. Questo non significa affatto che non ci fosse ancora la libera individualità. Essa c’era già da tempo, perché già da tempo era stato rotto il legame tribale che pensava se stesso attraverso l’indistinzione fra macrocosmo naturale e microcosmo sociale. Ma non si trattava assolutamente dell’individuo (in-dividuum, non ulteriormente divisibile), nel senso che questo termine ha assunto dopo Hobbes e dopo Locke, oltre che dopo Cartesio e Kant.

Il sokratikòs logos non era ancora per nulla “filosofare” moderno, e questo non solo per l’ovvia ragione che è venuto prima di Galilei e di Newton, ma anche e soprattutto perché presupponeva una comunità che si trattava di convincere al bene e di distogliere al male. Chi “individualizza” Socrate, magari in perfetta buona fede, ed in questo modo lo tratta a tutti gli effetti come un nostro contemporaneo, non lo capirà mai, e crederà che il sokratikòs logos sia equivalente al dibattito fra gli illuministi, con l’unica differenza di essere in lingua greca anziché in lingua francese. In conclusione: è bene partire dal fatto che la filosofia, nella forma socratica del logos portato nell’agorà, intendeva essere conoscitiva e veritativa (il che non significa affatto normativa in senso autoritario, dispotico, amministrativo, poliziesco ed ideologico). Essa era quindi rivolta non tanto al convincimento in generale di individui, ma al convincimento comunitario.

E perché mai convincimento comunitario, e non solo convincimento in generale? Ma per il semplice fatto che non si trattava di convincere qualcuno di questioni irrilevanti, se siano più belle e seducenti le ragazze di Atene o quelle di Sparta (tema interessante certamente, ma privo di qualunque universalità), ma di che cosa sia il Bene, ossia il bene politico. Questo fu capito molto bene da Hegel, che non considerò mai la Repubblica di Platone una utopia irrealizzabile, ma l’espressione più alta del vero spirito dei Greci. Negare alla filosofia greca classica la finalità (telos) del convincimento comunitario significa precludersi la comprensione del mondo antico. Nello stesso tempo, è evidente che il pensiero epicureo non mira più al convincimento comunitario, ma al ripiegamento in un gruppo protetto di amici. E dopo il primissimo periodo di provocazione e di ostentazione di comportamenti asociali (anaideia), anche gli stoici si ricongiunsero alla tradizione del convincimento comunitario, sia pure nella forma della comunità cosmopolitica di tipo universalistico. È bene avere chiaro questo punto, perché oggi ci ritroviamo in una situazione analoga a quella stoica, e cioè in un terreno globalizzato di comunità di tipo universalistico.

C’è però un paradosso, che caratterizza la filosofia in quanto tale. Da un lato, la filosofia ha una vocazione irresistibile al convincimento comunitario, e perciò universalistico, veritativo e normativo. Non solo i sistemi filosofici antichi (Platone, Aristotele, ecc.), ma anche quelli moderni (Spinoza, Kant, Hegel, ma anche Marx), si muovono a mio avviso in base a presupposti ispirati al convincimento razionale come loro scopo intimo e naturale (telos). Il telos del dialogo del convincimento razionale, anche se il dialogo può dar piacere di per se stesso. La specie umana si riproduce infatti necessariamente attraverso il coito fra l’uomo e la donna, anche se è largamente noto che il coito può essere (e generalmente è oggi) un fine a se stesso. Questo vale anche per la filosofia. Il dialogo può essere un piacere per se stesso, ma la sua funzione resta sempre quella di essere il mezzo per un convincimento comunitario.

Dall’altro, però, vi sono oggettivamente due questioni, che non possono essere passate sotto silenzio, e cioè, nell’ordine, il fatto acclarato che l’argomentazione filosofica nei fatti non riesce a convincere quasi nessuno, per cui il convincimento è assai più l’eccezione della regola, e infine che oggi le comunità sembrano quasi del tutto scomparse, e quando ancora esistono, si muovono assai più sulla base di pregiudizi tesi ad escludere l’altro piuttosto che sulla base di un universalismo razionale. Affrontiamo queste due difficoltà, e solo dopo potremo veramente collocare il progetto di ontologia dell’essere sociale nel nostro tempo storico.

Iniziamo dal primo problema, che è anche un paradosso. Da un lato, la filosofia si pone come un sistema di conoscenze razionali strutturate in modo logico, che possono certo divertire e compiacere chi le elabora, ma che in ogni caso sono organizzate in modo da avere come telos il libero convincimento, e cioè inevitabilmente la vittoria di una tesi sull’altra. I Greci stessi la intendevano anche come lotta di tipo olimpico (agòn), e lo stesso Kant afferma che si tratta di un «campo di battaglia» (Kampfplatz).

Dall’altro, l’esperienza di più di duemila e cinquecento anni ci conferma che di regola questo convincimento è impossibile, ed il fatto che qualcuno cambi idea (metanoia), già di per se rarissimo, è piuttosto prodotto da esperienze-limite (pensiamo a Paolo di Tarso che diventa cristiano dopo un incidente ed una insolazione). In altre parole – per usare il lessico di Wittgenstein – la filosofia pretende di “dimostrare”, ma il massimo che riesce a fare è “mostrare”. Si mostra infatti qualcosa con il dito, ma non capita quasi mai che l’interlocutore fissi lo sguardo verso ciò che gli indichiamo. Ed è questo in definitiva il paradosso della filosofia: nata per dimostrare e per perseguire il convincimento razionale comunitario, deve ripiegare e deve accontentarsi di mostrare con il dito. Ed il passaggio dalla mente che dimostra al dito che mostra comporta quasi sempre l’effetto di un detto cinese: il saggio mostra da un lato con il dito, lo sciocco guarda soltanto il dito.

La potenza della filosofia si mostra dunque troppo spesso socialmente impotente. Di fronte a questa deprimente impotenza, è normale che si seguano scorciatoie che vorrebbero soggettivamente superare questa palese impotenza. Si può ripiegare appunto in gruppi protetti di parenti e di amici, rinunciando al telos del convincimento comunitario razionale (limitato alla polis nei classici, esteso all’oikoumene negli stoici). Si può credere che la violenza ideologica obbligatoria possa servire allo scopo (pensiamo alla Santa Inquisizione di Torquemada oppure al materialismo dialettico di Stalin). Si può credere che l’impotenza della filosofia possa essere curata con la fede religiosa e con il sentimento di appagamento che essa non può che comportare. Si può pensare, infine, che la soluzione definitiva sia la scienza ed il metodo scientifico, che dispongono di un sistema di protocolli osservativi e di metodi di verificazione e/o falsificazione, per cui finalmente non si “mostra” soltanto, ma si dimostra. Come si vede, le fughe dalla frustrazione dell’impotenza della filosofia a “dimostrare” qualcosa, e ad avere successo nel convincimento comunitario sono molte, anche se mi sono limitato a segnalarne solo quattro (ripiegamento in un gruppo protetto di amici co-senzienti, fuga in avanti nella costrizione ideologica considerata – erroneamente – come più performativa, approdo alla fede religiosa come medicina contro il tormentoso e frustrante dubbio permanente, scelta per la scienza e per i suoi metodi considerati finalmente sicuri, vincolanti ed “universalistici”).

Queste quattro operazioni possono riuscire perfettamente, e nello stesso tempo alla fine il malato è morto. Con il ripiegamento in una piccola comunità protetta certo riduciamo lo stress sociale, ma alla fine non ci salveremo lo stesso, se la comunità in cui viviamo sceglie la via della guerra e del massacro dell’ambiente naturale e sociale. Il pensare di poter “costringere” alla verità per via ideologico-inquisitoria non riesce mai (se non apparentemente per qualche secolo o decennio), in quanto la verità è per sua natura qualcosa cui nessuno può essere “costretto”, in quanto essa comprende costitutivamente non solo un “dato” fattuale (questo è il caso di altre dimensioni, come la certezza e l’esattezza), ma anche un libero convincimento razionale (anche se la filosofia è costellata di personaggi che non lo hanno capito, da Agostino a Stalin). La religione scalda il cuore con i suoi riti comunitari, così come la scienza rassicura con le sue procedure da laboratorio. Alla fine, però, il problema della razionalità del convincimento comunitario, libero ed universalistico, resta. Si può cercare in tutti i modi di espellere la filosofia, ed il modo oggi generalmente usato è spaventare la gente dicendo che è sorpassata e pre-moderna (la gente, infatti, è socialmente spinta a considerare buono il “nuovo” e “cattivo” il vecchio, ed a questo contribuisce in modo decisivo la dittatura della pubblicità e la coazione ad adeguarsi alla moda), ma alla fine essa salta sempre fuori come una molla goffamente compressa. La speranza che essa non si limiti a “mostrare”, ma riesca prima o poi anche a “dimostrare” quello che sostiene, non può essere eliminata dalla storia. Una congiuntura storica (come quella che stiamo vivendo) può affermarlo arrogantemente, ma bastano in genere pochi decenni per “rovesciare i verdetti” troppo affrettati ed arroganti.

L’oscillazione fra la vocazione irresistibile della filosofia al convincimento comunitario (che nell’antica filosofia classica ruotava intorno ai tre concetti interconnessi di logos, metron e katechon) e la palese impossibilità di ottenerlo, con conseguente ripiegamento dalla dimostrazione al “mostrare” con un dito, fa parte della sua essenza, e non può essere “guarita” con nessuna terapia. Tutte le illusioni di “risolvere il problema”, dall’imposizione ideologica all’illusione scientifica, restano infatti sempre illusioni. L’imposizione ideologica non è mai performativa, perché l’uomo è un essere autonomo e problematico, e non si può “costringere” qualcuno ad ammettere come “verità” qualcosa di cui non è intimamente convinto. La fuga nella scienza moderna non è mai una soluzione, perché la scienza può dirci che cosa è il certo, l’esatto, lo sperimentabile ed il verificabile, ma non potrà mai dirci che cosa è bene e che cosa è male, perché il suo metodo per principio non si pone queste domande. Bisogna quindi che il filosofo non si faccia intimidire dalle ingiunzioni ad essere moderno, ad essere postmoderno, ad essere scientifico, a non essere metafisico, ecc. Oggi la filosofia parte da un atto di coraggio. Senza questo atto di coraggio non solo non può svilupparsi, ma non può neppure cominciare.

Passiamo ora al secondo problema, che è ancora più decisivo ed importante del primo appena discusso. La filosofia è nata come portatrice di un convincimento comunitario potenziale (dynamei on), convincimento comunitario potenziale rivolto ad impedire la rovina portata necessariamente dall’infinitezza e dall’indeterminatezza (apeiron) delle ricchezze (chremata), ed i suoi tre concetti portanti non potevano che essere il freno di questo scatenamento crematistico (katechon), lo strumento razionale volto ad impedirlo (logos), ed infine il prodotto del logos stesso, la misura volta a dare ordine (nomos, taxis)alla realtà sociale (metron). Ma cosa può succedere oggi, in cui la comunità non esiste più, e l’unica comunità virtuale è la comunità del capitale, il che ovviamente equivale a nessuna comunità?

Questo è allora il problema di fondo: come riattivare il carattere razionale ed universalistico della filosofia, nata come pratica sociale del convincimento comunitario, e rimasta ancora fondamentalmente tale all’epoca dei cosiddetti grandi sistemi (Spinoza, Hegel e Marx), in un’epoca storica di frammentazione sociale di tipo individualistico? Senza affrontare questo problema, infatti, è impossibile pensare ad una collocazione sociale di una prospettiva di tipo ontologico-sociale. Cosa può infatti fare l’ontologia dell’essere sociale in un contesto storico e geografico in cui la sola “comunità” è la non-comunità del capitale, che come non-comunità si vanta di non avere alcun fondamento (se non appunto, il “nulla”), e dichiara che il solo assoluto possibile oggi è il relativo, non solo, ma che il relativo è buono, perché non ha alcuna imposizione ed alcuna normatività?

Il generale discredito che ha investito il metodo di Marx ed il marxismo, che le strutture ideologiche legate al potere ultracapitalistico hanno collegato in modo falso e protervo alla dissoluzione sociale e politica del comunismo storico realmente esistito (1917-1991), ha comportato negli ultimi due decenni (ma per quanto ancora? – nessuno lo sa!) una situazione spirituale malata e del tutto anormale, per cui il tipo di società che avrebbe meritato il massimo di critica è praticamente rimasta senza critica. Si tratta del paradosso maggiore dei nostri tempi. Potremmo formularlo così, in un modo espressivo che utilizza modalità hegeliane liberamente reinterpretate: l’epoca attuale sembra essere un’epoca di gestazione e di trapasso verso una forma di ipercapitalismo assoluto geograficamente globalizzato, sostanzialmente postborghese e postproletario; si tratta di un’epoca che potremo definire dell’alienazione compiutamente realizzata proprio sulla base della compiuta realizzazione della sovranità del valore di scambio su ogni altra forma di sintesi sociale umana comunitaria, il che verifica nei fatti l’ipotesi teorica dell’unità della teoria economica del valore e della teoria filosofica dell’alienazione; e proprio quando sarebbe socialmente necessario rilanciare il carattere veritativo della pratica filosofica essa è delegittimata come premoderna; e infine, proprio il tipo di società che meriterebbe il massimo di critica è rimasta di fatto senza critica; il nichilismo esprime l’assenza di ogni fondamento comunitario, che è diventato appunto “nulla”, e si afferma che questa mancanza di fondamento è bene, anzi benissimo, perché il sapere “moderno” sarebbe caratterizzato dalla mancanza di fondamenti; il relativismo esprime il fatto sociale per cui tutto è diventato relativo al valore di scambio ed alla sua solvibilità, e questa determinazione ontologico-sociale, che esprime il massimo di barbarie alienata, viene lodata come fine delle costrizioni, delle normatività metafisiche, dello Stato etico hegeliano e dell’utopia comunista.

Stando così le cose, l’epoca della compiuta peccaminosità di Fichte è finalmente realizzata. Viviamo infatti nell’epoca della realizzazione della compiuta peccaminosità.

Sarebbe ingenuo pensare che tutto questo a lungo andare (ed anche in alcuni casi a “corto andare” o a “medio andare”) non provochi reazioni o resistenze. E tuttavia per ora queste resistenze sono di tipo non-universalistico, di tipo prevalentemente religioso. Dal momento che queste resistenze sono pienamente giustificate (il che non implica evidentemente che se ne debbano approvare moralmente tutte le manifestazioni), non ha più senso a mio avviso continuare a dire che la religione è per sua natura “alienazione”. Forse un tempo lo è stata, ma ora non lo è più. Nel momento in cui la religione investe direttamente la legittimità morale del capitalismo, sia pure in forme che ci possono non piacere o addirittura respingere, essa automaticamente non è più alienazione. Ai loro tempi Feuerbach, Marx e Lenin potevano dirlo con qualche ragione, ma ora non più. Oggi il solo pensiero alienato è quello che sostiene, direttamente o indirettamente, la legittimità e l’intrascendibilità del capitalismo nella forma attuale, e della necessità di un unico impero militare mondiale. Questo, e solo questo, è il solo pensiero alienato. Non ci sono altri pensieri alienati. Non sono sicuro che Spinoza, Hegel, Marx e Lukács lo direbbero. Ma la filosofia è pensare con la propria testa, ed io mi sento di dirlo. Nessuno ovviamente sa come si svilupperanno le nuove contraddizioni di classe. Nella loro vecchia forma delle prime due età del capitalismo, la borghesia e il proletariato fanno parte del passato, anche se in altre parti del mondo esistono ancora. In Cina ed in India, ad esempio, soltanto adesso possiamo parlare veramente di scontro di classe borghesi-proletari così come noi lo abbiamo conosciuto nell’Ottocento e nel Novecento. Si formeranno certamente nuove contraddizioni dialettiche per ora ancora invisibili. Per cominciare, è improbabile che le classi medie sviluppatesi nel Novecento, ed ora in caduta verticale non solo di status e di aspettative, ma anche e soprattutto di condizioni di vita, potranno sopportare a lungo questo processo come fatale, laddove ovviamente non è per nulla fatale, ma provocato dal modello di sviluppo economico del potere delle oligarchie più abbiette, crudeli e schifose dell’intera storia mondiale dai Sumeri ad oggi.

Non tocca però alla pratica filosofica fare dilettantesche previsioni di tipo economico o sociologico. In questo senso, il futuro resta ampiamente imprevedibile, ed è questa imprevedibilità che fa cadere tutte le forme di pensiero teleologico, deterministico e messianico. La pratica filosofica deve invece strutturarsi non sulla (impossibile) prevedibilità, oppure sulla (ancora più impossibile) scientificità, ma su tre solidi fondamenti: il carattere dialogico-comunitario, la deduzione sociale della categorie, e l’ontologia dell’essere sociale. Chiariamo ancora una volta di che si tratta, e soprattutto il perché di questa insistenza.

Il carattere dialogico-comunitario deriva direttamente dalla pratica dell’ateniese Socrate. Nato sulla base dell’esigenza di conoscere se stesso (gnothi seautòn), si è sviluppato sulla base del telos del convincimento comunitario possibile. Il convincimento comunitario presuppone però il rischio (probabile) che non si riesca a perseguirlo, per il permanere degli interessi egoistici dei singoli (pleonektein). E tuttavia, è bene evitare la fuga in avanti nella tentazione della costituzione di una élite ideologico-politica, per il semplice fatto che la verità non può essere semplicemente dedotta, affermata e conosciuta ma deve anche essere condivisa. Nel mondo moderno, Spinoza è stato il primo che ha affermato esplicitamente che la democrazia, filosoficamente parlando, è la coesistenza dei saggi e dei non-saggi. Ma cosa può essere la saggezza se non la conoscenza della verità? Al di fuori di questa definizione, l’unica possibile, ci sono soltanto le regole dell’abilità, i consigli della prudenza, i riti sociali consentiti, il conformismo di ciò che di volta in volta è considerato il “politicamente corretto” che dà luogo all’accesso a posti di comando, i vari utilitarismi di gruppo, ecc. Ma il dialogo per sua stessa definizione, è interminabile solo idealmente ed astrattamente. Socialmente parlando, il dialogo deve di tanto in tanto determinarsi. La determinazione sociale del dialogo si chiama “etica”, mentre si chiama “morale” la problematizzazione interminabile programmaticamente impotente, e proprio per questo lodata da chi vuole che le cose rimangano come sono.

La deduzione sociale delle categorie è il metodo usato in tutto questo trattato storico della filosofia. Ogni generazione di filosofi deve riaggiornarla e rifarla, per cui non esiste, e non può esistere, una scoperta “definitiva” del quadro storico-strutturale in cui viene socialmente dedotta la produzione delle categorie. Ad esempio, tutte queste mie proposte potrebbero essere errate, e tutte meritevoli di correzione radicale (anche se non lo penso affatto – la mia autocritica ed il mio masochismo non arrivano a tanto!). Ma questa eventualità non cambierebbe nulla sull’utilità di questo metodo della deduzione sociale delle categorie. Si tratta infatti di una terapia vera e propria, attraverso la quale ci poniamo una serie di dubbi, sia metodici che iperbolici, sul nostro stesso apparato categoriale. Se infatti accettiamo il principio che certo pensiamo individualmente e con la convinzione di essere mossi dal nostro libero volere, ma non postuliamo questo libero volere (Cartesio, Kant, ecc.), ed invece lo inseriamo in una totalità sociale storicamente determinata, allora la tradizione «boria dei dotti» (l’espressione è di Vico) si indebolirà. Solo una vera deduzione sociale delle categorie, infatti, può permettere di dimostrare a dito che tutte le tronfie dichiarazioni di fine “moderna” della storia dell’ideologia contemporanea sono false, ed è quindi necessario dotarsi del coraggio di contrastarle, indifferenti alle calunnie ed alle incomprensioni.

L’ontologia dell’essere sociale (non parlo qui ovviamente dei libri di Lukács che hanno questo titolo) significa che l’essere sociale esiste (come del resto esiste la natura umana, e su questo punto Chomsky ha completamente ragione e Foucault completamente torto). Il fatto che l’essere sociale esista, e sia caratterizzato da categorie ontologiche specifiche, e non solo storico-relative (il sociologismo relativistico è la porta girevole verso il nichilismo), resta il solo baluardo credibile contro l’illimitata manipolazione che sorregge l’attuale epoca della compiuta peccaminosità. È quindi del tutto normale che questa ontologia dell’essere sociale si esprima preferibilmente nella forma dei vecchi sistemi filosofici. Il suo carattere mondano, che riguarda ciò che necessariamente interessa ad ogni uomo (Weltbegriff), non può fare a meno di prendere l’aspetto del sistema delle categorie e della loro connessione razionale (Schulbegriff). Quando dunque sentiamo dire che “è finita l’epoca dei sistemi” possiamo essere sicuri al cento per cento di una cosa: chi lo afferma con tanta sicumera vuole in realtà che un solo sistema esista e sia legittimato, il sistema della produzione ipercapitalistica postborghese e postproletaria della terza età del capitalismo.

A questo punto, possiamo mettere tranquillamente la parola “fine” a questo studio. Siamo tornati esattamente dove avevamo cominciato: il potere comunitario della filosofia, l’irriducibilità della sua funzione sociale all’ideologia e/o alla scienza, la deduzione sociale delle categorie, l’ontologia dell’essere sociale.

L’andare oltre toccherà ad ogni singolo lettore.

Il paradigma inattuale: Pirandello, Lukács e la tragedia

15 sabato Nov 2014

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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di Gaetano Compagnino

da «Letterature e lingue nazionali e regionali. Studi in onore di Nicolò Mineo
a cura di S. C. Sgroi e S. C. Trovato, Roma 1996, pp. 89-119.


C’è, per Pirandello, un luogo in cui la sfera dell’arte e quella della ‘vita’ si intersecano e sembra si sovrappongano fin quasi a coincidere: è il luogo in cui si produce la rappresentazione di sé e del mondo – da parte degli uomini in carne ed ossa nella vita, da parte dell’artista nella creazione dei personaggi e del mondo dell’arte sua.

Dall’Umorismo del 1908 a Trovarsi (del 1932), lo scrittore torna di frequente sulla questione e spesso con le stesse parole1. Se mai, fra le pagine di un testo e quelle dell’altro è possibile trovare delle differenze di tono, poiché ora, come nella prima edizione del saggio sull’Umorismo, egli sottolinea (più di quanto non accada nella seconda) la comune natura illusoria delle due rappresentazioni2, ora ne accentua la differenza, come in Trovarsi, precisamente in relazione alla ‘libertà’ che è propria della disinteressata creazione dell’artista e agli ostacoli cui invece non riesce a sottrarsi la interessata rappresentazione della propria ‘realtà’, che è poi il problema donde prende le mosse Il fu Mattia Pascal3:

«La volontà, sì, la volontà di farcela, una vita, il bisogno di farla consistere in qualche modo, com’è possibile… – eh sì, com’è possibile, perché non dipende più da noi soltanto, ci sono gli altri – i casi – le condizioni – e chi ci sta più vicino – che possono contrariarci, ostacolarci – non sei più tu sola, in mezzo a tutto questo increato che vuol crearsi e non ci riesce – non sei più libera! E allora… allora dove la vita è creata liberamente, è là invece, nel teatro! Ecco perché mi ci sono sempre trovata subito, sicura – là sì! E il vago, l’incerto che sentivo prima, non dipendevano dal non avere io ancora una vita mia: ma che! no! è peggio, è peggio averla! Non comprendi più nulla, se t’abbandoni ad essa perdutamente. Riapri gli occhi, e se non vuoi lasciarti andare a tutto ciò che è solito, che diventa abitudine, solco, monotonia che non ha più colore, sapore, allora è tutto incerto di nuovo, instabile; ma con questo: che non sei più come prima; che ti sei legata, compromessa con ciò che hai fatto, e in cui è così difficile, impossibile trovarti tutta intera, sicura»4.

Non diversa da quella di Donata Genzi, la «vera attrice […] che “vive” sulla scena», è l’insofferenza per il ‘consueto’ del pittore Elj Nielsen. Anch’egli se ne sente soffocare, come quanti durano la rappresentazione della propria illusione dentro la ‘maschera’, anch’egli ne sogna l’improvvisa rottura; di essa appunto e di ciò che allora si rivela, sognando di fare l’oggetto della sua arte:

«Dipingo male – grazie – lo so; ma perché non è facile, sai, dipingere come vorrei io… le cose come appajono in certi momenti… lo scoppio, lo scompiglio di tutti gli aspetti consueti che hanno ridotto la vita, la natura, oh Dio, come una moneta logora, senza più valore. Io non capisco: è come volersi umiliare… subire… Il solito cielo che t’ammicca con le solite stelle, sulle solite case che ti sbadigliano con le solite finestre, e tu che vai sul solito lastricato delle solite strade… Ah, che soffocazione! Ti sarà avvenuto qualche volta – non sai come – non sai perché – di vedere all’improvviso, la vita, le cose, con occhi nuovi… – palpita tutto, a fiati di luce – e tu, sollevata in quel momento e con l’anima tutta spalancata in un senso di straordinario stupore… – Io vivo così! In questo stupore! E non voglio sapere mai nulla!»5.

La similitudine cui ricorre Elj Nielsen appare, da questo punto di vista, estremamente significativa. Come ha mostrato Harold Weinrich, la metafora che assimila la parola alla moneta attraversa tutta la cultura letteraria europea dall’antichità in poi6; qui però usurata non è la lingua della rappresentazione letteraria, ma l’oggetto stesso di essa e, in genere, dell’arte: la vita, la natura.

C’è insomma nelle parole di Elj (cioè di Pirandello – com’è evidente: ma questo è un altro problema) come la ormai piena consapevolezza di una crisi definitiva. Ed è, naturalmente, la crisi del paradigma di rappresentazione della realtà sociale e umana prodotto da quel processo di risemiotizzazione di essa succeduto alla desemiotizzazione della sfera del cerimoniale7 proprio della società signorile di ancien régime, in conseguenza del quale – bollata questa come ‘finzione’ (la cui rappresentazione dà luogo alle menzogne del romance) – si privilegia la sfera del privato (dalla civil society alla Bürgergesellschaft): ed è il novel, la rappresentazione del bourgeois. Che per il pirandelliano pittore di Trovarsi, la ‘realtà’ – quella su cui il ‘realismo’ si legittimava come history – sia ormai «come una moneta logorata» importa il bisogno (il sogno?) di un’arte che sia rappresentazione dell’epifania di un di là vivente e luminoso, delle «cose come appaiono in certi momenti … lo scoppio, lo scompiglio di tutti gli aspetti consueti».

Non sarebbe difficile ricordare i numerosissimi casi in cui nella storia della produzione artistica delle avanguardie novecentesche la poetica immanente di un’opera evidentemente appare come generata da esigenze analoghe. Sembra tuttavia più proprio osservare che ciò di cui qui si tratta ha poco a che fare con l’‘artificio dello straniamento’ assunto dai formalisti russi a carattere universale dell’arte: il priëm ostrannenija proclamato da Šklovskij è appunto priëm, ‘artificio’ che fa saltare gli automatismi verbali8. Molto più appropriatamente ci sembra siano da ricordare le pagine del saggio giovanile dedicato all’amico Paul Ernst in cui Lukács oppone all’«anarchia del chiaroscuro» dell‘«esistenza» [Leben] l’«univocità» [Eindeutige] della «vita reale» [wirklichen] che vi «irrompe imprevedibilmente»: «Si sprigiona una luce, avviene un sussulto, come in un lampo, che oltrepassa i suoi banali sentieri, qualcosa che disturba e che affascina, un che di pericoloso e di soprendente, il caso, il grande momento [Augenblick], il miracolo» e «quando scocca il lampo del miracolo l’anima si ritrova nuda [in nackter Wesenheit]»: su di essa s’è posato lo sguardo di Dio. Ed è il dramma: «un gioco tra l’uomo e il destino; un gioco dove Dio è lo spettatore»9.

Naturalmente l’approdo di Pirandello è diverso: privo dell’altissima tensione metafisica di cui lo dotava Lukács, il neoclassicismo che questi deduceva (e auspicava) dalla denunzia di un presente «senz’anima», non poteva che configurarglisi nei modi di un accademismo pompière. Altrove erano dunque da cercare i percorsi della nuova arte. Non che ciò significasse alcuna rimozione del problema – e precisamente nei termini in cui l’abbiamo visto porre da Lukács –: il tempo del novel era ormai rivolto per sempre. Significava invece che appunto nella opposizione insuperabile fra il bisogno di dramma e la viltà d’una interiorità filistea che vuol continuare a sognare «paradisi imprevedibili ed eternamente irraggiungibili»; appunto in essa, nel loro scontrarsi senza tuttavia incontrarsi, mai se non nell’«istante» tragico, nel luogo, confuso per definizione, in cui facendosi immanente il Deus absconditus, sembra, sembra, che si dia infine come possibile, nella vita, la forma: ebbene, lì bisognava ‘ficcar lo viso a fondo’. Implicava questa scelta che ciò che era in Lukács opposizione irredimibile di contrari si configurasse in Pirandello come contraddizione e, dunque, processo?

Lukács aveva opposto al Dio spettatore della tragedia, innanzi al quale «ogni differenza tra apparenza e essenza, tra fenomeno e idea, tra evento [Geschenis] e destino scompare», gli «dèi della realtà [Wircklichkeit], della storia»: «prematuri e capricciosi», «la loro ambizione non si contenta della forza e della bellezza della pura rivelazione, di far da spettatrice al suo compimento. Vogliono esser loro a guidarla e a realizzarla. Affondano sfacciatamente le loro mani nell’inestricabile, palese imbroglio delle fila del destino e lo rimescolano fino a fare dell’assurdità un sistema. Entrano in scena e la loro comparsa abbassa gli uomini a livello di marionette, la sorte [Schicksal] a livello di preveggenza e fanno diventare l’impegnativo atto [Tat] della tragedia un dono [Geschenk] della redenzione ottenuto senza fatica»10. Che qui possa leggersi la logica della storia che dalla ‘premessa’ della Coda del diavolo di Verga giunge, passando per Il fu Mattia Pascal, all’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia e ai Sei personaggi, potrà anche apparire singolare; ma non è meno vero11.

In Pirandello invece quel che si dà nella tragedia è, hegelianamente12, la possibilità-necessità che il carattere si mostri conforme al suo concetto: la coincidenza, dunque, del carattere con l’etico, cioè con il sostanziale: la determinatezza di quello come implica la collisione in questo, anche fonda la legittimità delle potenze che in essa si affrontano; insomma: la tragedia come forma della contraddizione determinata. Non solo, ma Pirandello sa anche che nel dramma moderno non è più questione dell’«universale ed essenziale del fine che gli individui realizzano», sì invece della «passione personale, la cui soddisfazione può riguardare un fine soggettivo, in generale il destino di un individuo e di un carattere particolare entro rapporti specifici»13. E qui precisamente si mostrava per lui – ben più evidente che per Hegel – la problematicità della forma tragica: la tensione di essa verso l’universalità dell’essenza non potendosi più comporre adeguatamente con la molteplicità delle determinazioni empiriche: «fondere la subbiettiva individualità d’un carattere con la specialità sua nel dramma, trovare la parola che, pur rispondendo ad un atto immediato della situazione su la scena, esprima la totalità dell’essere della persona che la proferisce: ecco la somma difficoltà che il poeta deve superare»14.

Ed ecco anche, possiamo aggiungere noi: dopo Il fu Mattia Pascal e dopo i Sei personaggi, il dilemma cui Pirandello si sottrae. Non l’epicizzazione della forma drammatica: ‘dramma’ nel 1903 e ‘romanzo’ nel 1905 Dal tuo al mio, per restare all’Italia, era lì a dimostrarne, ove ce ne fosse stato bisogno, gli improbabili esiti: naturalismo più ‘tesi’ (proprio come, poco più di dieci anni prima, e sia pure a livello ben più alto, I tessitori di Gerhart Hauptmann); né l’idealistica tragedia neoclassica che Lukács apprezzava in Paul Ernst.

E neppure la contraddizione, se con questo s’intenda la collisione non mediata che si risolve nella ‘conciliazione’ del ‘superamento’. Ma l’uno dei due termini del dilemma e anche l’altro: il conflitto insomma, ma non il processo, l’accidentalità e la necessità, l’empiria e la trascendenza: insieme.

Il trascendimento ‘umoristico’ delle forme, di quella epica come di quella drammatica, ne era, dal punto di vista del metodo della rappresentazione, la conseguenza: il ‘superamento’ della contraddizione, impossibile nell’oggetto della rappresentazione, diventava la cifra più propria del modo in cui, in Pirandello, si risolveva il confronto con le forme di rappresentazione della totalità: meta-romanzo e metadramma. E anche venivano, dal «procedimento» che Pirandello si accingeva a sperimentare, due altre conseguenze. La prima: al rifiuto della storia, vale a dire: al rifiuto di risolvere la contraddizione comunque dentro la sfera dell’eticità – vista ormai come positività estraniata ed estraniante, s’accompagna e vi s’intreccia la tentazione della storia – magari configurantesi come momento della biografia del personaggio. Analogamente: al trascendimento umoristico delle forme di genere non segue una loro confusa contaminatio, sì invece il tentativo sempre di nuovo rinnovato di tenerne ferma – comunque – la costitutiva differenza.

Che la tensione la quale se ne produceva fra storia e forme importasse che la questione dei generi letterari si ponesse come problema non solo estetico, ma anche etico, era naturalmente inevitabile.

Così nel 1905, nell’‘Introduzione’ all’Illustrissimo di Alberto Cantoni, Pirandello opponeva ai tentativi di restaurazione classicistica – respinti in nome dell’insuperabile determinazione storica delle forme – non un confuso neoromanticismo vitalistico, ma – e proprio in nome della «vita» perpetuamente rinnovantesi – la immanente e autonoma legalità dell’arte, dell’opera d’arte, come forma della generalizzazione donde essa si genera15.

L’energia con cui il processo di idealizzazione viene spogliato d’ogni implicazione di tipo classicistico e inteso come, solo, processo di generalizzazione, spingendo fino alle conseguenze ultime – sulle orme di De Sanctis: come indica il riferimento alla logica della vita – la distinzione – che è però ormai in lui, più di quanto non accadesse nel critico irpino, vera e propria opposizione – fra Ideal e ideell16, è da questo punto di vista assolutamente significativa:

«La realtà materiale, quotidiana della vita limita le cose, gli uomini e le loro azioni, li contraria, li deforma. Nella realtà le azioni che mettono in rilievo un carattere si stagliano su un fondo di contingenze senza valore, di particolari comuni. Mille ostacoli impreveduti, improvvisi, deviano le azioni, deturpano i caratteri; minute, volgari miserie spesso li sminuiscono. L’arte invece libera le cose, gli uomini e le loro azioni di queste contingenze senza valore, di questi particolari comuni, di questi volgari ostacoli o minute miserie; in certo senso, li astrae; cioè, rigetta, senza neppur badarvi, tutto ciò che contraria la concezione dell’artista e aggruppa invece tutto ciò che, in accordo con essa, le dà più forza e più ricchezza. Crea così un’opera che non è, come la natura, senz’ordine (almeno apparente) ed irta di contraddizioni, ma quasi un piccolo mondo in cui tutti gli elementi si tengono a vicenda e a vicenda cooperano. In questo senso appunto l’artista idealizza. Non già che egli rappresenti tipi o dipinga idee; semplifica e concentra. L’idea che egli ha dei suoi personaggi, il sentimento che spira da essi evocano le immagini espressive, le aggruppano e le combinano. I particolari inutili spariscono, tutto ciò che è imposto dalla logica vivente del carattere è riunito, concentrato nell’unità d’un essere meno reale e tuttavia più vero»17.

Che qui Pirandello – quando ormai Il fu Mattia Pascal era stato pubblicato da più di tre anni – ponga la questione nei termini stessi secondo cui si scandisce la vicenda del protagonista di quel romanzo o che, soprattutto, alla fine egli anticipi addirittura una battuta del ‘Padre’ nei Sei personaggi, è cosa che importa poco, in definitiva: serve se mai, qualora ve ne fosse bisogno, a confermare la compatta coerenza dei problemi (non si dice, ovviamente, delle soluzioni di essi) intorno a cui si arrovellò la sua coscienza artistica. Importa di più, invece, notare come non diversamente si proponesse al giovane Lukács metafisico della tragedia la questione della generalizzazione estetica come trascendimento della sfera del quotidiano (e con essa anche, né poteva non accadere, il problema del romanzo di Pirandello).

«Nella vita comune gli uomini esperiscono solo la periferia di se stessi: oggetto di questa esperienza sono le loro motivazioni e le loro relazioni. In esse la nostra esistenza umana non ha alcuna reale necessità, se non quella dell’esserci empiricamente, quella di essere inghiottiti da mille fili in mezzo ai mille legami e alle mille relazioni accidentali. Ma il fondamento di tutto questo tessuto di necessità è casuale ed assurdo; tutto ciò che è, potrebbe anche essere altrimenti, soltanto il passato appare come veramente necessario, perché non vi si può togliere né aggiungere nulla. Ma il passato è veramente necessario? Il flusso casuale del tempo, lo spostamento arbitrario del punto di vista arbitrario verso le esperienze può alterare la sua essenza? È possibile creare dalla casualità una certa necessità, una certa essenzialità? Si può trasformare la circonferenza in un centro? Spesso pare che ciò sia possibile, ma è solo un’apparenza. Infatti soltanto il nostro sapere momentaneo e casuale fa del passato qualcosa di concluso e di immutabilmente necessario. Ma il minimo mutamento di codesto sapere, prodotto da un caso qualsiasi, getta nuova luce sull’“immutabile” – e in questa nuova illuminazione tutto muta di senso, tutto diviene altro. Ibsen è solo in apparenza un seguace dei greci, un continuatore del ciclo di Edipo. Il senso reale dei suoi drammi analitici è che il passato non contiene in sé nulla di immutabile, ma che esso è fluente, luccicante e mutevole, passibile di trasformazioni, non appena subentrano nuove conoscenze.

Anche il momento privilegiato introduce una nuova conoscenza, ma solo in apparenza essa s’inserisce nella serie delle permanenti, eterne trasformazioni di valori. In verità essa è una fine e un inizio. Essa elargisce agli uomini una nuova memoria, una nuova etica e una nuova giustizia»18.

La generalizzazione artistica come idealizzazione disinteressata non può, d’altra parte, non configurarsi come astrazione, come stilizzazione metafisica della vita e dunque anche come un sapere che si dà oltre la vita, che la esclude. Lukács aveva scritto che con il «dar vita all’essenza», «il dramma compone “uomini” reali [“gestaltet” wirkliche Menschen]» siffatti che «tutte le manifestazioni della loro esistenzialità [Lebens] non sono che simboli cifrati delle connessioni fondamentali, la loro esistenzialità è una pallida allegoria delle loro idee platoniche» così che «questa esistenza [Dasein] non ha spazio né tempo; ogni suo evento [Geschehnisse] si sottrae a qualsiasi motivazione [Begründungen], le anime dei suoi uomini si sottraggono alla psicologia»19. E Pirandello, dieci anni dopo:

«L’arte è arte, perché ciò che è realtà, vale a dire appunto questa composizione dei nostri sentimenti, rischiarata dal nostro intelletto e mossa dalla nostra volontà, cosa infinitamente varia e continuamente mutevole, condizionata sempre nella sua molteplicità (e appunto perché molteplice) di spazio e di tempo – è fissata per sempre dalla fantasia in un momento o in più momenti essenziali, fuori di questo molteplice (e dunque dello spazio e del tempo) – eterna e una – ma non nell’assoluto di un’astrazione, bensì eterna perché di tutti i tempi, ed una perché quella, che ha vita nel consenso di tutti e in tutti, naturalmente, in un suo particolar modo: liberata da tutto ciò che è comune, ovvio, caduco, da tutti quegli ostacoli che, nella creazione della nostra propria vita, spesso ci distraggono, ci arrestano, ci deformano»20.

Né cambia i termini del problema la circostanza che l’uno e l’altro, Lukács e Pirandello, si servano della opposizione casualità-necessità per distinguere tra forme diverse della rappresentazione artistica: quello, come si è visto, per distinguere Ibsen dai «greci», questi per opporre Verga agli umoristi21 (che è poi la distanza che separa, come si disse altrove, La coda del diavolo dal Fu Mattia Pascal). Resta invece, nell’uno e nell’altro, che appunto la questione della generalizzazione estetica non può non avere implicazioni di ordine etico.

E dunque, nel Frammento di cronaca di Marco Leccio (1916):

«Che la strategia moderna abbia ridotto l’ufficio del duce supremo d’una guerra non molto dissimile da quello a cui Marco Leccio attende con tenace costanza da circa tredici mesi: studio indefesso lì sulle carte dei punti, delle linee, delle posizioni, è per Marco Leccio in fondo una assai magra consolazione.
Fa il duce supremo, lo stratega, lì nello studio, davanti a Tiralli che lo segue e l’aiuta con funebre obbedienza; ma grazie! perché non può far altro…
Certo, se una mossa prevista da lui in questo o in quel teatro della guerra, dati quei punti strategici e quelle linee e quelle posizioni, s’effettua proprio come lui l’ha prevista, se ne compiace; guarda con occhi lustri ridenti e tutto il volto abbagliato di soddisfazione Tiralli, appena ne arriva la notizia nei bollettini degli stati maggiori, non badando più nemmeno se la mossa indovinata sia in favore dei tedeschi e a danno degli alleati, poiché veramente l’arte, di qualunque genere sia, è il regno del sentimento disinteressato, ragion per cui spesso diventa la funzione più crudele che si possa immaginare, come può darne esempio un medico che si compiaccia della giustezza di una sua prognosi letale se questa prognosi l’abbia fatta su se stesso e voglia dire:
– Benone, caro: tu sei morto.
Ma non è questo! non vorrebbe far questo Marco Leccio! Gl’importa assai che i duci supremi oggi combattano le guerre, come lui, su la carta! Che duce supremo del corno! Soldato, soldato raso, come il suo Giacomino partito jeri per il fronte, ecco quello che avrebbe voluto esser lui. E non ha potuto!»22.

Qui la questione della relazione fra la sfera estetica e quella etica viene posta da Pirandello in tutta la sua problematicità. La concezione dell’arte come «regno del sentimento disinteressato» importa infatti una sua estraneità di principio al mondo della vita sul quale solo, dunque, può legittimamente esercitarsi quella valutazione morale di cui l’‘interessata’ sympátheia23 costituisce il fondamento. Le conclusioni estreme, apertamente estetizzanti, cui Pirandello potrà anche, in qualche caso, pervenire (in Diana e la Tuda, per es.) trovano qui le loro premesse; ma non più di tanto. E tuttavia non è senza significato che proprio in questo Frammento il «crudele» sapere dell’arte si configuri come sapere della morte e ciò precisamente in quanto esso è sapere estraneo al suo ‘oggetto’24, così che il disinteresse non possa non apparire come un gioco25, garantito bensì dai pericoli della vita e da essa separato, ma – insieme – esso stesso contagiato dalla macabra estraneità in cui si pone: sapere della morte, insomma, come sapere morto (che è poi, in certa misura, il tema, così pirandelliano, della vita come esperienza vissuta – e sia pure derisoria – o come scrittura).

Precisamente in ciò è la ragione della ineludibilità della relazione tra l’etica e l’estetica, tra la vita – qualunque significato si dia alla parola – e la forma. Anzi: quanto più si sottolinei la eterogeneità di questa rispetto a quella, quanto meno, dunque, si distingua come possibile, nella vita, una configurazione – una oggettivazione formativa – propriamente etica, come appunto accade in Pirandello, tanto più la formazione estetica della vita si mostrerà come inaccettabile frivolezza (oltre che come unica possibilità di costituire la vita come esperienza dotata di senso).

E però: nella misura in cui si attribuisca alla forma uno statuto meramente ‘formale’, kantianamente aprioristico rispetto alla vita26, anche dovrà postularsi in essa forma un’implicazione assiologica rispetto alla ‘materia’ (la vita) che ne viene strutturata: la forma diventa un «giudizio sulla vita», è, costitutivamente, una concezione del mondo che si pone come criterio di valutazione di esso. La teoria dei generi letterari importa non una loro gerarchia estetica (come accadeva in Aristotele, in conseguenza della sua concezione della forma), ma una gerarchia delle ‘vite’: che è appunto quel che accade nella metafisica del conflitto tragico del giovane Lukács.

Posto il conflitto del dramma come un conflitto il cui contenuto è bensì un problema vitale, la cui universalità è tuttavia solo formale, così che solo nella forma diventi possibile, con la coincidenza di carattere e destino, il combaciare di tutte le facce del poliedro ‘vita’ sull’unico fronte dello scontro, non solo ne viene che in esso – nella collisione tragica – si dà l’unico possibile compimento della vita, ma anche che – per essere quella collisione non risolvibile – tale compimento si identifichi con la morte. L’adeguatezza del singolo – che solo di lui si tratta – alla forma diventa il segno della sua superiorità27.

Ciò che potrebbe sembrare solo un’estremizzazione delle poetiche classicistiche (retoriche e sociologiche: da Teofrasto in poi)28 della tragedia è tuttavia qualcosa di radicalmente diverso: ciò che si giudica dalle altezze vertiginose – propriamente: mortali – della forma tragica è la vita nell’epoca della compiuta peccaminosità29. E dunque, mentre se ne teorizza il trascendimento ateo30 nell’immanenza del senso solo alla forma tragica, anche se ne elabora la critica più radicale. Si esplorano altre possibili forme che siano strutturazioni sensate della vita ma tali che essa non ne sia consegnata alla morte: il dramma non-tragico e, immediatamente dopo, il romanzo; e si rileva la ‘frivolità’ del pantragismo classicistico à la Ernst rifiutandone l’«elitarismo della morte»31.

Il fatto è che il problema posto dal particolarissimo rapporto che nella tragedia si instaura tra il contenuto e la forma, lascia fuori da ogni possibile elaborazione estetica non aspetti e momenti specifici della particolarità empirica, ma, per il configurarsi (nel presente) dell’empiria come mera accidentalità, appunto l’empiria come tale: la vita, che diventa autentica solo nella morte.

D’altra parte la soluzione ‘naturalistica’ di questa impasse appare insomma inaccettabile: anche se alcune delle perplessità su Hauptmann drammaturgo presenti nello studio sul Dramma moderno saranno da Lukács superate già nell’’11, il suo tentativo di «introdurre i poveri in ispirito nella tragedia» resterà comunque «un’azione vana» e la stessa «ricchezza dei particolari», nella quale si riconosce (insieme a quella della «lirica») la ragione della «bellezza» delle sue opere, si mostra in definitiva come solo sovrabbondanza di dettagli incongrui che «non solo sostituisce il drammatico, ma lo soffoca», salvandosi solo la ‘fiaba’ (Märchendichtung) Und Pippa tanzt!, cioè appunto un «dramma non tragico»32.

Il romance costituisce infatti in definitiva, più ancora che una nuova epica romanzesca (peraltro solamente auspicabile), la sola alternativa possibile all’aristocratica tragedia. Nella Metafisica della tragedia Lukács aveva prescritto che solo si dà la tragedia quando Dio rimanga lontano dalla scena, spettatore e che invece allorché gli dèi della realtà e della storia appaiono sulla scena «la loro comparsa abbassa gli uomini al livello di marionette»33. Questo appunto accade nella fiaba, «corrispettivo epico» del romance, i cui «personaggi non sono uomini, sono soltanto spunti decorativi per gesta marionettistiche»; e questo anche, in certo modo, accade nel dramma non-tragico: «Dal punto di vista psicologico, infatti (ovvero dal punto di vista umano-causale), il contatto diretto tra l’uomo e Dio, l’intromissione delle potenze trascendenti nei fatti della vita, tutto ciò può manifestarsi solo come follia e assurdità, scissione totale dell’io umano e disgregazione dei suoi limiti»34. (Che è il problema del Fu Mattia Pascal, com’è evidente; ma di ciò più avanti). L’assenza di un senso immanente all’azione che, in opposizione alla tragedia, è propria del romance ne fa un’allegoria: esso «rinvia al di là di se stesso»35.

Parecchi anni dopo, Walter Benjamin rintracciando in Nietzsche il fondamento lontano delle idee di Lukács (e di Rosenzweig) sull’insuperabile conflitto fra modernità e tragedia, appunto a Nietzsche rimprovererà di avere eluso la necessità d’una critica generale contro la concezione della tragedia «secondo cui le azioni e i comportamenti di personaggi di fantasia possono essere utilizzati per l’illustrazione di problemi morali quanto il manichino per lo studio dell’anatomia». È vero invece il contrario: «i personaggi di fantasia esistono soltanto nell’opera poetica di fantasia. Come soggetti di arazzi sul loro canovaccio, essi sono così cointessuti nel tutto dell’opera poetica che in nessun modo ne possono essere estrapolati nella loro singolarità»36. Il problema del rapporto fra la tragedia attica e l’epos omerico, che era stato uno dei luoghi cruciali della polemica antinietzescheana di Wilamowitz37, riproponeva dunque l’immagine, heiniana in origine, del rapporto tra figure e sfondo nei termini del conflitto tra apollineo e dionisiaco38. Alla romanza di Heine invece era ricorso Pirandello, quasi vent’anni dopo La nascita della tragedia, per mostrare con l’evidenza dell’immagine poetica la relazione oppositiva fra l’arazzo epico della saga e i personaggi del dramma: per le immanenti esigenze di formalizzazione presenti nel soggetto che inducono a strutture dell’intreccio differenti (drammatiche o narrative)39 e per il diverso statuto che in ciascuna di esse assumono i personaggi40. Scrive dunque Pirandello:

«Ogni sostegno descrittivo o narrativo dovrebbe essere abolito su la scena. Ricordate la bella fantastica romanza di Enrico Heine su Jaufré Rudel e Melisenda? “Nel castello di Blaye tutte le notti si sente un tremolìo, uno scricchiolìo, un sussurro: le figure degli arazzi cominciano a un tratto a muoversi. Il trovadore e la dama scuotono le addormentate membra di fantasmi, scendono dal muro e passeggiano sù e giù per la sala”. Ebbene, lo stesso prodigio operato dal raggio di luna nel vecchio castello disabitato, il poeta drammatico dovrebbe operare. E non l’avevan già operato i sommi tragici greci spirando, Eschilo sopra tutti, una possente anima lirica nelle grandiose figure del magnifico arazzo dell’epopea omerica? E le figure s’eran mosse parlando. Dalle pagine scritte del dramma i personaggi, per prodigio d’arte, dovrebbero uscire, staccarsi vivi, semoventi, come dall’arazzo antico il signor di Blaia e la contessa di Tripoli»41.

Per Nietzsche «nell’effetto totale della tragedia lo spirito dionisiaco conquista di nuovo il sopravvento», producendosi per essa quella schopenhaueriana perdita della «confidenza nelle forme conoscitive del fenomeno» che egli definisce come «frattura del principium individuationis» e di cui Apollo è «la magnifica incarnazione divina»42: la filosofia della storia e la teoria dei generi che ne viene è già qui implicata. Da una parte, contro quelle che il Versilov di Dostoevskij chiamava «idee ginevrine», tagliate via cioè le radici rousseauiane del naïve schilleriano, si postula l’equazione ‘ingenuo’-apollineo-epos omerico43 e, poi, a partire dal ‘socratismo’ del «sacrilego Euripide», e dalla scelta di lui di «costruire il dramma soltanto su elementi non-dionisiaci», «l’epos drammatizzato: dominio artistico apollineo dove certamente non è raggiungibile l’effetto tragico»44. Dall’altra, riprendendo la classica distinzione goethiana fra mimo e rapsodo, si oppone il principium stilisationis di entrambi a quello della tragedia (cioè: Eschilo e Sofocle), beninteso piegando la metafora goethiana nel verso del rapporto fra il poeta e il mondo dell’opera:

«Il poeta dell’epos drammatizzato, come del resto il rapsodo greco, non può mai fondersi completamente con le sue immagini; egli rimane il quieto e impassibile contemplante che guarda con occhi ben aperti le figure che gli si fanno incontro. L’attore in questo epos drammatizzato in fondo rimane sempre un rapsodo; alla base di tutte le sue azioni sta sempre la consacrazione del suo sogno interiore, sicché non è mai del tutto soltanto attore»45.

Di qui la funzione, costitutiva bensì e tuttavia strumentale, del mito – nel duplice senso, come subito si vedrà, di saga eroica e di mythos, intreccio – nella tragedia: non generatore dell’autocoscienza catartica ma gradus al nichilistico naufragio del mondo apollineo dell’individuatio nel «grembo della realtà unica e vera»46:

«Fra il valore universale della sua musica e l’ascoltatore dionisiacamente disposto alla commozione, la tragedia interpone una sublime allegoria [Gleichniss], il mito, e suscita nell’ascoltatore l’illusione [Schein] che la musica altro non sia che un supremo strumento di rappresentazione per accendere di vita il mondo plastico del mito. Affidandosi a questo nobile inganno [Täuschung], essa può muovere le membra alla danza ditirambica e abbandonarsi spensieratamente a un orgiastico sentimento di libertà, il che alla musica pura, senza quella illusione [Musik an sich … Täuschung], non sarebbe concesso. Il mito ci protegge dalla musica, ed esso d’altra parte concede alla musica la più ampia libertà. Perciò la musica come ricompensa dà al mito tragico una significazione metafisica così penetrante e persuasiva, quale non potrebbero mai raggiungere, senza il suo ausilio, la parola e l’immagine; e specialmente per virtù della musica è riservato allo spettatore della tragedia il presentimento certo della gioia suprema a cui conduce la via che passa per la morte e la negazione, tanto che gli sembra d’udire chiaramente le voci che salgono dal più profondo abisso delle cose»47.

La questione del rapporto saga-tragedia diventava insomma, e in questi termini veniva ormai formulata, la questione del rapporto carattere-destino; cioè, inseparabilmente, problema estetico (della teoria dei generi) e problema etico (il rapporto necessità-libertà).

Così, Pirandello, appunto nell’Azione parlata, non solo ribadisce l’opposizione fra rappresentazione narrativa e rappresentazione drammatica come opposizione fra due diversi modi di composizione della «favola», ma – ed è questo che ora importa – oppone, nel dramma, la favola ai personaggi, come, rispettivamente, il luogo in cui prende forma propriamente estetica l’individualità dell’autore48 e i soggetti autonomi di un agire che è totalmente loro proprio. Precisamente in questo nesso fra autore e intreccio, tuttavia, si mostra il rischio: già nel Taccuino di Bonn Pirandello individuava nell’«alessandrinismo», nell’assenza di una adeguata «concezione della vita e dell’uomo» la radice delle difficoltà e della problematicità estetica della drammaturgia fin de siècle49. Quando la concezione della vita e dell’uomo manchi accade infatti che la favola si riduca ad astratta combinatoria, all’artificio d’una «trama» che violenta la natura vera del personaggio50 o che ne faccia il pretestuoso ‘manichino’ d’una argomentazione aprioristicamente postulata dallo scrittore.

L’autonomia del personaggio, d’altra parte, diventa, per ciò, costitutiva dell’opera drammatica. La dipendenza genetica di esso dall’autore non ne compromette l’indipendenza51 e la libera realizzazione nell’opera, «quando l’autore si sia veramente immedesimato con la sua creatura fino a sentirla com’essa si sente, a volerla com’essa si vuole»52. E, con l’autonomia costitutiva, anche la priorità del personaggio: una priorità che è cronologica (genetica) nella misura in cui è eminenza logica (originaria): «Non il dramma fa le persone; ma queste, il dramma. E prima d’ogni altro dunque bisogna aver le persone: vive, libere, operanti. Con esse e in esse nascerà l’idea del dramma, il primo germe dove staran racchiusi il destino e la forma; che in ogni germe già freme la quercia con tutti i suoi rami»53.

Il senso e le implicazioni della metafora organicistica non sono da trascurare, com’è evidente. Nella Tragedia d’un personaggio essa tornerà all’interno d’una più compiuta ‘costellazione’ metaforica che ne chiarisce gli intendimenti; a concludere la sua apologia del personaggio, il dottor Fileno dice: «Morrà l’uomo, lo scrittore, strumento naturale della creazione; la creatura non muore più! E per vivere eterna, non ha mica bisogno di straordinarie doti o di compiere prodigi. Mi dica lei chi era Sancho Panza! Mi dica lei chi era don Abbondio! Eppure vivono eterni perché – vivi germi – ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire per l’eternità»54. Che cosa, infine, debba precisamente intendersi nel concetto pirandelliano di fantasia, non sarà difficile determinare, quando si ricordi che essa è la «servetta sveltissima […] un po’ dispettosa e beffarda» e vestita di nero dell’incipit famoso della ‘Prefazione’ alla nuova edizione (1925) dei Sei personaggi, quella stessa, però, che compare anche (nel 1906) in Personaggi come lettrice di «libri di filosofia»55: la fantasia insomma è la soggettività dell’artista donde si genera quella «favola» di cui s’è vista la sostanza ‘filosofica’ (la «concezione della vita e dell’uomo»). E dunque: la priorità del personaggio importa insomma – nei modi in cui ormai ciò poteva formularsi da Pirandello – la natura comunque mimetica della relazione fra rappresentazione artistica e realtà: Fantasia «si diverte a portarmi in casa, perché io ne tragga novelle e romanzi e commedie, la gente più scontenta del mondo, uomini, donne, ragazzi, avvolti in casi strani…».

Il nesso fantasia-filosofia anche importa, tuttavia, che il personaggio sia, come dice il dottor Fileno e dirà poi il Padre, piuttosto che reale, vero: nato dunque, come personaggio, dalla generalizzazione estetica che la fantasia elabora dalla ‘persona’ reale, così da essere «creatura chiusa nella sua realtà ideale, fuori delle transitorie contingenze del tempo»56, «destino e forma» – Bestimmung, insomma – del «germe». Le ‘note’ che concorrono alla definizione pirandelliana del concetto di personaggio sono null’altro che la conseguenza di questa fondamentale determinazione di esso. Il personaggio come «libera individualità umana», soggetto autonomo d’un agire in cui esso rivelandosi si realizza: «ogni azione e ogni idea racchiusa in essa, perché appariscano in atto vive e spiranti innanzi agli occhi nostri, han bisogno della libera individualità umana, in cui, per usare una frase hegeliana, si mostrino come pathos motore: bisogno insomma di caratteri»57. E ancora: il personaggio come soggetto attivo del proprio agire e, dunque, carattere, che «sarà tanto più determinato e superiore» quanto più «farà vedere in ogni suo atto quasi tutto un proprio essere e, insieme, una concreta specialità» in ciò appunto solo potendosi costituire come organica e non estrinseca la relazione sua, della sua «fisionomia essenziale», con l’intreccio («l’argomento») in ognuno dei momenti del suo svolgimento (la «situazione»)58.

E qui appunto insorgeva la difficoltà, non più dissimulabile. I rimandi all’Estetica di Hegel, che fin qui hanno scandito la ‘ripetizione’ del breve saggio pirandelliano del ’99, non volevano certo significare la mera indicazione della ‘fonte’; intendevano invece ellitticamente mostrare il senso di esso: era della tragedia che Pirandello si occupava. E ciò a partire da due presuposti – nient’affatto hegeliani, questi, tuttavia: l’identificazione pura e semplice fra dramma e tragedia, così che tutto il discorso sulla commedia veniva a esser tagliato via (con un movimento del discorso non dissimile da quello donde prenderà le mosse, undici anni dopo, il Lukács della Metafisica della tragedia), e la cancellazione della distinzione hegeliana – ma non solo hegeliana, ovviamente – fra tragedia antica e tragedia moderna (che sarà ben presente invece, come si sa, nel Fu Mattia Pascal).

La difficoltà di cui si diceva nasce precisamente nel momento in cui la teoria hegeliana della tragedia si trova a doversi confrontare con la lucida diagnosi di Arte e coscienza d’oggi (1893)59. Scrive dunque Pirandello: «In ogni nostro atto è sempre tutto l’essere; quello che si manifesta è soltanto relazione a un altro atto immediato o che appare immediato; ma nello stesso tempo si riferisce alla totalità dell’essere; è come la faccia d’un poliedro che combaci con la faccia rispettiva d’un altro, pur non escludendo le altre facce che guardano per ogni verso»60.

Sono parole, queste, che l’autore trascrive (senza apportarvi alcuna modifica, salvo l’aggiunta indicata dal corsivo) da un precedente scritto del ’96, Rinunzia, intimamente connesso ad Arte e coscienza d’oggi. Significativamente diverso, però, è quel che segue, nei due scritti:

L’azione parlata

«Ora, fondere la subbiettiva individualità d’un carattere con la specialità sua nel dramma, trovar la parola che, pur rispondendo a ogni atto immediato della situazione su la scena, esprima la totalità dell’essere della persona che la proferisce: ecco la somma difficoltà che l’artista deve superare. Ma quanti oggi sanno superarla?» 61.

Rinunzia

«Ogni conseguenza ricavata da questa manifestazione è perciò necessariamente unilaterale. E da qui l’impossibilità d’abbracciar tutto l’essere, come è impossibile abbracciare un poliedro a un tempo in tutte le sue facce.
Come dunque sperare, se la scienza ci manca e l’essere ci sfugge?»62.

In Rinunzia dunque la ‘cecità’ conseguente alla perdita della totalità si configurava come problematicità etica, subordinazione della coscienza, della coscienza morale, a una oggettività estraniata e l’unilateralità, che anche da quella perdita veniva, come condizione insuperabile dell’autocoscienza – ma non dall’essere, si badi: aprendosi così fra l’omnilateralità di questo e l’unilateralità dell’altra una distanza insuperabile.

Il rifiuto, in Arte e coscienza d’oggi, d’ogni estrinseco incarico ideologico, e dunque – inevitabilmente – apologetico, per la rappresentazione artistica della realtà rendeva, d’altra parte, tanto più ineludibile il compito che, in presenza d’una tale disperante condizione, ad essa si poneva: «la somma difficoltà che l’artista deve superare». E qui precisamente anche diventava ineludibile l’allontanamento da Hegel, dai presupposti concettuali di fondo della teoria hegeliana della tragedia. Il filosofo di Stoccarda aveva parlato nelle sue lezioni dell’unilateralità del personaggio della tragedia – sia antica sia (se pure in modi profondamente diversi) moderna («romantica») –, ma aveva nettamente escluso che, comunque, la «particolarizzazione dei fini, delle passioni e dell’interiorità soggettiva», che nella tragedia moderna succede alla «legittimità etica» che essi possedevano in quella antica, anche importasse la disgregazione dell’identità complessiva del personaggio: in Shakespeare «gli individui pur in questa determinatezza restano sempre uomini interi». Non solo: Hegel aveva anche affermato che la «conciliazione tragica», il superamento cioè dell’unilateralità che si produce «allorquando gli individui in conflitto si presentano […] ognuno in se stesso come totalità», se pure naturalmente si configuri diversamente nelle due ‘epoche’ della storia della tragedia, tuttavia ne costituisce un momento imprescindibile in quanto in essa prende forma la riconciliazione «nella cosa», nella totalità etica63.

Delle due totalità tra le quali si dispiega la teoria hegeliana della tragedia – quella unilaterale del personaggio come uomo intero e quella del mondo etico che armonicamente si ricompone nell’«esito» dell’opera – una sola rimane dunque in Pirandello: la prima; e solo nell’essere: smarrita dalla coscienza e, dunque, tale da porsi come, al tempo stesso, compito e problema dell’arte (tragica). Ed erano, l’uno tanto più urgente e l’altro tanto più difficile quanto meno lo scrittore intendeva sottrarsi all’esigenza posta da Hegel come propria del «dramma in generale»: «la manifestazione per la coscienza rappresentante di attuali azioni e rapporti umani in una estrinsecazione che è l’estrinsecazione parlata dei personaggi esprimenti l’azione», così che solo nel dialogo «gli individui in azione possono esprimere gli uni contro gli altri il loro carattere e il loro fine rispetto sia alla loro particolarità che al lato sostanziale del loro pathos, possono entrare in lotta e quindi portare avanti l’azione con movimento reale», fino al «risultato finale in se stesso fondato di tutto questo traffico umano di volontà e atti reciprocamente incrociantisi e alla fine pacificati»64. Il nesso che così Hegel poneva fra parola drammatica e riconciliazione conclusiva diventava infatti tanto più difficile a sostenersi quanto più se ne accoglieva il primo termine – il dialogo drammatico come azione parlata65 – e, al tempo stesso, si fosse assunta precisa coscienza della problematicità di ogni tentativo di perseguire l’altro.

«Lotta nella cosa è scissura nella parola, né l’arte vi si poteva sottrarre», aveva scritto il De Sanctis con linguaggio hegeliano (la ‘cosa’ è Sache, non Ding!): il rapporto fra ideale e reale posti l’uno come astratto dover essere e l’altro come mero essere produceva necessariamente le «diverse forme letterarie sviluppatesi tra le diverse forme sociali, le une riflesso delle altre»: il «dualismo oratorio, scettico, umoristico, lirico». Il romanzo storico, in cui l’ideale calandosi nel reale vi aveva trovato limite e misura, era stata la risposta del Manzoni66; l’immedesimazione con il personaggio, con ciascuno dei personaggi del dramma, la direzione in cui Pirandello cerca la sua: «parole, espressioni, frasi che non s’inventano, ma che nascono, quando l’autore si sia veramente immedesimato con la sua creatura fino a sentirla com’essa si sente, a volerla com’essa si vuole»67.

Quel che Pirandello cerca insomma è una forma drammatica in cui le contraddizioni si possano ‘muovere’ e che dunque ne consenta una soluzione prospetticamente ‘reale’. Ciò implicava il rifiuto di ogni metodo compositivo che pervenisse a una feticizzazione di esse e dunque sia di quelle teorie del tragico che intendevano il conflitto come prodotto dalla opposizione soggettiva dell’‘eroe’ (donde la ideologia della ‘colpa tragica’) contro la ‘necessità’ e come risolventesi con il riconoscimento da parte sua dell’inevitabilità della propria rovina (Vischer), sia di quelle altre che, ontologizzando le contraddizioni, per un verso ne confinano il senso alla sfera ‘disperante’ dell’estetico e, per l’altro, ne rimandano la soluzione, oltre l’eticità (i.e., la realtà storico umana), agli esiti ‘religiosi’ della crisi di essa (Kierkegaard). Era questo, in definitiva, il significato dell’esigenza espressa da Pirandello quando individuava nell’essenza della «concezione della vita e dell’uomo» le ragioni delle deficienze del dramma e indicava nella systasis mythica il luogo proprio della soggettività autoriale nel dramma: era questo, dopo Hebbel e Wagner, il modo in cui si configurava in lui il nesso tra filosofia della storia e teoria del genere letterario tragedia; era questo, cioè, il modo in cui egli formulava – in presenza di D’Annunzio – il suo rifiuto di un altro nesso, quello fra il ‘mito’ e il ‘tragico’ (che è poi anche la ragione donde viene il suo ‘ritorno’ – che era però un andare oltre Hegel, non un tornare indietro – ai problemi ‘romantici’ dell’ironia e dell’umorismo).

In fatti – disse egli – imagina l’intervallo tra due sinfonie sceniche in cui tutti i motivi concorrano ad esprimere l’essenza interiore dei caratteri che lottano nel drama, a rivelare il fondo intimo dell’azione, come per esempio nel gran preludio beethoveniano della Leonora o in quello del Coriolano. Quel silenzio musicale, in cui palpita il ritmo, è come l’atmosfera vivente e misteriosa ove soltanto può apparire la parola della poesia pura. Le persone sembrano quivi emergere dal mare sinfonico come dalla verità stessa del celato essere che opera in loro. E il loro linguaggio parlato avrà in quel silenzio ritmico una risonanza straordinaria, toccherà l’estremo limite della potenza verbale, poiché sarà animato da una continua aspirazione al canto, che non si potrà placare se non nella melodia risorgente dall’orchestra alla fine dell’episodio tragico. Hai tu compreso?
– Tu poni dunque l’episodio tra due sinfonie che lo preparano e lo compiono, poiché la musica è il principio e la fine del verbo umano»68.

Qui viene perfettamente chiarito, mi pare, il senso che, per quest’aspetto, deve attribuirsi al wagnerismo del Fuoco: posto il teatro, in quanto ‘evento scenico’, come momento in cui l’opera d’arte si costituisce (e non, dunque, come luogo in cui essa, eventualmente, si rappresenta), il senso dell’opposizione fra presente drammatico e passato epico propria della teoria ‘classica’ ne viene dislocato. Non si tratta più d’un problema di costituzione dell’intreccio (la questione degli antefatti, ecc.), ma del problema del senso dei singoli momenti di esso che dunque si risolve, dal punto di vista della forma drammaturgica, nella ricerca del medium adeguato a ‘mostrare’ l’immanenza del passato nell’evento teatrico presente. L’esteriorità drammaturgica di principio fra l’uno e l’altro, che nelle ‘opere romantiche’ si configurava come opposizione, nella Tetralogia nibelungica si rivela apertamente come relazione ‘posta’ fra mito e azione scenica, derivando questa da quello sia il proprio significato ultimo sia la rete delle connessioni ‘drammatiche’, nascoste bensì ai soggetti del dramma ma esibita anche, ‘eloquentemente’, agli spettatori69. E D’Annunzio:

«Io avvicino così le persone del dramma allo spettatore […] facendole apparire nel silenzio ritmico, facendole accompagnare dalla musica alle soglie del mondo visibile, io le avvicino meravigliosamente poiché rischiaro i fondi più segreti della volontà che le produce. […] La loro intima essenza è là, discoperta e messa in comunione con l’anima della folla che sente sotto le Idee significate dalle voci e dai gesti la profondità dei Motivi musicali che a quelle corrispondono nelle sinfonie. […] E per mezzo della musica, della danza e del canto lirico creo intorno ai miei eroi un’atmosfera ideale in cui vibra tutta la vita della Natura così che in ogni loro atto sembrino convergere non soltanto le potenze dei loro destini prefissi ma pur anche le più oscure volontà delle cose circostanti, delle anime elementari che vivono nel gran cerchio tragico; poiché vorrei che, come le creature di Eschilo portano in loro qualche cosa dei miti naturali onduscirono, le mie creature fossero sentite palpitare nel torrente delle forze selvagge, dolorare al contatto con la terra, accomunarsi con l’aria, con l’acqua, col fuoco, con le montagne, con le nubi nella lotta patetica contro il Fato che deve esser vinto, e la Natura fosse intorno a loro quale fu veduta dagli antichissimi padri: l’attrice appassionata di un eterno dramma»70.

Com’è chiaro, qui il lascito schopenaueriano, riletto alla luce della positivistica ‘spiegazione’ naturalistica del mito, è momento nient’affatto trascurabile della ricezione del wagnerismo da parte di un D’Annunzio soprattutto volto a ‘fondare’ sulla cancellazione del tempo nella originaria «unità della vita» una ben prammatistica equazione, quella che consentiva a Stelio Èffrena di riproporre, in positivo, l’accostamento, già nietzescheano, Wagner-Bismark71.

Ma non è questo che ora importa; interessa piuttosto rilevare come in tal modo diventasse possibile eludere la questione fondamentale d’ogni teoria e pratica drammaturgica consapevolmente collocantisi nel moderno e insieme anche simulare un superamento dell’impasse cui s’era ridotto il dramma naturalistico in ordine all’essenziale problema della ‘motivazione’ degli svolgimenti dell’intreccio quando aveva sostituito il milieu alla storia. Che il ‘mito’ venisse ora a prendere il posto dei determinismi sociologico-naturalistici, come non ne eliminava l’astratta ‘monumentalità’ – che anzi ne risultava esteticamente enfatizzata –, così accentuava la ‘patologia’ dei caratteri già riccamente censita dalla letteratura del naturalismo. Quel che insomma in tal modo si eludeva era, ancora di nuovo, la determinazione storica della relazione carattere-destino e di ognuno dei due momenti di essa. Da questo punto di vista, sia il radicalismo della lukacsiana Metafisica della tragedia sia l’‘hegelismo’ problematico della pirandelliana Azione parlata costituiscono un tentativo di rifiuto della decadence diagnosticata dal Nietzsche antiwagneriano (e antibismarkiano): si trattava, in definitiva, di ribadire che, nonostante tutto, la tragedia era, ancora nel presente ‘peccaminoso’, una forma d’arte drammatica possibile.

Nonostante tutto…; vale a dire: nonostante le analisi che la nuova sociologia, da Weber a Simmel, impietosamente veniva proponendo della eticità ‘disincantata’ propria del moderno. Non è un caso infatti che proprio alla diagnosi simmeliana della «tragedia della cultura» siano riconducibili anche la polemica antinaturalistica di Paul Ernst (Das Drama und die moderne Weltanschauung, 1899) e la riproposizione della forma tragica come realizzazione ‘utopica’, nella forma artistica, d’un non ancora realizzato bisogno di liberazione (Die Möglichkeit der klassische Tragödie, 1904). E nemmeno è un caso che, come Ernst, anche Samuel Lublinski pervenisse a una poetica neoclassicista della tragedia come forma del conflitto fra l’‘eroe’ e la società (Der Ausgang der Moderne, 1907) dopo un’attiva partecipazione alle lotte della socialdemocrazia tedesca che l’aveva indotto a polemizzare contro l’astoricità della letteratura naturalistica (Bilanz der Moderne, 1904) o che Wilhelm von Scholz appuntasse la sua polemica contro la degradazione del dramma a occasione di entertainment emozionale in nome di un dramma che fosse forma d’un conflitto realmente contraddittorio seppure ‘auto-generantesi’ nella soggettività dell’eroe (Gedanken zum Drama, 1905). Insomma: interrogarsi sulle possibilità della tragedia voleva dire interrogarsi sulla natura e i limiti (Grenzen, non Schranken: limiti costitutivi, non ostacoli che si possano rimuovere) della ‘libertà dei moderni’; e voleva dire, anche, chiedersi che cosa ne fosse, di là dal feticismo donde per Simmel si generava la «tragedia della cultura», della storia e dell’‘uomo intero’.

1 Cfr. L. Pirandello, L’umorismo, 19202, in Id., Saggi, Poesie, Scritti vari, a cura di M. Lo Vecchio-Musti, Milano 1977 (d’ora in avanti SPSV), pp. 80-82 e Giovanni Verga (Discorso di Catania, 1920), ivi, pp. 419-21 e Ironia (1920), ivi, pp. 1027-28.

2 Si cfr. L’umorismo. Saggio, Lanciano 1908, pp. 80-82 (d’ora in avanti UM1) con le pp. dell’Umorismo del ’20 cui sopra ci si è riferiti.

3 Nel non averne tenuto conto è uno dei limiti dell’analisi del romanzo condotta dal Debenedetti il quale, in definitiva ancora suggestionato dalla banalizzazione crociana (si v. B. Croce, L. Pirandello, in Id., La letteratura della nuova Italia, vol. VI, Roma-Bari 1974, p. 339: «C’era qui materia soltanto per un piccolo racconto scherzoso, che si sarebbe potuto intitolare: Il trionfo dello stato civile…»), vorrebbe insomma che Mattia, invece di ‘crearsi’ per un fine pratico (così che la sua è una «rappresentazione [che] non si vuole […] per se stessa ed è effettuata secondo i fini e gli interessi del sentimento che l’ispira»: UM1, p. 91), lo facesse disinteressatamente, «indugiando alla ricerca della propria identità autentica». Che è appunto quel che non Mattia – personaggio: cioè rappresentazione artistica dell’individuo ‘reale’ –, ma il suo creatore avrebbe, solo, potuto fare; ma ad una condizione, che il problema del romanzo fosse – e non è – quello cui Debenedetti lo ‘riduce’: «superare un caso di inadattabilità personale, e […] prospettare un più vasto malinteso tra l’uomo e il suo ambiente pratico e sociale» (cfr. G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano 1981, pp. 340-41).

4 L. Pirandello, Trovarsi, in Id., Maschere nude, Milano 1965 (d’ora in avanti MN), II, p. 243.

5 Ivi, pp. 904 e 928-929 (cfr. l’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, in L. Pirandello, Tutti i romanzi, a cura di G. Macchia e M. Costanzo, Milano 1973, d’ora in avanti TR), I, p. 583.

6 Si v. H. Weinrich, Moneta e parola. Ricerche su di un campo metaforico, in Id., Metafora e menzogna: la serenità dell’arte, Bologna 1976, pp. 31-48.

7 Cfr. J.M. Lotman, Il problema del segno e del sistema segnico nella tipologia della cultura russa prima del XX secolo, in J.M. Lotman-B.A. Uspenskij (a cura di), Ricerche semiotiche, tr. it., Torino 1973, pp. 40-63.

8 V. Šklovskij, L’arte come procedimento (1917), in T. Todorov (a cura di), I formalisti russi, tr.it., Torino 1968, pp. 73-94.

9 G. Lukács, Metafisica della tragedia, in Id., L’anima e le forme, tr. it., Milano 1963, pp. 305-8 passim.

10 Ivi, pp. 308-9. Non è forse inutile ricordare che per Kant l’incapacità della ragione speculativa di fondare conoscitivamente la destinazione pratica dell’uomo al sommo bene garantisce l’autonomia della coscienza morale, che verrebbe meno se «Dio e l’eternità, nella loro tremenda maestà, ci stessero continuamente davanti agli occhi (poiché quello che possiamo dimostrare perfettamente, rispetto alla certezza vale altrettanto per noi che se ce ne accertassimo mediante la vista). La trasgressione della legge sarebbe certamente impedita, quello che è comandato sarebbe eseguito; ma siccome l’intenzione, per cui le azioni devono accadere, non può essere introdotta in noi mediante nessun comandamento, e il pungolo dell’attività qui sarebbe sempre alla mano ed esterno, e quindi la ragione non avrebbe bisogno di sforzarsi a raccoglier le forze per resistere alle inclinazioni mediante la rappresentazione della dignità della legge; così la maggior parte delle azioni conformi alla legge avverrebbe per il timore, soltanto poche per la speranza, e nessuna affatto per il dovere; un valore morale delle azioni, dal quale solo dipende agli occhi della saggezza suprema il valore della persona, e anche quello del mondo, non esisterebbe punto. La condotta dell’uomo, rimanendo la sua natura qual è adesso, sarebbe dunque mutata in un semplice meccanismo, in cui, come nel teatro delle marionette, il tutto gesticolerebbe bene, ma nelle figure non si troverebbe vita alcuna» (I. Kant, Critica della ragion pratica, tr. it., Bari 1955, pp. 180-181); ma soprattutto si v. ivi, pp. 124-25: «se le azioni dell’uomo, come appartengono alle sue determinazioni nel tempo, non fossero semplici determinazioni dell’uomo come fenomeno ma come cosa in sé, la libertà non potrebbe esser salvata. L’uomo sarebbe una marionetta, un automa di Vaucanson, fabbricato e caricato dal maestro supremo di tutte le opere d’arte, e la coscienza di sé lo renderebbe invero un automa pensante, nel quale però la coscienza della spontaneità, se venisse ritenuta per libertà, sarebbe semplice illusione, poiché solo comparativamente essa merita di esser chiamata così, perché le cause determinanti prossime del suo movimento, e una lunga serie di queste cause sino alle loro cause determinanti, sono bensì interne, ma la causa ultima e suprema si trova interamente in una mano estranea».

11 Si legga comunque il primo capoverso del ‘racconto’ verghiano:
«Questo racconto è fatto per le persone che vanno colle mani dietro la schiena, contando i sassi, per coloro che cercano il pelo nell’uovo e il motivo per cui tutte le cose umane danno una mano alla ragione e l’altra all’assurdo; per quegli altri cui si rizzerebbe il fiocco di cotone sul berretto da notte quando avessero fatto un brutto sogno, e che lascerebbero trascorrere impunemente gli Idi di Marzo; per gli spiritisti, i giuocatori di lotto, gli innamorati, e i novellieri; per tutti coloro che considerano col microscopio gli uncini coi quali un fatto ne tira un altro, quando mettete la mano nel cestone della vita; per i chimici e gli alchimisti che da 5000 anni passano il loro tempo a cercare il punto preciso dove il sogno finisce e comincia la realtà, e a decomporvi le unità più semplici della verità nelle vostre idee, nei vostri principii, e nei vostri sentimenti, investigando quanta parte del voi della notte ci sia nel voi desto, e la reciproca azione e reazione, gente sofistica la quale sarebbe capace di dirvi tranquillamente che dormite ancora quando il sole vi sembra allegro, o la pioggia vi sembra uggiosa – o quando credete d’andare a spasso tenendo sotto il braccio la moglie vostra, il che sarebbe peggio. Infine, per le persone che non vi permetterebbero di aprir bocca, fosse per dire una sciocchezza, senza provare qualche cosa, questo racconto potrebbe provare e spiegare molte cose, le quali si lasciano in bianco apposta, perché ciascuno vi trovi quel che vi cerca» (G. Verga, Tutte le novelle, a cura di C. Riccardi, Milano 1979, p. 46).

12 Cfr. per es. G.W.F. Hegel, Estetica, tr. it., Milano 1963, pp. 1609 e 1623-24.

13 Ivi, pp. 1598-99.

14 L. Pirandello, La ‘Francesca da Rimini’ di G.A. Cesareo (1905), in SPSV, p. 979; ma si legga tutto il capoverso:
«Ora è certo che il carattere sarà tanto più determinato e superiore, quanto meno sarà o si mostrerà soggetto alla intenzione e ai modi del poeta, alle necessità dello sviluppo del fatto immaginato, quanto meno insomma si mostrerà strumento passivo d’una data azione, e quanto più invece farà vedere in ogni suo atto tutto un proprio essere e, insieme, una concreta specialità. Certo nel dramma i caratteri sono più circoscritti e più determinati che nell’epopea, per l’incalzare violento dell’azione, per l’urto dei conflitti. In essi, la più stretta circoscrizione e determinazione proviene, per dirla con Hegel, dal pathos speciale che si esprime con una essenziale fisionomia, la quale campeggia per tutto il dramma e conduce a determinati scopi, a determinate risoluzioni e azioni. Ma in ogni nostro atto è sempre tutto l’essere: quello che si manifesta è soltanto in relazione con un altro atto immediato o che appare immediato; nello stesso tempo, però, si riferisce alla totalità del nostro essere; è insomma come la faccia d’un poliedro che combaci con la faccia rispettiva d’un altro, pur non escludendo le altre facce che guardano per ogni verso. Ora, fondere la subbiettiva individualità d’un carattere con la specialità sua nel dramma, trovar la parola che, pur rispondendo a un atto immediato della situazione su la scena, esprima la totalità dell’essere della persona che la proferisce: ecco la somma difficoltà che il poeta deve superare».

15 Si legge per es. nell’‘Introduzione’ (1905) all’Illustrissimo di A. Cantoni (Un critico fantastico, in SPSV, pp. 368-69):
«[…] disquisizioni, dispute vecchie e vane, che fece in ogni tempo la Retorica, e che si faranno sempre, finché non s’intenderà che non bisogna partire da leggi esterne a cui l’opera d’arte dovrebbe esser soggetta, ma scoprire la legge che ciascun’opera d’arte ha in sé necessariamente; la legge che la determina e le dà carattere, la legge insomma della propria vita, se quest’opera d’arte è veramente vitale, legge che non può essere arbitraria, per quanto libera o capricciosa possa apparire; e finché non si considererà l’opera della fantasia come opera di natura, come creazione organica e vivente e, come tale, non se ne studieranno la nascita, lo sviluppo, ed i caratteri; finché non si vedrà in lei la natura stessa che si serve dello strumento della fantasia umana per creare un’opera superiore, più perfetta, perché scevra di tutte le parti comuni, ovvie, caduche, più determinata, semplificata, vivente solo nella sua idealità essenziale. D’arte astrattamente non si può parlare, in quanto che l’essenza dell’arte è nella particolarità; e la critica può esercitarvisi a un solo patto, a patto cioè che essa penetri a volta a volta nell’intimo dell’artista, a patto che indovini e scopra in ciascun’opera d’arte il germe da cui essa è nata e si è sviluppata, dati il temperamento, le condizioni, l’educazione, la natura insomma, la coltura e il temperamento dell’artista, che rappresentano quasi il terreno in cui quel germe è caduto e il clima e l’ambiente in cui si è sviluppato».

16 Cfr. G. Compagnino, Dal romanzo storico al verismo: Gramsci, De Sanctis e il problema del realismo moderno, in Naturalismo e verismo (Atti del convegno internazionale di studi, Catania 10-13 febbraio 1986), Catania 1988, II, 547-81: pp. 575-79.

17 L. Pirandello, Illustratori, attori e traduttori (1908), in SPSV, pp. 217-18.

18 G. Lukács, Metafisica della tragedia, cit., pp. 314-15.

19 Ivi, pp. 312-13.

20 L. Pirandello, Giovanni Verga (Discorso di Catania), cit., in SPSV, p. 421.

21 Cfr. ivi, p. 419: «Non ha poi senso il dire “nella realtà egli vede il mondo quale esso è, e si spiega che non può essere diverso da quello che è”. Il mondo non è per se stesso in nessuna realtà, se non gliela diamo noi; e dunque, poiché gliel’abbiamo data noi, è naturale che ci spieghiamo che non possa esser diverso. Bisognerebbe diffidar di noi stessi, della realtà del mondo posta da noi. Per sua fortuna il Verga non ne diffida se si spiega che il mondo non può esser diverso da quello che è. E dunque il Verga non è, né può essere, nel senso vero e proprio della parola, un umorista».

22 L. Pirandello, Frammento di cronaca di Marco Leccio, in NA, II, 1156-57.

23 O magari kantianamente la coscienza morale: ma sono appunto le ‘serene’ distinzioni della Critica del giudizio (cfr. per es. i §§ 2-5) che ormai non reggono più.

24 Lukács aveva scritto del momento in cui si trascende l’esistenza empirica: «Questo momento è un inizio e una fine. Non può derivarne nulla come conseguenza, nulla che si leghi all’esistenza. È un momento, non intenziona la vita, esso è la vita, ma una vita esclusivamente contrapposta ad ogni vita comune» (G. Lukács, Metafisica della tragedia, cit., p. 316); e si cfr. L. Pirandello, Teatro nuovo e teatro vecchio (1922-1934), in SPSV, p. 236, a proposito dei «problemi» rappresentati in una nuova opera d’arte: «La forma perfetta li ha staccati interamente, essi vivi, e concreti, cioè fluidi e indistinti, dal tempo e dallo spazio, e li ha fissati per sempre, li ha raccolti in sé, lei che è immarcescibile, quasi imbalsamati vivi».

25 Un gioco per nulla schilleriano, dal momento che è ormai venuto meno quel nesso Spieltrieb-Schonheit il quale, come ricordava lo stesso Pirandello dell’Umorismo citando la XV delle lettere Über die aesthetische Erziehung des Menschen, fondava il valore umanistico dell’educazione estetica (cfr. L. Pirandello, L’umorismo, in SPSV, p. 23-24).

26 Cfr. G. Lukács, Osservazioni sulla teoria della storia letteraria (1910), in Id., Sulla povertà di spirito. Scritti (1907-1918), a cura di P. Pullega, Bologna 1981, pp. 70-71.

27 Cfr. G. Lukács, II dramma moderno (1911), tr. it. (parziale), I, Milano 1976, pp. 26-27: «la lotta deve significare l’intera vita del dato uomo (o più esattamente – poiché anch’egli è rappresentativo –: di un dato tipo d’uomo); l’intera vita deve essere vista dall’angolo visuale del conflitto che interessa nel dramma specifico. Dunque, la condizione posta dalla forma drammatica al conflitto riguarda il contenuto: la lotta deve costituire il problema vitale centrale del dato uomo (tipo d’uomo), ma questo problema ovviamente deve essere al tempo stesso un problema altrettanto centrale per la massa in quest ione. La condizione formale, per contro, è: il conflitto deve essere tale da consentire all’uomo di realizzare, anche, un massimo della sua vita, cioè proprio quella parte di sé in cui si condensi tutta la sua vita con la maggior forza possibile e in tutta la sua poliedricità [Vielseitigkeit]; ma per soddisfare la condizione contenutistica posta dalla forma drammatica l’uomo – dal punto di vista del problema specifico – deve essere il “massimo”, l’espressione culminante del suo tipo, un esempio capace del massimo dispiego di forza. Questa è la ragione drammaturgica, la giustificazione della condizione per la quale nel dramma deve esserci un eroe, del bisogno cioè che riecheggia nelle parole di Byron: “I want a hero”; ciò tuttavia definisce nel contempo i limiti della giustificazione stessa di tale condizione. La grandezza dell’eroe è assoluta in confronto ad altri esemplari del suo tipo. L’eroe infatti rappresenta il punto culminante, è il compendio decorativo di tutti i tipi molto più deboli (perché più sparsi e meno puri) esistenti nella realtà. È necessario che nell’eroe l’elemento volontaristico che ha provocato la lotta sia presente con grandissima veemenza, anzi è addirittura necessario – se la natura del conflitto è tale per cui alle riflessioni e ai sentimenti può derivare un ruolo fortemente impeditivo nei confronti della volontà – che anche questi impedimenti siano presenti nel soggetto drammatico ad un grado altrettanto massimale, di modo che l’eroe, esaurendo tutte le possibilità del suo tipo, ne rappresenti pur sempre l’esempio insuperabile»; e pp. 42-43: «Carattere e azione sono indivisibili: l’azione è il destino dell’eroe e l’eroe è sempre tutt’uno col proprio destino, anzi nel suo destino egli realizza ciò che è. Carattere e azione sono un’unica cosa, come per la sensibilità primitiva il reo era identificabile con la sua azione, come per la filosofia della natura la natura naturans e la natura naturata si identificavano. La direzione della stilizzazione del carattere, il concreto e insieme astratto dell’uomo drammatico, la simbolica della vita sono fissati da questa relazione: l’uomo drammatico forma un tutt’uno con la propria azione, in cui non c’è nulla che non giustifichi il suo agire o il suo non agire. L’uomo drammatico è l’uomo in cui l’intera superficie della sua intima natura [ganzen Fläche seines Wesens] combacia perfettamente con il suo destino, è l’uomo che non conosce in sé niente che non sia – artisticamente – liberato e non trasformi in musica il grande appuntamento col destino. L’uomo drammatico è l’astrazione della volontà»; e si v. pure pp. 46-47.
E inoltre: Id., Filosofia dell’arte. Primi scritti sull’estetica (1912-1918), tr. it., I, Milano 1973, p. 157; Id., Metafisica della tragedia, cit., pp. 324 e 330-31; si v. anche A. Heller, Quando la vita si schianta nella forma, in F. Fehér et al., La scuola di Budapest: sul giovane Lukács, Firenze 1978, pp. 15, 26 e G. Márkus, L’anima e la vita. Il giovane Lukács e il problema della cultura, ivi, pp. 88-89.

28 L’irrigidimento precettistico-retorico in cui si risolve la sistemazione teofrastea della teoria aristotelica della tragedia importa, già nel primo scolarca del Liceo, una determinazione sociologica dei ‘caratteri’. Basti pensare alla modificazione che subisce la dottrina secondo cui, come si legge nella Poetica, l’ethos del personaggio tragico dev’essere conforme alla tradizione, allorché Teofrasto distingue l’historia della tragedia dal mito (falso) dell’epica e dal verosimile della commedia. Ne veniva, già in lui, la definizione della tragedia come heroiches tyches peristasis e che, dunque, i personaggi di essa non sono più, semplicemente, spoudaioi e beltiones, ma – come avrebbe prescritto Diomede – heroes, duces, reges. Naturalmente sono queste le premesse, oltre che le ‘fonti’, donde deriverà tutta la successiva teoria del genere tragico, fino alla Ständeklausel delle poetiche ‘classicistiche’: da G.C. Scaligero al Castelvetro, da d’Aubignac a Batteux e a Gottsched (si v. l’ancora utile ricostruzione di questa tradizione di A. Ph. Mahon, Seven Questions on Aristotelian Definition of Tragedy and Comedy, in «H S C Ph», 40, 1929).

29 Com’è noto, le parole di Fichte, citate nella Teoria del romanzo, oltre ad esprimere l’anticapitalismo radicale del giovane Lukács, hanno per lui precise ed essenziali implicazioni etiche ed estetiche; si legga per es. questa pagina dal saggio in forma di dialogo Sulla povertà di spirito (in G. Lukács, Sulla povertà di spirito. Scritti 1907-1918, cit., pp. 102-03): «Qui si tratta della vita. Si può vivere anche senza vita. E spesso si deve anche. Ma allora deve avvenire con chiara coscienza. Naturalmente la maggior parte degli uomini vive senza la vita e non se ne accorge. La loro vita è solo sociale, solo infraumana; questi, guardi, possono accontentarsi dei loro doveri e dell’adempiere ad essi. Anzi, per essi l’adempiere agli obblighi è l’unica possibilità di alzare più in alto la vita. Perché ogni etica è formale: il dovere è postulato, forma – e quanto più è perfetta una forma, tanto più vive una vita propria, tanto più cade lontano da ogni immediatezza. La forma è un ponte che ci distanzia; ponte in cui andiamo e veniamo e arriviamo sempre in noi stessi, senza incontrarci mai. Ma quegli uomini non potrebbero neanche uscire da se stessi, perché il contatto tra essi, nel migliore dei casi, è soltanto una spiegazione dei segni psichici, ed è solo la severità del dovere a dare alla loro vita una forma abbastanza stabile e sicura, anche se non profonda e non intima. La vera vita è oltre le forme, la vita ordinaria invece è al di qua delle forme e la bontà è la grazia per spezzare queste forme».

30 Cfr. E. Bloch, Geist der Utopie [la ed. 1918], Frankfurt a. M. 1971 (= Gesamtausgabe, vol. XVI), pp. 58 e 69-70.

31 Cfr. G. Lukács, Scritti sul romance, a cura di M. Cometa, Bologna 1982; Id., Cultura estetica (1912), tr. it., Roma 1977, pp. 21-22 e Id., Il manoscritto Dostoevskij (la cui redazione è da collocare fra il 1914 e il 1916), tr. it. a cura di M. Cometa, in «Metaphorein», III, 8 (nov. 1979 – febbr. 1980), pp. 21-36; si v. anche F. Fehér, Al bivio dell’anticapitalismo romantico: tipologia e contributo alla storia dell’ideologia tedesca a proposito del carteggio tra Paul Ernst e György Lukács, in F. Fehér et al., La scuola di Budapest: sul giovane Lukács, cit., 157-246, in partic. le pp. 231-36.

32 G. Lukács, «Il percorso di Hamptmann», in Id., Scritti sul romance, cit., pp. 67-69 passim e cfr. i luoghi (non tr. in it.) di A modem dráma cit. da M. Cometa, ivi, p. 70 n. 4 e da L. Boella, Il giovane Lukács. La formazione intellettuale e la filosofia politica 1907-1929, Bari 1977, p. 34.

33 G. Lukács, Metafisica della tragedia, cit., pp. 308-9.

34 G. Lukács, L’estetica del romance. Tentativo di fondazione metafisica della forma del dramma non-tragico, in Id., Scritti sul romance, cit., pp. 92 + 100-1.

35 Ivi, p. 96.

36 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco (1928), tr. it., Torino 1971, pp. 101-2; ma cfr. anche il saggio «Le affinità elettive» di Goethe (1924) in Id., Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-22, a cura di G. Agamben, Torino 1982, p. 189.

37 I testi sono tradotti in it. nel vol. curato da F. Serpa, Nietzsche-Rohde-Wilamowitz-Wagner, La polemica sull’arte tragica, Firenze 1972.

38 Cfr. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, ivi, p. 172: «Il dramma che si svolge dinanzi a noi con l’aiuto della musica, con una chiarezza internamente illuminata di tutti i movimenti e di tutte le figure, sicché quasi lo vediamo nascere come un tessuto [Gewebe] sul telaio dall’andirivieni della spola, raggiunge come totalità un effetto [als Ganzes eine Wirkung] che è riposto al di là di tutti gli effetti artistici apollinei. Nell’effetto totale della tragedia lo spirito dionisiaco riconquista di nuovo il sopravvento; essa si chiude con un accordo che non potrebbe mai risuonare dal regno dell’arte apollinea».

39 Cfr. L. Pirandello, L’azione parlata (1899), in SPSV, p. 1015: «[…] una favola d’indole narrativa, in generale, mal si lascia ridurre e adattare al congegno delle scene. […] Tolse, è vero, anche lo Shakespeare l’argomento d’alcuni drammi da novelle italiane; ma qual drammaturgo mise in azione più di lui, dal principio alla fine, una favola, nulla mai sacrificando alle esigenze sciocche d’una tecnica solo esteriormente rigorosa?».

40 Cfr. ivi, pp. 1016-17: «Non il dramma fa le persone; ma queste il dramma. E prima d’ogni altro dunque bisogna aver le persone: vive, libere, operanti. Con esse e in esse nascerà l’idea del dramma, il primo germe dove staran racchiusi il destino e la forma…»; sicché, «lo stile, l’intima personalità d’uno scrittore drammatico non dovrebbe affatto apparire nel dialogo, nel linguaggio delle persone del dramma, bensì nello spirito della favola, nell’architettura di essa, nella condotta, nei mezzi di cui egli si sia valso per lo svolgimento».

41 Ivi, p. 1015. Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, cit., pp. 1534, 1605. La romanza di Heine sarà di nuovo citata da Pirandello in Illustratori, autori e traduttori (1908; si v. SPSV, p. 214), ma in una prospettiva ormai diversa (v. G. Gompagnino, Statuto e funzione del personaggio nella poetica pirandelliana, in «Le forme e la storia», III (1982) ,17-36, p. 25).

42 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 70.

43 Cfr. ivi, p. 78.

44 Ivi, pp. 112 e 120.

45 Ivi, pp. 120-21. La coppia rapsodo-mimo viene com’è evidente dall’Aufsätze goetiano del 1797 Über epische und dramatische Dichtung, donde deriva anche il motivo del quieto contemplare del primo.

46 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 173.

47 Ivi, p. 167.

48 L. Pirandello, L’azione parlata (1899), in SPSV, pp. 1016-17: «lo stile, l’intima personalità di uno scrittore drammatico non dovrebbe affatto apparire nel dialogo, nel linguaggio delle persone del dramma, bensì nello spirito della favola, nell’architettura di essa, nella condotta, nei mezzi di cui egli si sia valso per lo svolgimento».

49 L. Pirandello, Taccuino di Bonn (1889-93), in SPSV, p. 1228: «E noi lamentiamo, che alla nostra letteratura manchi il dramma […]. Opera vana: il vero marcio non si vede o non si vuol vedere. Manca la concezione della vita e dell’uomo. […] Arido e stupido alessandrinismo – il nostro». (Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, cit., pp. 1540-41). Non troppo diverso nella sostanza, pur se più consapevolmente articolato, è il ruolo che Lukács attribuisce alla Weltanschauung nel dramma: cfr. G. Lukács, Il dramma moderno, cit., pp. 35-38 (sulla ostilità all’art pour l’art – l’alessandrinismo di Pirandello – implicita in queste posizioni, si v. F. Fehér, Filosofia della storia del dramma, cit., p. 252).

50 Cfr. L. Pirandello, Personaggi (1906), in Id., Sei personaggi in cerca d’autore, a cura di G. Davico Bonino, Torino 1993, pp. 161-62: «tutto, in questo mondo di carta, è combinato, congegnato, adattato ai fini che lo scrittore, piccolo Padreterno, si propone. Mai nessuno di quei tanti ostacoli improvvisi che, nella realtà, contrariano graziosamente e limitano e deformano i caratteri degli individui e la vita. La natura senza ordine almeno apparente, irta (beata lei!) di contraddizioni, è lontanissima – credetelo – da questi minuscoli mondi artificiali, in cui tutti gli elementi, visibilmente, si tengono a vicenda e a vicenda cooperano. Vita concentrata, vita semplificata, senza realtà vera. Nella realtà vera le azioni che mettono in rilievo un carattere non si stagliano forse su un fondo di vicende ordinarie, di particolari comuni? Ebbene, gli scrittori non se n’avvalgono, come se queste vicende, questi particolari non abbiano valore e sieno inutili. L’oro, in natura, non si trova frammisto alla terra? Ebbene, gli scrittori buttano via la terra e presentano l’oro in zecchini nuovi, ben colato, ben fuso, ben pesato e con la loro marca e il loro stemma bene impressi. Ma le vicende ordinarie, i particolari comuni, la materialità della vita insomma, così varia e complessa, non contraddicono poi aspramente tutte queste semplificazioni ideali e artificiose? non costringono ad azioni, non ispirano pensieri e sentimenti contrarii a tutta quella logica armoniosa dei fatti e dei caratteri concepiti dagli scrittori? E l’impreveduto che è nella vita? e l’abisso che è nelle anime? Perdio, non mi sento io guizzar dentro, spesso, pensieri strani, quasi limpidi di follia, pensieri inconseguenti, inconfessabili, come sorti da un’anima diversa da quella che normalmente mi riconosco? E quante occasioni imprevedute, imprevedibili occorrono nella vita, ganci improvvisi che arraffano le anime in un momento fugace, di grettezza o di generosità, in un momento nobile o vergognoso, e le tengono poi sospese o sull’altare o alla gogna per l’intera esistenza, come se questa fosse tutta assommata in quel momento solo, d’ebrezza passeggera o d’incosciente abbandono?… L’arte, signori miei, ha l’ufficio di rendere immobili le anime, di fissar la vita in un momento o in varii momenti determinati: la statua in un gesto, il paesaggio in un temporaneo immutabile. Ma che tortura! E la perpetua mobilità degli aspetti successivi? e la fusione continua in cui le anime si trovano?»; e La tragedia di un personaggio (1911), in NA, I, pp. 715-17 (e si v. anche il confronto fra Herodes und Marianne di Hebbel e Britannicus di Racine, in G. Lukács, Realisti tedeschi del XIX secolo, tr. it., Milano 1963, p. 214).

51 Cfr. L. Pirandello, Personaggi, cit., p. 165: «Ora diremo ciò che avviene allorché lo spirito umano esprime positivamente un pensiero o un desiderio ben netto. Il pensiero assume essenza plastica, si tuffa per così dire in essa e vi si modella istantaneamente sotto forma d’un essere vivente, che ha un’apparenza che prende qualità dal pensiero stesso; e quest’essere, appena formato, non è più per nulla sotto il controllo del suo creatore, ma gode d’una vita propria, la cui durata è relativa all’intensità del pensiero e del desiderio che l’hanno generato: dura, infatti, a seconda della forza del pensiero che ne tiene aggruppate le parti.
Il dottor Leandro Scoto chiude il libro e mi guarda:
– Ebbene, – soggiunse, – nessuno meglio di Lei può sapere che questo è vero. Ed io, per quanto ancora non sia libero e indipendente da Lei, ne sono la prova. Ne sono una prova tutti i personaggi creati dall’arte. Alcuni han pur troppo vita efimera; altri immortale. Vita vera, più vera della reale, sto per dire! Angelica, Rodomonte, Shylock, Amleto, Giulietta, Don Chisciotte, Manon Lescaut, Don Abbondio, Tartarin: non vivono d’una vita indistruttibile, d’una vita indipendente ormai dai loro autori?
Lo guardo a mia volta il dottor Leandro Scoto che mi si dimostra così erudito e gli domando:
– Scusi, dove vuole arrivare con codesta dissertazione teosofico-estetica?
– Alla vita! – esclama lui, allora, con un gesto melodrammatico».

52 L. Pirandello, L’azione parlata, cit., p. 1015.

53 Ibidem. (Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, cit., pp. 1134 e 1537-38, 1599).

54 L. Pirandello, La tragedia di un personaggio, cit., NA, I, p. 821; sono parole che torneranno, in bocca al Padre, nei Sei personaggi (cfr. Sei personaggi in cerca d’autore, Torino 1993, pp. 105 e 31, rispettivamente ed. 1921 e 1925). Ma forse è anche opportuno non dimenticare che già il De Sanctis aveva adoperato metafore non dissimili per determinare la relazione fra oggettività reale e soggettività artistica nel processo di generalizzazione estetica: cfr. G. Compagnino, Dal romanzo storico al verismo, cit., pp. 577-81.

55 Cfr. L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. 3 e Personaggi, cit., p. 162. Sulla fantasia-«servetta» non sarà forse inutile ricordare che Karl August Musaus legittimava la fantasia come «una graziosa servetta» della ragione in un testo (Wolksmarchen der Deutschen, 1782) forse non ignoto al Pirandello traduttore delle favole di Lessing.

56 L. Pirandello, Colloqui con i personaggi (1915), in Id., Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. 173 (Cfr.: G.W.F. Hegel, Estetica, pp. 240, 1599).

57 L. Pirandello, L’azione parlata, cit., in SPSV, pp. 1017-18. (Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, cit., pp. 1539, 1597-602, 1559, 1603, 1609).

58 L. Pirandello, L’azione parlata, cit., in SPSV, p. 1018. (Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, pp. 1609-10).

59 «Non mai credo, la vita nostra eticamente ed esteticamente fu più disgregata».

60 L. Pirandello, L’azione parlata, cit., in SPSV, p. 1018.

61 Ibidem. È opportuno ricordare che tutto intero questo capoverso è di nuovo trascritto da Pirandello nella rec. alla «Francesca da Rimini» di G.A. Cesareo, ivi, p. 979.

62 L. Pirandello, Rinunzia (1896), in SPSV, p. 1059.

63 Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, cit., pp. 1610-29 passim.

64 Ivi, pp. 1535 e 1554.

65 Cfr. L. Pirandello, L’azione parlata, cit., in SPSV, 1015-16: «[…] la parola che sia l’azione stessa parlata, la parola che muova, l’espressione immediata, connaturata con l’azione, la frase unica, che non può esser che quella, propria a quel dato personaggio in quella data situazione».

66 F. De Sanctis, Manzoni, a cura di C. Muscetta e D. Puccini, Torino 1983, pp. 76-77. (Si pensi, in tutt’altro ambito spirituale ma in risposta ai medesimi problemi, alla polemica di Georg Büchner contro i cosiddetti Idealdichter e alla sua scelta della storia come luogo del dramma – «Der dramatische Dichter ist in meinen Augen nichts als ein Geschichtschreiber»: «Was noch die sogennanten Idealdichter anbetrifft, so finde ich, das sie fast nichts als Marionetten mit himmelblauen Nasen und affektierten Pathos, aber nicht Menschen von Fleisch und Blut gegeben haben, deren Leiden und Freude mich mitempfinden macht und deren Tun und Handeln mit Abscheu oder Bewunderung einflösst»: G. Büchner, Sämtliche Werke und Briefe, Hamburg 1967-71, II, pp. 443-44).

67 L. Pirandello, L’azione parlata, in SPSV, p. 1016. Pare opportuno ricordare che, in uno dei ‘foglietti’ pubblicati postumi da C. Alvaro (lo si v. ivi, pp. 1267-68), Pirandello mostra non solo di conoscere ma di condividere l’analisi desanctisiana delle ragioni del metodo letterario manzoniano.

68 G. D’Annunzio, Il fuoco, in Id., Prose di romanzi, a cura di N. Lorenzini, Milano 1989, pp. 359-60; si v. pure la n. relativa, alle pp. 1275-76, che cita la fonte wagneriana.

69 Cfr. C. Dahlhaus, La musica dell’Ottocento (1980), tr. it., Firenze 1990, pp. 209-16.

70 G. D’Annunzio, Il fuoco, cit., pp. 360-61.

71 Cfr. ivi, pp. 472 e 297-99.

La vertenza per György Lukács

08 sabato Nov 2014

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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di Fredric Jameson

da Marxismo e forma, Liguori, Napoli 1975 (Marxism and Form, 1971)

Ai lettori occidentali l’idea che si erano fatti di György Lukács è spesso apparsa ai loro occhi più interessante della sua realtà. Quasi che, in qualche mondo di forme platoniche e di archetipi metodologici, ci fosse un posto vacante per il critico letterario marxista che (dopo Plechanov) solo Lukács ha seriamente cercato di occupare. Tuttavia, a lungo andare, persino i suoi critici occidentali più favorevoli si allontanano da lui con una disillusione più o meno forte: essi erano preparati a contemplare l’idea astratta, ma nella pratica viene loro richiesto un sacrificio troppo alto. Essi tributano un rispetto verbale alla figura di Lukács, ma trovano che i suoi testi non corrispondono affatto a quello che erano state le loro aspettative1.

Questo disagio non sorprende: esso caratterizza, in realtà, il modo in cui il relativismo occidentale si approssimava sempre più ai suoi confini concettuali; di fatto, noi concepiamo la nostra cultura come un ampio museo immaginario in cui vengono accolte, l’una accanto all’altra, purché siano accessibili alla sola contemplazione, tutte le forme di vita e ogni posizione intellettuale. Perciò, accanto ai mistici cristiani e agli anarchici del diciannovesimo secolo, ai surrealisti e agli umanisti del Rinascimento, ci sarebbe posto per un marxismo che non fosse altro che un sistema filosofico tra gli altri. Non è un’esigenza di credenza assoluta che impedisce al marxismo di accettare una siffatta assimilazione, perché, senza difficoltà, le stesse religioni, trasformate in immagini, coesistono nella tradizione eclettica che ben conosciamo. Ma la peculiarità della struttura del materialismo storico consiste nella sua negazione dell’autonomia del pensiero, nel suo insistere (che è a sua volta un pensiero) sul fatto che il pensiero puro è una forma mascherata del comportamento sociale, nel suo fastidioso rammentarci la realtà materiale e storica dello spirito. Pertanto, il marxismo, in quanto oggetto culturale, si ritorce contro l’attività culturale in generale, svalutandola e mettendo a nudo i privilegi di mercato, le situazioni di classe, gli ozi che sono il presupposto necessario per la fruizione dei beni culturali. Esso si autodistrugge come merce spirituale e provoca un corto circuito nel processo di consumo culturale entro cui, nel contesto occidentale, è stato assunto. È, pertanto, la struttura stessa del materialismo storico – la dottrina dell’unità di pensiero ed azione, o della determinazione sociale del pensiero – che è irriducibile alla ragione pura o alla contemplazione; e questa struttura, che la tradizione filosofica della borghesia occidentale può vedere solo come una falla nel sistema, ci rifiuta nel momento stesso in cui immaginiamo che venga rifiutata da noi.

Non ci si deve, dunque, meravigliare se il lavoro di tutta una vita di Lukács non viene capito dall’interno per quello che è: una serie di soluzioni e di problemi che si sviluppano l’uno dall’altro secondo una loro logica ed un impulso interno; non ci si deve meravigliare se le sue opere vengono considerate come segni esteriori di posizioni arbitrarie, come sintomi di per sé privi di significato e comprensibili solo se riferiti agli slittamenti di una linea partitica. Allo sviluppo intellettuale viene sostituito il mito della «carriera» di Lukács, di cui i suoi commentatori occidentali parlano, in una forma o nell’altra, senza eccessiva riflessione. Dopo un periodo kantiano – ci viene detto – dopo studi con Simmel e Lask e il contatto con Weber, viene alla luce il Lukács hegeliano di Teoria del Romanzo (1914-1915). E come da kantiano era divenuto hegeliano, così, durante la guerra, da hegeliano si fa marxista, si unisce al Partito Comunista Ungherese, partecipa al governo rivoluzionario di Béla Kun. Il terzo Lukács, un bolscevico con atteggiamenti tipici dell’attivista e con incorreggibili tendenze hegeliane, scrive un’opera acerba, Storia e coscienza di classe (1923), che il partito condanna. È nel periodo dell’impegno autocritico che prende forma quel Lukács maturo che meglio conosciamo: il Lukács stalinista degli Anni Trenta e Quaranta, il teorico del realismo letterario, facilmente assimilabile al realismo socialista ufficiale del medesimo periodo, che produce sia opere come Balzac e il realismo francese (1945), Goethe e il suo tempo (1947), Il realismo russo nella letteratura mondiale (1949), e Il romanzo storico (1955), sia i numerosi studi sulla letteratura e il pensiero della Germania del diciannovesimo e del ventesimo secolo, pubblicate a Berlino Est nel dopoguerra. Con il disgelo, un Lukács più moderato riformula la sua posizione generale sull’arte moderna in Sul realismo critico (1958), e dopo la rivolta ungherese si ritira dalla scena, preparando l’Estetica (1963) in due volumi con cui, come nella progettata Etica e Ontologia, ritorna al progetto teoretico neokantiano della gioventù, ma questa volta con un’ottica marxiana.

Si noterà come l’elaborazione di questo mito biografico si basi sulla divisione d’una vita in «periodi» discontinui, un’operazione, questa, che ha un doppio vantaggio. Per un verso il passaggio da un periodo all’altro avviene al di fuori del mito. Pertanto le transizioni da una posizione all’altra danno origine o ad un eccesso (come avviene nel concetto d’una conversione semireligiosa al comunismo) o ad un fallimento (come quando si assiste ad uno spettacolo di obbedienza servile alla linea del partito) in ciò che persino la coscienza storica meglio predisposta dovrebbe, come sarebbe legittimo aspettarsi, rivivere e comprendere dall’interno. Per l’altro verso i vari periodi si possono ora contrapporre uno all’altro senza che ci si debba compromettere con alcuno di essi. Come il giovane Marx veniva strumentalizzato contro il vecchio Marx, così il giovane Lukács (sia quello di Teoria del romanzo che quello di Storia e coscienza di classe) viene utilizzato per screditare il Lukács teorico del realismo; anzi, l’ultimo Lukács, con il suo ritorno alle posizioni iniziali, serve a dar consistenza all’insinuazione che l’intera sua opera sia stata fallimentare ed inutile.

Ma se le prime opere non fossero del tutto comprensibili se non alla luce delle successive? E se, lungi dall’essere una serie di autocritiche e ritrattazioni, le posizioni che si andavano susseguendo in Lukács fossero una esplorazione ed un ampliamento progressivo di un unico complesso di problemi? Nelle pagine che seguono dimostreremo che l’opera di Lukács può venire osservata come una continua meditazione, che è durata tutta la vita, sulla narrazione, sulle sue strutture di base, sulla relazione con la realtà che essa esprime, e sul valore epistemologico che essa acquista se confrontata ad altre forme, più astratte e filosofiche, del comprendere.

I

L’opposizione concettuale fondamentale, al cui interno si è collocato l’indagine lukacsiana sulla letteratura, è quella hegeliana di concreto ed astratto. L’originalità di Hegel, naturalmente, consiste nella trasformazione di questa distinzione puramente logica in una distinzione ontologica; nella dimostrazione di come le esperienze vissute e le stesse forme di vita possano in questa luce venire commisurate l’una all’altra; nell’evoluzione di un modo di pensare comparativo, o per meglio dire dialettico, tale che ogni percezione di una opera o di un’esperienza data sia nello stesso tempo consapevolezza di ciò che quell’esperienza o quell’opera non sono. È chiaro che il sentimento della concretezza, della ricolma densità dell’essere, o quello dell’astrattezza e dell’impoverimento dell’esperienza, derivano essenzialmente da questa implicita comparazione tra un’esperienza e un’altra, tra un lavoro o un altro, un momento della storia ed un altro.

Ciò che forse è meno evidente è il grado di sovrapposizione tra quest’opposizione hegeliana e la più nota nozione contemporanea di alienazione: infatti i termini «astratto» ed «alienato» designano, senza dubbio, il medesimo oggetto. È comunque facile capire perché la quasi totalità degli scrittori occidentali abbia preferito il concetto di alienazione: esso permette la diagnosi di una realtà manifestamente decaduta e degradata senza esigere dalla mente nessun tentativo di immaginare uno stato in cui l’uomo non sia più alienato. Si tratta, perciò, di un concetto negativo e critico, da cui è stato tacitamente eliminato il momento utopico; mentre il concetto di astratto ci costringe, attraverso la sua stessa struttura, che è quella dell’antitesi, a conservare e sviluppare l’idea della concretezza, al fine di realizzare compiutamente il nostro pensiero.

L’uso marxista più caratteristico di questa opposizione è naturalmente quello secondo il quale la società stessa viene vista come l’origine ultima della concretezza o della astrattezza della esistenza individuale. In termini letterari questo vuol dire che la società viene concepita, qualsiasi momento storico si prenda in considerazione, come la materia prima preesistente, o meglio, preformata, che in ultima analisi determina la astrattezza o la concretezza delle opere d’arte create al suo interno. «Gli uomini fanno la storia da sé», ha detto Engels in un passo famoso, «soltanto che essi la fanno in un dato ambiente che li condiziona, e sulla base delle relazioni effettive già preesistenti, tra le quali le relazioni economiche che, per quanto possano venire influenzate dalle altre relazioni, quali quelle politiche ed ideologiche, sono tuttavia in ultima istanza quelle decisive, quelle che costituiscono la chiave di volta dell’intero complesso sociale, e che sole ci permettono di giungere a comprenderlo»2. Sarebbe un truismo dire che l’aeroplano e il grande magazzino, il cittadino insignito con Legion d’onore e i problemi dell’emancipazione femminile, non possono essere elementi di opere d’arte per società in cui queste cose non esistono; ciò che è più importante è l’influenza di una data materia prima sociale non solo sul contenuto, ma anche sulla stessa forma delle opere d’arte.

Nelle opere d’arte di una società preindustriale, agricola o tribale, la materia prima dell’artista è a misura d’uomo, ha un significato immediato, non richiede nessuna spiegazione o giustificazione preliminare da parte dello scrittore. Il racconto non ha bisogno di sfondo ed ambientazioni temporali perché la cultura non ha storia: ogni generazione ripete le medesime esperienze, reinventa le medesime situazioni umane di base come se si presentassero per la prima volta. Le istituzioni sociali non vengono sentite come tradizioni esterne, come edifici paralizzanti ed incomprensibili; il re o il prete quasi indossano l’autorità, che è ad essi immanente. Come attori umani essi la esprimono pienamente in modo tridimensionale. Gli oggetti fisici di tale mondo sono in ugual modo immediati: essi sono chiaramente prodotti umani, il risultato di un rituale preordinato e di una gerarchia delle attività del villaggio immediatamente visibile. Persino il soprannaturale, il magico o religioso, ideologia di tale modo di vita, ritorna all’uomo nella forma antropomorfica di dei e forze personalizzate; senza dubbio si tratta di una proiezione, ma lo stesso meccanismo della proiezione è ancora manifesto con semplicità nella stessa struttura narrativa dei miti. Le opere d’arte caratteristiche di queste società possono venire dette concrete in quanto i loro elementi sono fin dall’inizio dotati di significato. Lo scrittore li usa, ma non ha bisogno di spiegare anticipatamente il loro significato: questa materia prima, per esprimersi in termini hegeliani, non ha bisogno di nessuna mediazione3.

Quando passiamo da queste forme alla letteratura dell’era industriale, cambia tutto. Gli elementi dell’opera si allontanano dal loro centro umano: ha inizio una specie di dissoluzione dell’umano, una specie di dispersione centrifuga i cui sentieri portano sempre al contingente, al fatto bruto e alla materia, al non umano. Persino i caratteri, che erano le componenti di base del racconto, si fanno problematici: ora vi sono delle personalità, e la scelta delle caratteristiche della personalità, la rappresentazione dell’eroe come sognante ed idealistico piuttosto che collerico e cinico, richiede una giustificazione organica all’interno dell’opera stessa. Pertanto il temperamento dell’eroe verrà spiegato in relazione alla sua situazione familiare e in particolare al padre; o forse verrà presentato come emblematico di un particolare tipo di relazione con la società esistente e i suoi valori predominanti; o gli si conferirà un significato metafisico di sfida all’universo; o infine resterà semplicemente ingiustificato e di conseguenza l’opera scade a livello di accidente per risolversi in un tipo di storia episodica.

La stessa mancanza di comprensibilità immediata si verifica anche ad altri livelli: lo svolgersi del tempo nell’opera, le istituzioni che formano il suo sfondo, gli oggetti tra cui i personaggi si muovono. Perché il tempo ritualistico e aproblematico del villaggio non esiste più; v’è, d’ora in poi, una separazione tra pubblico e privato, tra lavoro e tempo libero, e il racconto deve trovare la sua collocazione in un mondo in cui le vite degli uomini sono divise tra faticoso lavoro di routine e riposo. Così il romanziere sviluppa il suo intreccio ambientandolo nei week end (Lo straniero di Camus), nelle vacanze (La montagna incantata di Thomas Mann), nel periodo delle grandi crisi in cui la routine viene sconvolta (la letteratura di guerra). Se la professione lascia all’eroe sufficiente tempo libero per la sua vita privata (l’Ulisse di Joyce), allora a sua volta la stessa scelta della professione deve venire in qualche modo giustificata (la pubblicità in quanto lavoro fatto con le parole). Dove la ricchezza e l’otium sono ereditari, o hanno un presupposto sociale su cui non si indaga (come nel caso dei proprietari fondiari da cui vengono tratti i personaggi dei romanzi inglesi e russi del diciannovesimo secolo), oppure restano allo stadio di puro episodio familiare fortuito, e il problema non viene risolto, ma ricacciato indietro nel passato, verso generazioni più antiche (e qui l’emblema tipico del processo potrebbe essere quell’innominato vaso da notte che, come Henry James in privato ha ammesso, è stato all’origine della fortuna dei Newsome in Gli ambasciatori).

Accade lo stesso con la trama del racconto: le istituzioni del mondo moderno, entro cui i personaggi, o, diciamo, i caratteri, vivono fino in fondo i loro drammi, si presentano come qualcosa di meramente dato, come il risultato della origine accidentale dell’opera in una particolare situazione nazionale, ed in un particolare momento dello sviluppo storico. Il villaggio, la città-stato, costituisce in sé un mondo completo: non si può dire altrettanto della superstrada, dell’università moderna, dell’esercito americano o della grande città industriale – tutte queste cose sono, all’interno dell’opera d’arte, corpi estranei non realizzati, ed in ultima analisi non realizzabili. E quello che è vero per la organizzazione sociale nella sua totalità diventa ancora più visibile nelle singole merci di una data società, nei diversi oggetti e prodotti tra cui si muovono i personaggi: le sedie, le motociclette, il cibo, le case e le pistole non vengono più sentite come risultati di una attività umana immediata, ma popolano l’opera come fossero vecchi mobili senza vita, attraversano, quasi materia inorganica estranea, la superficie umana dell’opera, lacerandola.

Non si dimentichi che la letteratura moderna ha sviluppato tecniche particolari, metodi elaborati di simbolismo, con la manifesta speranza di dare significato a queste cose ostinatamente recalcitranti, di assimilarle alla sostanza umanizzata dell’opera d’arte. E il simbolismo in quanto tale è uno dei fenomeni centrali della letteratura moderna. Ne discuteremo più a lungo in seguito; per ora basti dire che quali che siano i meriti delle forme simboliche e simbolicizzanti di pensiero per la soluzione di questo dilemma, la loro presenza nell’opera sta sempre ad indicare la scomparsa del significato immediato degli oggetti; il processo non si presenterebbe alla ribalta così in primo piano se gli oggetti non fossero già divenuti di natura problematica.

Una obiezione di gran lunga più efficace potrebbe venire mossa alla realtà di questa parvenza contingente della vita moderna: si tratta di contingenza, possiamo dire, solo apparente. In effetti, tutte queste istituzioni e cose apparentemente inumane hanno un’origine profondamente umana. Il mondo non è mai stato così completamente umanizzato come nell’era industriale, né era mai successo precedentemente che una parte così preponderante dell’ambiente del singolo fosse il risultato non di cieche forze naturali, ma della storia umana stessa. Pertanto, se solo l’opera d’arte moderna fosse capace di allargare il suo orizzonte quanto basta, se riuscisse a fare connessioni sufficienti tra fenomeni e fatti così immensamente disparati, sparirebbero gli effetti illusori di inumanità: il contenuto dell’opera sarebbe di nuovo comprensibile totalmente in termini umani, anche se su una scala molto più ampia della precedente. Tuttavia è proprio questo ampliamento che non si concilia con la forma e la struttura della letteratura. L’ossatura dell’opera d’arte è la singola esperienza vissuta, ed è per questi limiti che il mondo esterno vi rimane ostinatamente alienato. Quando passiamo dall’esperienza singola alla dimensione collettiva, a quel centro focale sociologico o storico in cui le istituzioni umane divengono a poco a poco nuovamente trasparenti, siamo entrati nella sfera del pensiero astratto defiguralizzato e ci siamo lasciati alle spalle l’opera d’arte. E questa vita condotta a due livelli inconciliabili corrisponde ad un difetto di fondo insito nella stessa struttura del mondo moderno: quello che possiamo capire come menti astratte non siamo capaci di viverlo direttamente nelle nostre vite ed esperienze individuali. Il nostro mondo, le nostre opere d’arte sono perciò, a partire da qui, astratte.

Possiamo pertanto concludere questa discussione preliminare mettendo in evidenza le due caratteristiche di fondo della concretezza in arte. Innanzitutto, le sue situazioni sono tali da consentirci di sentire ogni cosa in esse in termini puramente umani, in termini di esperienza umana singola e di atti umani singoli. In secondo luogo, quest’opera ci consente di sentire la vita e l’esperienza come totalità: tutti i suoi eventi, tutti i suoi fatti parziali ed elementi vengono compresi immediatamente come parte di un processo totale, anche se questo processo essenzialmente sociale può venire ancora inteso in termini metafisici. Infatti, l’aspetto che noi sentiamo come più importante di questo sentimento della totalità non emerge quando gli vien data una spiegazione ideologica, ma piuttosto dalla sua presenza od assenza immediata in quella vita sociale particolare da cui lo scrittore trae la sua materia prima. Come abbiamo già detto, se questo sentimento della completezza e dell’interrelazione immediata, non si dà in primo luogo nella vita reale, l’artista non possiede gli strumenti per reintegrarlo; può al massimo simularlo.

In Teoria del romanzo, il primo tentativo fatto da Lukács su larga scala di applicare queste categorie alla letteratura, esse assumono la forma di un opposizione tra essenza (Wesen) e vita, o, in altre parole, tra significato, da un lato, ed eventi e materia prima dell’esistenza di ogni giorno dall’altro. Lo sviluppo delle forme nella Grecia antica gli fornisce un tipo di modello classificatorio o di mito dialettico delle varie possibilità, delle varie relazioni che ineriscono a questa opposizione fondamentale. (E vorremmo aggiungere che per il momento non riteniamo rilevante, per i fini che ci proponiamo, l’accuratezza storica di questa immagine della Grecia antica: assumiamo tale raffigurazione in quanto struttura concettuale idonea per una presentazione della discussione di Lukács sul romanzo moderno).

La prima delle tre fasi fondamentali in cui Lukács suddivide la letteratura greca è quella epica, che e concreta nel senso precedentemente adombrato: in essa significato od essenza sono ancora immanenti alla vita e la narrazione genuina, quella epica, è possibile infatti solo se la vita d’ogni giorno viene ancora sentita come dotata di significato e immediatamente comprensibile fino ai più minuti dettagli. Dopo questa Utopia, in cui essenza e vita sono un tutt’uno, i due termini cominciano a disgiungersi e il posto dell’epica viene preso dalla tragedia. Infatti nella tragedia significato ed esistenza quotidiana sono divenuti contrapposti: la coincidenza si ha solo nel momento della crisi tragica, quando l’eroe per un istante, nella sua agonia, riunisce i due termini, non rinunciando a nessuna delle richieste essenziali che poneva alla vita, né alla sua passione fondamentale per il significato, persino mentre si consuma la sua distruzione ad opera di quel mondo esterno e senza significato che lo rinnega. La tragedia, pertanto, non offre più una continuità ma si organizza attorno, e dipende da quegli unici, intensi istanti di crisi, strutturalmente irregolari ed instabili. Quando anch’essi scompaiono, quando vita e significato si distanziano irreparabilmente, allora sopraggiunge il terzo stadio dell’arte greca, quello della filosofia platonica. Qui, in un mondo in cui la materia prima fornita dalla vita di ogni giorno è divenuta completamente priva di valore, essenza o significato si rifugiano nella sfera puramente intellettuale delle Idee, e sono divenute esse stesse, salvo che quando si esprimono attraverso i miti e le favole platoniche, irrealizzabili.

Già, nonostante la comune metodologia, sono visibili le differenze tra il Lukács di Teoria del romanzo e lo stesso Hegel, soprattutto nella sua Estetica; nonostante il grande valore che Hegel attribuisce ai greci, egli vede la storia dell’arte occidentale, e la storia in generale, come una ascensione di forme, da quelle simboliche dell’arte orientale, in cui lo spirito è ancora catturato e cioè prigioniero della materia – si pensi alle forme mostruose delle divinità assire ed egiziane – attraverso le forme classiche della Grecia, in cui lo spirito trova la sua espressione nella figura umana, all’arte romantica del mondo moderno in cui la materia poco a poco si allontana e il puro spirito trova la sua espressione nel linguaggio. Senza dubbio Hegel aveva già sentito il romanzo come il moderno sostituto dell’epica in senso lukacsiano. Ma per lui, com’è noto, la realizzazione dell’arte non consiste in nessuna forma d’arte, ma nell’auto-trascendenza, nella trasformazione dell’arte in filosofia: ciò che gli esseri umani all’inizio hanno ingenuamente proiettato nella religione, ciò che essi hanno poi reso visibile a se stessi nella creazione artistica, alla fine lo portano all’auto-coscienza solo nella filosofia.

Ma per Lukács, come avremo agio d’osservare in più occasioni, il pensiero puro non ha mai un valore assoluto come mezzo privilegiato per accedere alla realtà. Al contrario, per lui l’assoluto è la narrazione: persino l’abbozzo preliminare delle fasi dell’arte greca ha come sua premessa il primato della narrazione. Soltanto l’epica può venire considerata una forma esclusivamente narrativa: la tragedia è dramma – vale a dire presenta solo degli istanti e non può più ricorrere alle tecniche della continuità narrativa; e, per quanto riguarda la filosofia, naturalmente, il dominio del pensiero puro, lungi dal rappresentare una virtù, viene giudicato e valutato proprio in rapporto all’eliminazione che esso compie della narrazione come possibilità formale.

È su questo primo sfondo che emerge l’idea base di Teoria del romanzo; il romanzo, in quanto forma, rappresenta nei tempi moderni il tentativo di riconquistare qualcosa della qualità della narrazione epica come riconciliazione tra materia e spirito, tra vita ed essenza. Si tratta di un sostituto di quell’epica che le mutate condizioni di vita rendono ormai impossibile: «la narrazione è l’epica di un mondo abbandonato da Dio»4.

In quanto tale, il romanzo non è più, come la tragedia o l’epica, una forma chiusa e stabilita una volta per tutte con delle convenzioni incorporate; è, invece, problematico nella sua stessa struttura, che è una forma ibrida che va reinventata ad ogni momento del suo sviluppo. Ogni romanzo è un processo in cui la stessa possibilità della narrazione deve iniziare da un vuoto, senza alcun impulso acquisito: suo oggetto privilegiato sarà, perciò, la ricerca, in un mondo in cui né fini né strade sono stabiliti in anticipo. È un processo in cui siamo testimoni dell’invenzione di quegli stessi problemi di cui il racconto fornisce la soluzione. Mentre l’eroe epico rappresentava una collettività, faceva parte di un mondo organico fornito di significato, l’eroe del romanzo è sempre una soggettività solitaria: è problematico; vale a dire, egli deve sempre opporsi al suo ambiente, naturale o sociale, nella misura in cui è proprio la sua relazione con, e la sua integrazione in esso che è il problema con cui si è alle prese5. Ogni riconciliazione tra l’eroe e il suo ambiente che venisse data all’inizio del libro e non raggiunta in modo sofferto nel corso della narrazione costituirebbe una specie di presupposto illecito, una specie di truffa mediante la forma, con la quale l’intero romanzo, come processo, resterebbe infine invalidato. Il prototipo estremo dell’eroe del romanzo è, perciò, il folle o il criminale: l’opera è la sua biografia, la narrazione del suo cimentarsi nel «mettere alla prova la sua anima» nella vacuità del mondo. Ma naturalmente egli non può mai farlo davvero; infatti se fosse possibile una riconciliazione genuina si restaurerebbe di nuovo la totalità epica, il romanzo come tale resterebbe esautorato.

Pertanto il romanzo, in quanto uno dei tentativi di conferire significato al mondo esterno e all’esperienza umana, è sempre il risultato della volontà soggettiva, della premeditazione soggettiva. Questa unità non ha le sue radici, come è invece per l’epica, nel mondo, ma piuttosto nella mente del romanziere che tenta di imporla col suo fiat. Per questo motivo, l’attività del romanziere si colloca sempre sotto il segno di quella che i romantici tedeschi hanno chiamato Ironia; infatti l’ironia romantica è caratterizzata da una struttura in cui l’opera prende in considerazione la sua stessa origine soggettiva, in cui l’autore completa la sua creazione additando se stesso: larvatus prodeo. Pertanto, si può dire che per Lukács l’immagine fondamentale più appropriata della libertà umana non è l’eroe del romanzo, in quanto tale eroe non avrà mai successo nella sua ricerca di un significato definitivo, ma è, piuttosto, lo stesso romanziere che, nel raccontare la storia del fallimento, ha successo – la cui vera creazione è anzi quella riconciliazione momentanea di materia e spirito cui il suo eroe tende invano. L’attività creativa dello scrittore è il «misticismo negativo di un’epoca atea»6.

Il romanzo ha, perciò, significato etico. Il fine etico ultimo della vita umana è l’Utopia, vale a dire un mondo in cui significato e vita siano ancora una volta indivisibili, in cui uomo e mondo siano un tutt’uno. Ma questa lingua è astratta, e l’Utopia non è un’idea, ma una visione. Non è, perciò, il pensiero astratto, ma la stessa narrazione concreta a fare da banco di prova per l’attività utopica, e i grandi romanzieri forniscono una dimostrazione concreta dei problemi dell’Utopia mediante la stessa organizzazione formale dello stile e degli intrecci, mentre i filosofi dell’Utopia forniscono un sogno evanescente ed astratto, un incorporeo soddisfacimento del desiderio.

Data l’opposizione tra materia e spirito su cui si basa là teoria di Lukács, è evidente che i romanzi verranno suddivisi in due gruppi generali a seconda di quale dei due termini dell’opposizione verrà accentuato. La semplicità di questa tipologia è tuttavia ingannevole, sotto altri profili, perché il punto di partenza del romanzo sarà sempre soggettivo, sarà sempre l’esperienza umana: i! termine oggettivo, il mondo esterno, non si preoccupa affatto di aspirare ad una riconciliazione con l’uomo. Perciò, come si può vedere, il romanzo orientato verso il mondo (quello che Lukács chiama romanzo dell’idealismo astratto) si fonda su di una specie di illusione ottica. Il suo eroe possiede una fiducia cieca ed incrollabile nel significato del mondo, una fede ingiustificata ed ossessiva nella riuscita, qui ed ora, della sua ricerca, nella possibilità stessa della riconciliazione. Per questo eroe ossessionato (di cui il prototipo è Don Chisciotte), l’evidente ostilità del mondo reale può venire facilmente spiegata facendo ricorso al magico ed alle operazioni ostili di incantatori malvagi: pertanto egli non giungerà mai a contatto colla realtà esterna, ma si fermerà a quella visione utopica di essa che costituisce il suo punto di partenza. L’effetto paradossale che questo atteggiamento ha sulla forma è che il romanzo dell’idealismo astratto metterà capo ad una serie di eventi ed avventure reali, presenterà una superficie apparentemente oggettiva, anche se questa oggettività superficiale non è null’altro che il risultato di pazzia e di ossessione soggettiva.

La creazione di Don Chisciotte presupponeva l’esistenza di un mondo sociale in cui la razionalità laica non si era ancora completamente sbarazzata della visione del mondo superstiziosa e ritualistica propria del medioevo, un mondo in cui, quindi, la pazzia di Don Chisciotte non è capriccio, ma corrisponde ad una realtà del mondo esterno. Tale realtà si interiorizza nel romanzo sotto la forma di storie d’amore e sogni cavallereschi in modo tale che nel suo complesso esso non si riduce ad una narrazione declassata ed acritica di queste storie da avventura popolare, ma è una riflessione circa la stessa possibilità della narrazione, un primo passo verso l’auto-coscienza del raccontare. Ma nella misura in cui il mondo si laicizza, si dissolve la tensione che ha dato vitalità a Don Chisciotte; gli eroi dell’idealismo astratto non trovano più giustificazione nel loro tempo storico, ma si fanno sempre più arbitrari e grotteschi con idee fisse che sono solo capricci; e in un romanziere come Dickens troviamo un’opposizione statica e inerte tra divertenti eccentricità da un lato, ed un universo borghese sentimentalizzato dall’altro (sentimentalizzato in quanto il romanziere ha colto tale universo nel suo valore apparente, ha introdotto surrettiziamente nell’opera un preconcetto circa la natura di quella realtà esterna che sarebbe stato compito dell’opera stessa esplorare senza preconcetti di sorta).

Forse solo in Balzac si possono trovare alcune versioni estreme, le ultime chance per il romanzo dell’idealismo astratto; ma anche qui, in un mondo ormai laicizzato, ciò è stato possibile solo con un tour de force formale. Da un lato troviamo il solito eroe ossessionato, l’uomo con l’idea fissa, l’inventore, il poeta, l’uomo d’affari, l’aristocratico. Ma il secondo termine dell’opposizione, quella realtà esterna senza la quale non è possibile alcuna tensione, non è ora altro che la somma di tutti i restanti personaggi monomaniacali de La Comédie humaine o, in altre parole, della stessa società. Pertanto, ancora una volta, si ha una totalità genuina in cui però sono le altre opere della serie a fornire la necessaria densità della realtà esteriore, la massiccia resistenza del mondo esterno, da adoperare come fondo nei conflitti individuali all’interno di ogni racconto. Ma ovviamente questa tensione viene pagata a caro prezzo: La Comédie humaine è quello che Sartre chiamerebbe una totalità detotalizzata; non è mai completamente presente in ciascuna opera singola, abbiamo davanti a noi, pienamente realizzati, solo dei frammenti dell’intero. Con Balzac il romanzo dell’idealismo astratto, come forma, si esaurisce: la realtà del mondo moderno non fornisce più materiale idoneo alla sua costruzione.

Si fa perciò lentamente strada, come sostituto del primo, il secondo tipo generale di narrazione, il romanzo della disillusione romantica. Qui l’accento viene posto direttamente sull’anima, sulle esperienze soggettive dell’eroe che ha il compito di interpretare il mondo prendendo le mosse dalla propria coscienza. Mentre la forma precedente minacciava di disintegrarsi in una serie di vuote avventure, in una letteratura picaresca o di svago, il secondo tipo di romanzo è minacciato dal pericolo del solipsismo. Il suo eroe è contemplativo e passivamente ricettivo; la sua storia è sempre sul punto di dissolversi nel frammentario e nel puramente lirico, in una serie di momenti ed umori soggettivi in cui si disperde ogni senso concreto del narrare .

Ma a questo punto Lukács fa un’osservazione estremamente interessante (e con essa, come è stato spesso affermato, egli anticipa tutta la direzione del romanzo contemporaneo quando – siamo nel 1914 – era ancora solo una linea di tendenza). Infatti, mentre il mondo esterno nelle prime forme di romanzo era prima di tutto spaziale, mentre l’esperienza che l’eroe si faceva di tale mondo assumeva la forma di una serie di avventure e vagabondaggi attraverso uno spazio geografico, ora, nel romanzo della disillusione romantica, la forma dominante che assume la realtà esterna sarà quella del tempo. Sarà questo slittamento verso la metafisica che salverà da una poesia puramente statica i più illustri esempi, quali l’Educazione sentimentale di Flaubert, della nuova forma, e che giustificherà e permetterà un tipo di autentica narrazione. Ora l’eroe contemplativo-passivo potrà nuovamente agire, e il racconto della sua vita darà nuovamente luogo ad una storia; ma questi atti ora sono atti nel tempo, sono speranza e memoria. Ora il romanzo può nuovamente esprimere una specie di unità di significato e vita, solo che si tratta di un’unità ricacciata indietro nel tempo, un’unità solo ricordata. Nel presente, infatti, il mondo sconfigge l’eroe, frustra sempre il desiderio di riconciliazione: ma quando egli ricorda il suo fallimento, è, paradossalmente, tutt’uno con il mondo. Il processo della memoria ha perciò inserito la renitenza del mondo esterno nella soggettività, ripristinando qui una specie di passata unità. L’eroe che ricorda è un po’ come il romanziere: per entrambi il tempo è profondamente ambiguo, è una forza capace sia di dare la vita che di distruggerla. Nella vita dell’eroe è la fonte d’ogni angoscia, d’ogni perdita, l’elemento attraverso cui apprende la vanità dell’esistenza umana. Ma il tempo è anche per l’eroe come per il lettore il tessuto della vita, la sostanza dell’esperienza; è, pertanto, ad un tempo, durata e flusso, fonda la densità alla narrazione proprio mentre essa racconta il tragico transito effimero d’ogni cosa.

Dopo aver parlato di questi due tipi fondamentali di narrazione, Lukács ci presenta come tentata sintesi il Wilhelm Meister di Goethe e i racconti di Tolstoj. Come era logico aspettarsi, queste sintesi sono polarizzate, rispettivamente, intorno alla dimensione soggettiva ed intorno alla dimensione oggettiva. In Wilhelm Meister un eroe di tipo romantico, relativamente ricettivo-passivo, finisce collo scoprire un universo esterno dotato di significato, un ambiente sociale che non si oppone più al singolo, bensì gli permette la realizzazione dei suoi talenti e delle sue potenzialità soggettive: un ambiente le cui istituzioni non sono disumanizzate ed alienate, ma che nella sua gerarchia dei compiti riflette un disegno e perciò si pone nuovamente su di una scala umana. Tuttavia, questa riconciliazione è fondata su un tour de force: infatti l’intero libro è condizionato dall’esistenza dell’élite massonica che fa la sua comparsa verso la fine. Tutte le avventure e gli incontri apparentemente accidentali di Wilhelm Meister alla fine risulteranno essere prove e lezioni deliberate che erano state progettate per lui da quella casta sacerdotale onnisciente nella quale infine sarà accolto. Pertanto l’apparente solidità del romanzo di Goethe è il risultato di una forzatura, di una deformazione della realtà esterna che viene piegata al soddisfacimento del desiderio: l’Utopia non viene conquistata concretamente passo dopo passo, ma verrà imposta d’autorità alla fine del libro con effetto di retroazione e di trasformazione del suo stesso esordio.

Tolstoj, d’altro canto, trae profitto da un elemento della sua situazione storica che manca nell’esperienza del romanziere dell’Europa occidentale: la presenza della natura stessa, che offre, con rinnovata solidità, il piano di fondo alla rappresentazione del mondo esterno, il secondo termine di opposizione per il narratore. Mentre in occidente il dramma del singolo e delle sue passioni veniva contrapposto alla vuota convenzionalità del suo mondo sociale, in Tolstoj entrambi i fenomeni sono deformati e viziati, entrambi entrano in conflitto con la natura, con la fugace visione di una originaria esistenza naturale, genuina, riunificata. Tuttavia ancora una volta questa tensione è precaria: infatti non dipende da una narrazione compiuta che abbia per oggetto il polo naturale, la vita naturale, ma da una mera visione lirica di ciò che una simile vita potrebbe essere. In questo senso Tolstoj non riesce a reinventare l’epica, crea solo dei frammenti che si sforzano di raggiungere l’unità epica.

Lukács dà per scontato, alla fine della sua opera, che la condizione preliminare per la trasformazione del romanzo in epica non è la volontà del romanziere, bensì la trasformazione della sua società e del mondo. Non può darsi un’epica rinnovata finché il mondo stesso non sia stato trasfigurato, rigenerato; e il suo commento finale ai romanzi di Dostoievskij, che offrirebbero una fugace visione di questa Utopia finale, completamente umanizzata, deve venir preso più come una profezia che come un’analisi formale.

La ricchezza e la suggestione di Teoria del romanzo consistono più nei problemi che la sua struttura speculativa gli permette di sollevare, che nelle soluzioni che propone. Innanzitutto, v’è una contraddizione tra forma e contenuto che getta dubbi sulle sue stesse conclusioni. Infatti, se a livello formale, come analisi dell’opera del romanziere, del suo sforzo incessante di riconciliare materia e spirito, la Teoria del romanzo è irreprensibile, tuttavia, nella misura in cui il libro comprende anche una teoria dell’eroe, una teoria sul contenuto del romanzo, ci sorprendiamo a scoprire un’intera serie di presupposti impliciti, un’intera psicologia preconcetta che entra in conflitto con l’ossatura concettuale hegeliana, che è neutrale o meramente formale, del resto del libro. Qui Lukács descrive la ricerca dell’eroe come un tentativo di «mettere alla prova la propria anima» (Browning), di vincere la nostalgia primordiale dell’essere «ritornando a casa» in senso metafisico (Novalis: «Immer nach Hause!»), reintegrando quel «luogo trascendentale» che era la dimora originaria dell’anima. Non c’è nulla da obiettare contro questa dottrina, che ha un suo fascino per la mente moderna e suggerisce le idee di Heidegger e Kierkegaard; quello che è criticabile è la sua incompatibilità con la descrizione formale fornitaci da Lukács del romanzo come un processo di cui non viene dato in anticipo il tracciato, dove, pertanto, persino questa caratterizzazione della ricerca metafisica dell’uomo nel mondo non è ammissibile, e rappresenta un valore precostituito imposto alla iniziale mancanza di forma dell’esistenza.

Possiamo porre questa contraddizione in un altro modo ricordando quanto tutte le analisi lukacsiane del romanzo facciano perno su una sorta di nostalgia letteraria, sulla nozione di un’età d’oro o sull’Utopia perduta della narrazione, nell’epica greca. Senza dubbio, come abbiamo accennato sopra, questa concezione della storia letteraria può venire considerata semplicemente una convenzione per fini organizzativi, o una struttura mitologica per inquadrare le analisi concrete del libro; tuttavia, a lungo andare, la inaccettabilità storica della struttura finisce col viziare le singole analisi. Perciò, ogni successivo mutamento di questa struttura provocherà un riesame, con ripercussioni ad ampio raggio, della storia empirica del romanzo. Evidentemente la realizzazione definitiva di un universo riconciliato verrà dopo proiettata nel futuro e con questo mutamento di prospettive ci troviamo già dentro la teoria marxista della storia. Ma non è tanto questo quello che ci aspettavamo quanto che la rimozione dell’idea dell’età aurea potesse dare origine ad una nuova interpretazione della letteratura moderna ed alla possibilità di momenti, per quanto parziali possano essere, di riconciliazione coi tempi moderni, alla possibilità almeno di esempi, per quanto isolati, di opere d’arte genuinamente concrete; mentre tutto questo sembra precluso dallo schema storico complessivo di Teoria del romanzo.

Tuttavia nella stessa struttura hegeliana del libro vi sono delle debolezze che Lukács cercherà di rettificare con l’opera successiva: il libro mira alla creazione di una tipologia, ad una elaborazione, tipicamente hegeliana, di possibilità puramente formali nello sviluppo cronologico della storia. La manifesta debolezza di questo modo di vedere tipologico salta agli occhi in passi come quello in cui Lukács, avendo definito il romanzo della disillusione romantica come una categoria generale, come genere, ammette che forse esso è formato da un unico rappresentante genuino, da un unico membro, vale a dire dall’Educazione sentimentale di Flaubert. Proprio come il capovolgimento della dialettica hegeliana, operato da Marx, ha dissolto la serie delle forme ideali nella realtà empirica della storia, così dal difetto logico della Teoria del romanzo basta fare un passo per abbandonare i tipi narrativi, per percepire l’opera di Flaubert come un fenomeno storico empirico concreto e unico, come un momento unico nella storia del romanzo, una combinazione di circostanze non generalizzabili. A questo punto ci aspetteremmo poi uno sviluppo ulteriore che porti alle estreme conseguente Teoria del romanzo, fino alla sostituzione della teoria tipologica onnicomprensiva con una serie di monografie storiche concrete, e quindi fino alla dissoluzione di tale teoria nella storia letteraria concreta.

Infine, va notato che persino nella stessa struttura della Teoria vi sono segni di un importante slittamento di prospettiva. Nei primi due capitoli tipologici (quelli che definiscono i romanzi dell’idealismo astratto e della disillusione romantica), il contenuto del romanzo veniva caratterizzato come un’opposizione tra l’uomo e il mondo esterno. Persino quando la resistenza all’eroe assume la forma di altri personaggi, Lukács pensa questa resistenza essenzialmente in termini di conflitto tra l’uomo e il suo ambiente, tra l’uomo e l’universo, tra l’uomo e le cose: gli elementi umani del conflitto vengono sempre assimilati alla categoria più generale del mondo, del Non-Io, dello stato di natura. Questo modo di visualizzare il dramma della vita umana non può essere che metafisico: infatti il suo modello di base è sempre la relazione tra l’uomo e qualche Assoluto a lui esterno.

Tuttavia, quando passiamo ai capitoli su Goethe e Tolstoj, scopriamo che, forse senza che Lukács ne fosse perfettamente consapevole, questo secondo termine metafisico, il mondo, si è impercettibilmente trasformato ed è divenuto la società. Ma a questo punto tutto cambia e la stessa qualità dell’opposizione è diversa: la nuova tensione non è metafisica, ma storica, e la relazione in cui l’uomo si mette in rapporto al mondo non è più statica e contemplativa come lo era la sua situazione metafisica nell’universo. Infatti la società è un organismo che si evolve ed è soggetto a mutamenti, e per la prima volta l’eroe del romanzo, così come lo presenta Lukács, non si limita a contemplare la sua distanza dalla realtà esterna in forma statica, ma gli è dato di cambiarla. A questo punto, pertanto, interviene la grande intuizione di Vico, così proficua per il marxismo e per la storiografia in generale, secondo la quale l’uomo comprende quello che ha fatto e quindi oggetto privilegiato della conoscenza umana non è la natura, bensì la storia7. Quindi è nella stessa elaborazione dei problemi della Teoria del romanzo che ci sono segni decisivi di quel passaggio da un punto di vista metafisico ad un punto di vista storico che verrà ratificato dalla conversione di Lukács al marxismo. Infatti, io sarei tentato di invertire quella relazione causale che viene solitamente data per scontata e di sostenere che se Lukács divenne comunista fu proprio perché i problemi sulla narrazione sollevati in Teoria del romanzo richiedevano una struttura marxista per essere sviluppati e portati alla loro conclusione logica.

II

L’opera successiva di Lukács, Storia e coscienza di classe (1923), comunque, sembra non aver nulla a che fare con questi problemi puramente letterari. Il suo titolo è piuttosto fuorviante: infatti il nuovo libro non è tanto politico quanto epistemologico e mira a porre delle basi tecniche per una nuova teoria marxista della conoscenza. Per «coscienza di classe», perciò, Lukács non intende tanto un fenomeno empirico e psicologico, o quelle manifestazioni collettive esaminate dalla sociologia, quanto piuttosto i limiti a priori o i vantaggi che l’appartenenza alla borghesia o al proletariato conferisce alla capacità della mente di cogliere la realtà esterna. Pertanto quest’opera di Lukács, la cui influenza è stata enorme, si distingue fin dall’inizio dalla solita critica occidentale dell’ideologia, di cui Lucien Goldmann e Sartre potranno essere considerati dei rappresentanti tipici. Infatti il concetto di ideologia implica già da sé mistificazione e raccoglie in sé la nozione di una visione del mondo psicologica e soggetta a fluttuazioni nonché la nozione di una immagine soggettiva delle cose che è, già per definizione, in relazione offuscata con il mondo esterno. La conseguenza è che persino una visione del mondo proletaria viene relativizzata e viene sentita come ideologica, mentre lo standard fondamentale della verità diventa quello positivistico di una «fine dell’ideologia» che ci porrebbe alla presenza dei fatti in sé, senza distorsioni soggettive.

Comunque, è proprio perché Lukács prende in seria considerazione la cosiddetta filosofia borghese che può sviluppare una teoria adeguata della conoscenza proletaria. Per lui, si può dire, ciò che è falso non è tanto il contenuto della filosofia borghese classica, quanto la forma; e con questa distinzione Lukács applica alla sfera filosofica il metodo che Marx stesso aveva sviluppato nella sua critica all’economia borghese. Infatti la critica che Marx rivolge ai suoi predecessori (Smith, Say, Ricardo) era diretta non tanto a questioni di dettaglio della loro opera – la teoria della rendita fondiaria, la circolazione monetaria, l’accumulazione del capitale, ecc. – che in parte vengono inglobate nel suo sistema, ma piuttosto al modello complessivo, o alla mancanza di un modello complessivo, entro cui questi dettagli trovino una interpretazione, e vengano considerati come parti o funzioni di una totalità più ampia. Marx riesce a dimostrare che gli economisti borghesi non solo erano incapaci di elaborare un campo teorico unificato entro cui integrare i vari fenomeni osservati empiricamente, ma persino che essi evitavano istintivamente di farlo. Quasi che essi abbiano avuto sentore delle conseguenze politicamente e socialmente pericolose di quel tipo di modello della realtà economica, totale e sistematico, che verrà successivamente elaborato in Das Kapital; per evitare quelle conseguenze essi sono obbligati a condurre le loro ricerche ad un livello che resta sempre frammentario ed empirico.

Spesso è stata data una interpretazione sbagliata del marxismo in termini di teoria dell’interesse materiale od economico, anche se a livello di psicologia dell’individuo la nozione di interesse egoistico ha delle origini anteriori che risalgono al tempo di Hobbes e La Rochefoucauld. Sarebbe più giusto asserire che il marxismo è una teoria dell’interesse egoistico della collettività o di classe. Infatti, mentre non desta sorpresa né è fonte di paradosso scoprire che un uomo voglia sacrificare i suoi interessi personali immediati a qualche causa o ideale più grande, la stessa adesione appassionata a questa causa, la sua forza cogente, certamente deriva da basi collettive e rappresenta un meccanismo di difesa del gruppo o della classe di cui il singolo sente di far parte. Il membro di una data classe perciò difende non tanto la propria esistenza e i propri privilegi individuali, quanto le condizioni che rendono possibili quei privilegi: ed anche nella sfera del pensiero egli si avventura solo fino al punto oltre il quale quelle condizioni potrebbero venire messe in discussione. Possiamo, pertanto, dire, con una terminologia più astratta, che l’influenza della coscienza di classe sul pensiero viene sentita non tanto al livello della percezione dei singoli dettagli della realtà, quanto al livello della forma complessiva, o Gestalt, secondo cui quei dettagli vengono organizzati ed interpretati.

Lukács, ponendosi sulle orme di Marx critico delle teorie economiche borghesi, in Storia e coscienza di classe scopre i limiti della filosofia borghese nella sua incapacità o resistenza a venire a patti con la categoria stessa della totalità. Qui non ci troviamo alle prese con uno standard di giudizio meramente esterno, ma piuttosto con un dilemma che ha tormentato i filosofi classici, come si può vedere dalla direzione che aveva assunto la filosofia tedesca pre-marxista circa il problema dell’universalità del soggetto individuale o conoscente – una universalità che veniva postulata solo in forma astratta nel concetto dell’io trascendentale di Kant o nello Spirito Assoluto di Hegel. L’originalità di Lukács consiste nell’aver riportato questo problema filosofico astratto alla sua collocazione concreta nella realtà sociale, e nell’aver posto la questione della relazione tra l’universalità colta a livello epistemologico e la classe di appartenenza dell’individuo pensante.

Infatti, la filosofia critica di Kant aveva già assegnato i suoi confini ultimi a quell’ideologia dell’universalità cui aspirava la razionalità borghese. (Per Kant, naturalmente, questi confini non sono solo quelli del pensiero borghese, ma della mente umana in generale: ma questo modo astorico di porre il problema non fa altro che sottolineare la sua profonda identificazione con il tipo di pensiero che stava esaminando). Secondo Kant, la mente può capire tutto ciò che riguarda la realtà esterna, tranne, in primo luogo, il fatto incomprensibile e contingente della sua esistenza: essa può analizzare esaustivamente le proprie percezioni della realtà, senza, peraltro, riuscire mai a confrontarsi con i noumeni, o le cose-in-sé. Per Lukács, comunque, questo dilemma della filosofia classica, di cui il sistema kantiano costituisce un esempio macroscopico, ha le sue origini in un atteggiamento ancor più fondamentale, pre-filosofico, verso il mondo, che è in definitiva di carattere socio-economico: vale a dire, nella tendenza della borghesia a comprendere la nostra relazione con gli oggetti esterni (e quindi, di conseguenza, anche la nostra conoscenza di quegli oggetti) in modo statico e contemplativo. Come se la nostra relazione fondamentale con le cose del mondo esterno non consistesse nel farle o nell’usarle, ma nella contemplazione immobile, chiusi in un tempo sospeso al di sopra d’una voragine che il pensiero non potrà perciò varcare. Il dilemma delle cose-in-sé, diviene, quindi, una specie di illusione ottica o falso problema, una specie di riflessione distorta su questa situazione geneticamente immobile che è il momento privilegiato della conoscenza borghese.

Tuttavia questa relazione statica con gli oggetti della conoscenza è essa stessa solo un riflesso della esperienza di vita della borghesia nella sfera socio-economica. Il rapporto dei borghesi con ciò che producono, le merci, le fabbriche, la stessa struttura del capitalismo, è un rapporto contemplativo, in quanto essi non sono consapevoli del fatto che il capitalismo è un fenomeno storico, essendo a sua volta risultato di forze storiche ed avendo insite in sé le possibilità del cambiamento o della trasformazione radicale. Essi possono capire tutto ciò che riguarda il proprio ambiente sociale (i suoi elementi, i suoi funzionamenti e le leggi implicite) ma non riescono a capirne la storicità: il loro razionalismo può assimilare ogni cosa tranne le questioni fondamentali che riguardano l’origine e lo scopo. In questo senso il capitalismo è a sua volta la prima cosa-in-sé e la contraddizione prioritaria che costituisce il fondamento di tutti gli altri suoi ulteriori dilemmi più particolari e più astratti,

Quando ci rivolgiamo alla coscienza di classe del lavoratore, a quelle che sono le nuove possibilità di pensiero insite nella struttura di un’epistemologia proletaria, evidentemente non basta asserire che le questioni filosofiche sono diverse, che non si pongano più i vecchi problemi e dilemmi. Ciò che Lukács deve dimostrare è che il pensiero proletario ha appunto la capacità di risolvere proprio quelle antinomie che il pensiero borghese non riesce per sua natura a risolvere. Egli deve dimostrare che c’è qualcosa nella struttura del pensiero proletario che permette l’accesso alla totalità o alla realtà, a quella conoscenza totalizzante che era il grande scoglio per la filosofia borghese classica; deve, quindi, sostituire il modello statico di conoscenza da cui traevano origine i dilemmi classici della borghesia. Egli deve scoprire qualcosa nella situazione esistenziale del proletariato che corrisponda, come realtà concreta, a quell’unione di soggetto e oggetto, di conoscente e conosciuto, che Hegel ha postulato come soluzione, nella sfera del pensiero puro, del problema kantiano delle cose-in-sé. Questa natura privilegiata della situazione del lavoratore consiste, paradossalmente, nei suoi limiti angusti ed inumani: il lavoratore non può conoscere il mondo esterno con sguardo statico e contemplativo, in un certo senso perché non può conoscerlo tutto, visto che la sua situazione non gli offre l’agio di «intuirlo», nel senso borghese; perché, prima ancora che possa proporsi elementi del mondo esterno come oggetti del suo pensiero, egli sente se stesso come oggetto, e questa sua iniziale alienazione interna, prende la precedenza su ogni altra cosa. Ma è proprio in questa terribile alienazione che consiste la forza della posizione del lavoratore: il suo primo movimento non va verso la conoscenza del lavoro, ma verso la conoscenza di sé come oggetto, verso l’auto-coscienza. Inoltre questa auto-coscienza, essendo inizialmente conoscenza di un oggetto (se stesso, il suo lavoro come merce, la sua forza vitale che egli è costretto a vendere), gli permette una più genuina conoscenza della natura mercificata del mondo esterno di quanta non ne sia concessa all’«obiettività» borghese. Infatti «la sua coscienza è l’auto-coscienza della mercanzia stessa, o, in altre parole, è l’auto-coscienza, o la rivelazione alla coscienza, della società capitalista basata sulla produzione di merci e sullo scambio»8.

In questo nuovo tipo di auto-coscienza sono impliciti tutti gli elementi per una soluzione di quei dilemmi epistemologici in cui si era invischiato il pensiero borghese. Sono le merci che strutturano la nostra relazione originale con gli oggetti del mondo, che danno forma alle categorie attraverso cui vediamo tutti gli altri oggetti. Tuttavia tali oggetti sono ambigui; essi mutano aspetto a seconda di cosa si evidenzia: se la loro natura oggettiva o la loro origine soggettiva. Perciò, per il borghese una merce sarà una solida cosa materiale la cui origine è relativamente insignificante, relativamente secondaria; la sua relazione con questo oggetto si ridurrà alla sola fruizione, o consumo. Il lavoratore, d’altro canto, considera il prodotto finito poco più che un momento nel processo di produzione; il suo atteggiamento verso il mondo esterno risulterà, perciò, significativamente modificato.

Infatti egli visualizzerà gli oggetti che lo circondano in termini di cambiamento, e non chiusi nel presente «naturale» senza tempo tipico dell’universo borghese (cui corrisponde l’esaltazione dell’uomo come universale). Inoltre, nella misura in cui il lavoratore conosce le relazioni reciproche tra utensili ed impianti di produzione, egli arriverà a vedere il mondo esterno non come una collezione di cose separate e senza relazioni di sorta, ma come una totalità in cui ogni cosa dipende da tutte le altre. Perciò, per entrambe le vie, egli giungerà a percepire la realtà come processo, e la reificazione in cui, per la borghesia, s’era congelato il mondo esterno, verrà sciolta. La relazione privilegiata con la realtà, la forma privilegiata di conoscenza del mondo non sarà più statica, contemplativa, né sarà più pura ragione o pensiero astratto, ma sarà quell’unione di pensiero ed azione che il marxismo chiama prassi, sarà attività consapevole di sé. A questo punto il problema kantiano della cosa in sé, del predicato dell’essere, è doppiamente risolto: innanzitutto, si scopre che l’essere è un’astrazione e che il considerarlo come fenomeno separato conduce necessariamente a delle antinomie nella misura in cui la realtà di base del mondo consiste nel divenire. E in secondo luogo, come già si può intravvedere nel sistema hegeliano, il mondo esterno, modificato dal lavoro umano e considerato ora come storia e non come natura, è della stessa sostanza della soggettività del lavoratore: la soggettività degli uomini può venire ora vista come il prodotto di quelle stesse forze sociali che creano le merci e quindi, in definitiva, l’intera realtà in cui gli uomini vivono.

D’ora innanzi Lukács, accettando la definizione di Lenin in Materialismo ed Empiriocriticismo, caratterizzerà il processo di conoscenza come un processo di rispecchiamento (Widerspiegelung) della realtà. Ma le varie polemiche a cui la cosiddetta teoria della conoscenza come rispecchiamento ha dato origine possono venire evitate vedendo in questa figura del discorso non tanto una teoria con tutte le carte in regola, quanto il segno di una teoria che deve ancora venire elaborata: «la scoperta del riflesso sta sempre ad indicare l’esistenza di un legame articolato tra per lo meno due sistemi di relazioni; la nozione di rispecchiamento a questo punto ha la funzione di una indicazione (‘segnale’) di questo legame articolato. Ma quando deve essere determinata la natura di questo legame … allora solo il concetto di processo è davvero operativo, vale a dire produttivo della conoscenza di tale legame»9. La figura del rispecchiamento del reale nel pensiero è, perciò, solo una specie di stenografia concettuale che serve a sottolineare la presenza di quella specie di operazione mentale che abbiamo altrove descritto come «tropo storico», vale a dire l’operazione del mettere in contatto l’una con l’altra due realtà distinte ed incommensurabili, una appartenente alla sovrastruttura e l’altra alla base, l’una culturale e l’altra socio-economica.

Possiamo ora trarre alcune conclusioni circa le implicazioni di Storia e coscienza di classe nei confronti dei problemi letterari di cui Lukács si era precedentemente occupato. È l’epistemologia, e la filosofia astratta in generale, che tende, per la propria logica interna, a ridurre il fenomeno del rispecchiamento ad una specie di immagine mentale statica più o meno adeguata alla realtà esterna. Quella che Lukács definisce come verità proletaria è, al contrario, il senso delle forze operanti nel presente, un disciogliersi della superficie reificata del presente entro la coesistenza di tendenze storiche, diverse tra di loro e conflittuali, una traduzione di oggetti immobili in atti o atti potenziali e nelle conseguenze degli stessi. Saremmo tentati di asserire che per il Lukács di Storia e coscienza di classe la soluzione definitiva del dilemma kantiano non va ricercata nei sistemi filosofici del diciannovesimo secolo, quindi nemmeno nel sistema hegeliano, quanto piuttosto nel romanzo del diciannovesimo secolo: infatti il processo che egli descrive non assomiglia tanto agli ideali della conoscenza scientifica quanto all’elaborazione della trama narrativa.

Pertanto, con la sua svalutazione della filosofia borghese, Storia e coscienza di classe pone le basi per quella differenziazione dell’esperienza estetica che Lukács elaborerà più dettagliatamente nell’Estetica10, opera nella quale viene valorizzata la narrazione in quanto dimensione che presuppone non la trascendenza dell’oggetto (come nella scienza) o quella del soggetto (come nell’etica), ma la neutralizzazione di entrambi, la loro riconciliazione reciproca, anticipando così nella propria struttura l’esperienza di vita di un mondo utopico.

Tuttavia, nella misura in cui la costruzione dell’Utopia non spetta più alla letteratura, ma piuttosto alla prassi e all’azione politica, l’intera struttura organizzativa di Teoria del romanzo deve venire riesaminata. Ora, infatti, alla visione nostalgica di una qualche età dell’oro in cui era ancora possibile una totalità epica, si sostituisce una visione della storia secondo la quale gli uomini appaiono già implicitamente riconciliati con il mondo circostante, in quanto quel mondo è il risultato del lavoro e dell’azione umana. Tuttavia anche il non riuscire a vedere attraverso ed oltre la superficie reificata del mondo esterno, è il risultato di un condizionamento storico: infatti, prima del diciannovesimo secolo, quando vennero poste le basi del capitalismo moderno nella forma dell’industrializzazione totale dell’ambiente e nella organizzazione mondiale del sistema di mercato, mancavano ancora molte delle condizioni che rendono possibile una comprensione genuinamente storica della vita. Bisognava, quindi, aspettare il diciannovesimo secolo perché ciò che era stato inteso (ed espresso) come un conflitto tra l’uomo e il destino o la natura, potesse venire narrato entro le categorie puramente umane e sociali di quello che Lukács chiamerà (d’ora innanzi) realismo.

III

Dopo Storia e coscienza di classe, perciò, non è più possibile un ritorno a quel tipo di deduzione hegeliana e tipologica delle strutture narrative possibili che era stata intrapresa nella Teoria del romanzo. Ora, al contrario, Lukács si propone il compito di esaminare le condizioni di possibilità di quelle opere che sono riuscite a «riflettere» la realtà sociale nella sua storicità, vale a dire, si propone di dare una spiegazione teorica all’esistenza di quelli che egli chiama i grandi realisti: Goethe, Scott, Balzac, Keller e Tolstoj. Che egli poi scivoli, in modo piuttosto discutibile, da un atteggiamento descrittivo ad uno prescrittivo ed attacchi gli scrittori moderni in nome di un modello a priori del realismo, non inficia questo punto di partenza, dove la parola realismo serve semplicemente a designare l’esistenza empirica di un concreto corpus di opere che si offrono ad una coerente esplorazione.

Senza dubbio il metodo più ovvio ed immediato cui si può ricorrere per caratterizzare gli elementi distintivi del realismo, consiste in una analisi del contenuto delle opere realistiche, ed in particolare della loro componente umana, cioè dei personaggi. Per Lukács i personaggi realistici si distinguono da quelli propri di altri tipi di letteratura per la loro tipicità: essi rappresentano, in altre parole, qualcosa di più ampio e più significativo di quanto non siano i loro destini singoli ed isolati. Essi sono individualità concrete, e tuttavia, al medesimo tempo, sono in relazione con qualche sostanza umana più generale e collettiva. La nozione di tipicità, che per la teoria letteraria occidentale è divenuta antiquata, se non addirittura sospetta, era già presente in quello che rappresenta il primo modello su larga scala della critica letteraria marxista, vale a dire l’assiduo scambio di lettere tra Marx, Engels e Lassalle, che aveva come argomento l’opera teatrale, Franz von Sickingen, di quest’ultimo. Tale scambio epistolare chiamava, perciò, esplicitamente, in causa il problema del dramma storico o dell’opera d’arte in generale nella sua dimensione storica; e la versione lukacsiana di questo problema è stata elaborata con grande respiro ne Il romanzo storico.

Infatti, anche se la sua rilevanza rispetto alle altre forme della letteratura può venire messa in discussione, è indiscutibile che l’opera storica, mirando esplicitamente a dare una immagine di un intero periodo storico, ha in se stessa uno standard in base al quale può venire giudicata; cosicché il problema di se i personaggi e la collocazione di un’opera storica siano adeguati al fine di riflettere la circostanza storica di fondo, acquista validità in quanto problema della stessa forma. Il problema è quello del ruolo che nell’opera d’arte giocano le due dimensioni dell’accidentale e del necessario. La libera volontà di rappresentare che il drammaturgo o il romanziere storico esercitano sulla struttura formale è estensibile al contenuto che egli (per libera scelta iniziale) si è assegnato come oggetto? Per Lassalle la tragedia di Sickingen (che egli considera emblematica della situazione tragica più generale della rivoluzione tedesca del 1848) consiste in una sfasatura morale ed intellettuale: il leader della prima rivolta contro i grandi prìncipi durante gli sconvolgimenti della Riforma tedesca è caduto a causa della sua inveterata mentalità politica e diplomatica, indulgente come fu in quanto uomo di stato, al fascino complicato della Realpolitik e degli intrighi tra i prìncipi, fino a perdere di vista le vitali energie rivoluzionarie generate dagli stessi fini rivoluzionari. La difesa che Lassalle fa del suo lavoro teatrale sembra a prima vista inconfutabile: questa era la tragedia che egli voleva scrivere, dice a Marx ed Engels, anche se avrebbe potuto sceglierne molte altre. Se avesse scelto di narrare la storia di Thomas Münzer, ammette, le stesse basi della situazione tragica sarebbero state totalmente diverse.

Ma per Marx ed Engels il dramma è difettoso perché la sfasatura sottolineata da Lassalle non è la causa vera della caduta di Sickingen. La causa non era solo morale, ma anche sociale: Sickingen non avrebbe mai potuto avere l’appoggio dei contadini rivoluzionari perché i suoi fini sociali di fondo erano assai diversi dai loro, avendo come mira non la liberazione della regione, ma il ripristino della piccola nobiltà soggetta al dominio dei grandi prìncipi e della chiesa. Pertanto, secondo Marx ed Engels la situazione tragica eli Sickingen era una situazione oggettiva e non aveva nulla a che vedere con le tormentose scelte morali consumate nella sua mente o con i magniloquenti atteggiamenti morali che il personaggio poteva assumere sulla scena. Essendo il dramma così com’è, il personaggio di Sickingen non giunge a porsi come tipico di un reale dilemma storico: la situazione del dramma, infatti, non fornisce un modello genuino delle forze operanti nel periodo in questione; e Marx ed Engels dimostrano come tutte le debolezze formali del dramma (i discorsi interminabili e le reminiscenze di Schiller piuttosto che di Shakespeare) siano il risultato di quella debolezza fondamentale che è l’inadeguatezza dell’opera alla sua materia prima. L’attualità di quest’analisi, come di quelle di Lukács ne Il romanzo storico, consiste nell’idea che la forma dell’opera dipende da una logica più profonda insita nella materia prima; la parola tipico serve ad indicare l’articolarsi di questa realtà di base, contenuto o sostanza dell’opera d’arte, in personaggi singoli.

Naturalmente questa categoria è stata bistrattata dalla pratica del marxismo volgare che consisteva nel ridurre i personaggi a mere allegorie delle forze sociali e nel trasformare i personaggi «tipici» in meri simboli di classe: il piccolo borghese, il controrivoluzionario, l’aristocratico agrario, l’intellettuale socialista utopico, e così di seguito. Sartre ha messo in luce che anche queste categorie sono idealistiche in quanto presuppongono che ci siano forme immutabili, idee eterne di stampo platonico, delle varie classi sociali: tali categorie trascurano proprio la storia e la nozione della specificità della situazione storica cui Lukács è sempre stato fedele nella sua critica.

Non possiamo qui esaminare gli aspetti più immediati ed interessanti dell’analisi lukacsiana dei tipi nel romanzo storico e in particolare la sua distinzione tra figure storiche d’importanza mondiale (vale a dire, i grandi nomi della storia, i Richelieu, i Cromwell o i Napoleoni) e le figure inventate, medie e relativamente anonime, che, ad esempio, Scott colloca al centro dei suoi romanzi. È sufficiente far rilevare che qui, come altrove, il metodo di Lukács è formale; in questo caso il metodo fa leva sulla distinzione tra le forme del dramma e quelle del romanzo e le corrispondenti differenze funzionali tra i personaggi di entrambe le forme. Le grandi figure storiche, i personaggi guida della storia (Macbeth, Wallenstein, Galileo), saranno le figure centrali del dramma poiché in questo modo la collisione drammatica sarà più concentrata ed intensa; mentre il romanzo, che mira ad una rappresentazione totale dello sfondo storico, può tollerare queste figure solo in ruoli episodici e secondari, perché è in questo modo, distante e di scorcio, che esse fanno parte della nostra vita ed esperienza di ogni giorno.

Ma le caratteristiche essenziali del tipico vanno ritrovate altrove: in particolare, si deve osservare che per Lukács il tipico non è mai una questione di precisione fotografica. In quel continuo confronto tra Balzac e Zola, su cui torneremo, egli fa notare che il carattere balzachiano, con la sua melodrammaticità, la sua esagerazione romantica e il suo aspetto grottesco irreale, riesce ad esprimere le sottostanti forze sociali ed è profondamente tipico, più di quanto non lo siano i caratteri schematici e stereotipi (il contadino ricco, il minatore, il proprietario della fabbrica, il negoziante e così via) di Zola, anche se questi ultimi potrebbero a prima vista apparire più consoni ai fini essenziali del realismo. È come se, nelle opere di Zola, l’idea, la teoria preconcetta, si frapponesse tra l’opera d’arte e la realtà da esibire: Zola sa già quale sia la struttura organica della società; e questa è la sua debolezza. Per lui la materia prima fondamentale, le professioni, i tipi di caratteri socialmente determinati, sono già stabiliti in anticipo: questo equivale a dire che si è lasciato vincere dalla tentazione del pensiero astratto, dal miraggio di una conoscenza statica, oggettiva della società. Egli ha implicitamente ammesso la superiorità del positivismo e della scienza sulla pura immaginazione. Ma dal punto di vista di Lukács, secondo il quale la narrazione è la categoria fondamentale e la conoscenza astratta soltanto un suo surrogato, questo vuol dire che il romanzo, nelle mani di Zola, ha smesso di essere lo strumento privilegiato per l’analisi della realtà ed è stato declassato a mera illustrazione di una tesi.

Balzac, invece, non sa in anticipo quello che scoprirà. La Prefazione a La Comédie humaine dimostra che egli si propone di costruire una tipologia, una ampia zoologia della società umana, ma che le energie dell’opera vengono messe in moto dall’idea di un metodo, piuttosto che dalla scoperta anticipata di una specie di tavola degli elementi fondamentali. Inoltre, la sensibilità di Balzac per la storicità e per il mutamento storico è così intensa che egli non riuscirebbe ad immaginare un archetipo fisso dei tipi sociali, ad esempio del piccolo borghese: nella sua opera infatti il piccolo borghese è sempre caratteristico di un dato periodo, di un dato decennio, e in costante evoluzione nel suo stile d’abbigliamento, nei suoi mobili, nel suo linguaggio e nella mentalità, dai tempi di Napoleone agli ultimi anni di Luigi Filippo. Pertanto, un carattere di Balzac non è tipico di un qualsiasi genere di elemento sociale fisso, come una classe, ma piuttosto del momento storico stesso; e con ciò i toni più carichi e più schematici od allegorici della nozione di tipicità svaniscono completamente. Il tipico, a questo punto, non è una relazione biunivoca tra i singoli personaggi nell’opera (Nucingen, Hulot) e le componenti fisse e stabili del mondo esterno (finanza, aristocrazia, nobiltà d’origine napoleonica), ma rappresenta piuttosto una analogia tra l’intera trama, come conflitto di forze, e il momento globale della storia, quando venga considerato come un processo.

A questo punto si dovrebbe forse osservare che l’intera discussione sul contenuto delle opere d’arte è in realtà una discussione formale. Se siamo partiti avendo l’aria di voler discutere del contenuto è stato a causa della natura del romanzo o del dramma storico, nella cui struttura è mantenuta una costituzionale distinzione tra forma e contenuto. Infatti, mentre il romanzo ordinario dà l’impressione d’offrirsi a una lettura del tutto disimpegnata, di essere un’opera autosufficiente che non ha bisogno di nessun oggetto o modello nel mondo esterno, il romanzo storico è sempre caratterizzato da come afferra questo modello, questa realtà esterna, che mentre leggiamo abbiamo sempre davanti agli occhi. Anche se noi non abbiamo alcun interesse intellettuale per l’esattezza storica delle rappresentazioni del Medioevo di Scott o della Cartagine di Flaubert, non possiamo fare a meno di intuire questa realtà esterna, non possiamo fare a meno di intenderla come oggetto reale (in senso husserliano), e non ha importanza se questo avviene in modo vago e carente; la stessa struttura del nostro leggere un romanzo storico comporta un esame comparativo, implica una sorta di giudizio di realtà.

Pertanto, quando ci volgiamo da questa forma specializzata al romanzo realistico in generale, possiamo riformulare tale questione in termini puramente formali: ma, in questi termini, gli elementi umani dell’opera, i personaggi, divengono materia prima al pari di qualsiasi altro elemento, come, ad esempio, la materiale messa in opera del libro, e infine la nozione di tipico, non più coerente con questo punto di vista formale più generale, lascia il campo libero ad un altro tipo di terminologia. Qui, la caratteristica principale del realismo letterario viene vista nella sua qualità antisimbolica: il realismo stesso viene contraddistinto dal suo movimento, dalla narrazione e dalla drammatizzazione del contenuto; viene caratterizzato, come dice il titolo di uno dei più raffinati saggi lukacsiani, dall’essere narrazione piuttosto che descrizione.

È forse più semplice cominciare con la parte negativa della definizione, con quella ostile diagnosi del simbolismo che si presenterà come una costante lungo tutta la carriera di Lukács: per lui il simbolismo non è solo una tecnica letteraria tra le altre, ma rappresenta un modo di percepire il mondo qualitativamente diverso da quello realistico. Il simbolismo, potremmo dire, è qualitativamente un’espressione di second’ordine, rappresenta sempre l’ammissione, da parte del romanziere, di una sconfitta; infatti, col far ricorso ad esso lo scrittore ammette che v’è un significato originario, oggettivo, negli oggetti, che gli risulta inaccessibile, ammette di dover inventare un significato nuovo e fittizio per nascondere quest’assenza di fondo, questo silenzio delle cose. Il simbolismo, naturalmente, non è tanto un prodotto dell’estetica personale dello scrittore, quanto della stessa situazione storica: originariamente tutti gli oggetti hanno un significato umano. Persino la natura stessa è umanizzata dal modo in cui l’uomo la trasforma in propria dimora e la piega ai propri bisogni (così il suolo roccioso e sterile della Grecia viene rivoltato come un guanto e reso da ostile amico mediante una economia che si adatta ad esso con la navigazione, il commercio e la produzione artigianale). Questa originaria significatività degli oggetti diviene visibile solo nella misura in cui il loro legame con il lavoro umano e la produzione non sia occultato. Ma nella moderna civiltà industriale è un legame difficile da trovare: gli oggetti sembrano condurre una vita propria, indipendente, ed è proprio questa illusione che sta all’origine del fare simbolico. In Zola la miniera viene sentita come una belva divoratrice di carne umana che sovrasta come un incubo l’intero paesaggio. In Joyce, l’ufficio nel giornale ha l’apparenza di una caverna dei venti: quale che sia il significato storico e realistico che possiede, tale significato sembra esser divenuto troppo scialbo e prosaico per l’opera d’arte. I mobili in The Spoils of Poynton, le città brulicanti e tetre di Dickens e Dostoyevskj, il paesaggio moralmente espressivo di Gide o D. H. Lawrence sono, nell’opera d’arte, elementi auto-sufficienti e dotati di significato autonomo. Persino gli oggetti neutrali di un Robbe-Grillet sono il risultato di questo processo di simbolizzazione: infatti anch’essi rispondono, ma col silenzio, e l’occhio continua a cercarli per qualche schema ossessivo che li circonda, per trovarvi un’immediata comprensibilità visiva, che rimane per sempre in dubbio.

Pertanto il simbolismo non è il risultato delle proprietà delle cose stesse, ma della volontà del creatore, che d’autorità impone alle cose un significato: si è in presenza del vano tentativo della soggettività di elaborare un mondo umano al di fuori di sé ma trovandone in se stessa la struttura. In questo, è molto meglio la precedente etica borghese dell’imperativo morale, dell’ideale o Sollen, che Lukács critica nella Teoria del romanzo. Nelle opere d’arte simboliche vi e lo sforzo di raggiungere qualche relazione, che sia dotata di significato, con il mondo esterno, con la realtà oggettiva, per ritrovarsi con le mani vuote, avendo trascorso la vita in mezzo ad ombre, non essendo riusciti ad attingere null’altro che noi stessi nel mondo che ci circonda.

Questo è forse il momento di fare qualche commento sul ripudio dell’arte moderna e del modernismo in generale che è implicito in questa idea di Lukács. Ne Il Castello di Kafka, dopo che uno dei personaggi ha dimostrato a K. che tutte le sue azioni possono venire interpretate in un modo del tutto diverso e sotto una luce molto più sfavorevole, l’eroe replica: «Quello che tu hai detto non è falso: è ostile». Questo potrebbe essere il motto atto a caratterizzare le osservazioni di Lukács sull’arte moderna. Esse sono sia diagnosi che giudizi: tuttavia l’intera dimensione del giudizio è ambigua, perché presuppone che lo scrittore moderno abbia avuto qualche possibilità di scelta e che il suo destino non sia già stato segnato dalla logica del momento storico in cui vive. La stessa ambiguità è visibile anche nella teoria rivoluzionaria marxista, dove la rivoluzione non può scoppiare fino a che non siano mature le sue condizioni oggettive, ma dove, nel medesimo tempo, Lenin può apparentemente forzare queste condizioni sulla base di una scelta di volontà e può fare una rivoluzione proletaria prima che la precedente rivoluzione borghese abbia terminato il suo corso.

Pertanto, se tralasciamo quella parte dell’opera di Lukács che comprende una serie di raccomandazioni rivolte all’artista (e che è resa problematica dal fatto che qui Lukács si rivolge contemporaneamente a un duplice pubblico – gli scrittori del realismo socialista e i «realisti critici» dell’occidente), scopriamo che la sua analisi del modernismo si basa su di un avvenimento fondamentale per l’arte moderna: vale a dire, sull’osservazione di un salto di qualità che si è verificato in epoca recente e che ha dato origine ad una differenza incolmabile tra quella che è la letteratura dei nostri giorni, che ha avuto origine ai tempi di Baudelaire e Flaubert, e la letteratura classica precedente. Senza dubbio, a seconda dell’ampiezza delle nostre lenti storiche, il taglio può venire spostato indietro, forse verso l’inizio del diciannovesimo secolo, al periodo della rivoluzione francese e del romanticismo tedesco. A questo riguardo è significativo che l’atteggiamento di Lukács riproduca quasi esattamente quello di Goethe ed Hegel verso il Romanticismo. Il Classicismo è una cosa sana, ha detto Goethe, il Romanticismo è una cosa malata. Ed Hegel ha criticato il soggettivismo del romanticismo per lo più usando gli stessi termini che Lukács riserva ai moderni. Il giudizio è quello inevitabile che una filosofia del concreto deve passare sull’astratto; e si dovrebbe aggiungere che molto spesso è proprio da un punto di vista antiquato e persino reazionario (si pensi a Yvor Winters e allo stesso Edmund Burke) che vengono fatte le analisi più penetranti del presente. Il vantaggio che ha Lukács sui teorici più apologetici del moderno consiste nella forma di pensiero, volto alla comparazione ed alla differenziazione, che gli è propria. Egli non è immerso nel fenomeno moderno né si è consegnato completamente nelle mani dei valori fondamentali di tale fenomeno, ma riesce a vederlo attraverso occhi distanti: può definirlo e segnare i confini entro cui è circoscritto in quanto momento storico, distinguendolo da ciò che esso storicamente non è; tuttavia questa comparazione implicherà sempre, per la sua stessa struttura, un giudizio da un punto di partenza più arretrato.

A questo punto si dovrebbe osservare che la critica di Lukács all’arte moderna era già implicita nella stessa Teoria del romanzo. Abbiamo mostrato come i quattro capitoli tipologici di quest’ultima si dividessero in due gruppi: il primo (sui due tipi base) coglieva la relazione dell’uomo con il mondo in modo metafisico, il secondo (su Goethe e Tolstoj), vedeva tale relazione in termini sociali o storici. Non era certo dovuto ad un puro caso che i primi due capitoli fossero così ricchi di suggestioni ed indicazioni sull’arte moderna: infatti l’arte moderna o simbolica è caratterizzata proprio dal suo modo astorico, metafisico di considerare la vita umana nel mondo. La distinzione tra realismo e arte simbolica moderna era, pertanto, già presente nel passaggio ad un romanzo che percepiva la realtà, e l’ambiente umano, in termini di storia umana. Così, per una specie di deviazione, troviamo che la metodologia di fondo del primo periodo, la separazione tra anima e mondo, significato e vita, mantiene la sua vitalità negli scritti successivi: è diventata un motivo sotterraneo e, pur avendo Lukács abbandonato la nota terminologia hegeliana, continuerà ad informare la sua distinzione tra simbolismo e realismo, tra una sintesi puramente volontaristica di significato e vita e una sintesi che sia in qualche misura presente in modo concreto nella stessa situazione storica.

Per Lukács, comunque, la forma simbolica è solo un sintomo di una forma di comprensione sottostante e più profonda che egli chiamerà descrizione, riferendosi con ciò a un modo statico e contemplante di considerare la vita e l’esperienza che è l’equivalente letterario dell’atteggiamento oggettivo borghese in filosofia. Infatti, la forma realistica, la stessa possibilità della narrazione, si ha solo in quei momenti della storia in cui la vita umana può venire percepita in termini di confronti e drammi individuali e concreti, in quei momenti in cui la storia e le trame individuali possono far da veicolo all’espressione di qualche verità più profonda e generale. Ma questi momenti son divenuti abbastanza rari nei tempi moderni, mentre sono più frequenti altri momenti in cui sembra che non accada nulla di reale, e la vita viene sentita come un’attesa senza fine, una perpetua frustrazione dell’ideale (Flaubert): quando la sola realtà dell’esistenza umana sembra essere la cieca routine e l’ingrato lavoro quotidiano, sempre uguale a se stesso giorno dopo giorno (Zola); quando, infine, la stessa possibilità che accada qualcosa sembra scomparsa e lo scrittore pare riconciliarsi ad una struttura in cui la verità della singola giornata può rappresentare il microcosmo della vita (Joyce). In queste situazioni storiche, persino quando l’opera letteraria sembra violenta ed agitata, queste esplosioni, ad un più attento esame, mostrano d’essere pure imitazioni degli eventi, pseudoeventi creati arbitrariamente dal romanziere, che non riesce a trovare nulla da dire sul flusso incolore dell’esperienza reale. Infatti, il melodramma (si pensi a Zola) è uno degli espedienti principali di cui la letteratura moderna si è servita per cercare di dissimulare le sue contraddizioni: lo scontro violento tra unità collettive (la plebaglia in Germinale, i barbari in Salammbô) o tra bene assoluto e male assoluto, nasconde l’assenza di qualsiasi genuina interrelazione umana a livello individuale, nella esperienza vissuta individuale. E quando l’arte moderna assume risolutamente questa situazione, essa abbandona interamente la trama, rinuncia alla narrazione nel vecchio senso e cerca di trasformare in forza la sua debolezza di fondo.

Perciò la descrizione, come forma dominante di rappresentazione, è il segno del crollo di una relazione vitale con l’azione e con la possibilità dell’azione. Lukács confronta la corsa dei cavalli in Nana di Zola con l’episodio simile in Anna Karenina. Il primo è un brillante pezzo convenzionale osservato dall’esterno che non ha nulla a che fare con i destini dei personaggi. Nel secondo, i personaggi sono appassionatamente coinvolti: non sono necessarie prolisse descrizioni esterne perché noi sentiamo l’intensità dell’evento non per mezzo della contemplazione visiva, ma attraverso le speranze e le aspettative dei personaggi. La descrizione ha inizio quando le cose esterne vengono sentite come alienate dall’attività umana e come statiche cose-in-sé, ma raggiunge il suo punto culminante quando persino gli esseri umani che popolano questi scenari senza vita si disumanizzano, divengono strumenti inerti, puri oggetti in movimento che devono venire rappresentati dall’esterno.

Lukács spiega i momenti realistici, genuinamente narrativi, della letteratura, in due modi: attraverso la situazione e gli atteggiamenti personali degli scrittori, e attraverso la loro situazione storica oggettiva. L’analisi delle condizioni soggettive che rendono possibile il realismo forma un parallelo con l’analisi in Storia e coscienza di classe, delle condizioni che rendono possibile la conoscenza della totalità, sebbene sul piano letterario la spiegazione possa sembrare relativamente semplicistica: i grandi realisti, ci dice Lukács, sono quelli che in qualche modo partecipano pienamente alla vita dei propri tempi, che non sono solo osservatori, ma anche attori «impegnati», in un senso molto meno limitato e politico di quello implicito nell’uso sartriano di «impegnato». Tuttavia, nei suoi esempi di impegno, Lukács porta il suo materialismo fino alle estreme, e persino paradossali, conclusioni: se è la struttura materiale, la situazione sociale che ha il diritto di precedenza sulla mera opinione, sull’ideologia, sull’idea soggettiva che uno si fa di se stesso, allora noi possiamo essere portati a concludere che in certe circostanze un conservatore, un realista, un cattolico credente, potrebbero comprendere le genuine forze operanti nella società meglio di uno scrittore di tendenze socialiste. Qui sta la forza del paragone di Lukács tra Balzac e Zola. Potrebbe sembrare velleitario e provocatorio sostenere che il campione di Dreyfus era staccato dai problemi fondamentali del suo tempo; tuttavia, persino uno scrittore così poco politico come Henry James ha acutamente osservato che non solo l’impegno politico di Zola è nato dopo che era finita la sua carriera creativa nella letteratura, quasi si trattasse di un sostituto di quest’ultima, ma anche che in esso si riflette un senso di fastidio o di insoddisfazione, che ha le sue radici nella vita privata dello scrittore, come la sensazione di non essere mai riuscito ad afferrare realmente qualche esperienza genuina. E non si possono avere dubbi sul fatto che i metodi di lavoro di Zola (una specie di divisione razionalistica del lavoro, la scelta del tema che precede la scelta dei personaggi, l’accuratezza di documentazione e note sull’ambiente, una visita sul posto, e così via) siano quelli dell’osservatore esterno piuttosto che quella di chi partecipa con l’immaginazione. Mentre Balzac, con tutta la sua critica intellettuale e morale di quell’epoca borghese, della corruzione mondana della monarchia di Luglio, visse fino all’estremo, fin dentro le sue passioni esistenziali, le ambizioni di fondo del proprio tempo, con i suoi sogni di ricchezze estratte dalle miniere d’argento della Sardegna, di una rapida fortuna costruita sul teatro, collezionando febrilmente tesori posticci, arredando una casa dopo l’altra, desiderando la sicurezza definitiva del proprietario terriero – e scoprendo infine le forze trainanti del suo momento storico già radicate in sé: senza dunque aver bisogno di osservarle in altri, dall’esterno. Senza dubbio è inutile proporre questa vita come un modello per lo scrittore realistico, come Lukács qualche volta sembra fare, ma si dovrebbe far rilevare che nuove analisi psicologiche, del tipo di quelle di Sartre su Flaubert, sono soltanto dei ritocchi a questo modello di base ottenuti grazie alle tecniche psicoanalitiche. In base ad esse, la pratica formale di Flaubert viene considerata un riflesso del suo distacco dalle possibilità dell’azione vissuta, nella sua situazione di secondogenito a cui siano stati negati i pieni traguardi pratici della vita borghese.

Ma questa disposizione soggettiva dello scrittore realista è solo l’inverso delle possibilità oggettive della situazione storica in cui vive e che la sua opera riflette. È stata la fortuna storica di Balzac l’aver potuto essere testimone non del successivo, pienamente sviluppato capitalismo del tempo di Flaubert e Zola, ma degli stessi esordi del capitalismo in Francia; di essere stato contemporaneo ad una trasformazione sociale che gli ha permesso di vedere gli oggetti non come sostanze materiali finite, ma come prodotti dell’attività umana; di aver potuto recepire il cambiamento sociale come una rete di storie individuali. Possiamo drammatizzare tutto questo dicendo che in Balzac le fabbriche in quanto tali non esistono ancora, che non vediamo i prodotti finiti, ma gli sforzi dei grandi capitalisti e degli inventori per costruirle. La realtà sociale ed economica è ancora relativamente trasparente, il risultato dell’attività umana è ancora visibile ad occhio nudo. Ma la sola fabbrica presente nelle opere di Flaubert è poi quel laboratorio di ceramica che è solo una fase di passaggio nella carriera alterna di Arnoux; ed è un luogo attraverso cui Frédéric passa con fastidio infinito attento solo agli occhi e alle mani di Madame Arnoux che pazientemente spiega il meccanismo della produzione («Ce sont les patouillards», ella dice. Egli trovò la parola grottesca, del tutto inadatta ad esser pronunziata dalle sue labbra»). Come Frédéric, anche Flaubert è condannato dalla sua situazione storica a vivere un monotono turismo tra monumenti industriali che per lui non vogliono dire nulla. E, come si è già visto, quando Zola cerca di soffiare della vita dentro questa esistenza intollerabilmente inerte, può far ricorso solo al mito e alla violenza melodrammatica.

Pertanto, il realismo dipende dalla possibilità di accesso alle forze che provocano il mutamento in un dato momento storico. Al tempo di Balzac, tali forze erano quelle dell’inizio del capitalismo; ma la natura delle forze non è poi così importante: infatti, in altra situazione, la vitalità letteraria di Tolstoj è resa possibile dall’emergenza, nella società russa, della classe dei contadini, con cui egli si identifica in modo utopico e religioso, ma la cui presenza gli dà una forza che resta preclusa agli scrittori occidentali a lui contemporanei. (Anche qui, andrebbe osservato che l’analisi è ancora sostanzialmente quella della Teoria del romanzo; tranne per il fatto che alla formulazione relativamente metafisica di una natura originaria nell’ambiente di Tolstoj, Lukács qui sostituisce la realtà sociale, vale a dire sostituisce la classe dei contadini all’ideale della natura e della vita naturale).

Pertanto, quell’ideale del concreto, che nella Teoria del romanzo era presente come volontà di ripristinare la narrazione epica, resta tale e quale nella teoria del realismo, in cui si dimostra – nello spirito di Storia e coscienza di classe – che tale ideale, come, d’altro canto, la stessa prassi rivoluzionaria, dipende da quei momenti storici privilegiati in cui è nuovamente possibile scoprire un modo nuovo di immettersi nella società come totalità. Nel medesimo tempo, la valorizzazione della narrazione, che è qui implicita, sottolinea una preoccupazione che diventa sempre più centrale per tutte le scuole del pensiero moderno. Infatti, indagando attraverso una rigorosa selezione condotta sugli ultimi studi di filosofia della storia da un punto di vista analitico, un filosofo americano ha dimostrato che persino la storiografia cosiddetta scientifica ha una struttura essenzialmente narrativa11 ; mentre linguisti come A. J. Greimas hanno rafforzato questo tipo di interessi presenti nella loro sfera analizzando tutti i tipi di materiali verbali, e persino le argomentazioni filosofiche astratte, in termini di un modello narrativo che non è altro che il meccanismo centrale dell’enunciato in quanto tale12. L’opera di Lukács, comunque, fornisce un’ossatura teorica per queste osservazioni essenzialmente empiriche, insistendo sulla relazione tra narrazione e totalità: ciò conferma l’opinione di un esperto della levatura di Martin Heidegger che nel marxismo ha visto non solo una teoria puramente politica od economica, ma soprattutto un’ontologia ed un modo originale per ristabilire la nostra relazione con l’essere13. Ma di tale apertura sull’essere, ora concepito come sostanza sociale e storica, la narrazione è sia il segno formale che l’espressione concreta.

1 Susan Sontag: «Anch’io sono propensa a concedere a Lukács il beneficio del dubbio, se non altro per esprimere con ciò la mia protesta contro la sterilità della Guerra Fredda che ha reso impossibile negli ultimi dieci anni, se non per un periodo di tempo più lungo, una seria discussione sul marxismo. Resta però il fatto che noi possiamo essere generosi verso l’‘ultimo’ Lukács solo a costo di non prenderlo sul serio e di considerare il suo fervore morale come un fatto estetico, come una faccenda di stile e non come un’idea…» (Against Interpretation, New York, 1966, p. 87). Adorno: «La persona Lukács è al di sopra di ogni sospetto. Ma la struttura concettuale a cui egli sacrifica l’intelletto è così angusta da soffocare tutto ciò che per vivere ha bisogno di esprimersi liberamente: il sacrifizio dell’intelletto ([N.d.T.] in italiano nel testo) certo non lascia quest’ultimo indenne…» (Noten zu Literatur, 3 voll., Francoforte, 1958-1965, II, p. 154). George Steiner: «Il tedesco è la lingua principale di Lukács, ma egli ha usato questa lingua in modo sgradevole. Il suo stile è quello di un esiliato; egli, infatti, non ha più la padronanza della lingua viva» (Language and Silence, Londra, 1969, p. 295).

2 Lettera a Starkenburg, 25 gennaio 1894, Marx-Engels, Basic Writings on Politics and Philosophy, Ed. L. Feuer, New York, 1965, p. 411.

3 «Ciò di cui l’uomo ha bisogno per la sua vita esterna – casa, tenda, sedia, letto, arma bianca, nave con cui attraversare l’oceano, carro da combattimento, il cucinare, l’uccidere, il mangiate e il bere – non deve essere divenuto semplicemente una serie di mezzi morti da usare per un fine; egli deve sentirsi ancora vivo in tutte queste cose con l’interezza del suo essere di modo che a ciò che è meramente esterno venga dato, mediante la stretta connessione con l’essere umano, un carattere singolo di ispirazione umana» (Hegel, Aesthetik, 2 voll., Francoforte, 1955, II, p. 414, citato in Lukács, Studies in European Realism, New York, 1964, p. 155). Vedi anche la sezione sul «mondo della prosa» citata più oltre, pp. 352-354. Infatti, le sezioni dell’Estetica di Hegel che più ci interessano come lettori moderni sono non tanto quelle che descrivono la struttura epica in quanto tale, ma quelle che direttamente o per implicazione mostrano cos’è che nel mondo moderno esclude a priori quel tipo di interezza. Noi leggiamo Hegel negativamente piuttosto che positivamente e La Teoria del romanzo di Lukács altro non è che la continuazione logica dell’estetica hegeliana dopo la morte dello Spirito Assoluto. Hegel, quindi, è ancora oggi estremamente attuale, come ben si può vedere dal seguente passo: «Le macchine e le fabbriche di oggigiorno, assieme ai prodotti che ci danno e in generale ai mezzi che anualmente usiamo per soddisfare i nostri bisogni esterni sono – esattamente come la moderna organizzazione dello stato – in certo qual senso stonati rispetto al background da cui nasce l’epica vera e propria».

4 Georg Lukács, Theories des Romans, Neuwied, 1962, p. 87. In questo senso il libro di Lukács può venire visto come un’applicazione delle categorie dell’analisi sociale weberiana alle strutture della trama in quanto quest’ultime rispondono ad una caratteristica dialettica weberiana tra l’attività umana e quel significato essenziale che non può più essere ad essa immanente, ma anzi la trascende ed è staccato dal mondo, se non è addirittura, come nel caso della burocrazia e del mondo secolarizzato (entzauberte) assente: queste analisi, come le analisi weberiane, sfociano, come nel proprio naturale completamento, in una tipologia.

5 La teoria di Lucien Goldmann dell’eroe problematico, che mette in luce questo aspetto del contenuto del romanzo a spese di altri, più formali, elementi, mi sembra di gran lunga più angusta dell’idea di Lukács che l’ha ispirata.

6 Theories des Romans, p. 90.

7 «Il mondo della società civile certamente è stato fatto dagli uomini… i suoi principi, pertanto vanno ricercati nelle modificazioni della nostra mente umana stessa. Chiunque rifletta su questo può solo stupirsi del fatto che i filosofi abbiano speso tutte le proprie energie nello studio del mondo della natura che, essendo stato fatto da Dio, da esso soltanto può venire conosciuto; e meravigliarsi del fatto che essi abbiano trascurato lo studio delle nazioni, o mondo civile, che, essendo stato fatto dagli uomini, da essi soltanto può venire conosciuto» (Giambattista Vico, The New Science, trad. T. G. Bergin e M. H. Fisch, Ithaca-New York, 1968, p. 96). Vedi anche Erich Auerbach, «Vico and Aesthetic Historicism», in Scenes from the Drama of European Literature, New York, 1959.

8 Geokg Lukács, Histoire et conscience de classe, Parigi, 1960, p. 210.

9 J. L. Houdebine, «Sur une lecture de Lénine», in Tel Quel: Théorie d’ensemble, Parigi, 1968, pp. 295-296.

10 Ma già delineato in precedenza in «Subject-Object Relationship in Art», Logos, VII, 1917-1918, pp. 1-39.

11 «Mi sembra che ci siano delle buone ragioni tanto a sostegno della tesi che noi possiamo ricostruire una spiegazione ‘scientifica’ in forma narrativa, quanto della tesi opposta, e non credo che un resoconto in forma narrativa perda la forza esplicativa dell’originale» (Arthur C. Danto, Analytical Philosophy of History, Cambridge, Inghilterra, 1965, p. 237).

12 A. J. Greimas, Sémantique structurale, Parigi, 1966, pp. 173-191.

13 Heidegger, Brief über den Humanismus, Francoforte, 1947, p. 27. L’Ontologia che Lukács aveva progettato è descritta nel suo Colloquio (Gespräche) con Holz, Kafler e Abendroth (Amburgo, 1967).

Appunti su Lukács , Adorno e la filosofia classica tedesca

05 venerdì Set 2014

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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Adorno, Bloch, concetto, Croce, eticità, Fichte, Hegel, individuo, intelletto, Jacobi, Kant, Lukacs, particolarità, ragione, Schelling, singolare, totalità, universale


di Nicolae Tertulian

da Il marxismo della maturità di Lukács, a c. di G. Oldrini, Prismi, Napoli 1983.

1. Al libro di György Lukács sul Giovane Hegel si può guardare in parecchi modi. Lo si può prendere in considerazione esclusivamente come un libro di storia della filosofia e ci si può interrogare, in questa prospettiva, sulla fondatezza del suo metodo. Ci si può domandare, a esempio, se il ruolo decisivo nella genesi della dialettica hegeliana vada attribuito, come fa Lukács, alla scoperta progressiva da parte di Hegel delle contraddizioni della società borghese, che veniva prendendo corpo sotto i suoi occhi, e soprattutto alla rivelazione dei fatti economici su cui quella società era fondata. La novità della prospettiva lukacsiana, dovuta alla sua insistenza sul ruolo delle concezioni economiche di Hegel nella genesi del suo pensiero dialettico, ha provocato fin dall’inizio potenti reazioni di rigetto. Prendendo conoscenza, alla sua comparsa, del libro di Lukács (il cui sottotitolo è «Sui rapporti tra dialettica e economia»), Benedetto Croce, a esempio, in un impeto di cattivo umore, non esitava a denunciare quelle che definiva le «elucubrazioni» del «noto marxista ungaro-russo Lukács»1 (ma non abbiamo prova alcuna che Croce si sia deciso a leggere effettivamente il libro sul Giovane Hegel; si può supporre che, una volta riscontrata l’idea chiave del libro, si sia rifiutato di leggerlo).

Anche l’energia con cui Lukács si è adoperato per ribaltare l’interpretazione data agli scritti del giovane Hegel da Dilthey e, più tardi, da Haering, interpretazione nel senso della Lebensphilosophie (filosofia della vita), la violenza della sua polemica contro questi pensatori, ma soprattutto il carattere estremamente partigiano della sua tesi di un giovane Hegel eminentemente politico, il cui intento di elaborare una nuova religione sarebbe stato alimentato nel periodo di Berna, sotto l’influsso della Rivoluzione francese, da un pathos repubblicano e democratico-rivoluzionario, non hanno mancato di sollevare obiezioni. Numerosi commentatori hanno trovato eccessiva la refutazione lukacsiana di un «periodo teologico» del giovane Hegel e soprattutto l’accento unilaterale posto sull’ostilità del giovane Hegel verso il cristianesimo, senza tener conto dell’interesse appassionato del pensatore per la forma originaria di questa religione e per la figura di Gesù. Si potrebbe citare qui il libro di Günter Rohrmoser, Subjektivität und Verdinglichung, ma, come reazione contro il radicalismo partigiano delle tesi di Lukács, ci sembra più caratteristica la veemente presa di posizione del libro di Adrien Peperzak, Le jeune Hegel et la vision morale du monde, libro che, paradossalmente, nel suo procedimento essenziale, non si allontana poi così tanto dalla ricostruzione lukacsiana dello sviluppo del giovane Hegel. Peperzak rimprovera a Lukács di «ridurre in Hegel la religione a politica», di tacere «il più possibile della problematica religiosa del giovane Hegel», di non far menzione una sola volta, nel suo grosso lavoro, dell’«estesa» Vita di Gesù scritta da Hegel a Berna, per poi concludere in modo assai drastico: «Ma Lukács stende su tutta questa malafede e questo suo metodo vergognoso un velo di erudizione accecante, che può impressionare il lettore non avvertito»2.

Quand’anche si sia d’accordo, su punti molto specifici, con le obiezioni di Peperzak (è realmente sorprendente che l’autore del Giovane Hegel non faccia mai menzione della Vita di Gesù), non c’è dubbio, a nostro avviso, che l’«erudizione accecante» di Lukács svolge tutt’altra funzione che quella di tentare di dar credibilità a una tesi insostenibile. La verità è che col suo libro Lukács ha sconvolto l’interpretazione tradizionale dell’opera di Hegel e ha contribuito ad ampliare in modo sensibile la sfera delle ricerche hegeliane: mettendo in rilievo la ricchezza e la complessità dei rapporti di Hegel con la realtà economica e sociale del suo tempo, valorizzando con una analisi scrupolosissima tutti i testi che vanno in questa direzione, egli ha gettato una luce del tutto nuova sulla genesi della dialettica hegeliana.

Con uno sforzo analitico impressionante, Lukács ha cercato di dimostrare, nel capitolo sul periodo francofortese del giovane Hegel (1797-1800), che ad acuire il senso di Hegel per la contraddizione come motrice dello sviluppo storico sarebbero stati i suoi contatti a tentoni con le contraddizioni della società borghese cristallizzata della fine del sec. XVIII, la tensione provata di fronte alla «morta oggettività» (al carattere reificato) dei rapporti tra gli uomini esistenti all’interno di questa società. La concezione della relazione soggetto-oggetto, coscienza-realtà, sarebbe divenuta molto più duttile e dialettica grazie alla penetrazione nel «letame» delle contraddizioni proprie al nuovo tipo di società. Certo, il tipo di ermeneutica sociologica proposta da Lukács riposa su un insieme di nessi stabiliti tra la concatenazione dei concetti hegeliani e la infrastruttura storico-sociale che l’interprete decifra in filigrana. È così che nelle contraddizioni presenti negli scritti hegeliani del periodo di Francoforte tra la «molteplicità» degli essere finiti e l’aspirazione all’unità, tra la «separazione» (Trennung) o l’«opposizione» (Entgegensetzung) di questi esseri e la forza unificante dell’amore, tra la mortificazione prodotta dalla sottomissione alla materia e la rigenerazione grazie sempre alla potenza vivificante dell’amore, Lukács vede riprodursi la contraddizione centrale vissuta allora da Hegel: quella tra la «positività» (la forza alienante) dei nuovi rapporti sociali instaurati dal dominio della borghesia e l’aspirazione irreprimibile del filosofo verso l’uomo integrale.

Ma al libro sul Giovane Hegel si può guardare da un angolo prospettico diverso rispetto a quello dello storico della filosofia classica tedesca, interessato anzitutto all’esattezza della ricostruzione lukacsiana dell’evoluzione del giovane Hegel. Seguendo i meandri complicati del percorso filosofico descritto da Lukács, il suo itinerario attraverso i rapporti tra i principali protagonisti della filosofia dell’epoca (Kant, Fichte, Schelling, Hegel, Jacobi, Schleiermacher), ci si rende conto che si ha a che fare con qualcosa di diverso da un resoconto puramente storico: il suo discorso ha un carattere partigiano e «tendenzioso» (nel senso migliore del termine), giacché l’autore prende esplicitamente posizione per Fichte contro Kant, per Schelling contro Fichte, per Hegel contro i suoi tre grandi contemporanei, e soprattutto per Hegel contro la «scuola romantica». Attraverso il cammino di Lukács in quel paesaggio filosofico di straordinaria ricchezza che è il paesaggio della filosofia classica tedesca, si assiste in fondo alla maturazione di una certa concezione dei rapporti tra soggettività e oggettività, tra coscienza e realtà, il cui sboccio e compimento ritroveremo nelle due grandi opere di sintesi dell’autore, l’Estetica e l’Ontologia dell’essere sociale. L’evocazione delle controversie filosofiche maggiori dell’epoca di Hegel, segnate, secondo Lukács, da disfatte e vittorie decisive, acquista così per noi l’interesse di un’«archeologia del sapere», poiché si assiste, tappa per tappa, alla genesi di un punto di vista filosofico, quello stesso che Lukács, seguendo Marx, riprenderà e svilupperà nelle sue opere ultime.

È sintomatico, a esempio, il grande interesse sempre accordato da Lukács alla critica del giovane Hegel contro la morale dell’imperativo categorico elaborata da Kant nella Critica della ragion pratica. Un forte moto di ribellione contro ciò che gli appariva risultare la frantumazione dell’essere umano nell’etica di Kant caratterizzava l’atteggiamento del giovane Hegel. La protesta appassionata del giovane Hegel, nei suoi scritti del periodo di Francoforte, contro il carattere tirannico del dover-essere kantiano (il famoso Sollen) era diretta contro l’universalità formale delle esigenze kantiane, contro la loro sovrana indifferenza nei riguardi della ricchezza contraddittoria dell’essere sensibile con la molteplicità delle sue pulsioni, inclinazioni e sentimenti. Hegel perorava in favore dei diritti inalienabili dell’individuo, contro il dispotismo della «volontà pura» kantiana; difendeva una morale duttile, flessibile, adatta alla variabilità delle circostanze concrete. Si può comprendere il vivo interesse di Lukács per questo corso di pensiero del giovane Hegel, che pretendeva esplicitamente che alla base della morale, e dell’attività umana in generale, stesse l’essere (das Sein) con la molteplicità infinita delle sue determinazioni concrete, e non il dover-essere, il Sollen, nel senso kantiano del termine, un dover-essere astratto, coercitivo e impersonale. Non siamo forse autorizzati a dire che Lukács assimilerà interamente questa critica di Hegel nei confronti della morale kantiana, integrandola come un motivo centrale della sua opera della maturità, quella che culminerà appunto in un’Ontologia, dunque in una teoria della supremazia dell’essere infinito sulla coscienza finita?

Tenendo dietro alla lotta di Hegel contro l’idealismo soggettivo di Kant e di Fichte, Lukács la valorizza come una grandiosa limitazione delle prerogative della soggettività trascendentale, come una vasca operazione di recupero della ricchezza delle determinazioni oggettive.

Hegel si è levato realmente negli scritti di Jena, nella Differenzschrift e in Glauben und Wissen (Fede e sapere), contro la tesi di Fichte dell’autocostituzione del mondo tramite il potere sovrano della soggettività, contro il programma fichtiano di riassorbimento del non-io (del mondo oggettivo) nell’Io (Ich = Ich). È proprio questo intento hegeliano di aderire ai contorni del reale, di farne scaturire le articolazioni profonde, di «abbandonarsi» alla Cosa stessa, che desta l’entusiasmo di Lukács così come quello di Adorno. La soggettività hegeliana è al tempo stesso autocostituente e etero-condizionata: è soltanto grazie alla sua immersione negli strati eterogenei del reale che essa riesce a dinamizzarsi e insieme a costituirsi.

Sempre e ovunque Hegel si piega alla essenza propria dell’Oggetto, sempre e ovunque questo gli si rinnova a immediato; ma appunto tale subordinazione alla disciplina della Cosa richiede la massima tensione del Concetto (die Anstrengung des Begriffs). Essa trionfa nell’attimo in cui le intenzioni del Soggetto si estinguono nell’Obbiettivo3.

Ogni atto di quel grande spettacolo di idee che è lo sviluppo della filosofia classica tedesca, con le controversie tra Fichte e Kant, Schelling e Fichte, Hegel e Kant, Fichte, Jacobi o Schelling, diviene così per Lukács, nel suo esito ultimo, un passo avanti verso la costituzione della vera filosofia del nostro tempo.

Alla difesa operata dal giovane Hegel, nell’opuscolo Der Geist des Christentums und sein Schicksal (Lo spirito del cristianesimo e il suo destino), della morale di Gesù contro la morale di Kant, della morale dell’«uomo integrale» contro il formalismo rigorista della «volontà pura» kantiana, si può guardare anche come a una difesa dei diritti imprescrittibili dell’individuale contro la logica dominatrice dell’universale formale. La critica rivolta dal giovane Hegel alla dissoluzione della ricchezza delle determinazioni concrete nel «bagno sulfureo» dell’universale astratto (per riprendere un’espressione più tardi utilizzata da Sartre), la sua esigenza che l’universale aderisca al movimento delle determinazioni concrete, senza staccarsene in forma sovrana, anticipano quella che, tramite un processo di radicalizzazione, diverrà la tesi dell’irriducibilità dell’essere al sapere, difesa da Lukács nell’Ontologia, o la tesi del sostrato non identico di ogni processo di concettualizzazione, sviluppata da Adorno nella Dialettica negativa.

Analizzando, a esempio, il concetto di «ideale» formulato da Hegel nella nuova introduzione al suo manoscritto bernese La positività della religione cristiana, Lukács vi scopre una prefigurazione estremamente interessante dell’ulteriore concezione hegeliana del «concetto concreto». «Hegel oppone qui l’ideale, come concreto e storico, ai concetti generali come all’astratto e antistorico», scrive Lukács. A questa affermazione egli fa seguire una citazione da Hegel:

Un ideale della natura umana è qualcosa di interamente diverso dai concetti universali sulla destinazione dell’uomo e sul rapporto dell’uomo con Dio. L’ideale ammette benissimo particolarità, determinatezza, richiede anzi peculiari azioni religiose, sentimenti, usi, un sovrappiù, il che alla fioca luce dei concetti universali appare come ghiaccio e pietra4.

Questo intento di Hegel di integrare in ciò che allora egli chiamava «l’ideale della natura umana» la ricchezza delle determinazioni particolari, individuali e persino accidentali dell’uomo è interpretata da Lukács come l’affiorare per la prima volta in lui del

pensiero che la generalizzazione concettuale non implica affatto necessariamente – come ritiene la logica formale – un impoverimento sempre maggiore di contenuto, ma che anzi la vera generalizzazione filosofica è – per la ricchezza delle determinazioni tolte in essa – tanto più ricca e più concreta, quanto più alto è il grado di universalità a cui si trova5.

Ma Lukács non può nascondersi che questa difesa appassionata dei diritti dell’individuale e del particolare nella storia del genere umano si sviluppa nel giovane Hegel del periodo di Francoforte nel quadro di un elogio della religione, depositaria di questa ricchezza concreta, accompagnandosi a una critica esplicita dell’arroganza dell’intelletto e della religione dell’Illuminismo, colpevoli d’aver trattato spesso con disprezzo questa variazione storica dei bisogni umani. «I concetti universali della natura umana sono troppo vuoti per poter offrire un criterio di misura per i bisogni particolari e necessariamente molteplici della religiosità», scriveva Hegel nella stessa introduzione all’opuscolo sulla Positività della religione cristiana. Riconoscendo in testi di questo genere i grandi progressi compiuti dal giovane Hegel verso una storicizzazione della sua concezione del mondo, Lukács censura al tempo stesso, qui come altrove, l’idealismo e gli slittamenti religiosi di Hegel. È proprio questa continua preoccupazione di Lukács di distinguere nel giovane Hegel i progressi verso la costituzione del «nocciolo razionale» della sua filosofia dall’«esaltazione mistica» (all’epoca di Francoforte) o dagli svolazzi idealistici che ha provocato reprimende piuttosto severe nei suoi riguardi da parte di Ernst Bloch.

Bloch rimprovera a Lukács di aver gonfiato unilateralmente gli aspetti del pensiero di Hegel che l’avvicinano direttamente a Marx e di aver colpevolmente sminuito la fecondità del «confronto col religioso» negli scritti giovanili di Hegel. La scontentezza di Bloch è provocata soprattutto, non senza ragione, dall’abuso di aggettivi come «confuso», «nebuloso», «mistico», «metafisico», usati da Lukács ora per svalutare, ora per scusare lo Hegel dello Sturm und Drang.

Come ci si poteva attendere da parte di un pensatore sensibile alla ricchezza di pensiero presente nelle utopie millenaristiche e negli scritti dei grandi mistici del passato, Bloch ha, contrariamente a Lukács, la tendenza a dar peso agli avvicinamenti tra Hegel e Meister Eckhart o Jakob Böhme, o anche tra Hegel e Hamann, filosofo ostile all’Illuminismo e considerato uno dei grandi precursori del romanticismo. Di questa prospettiva si alimenta la convinzione di Bloch circa l’intima solidarietà che esisterebbe tra l’inclinazione religiosa del giovane Hegel del periodo di Francoforte e i germi del grande pensiero dialettico: il «misticismo» del giovane Hegel non sarebbe che l’espressione dell’intento di trascendere le «determinazioni irrigidite dei fenomeni» e di ritrovare la loro vita interna. Ora questa intima solidarietà sarebbe stata minimizzata, se non sfigurata da Lukács, per via dell’uso ostinatamente peggiorativo che egli fa del termine «mistica»:

L’analisi del giovane Hegel dataci da Lukács – per altri aspetti eccellente – richiama anche a questo proposito, proprio per la sua serena profondità, scrive Bloch nel suo commento a Hegel Soggetto–Oggetto – l’attenzione su uno Hegel di cui non ci si può sbarazzare con l’uso un po’ troppo generico del termine «mistica». Questo non è possibile anche per ragioni semplicemente monografiche: il periodo mistico di Hegel coincide con l’apertura a molti problemi, a determinazioni terminologiche, e non solo terminologiche, della sua filosofia successiva […]. Senza forzature non si possono eliminare per sé le problematiche religiose né dalla storia dell’evoluzione né dalle implicazioni della filosofia hegeliana6.

Il rimprovero di Bloch è giustificato solo in parte. La verità è che Lukács si rende perfettamente conto che le acquisizioni del pensiero dialettico di Hegel durante il periodo di Francoforte sono intimamente intrecciate alle tendenze religiose del suo pensiero, il che non gli impedisce di censurare costantemente, con scrupolo eccessivo, queste tendenze stesse. Non è meno vero che nel libro di Lukács sul Giovane Hegel si possono riscontrare violenze verbali all’indirizzo di quelle che egli giudica tendenze regressive del pensiero di Hegel, violenze che, almeno in certi casi, ci sembrano affatto fuori luogo.

Quando Hegel, a esempio, sempre in un frammento del periodo francofortese, un brano del commento alla Dottrina del diritto di Kant, pone in discussione la tesi kantiana che Stato e Chiesa non debbono occuparsi l’uno dell’altra, ma lasciarsi reciprocamente in pace, giunge a svolgere considerazioni che lo guidano all’idea di un’unità ideale tra i due7. Egli vede lo Stato come fondato sul principio di proprietà (das Prinzip des Eigentums), ciò che determinerebbe una considerazione assai imperfetta dell’uomo, ancorata al principio del possesso; la considerazione dell’uomo come totalità vivente spetterebbe per contro alla Chiesa. Una lettura attenta del testo mostra che Hegel puntava a correggere l’unilateralità colpevole di uno Stato fondato sul principio dell’avere (denunciando l’inumanità e il fanatismo latenti nel dominio di un siffatto Stato) a mezzo dell’azione di un potere spirituale fondato sull’idea dell’uomo integrale. Lukács prende alla lettera questo programma hegeliano di sintesi tra Stato e Chiesa e lo stigmatizza in modo estremamente drastico: «È vero che Hegel, anche più tardi, non è mai pervenuto a una esatta concezione dei rapporti fra religione e Stato, ma fino a questo estremo di un’utopia teocratica reazionaria non è, altrove, mai andato»8. Ora ci sembra evidente che il pathos umanistico che impregnava la concezione della religione del giovane Hegel escluda a priori l’idea di un potere teocratico e reazionario; se si compie una lettura del frammento incriminato badando al suo spirito, e non alla lettera, si sarebbe piuttosto tentati di trovarci una critica del principio dell’avere in nome del principio dell’essere (l’uomo come totalità vivente), critica che diverrà più tardi una tesi centrale della critica dell’alienazione dello stesso Lukács.

Lukács nel Giovane Hegel, Adorno nei Tre studi su Hegel, ma anche nella Dialettica negativa, Ernst Bloch in Soggetto-Oggetto fanno, ciascuno a suo modo, un grande elogio della dialettica hegeliana come logica del concreto, della mediazione e del divenire, che sopprime tanto l’apriorismo statico quanto il limitato empirismo, abolendo le dicotomie tradizionali tra forma e materia, universale e particolare, immediato e mediato, finito e infinito. Si può dire che la dialettica hegeliana è la matrice del pensiero sviluppato da ciascuno dei tre filosofi, anche se, accanto ad affinità fondamentali di interpretazione dovute anche all’influenza centrale di Marx, si fanno luce divergenze importanti (soprattutto tra Lukács e Adorno), legate alle finalità proprie di ciascuno dei loro corsi di pensiero.

Un accento speciale Lukács pone su ciò che una volta egli chiama la «grandiosa oggettività» di Hegel, sulla sua «lotta eroica» per emergere «in mezzo al letame delle contraddizioni» (mitten im Dünger der Widersprüche), sul suo reciso intento che il pensiero si impregni della molteplicità delle determinazioni e contraddizioni del reale. Talora l’analisi insiste soprattutto sulla preoccupazione hegeliana di rispettare il particolare, di badare a che il pensiero non si smarrisca in principi generali. Occorre soprattutto che la cosa (in quanto irriducibile) non anneghi nel pensiero della cosa. Lukács cita a un certo punto un’annotazione personale dello Hegel del periodo di Jena, pubblicata da Rosenkranz:

È necessario, per lo studio di una scienza, non lasciarsi frastornare dai principi. Essi sono generali e non significano gran che. Ha il loro significato, come sembra, solo colui che ha il particolare. Spesso sono anche cattivi. Sono la coscienza sulla cosa, e la cosa è spesso migliore della coscienza.

In questo apoftegma hegeliano: «la cosa è spesso migliore della coscienza», Lukács vede la chiave di tutto il modo di filosofare del giovane Hegel: «Questo ‘empirismo’ […] è un tratto essenziale della sua forma specifica di dialettica»9.

2. La cosa più appassionante nell’itinerario speculativo ricostruito da Lukács, a partire dalla polemica tra Kant e Fichte, attraverso le divergenze sempre più accentuate tra Schelling e Fichte, fino alle successive lotte di Hegel contro Kant, Fichte e Schelling, è che ogni episodio di questo percorso appare come una tappa, sempre più avanzata, in un movimento di pensiero che si sviluppa in modo irresistibile, spesso all’insaputa della coscienza che ne hanno i protagonisti stessi, in una direzione unitaria: si tratta di aprire varchi sempre più profondi nell’autosufficienza del potere costitutivo della soggettività, di riconquistare in tutta la sua ampiezza e profondità la dimensione dell’oggettività, di ridare al tessuto dell’oggetto la sua densità e la sua complessità, di dimostrare infine che soltanto attraverso il confronto con la ricchezza delle determinazioni oggettive la soggettività può giungere alla sua pienezza. Si tratta, in una parola, del famoso passaggio dall’idealismo soggettivo all’idealismo oggettivo.

Kant era scontento del fatto che nella Dottrina della scienza Fichte accordasse un posto importante alla materia (al contenuto) della conoscenza:

Giacché una dottrina pura della scienza – scriveva Kant nella sua risposta a Fichte del 1799 – non è né più né meno che una logica pura, i cui principi non pervengono sino alla materia della conoscenza, ma che, in quanto logica pura, fa astrazione dal contenuto della conoscenza; volerne estrarre, a forza di spulciarla, un oggetto reale è un tentativo vano e una cosa ancora inedita; le tocca anzitutto, se si tratta di filosofia trascendente, fare un salto nella metafisica10.

Includendo nella Dottrina della scienza problemi riguardanti la «materia della conoscenza», contrariamente all’interdizione kantiana, Fichte apriva così la via che avrebbe condotto alla metodologia hegeliana: Lukács osserva, a ragione, che «proprio l’inclusione dei problemi di contenuto nella logica è stata un momento di importanza essenziale della logica dialettica di Hegel»11.

Fichte ha soppresso il rigido dualismo kantiano tra la coscienza e l’inconoscibile cosa in sé. Postulando la conoscibilità del mondo tramite l’attività costituente dell’Io, dissolvendo il mondo della natura nelle determinazioni dell’Io costitutivo, egli ha aperto la via, con la radicalizzazione dell’idealismo soggettivo, a una concezione del rapporto soggetto-oggetto più dinamica di quella sviluppata da Kant. Lukács e Adorno rimproverano entrambi alla teoria kantiana della conoscenza il suo carattere relativamente statico, il fatto che le categorie costitutive dell’esperienza sono accettate come date, non sono dedotte dialetticamente luna in funzione dell’altra. «La tipica impostazione della critica kantiana: “Vi sono giudizi sintetici a priori – come sono possibili?” – scrive Lukács a proposito di Kant – mostra fino a che punto Kant concepisca le categorie e i loro rapporti come qualcosa di dato»12. Nel primo dei Tre studi su Hegel Adorno nota a sua volta, a proposito della filosofia kantiana:

Come da un lato le forme categoriali dell’Io penso abbisognano di un contenuto che le integri, non derivante da esse – affinché si renda possibile verità, conoscenza della natura – così d’altro lato l’Io puro stesso e le forme categoriali sono rispettate da Kant come una specie di datità; sotto questo rispetto almeno la Critica della Ragion Pura è più una «fenomenologia» della Soggettività che un sistema speculativo13.

Con la posizione e l’opposizione di Io e non-Io, in Fichte si fa luce per la prima volta una concezione dialettica (tesi, antitesi, sintesi) del rapporto soggetto-oggetto e le categorie acquistano una genesi.

Ma Fichte concepisce la natura, in quanto realtà oggettiva, solo come un limite della coscienza, come un dato su cui opera l’attività formatrice della coscienza e che non esiste realmente che grazie alle leggi immanenti dello spirito: essa è trovata «non secondo proprie leggi, ma secondo leggi immanenti dell’intelligenza»14.

È solo con Schelling che la natura, nella pienezza e ricchezza delle sue determinazioni, fa la sua spettacolare irruzione nella filosofia classica tedesca. Il fatto che Schelling reclami la legittimità di una Filosofia della natura accanto alla Dottrina della scienza fichtiana segna un decisivo passo avanti verso il riconoscimento dell’autonomia ontologica della natura rispetto alla coscienza, anche se la natura di Schelling resta sempre un’emanazione dello Spirito: il divorzio da Fichte diviene ineluttabile. Ernst Bloch ha sempre celebrato «il dionisiaco Schelling» e Lukács ha riconosciuto nelle considerazioni dialettiche di Schelling sulla natura il suo grande contributo alla filosofia e il punto più avanzato del suo pensiero.

Nei primi scritti del periodo jenense Hegel svolge un lavoro teorico straordinario per sottomettere a critica la «filosofia della riflessione», locuzione con cui egli designa il pensiero di Kant, Fichte e Jacobi. Alla filosofia di Kant e Fichte egli rimprovera essenzialmente di mantenere un rapporto di giustapposizione tra la molteplicità empirica dei fenomeni finiti e il potere unificatore del concetto infinito, di non giungere a incorporare effettivamente la ricchezza fenomenica nella sintesi concettuale, di restare entro i limiti delle determinazioni finite dell’«intelletto» (Verstand) e di non sfociare in una compenetrazione effettiva di essenza e apparenza, sino alla loro vera identità, stabilita dal potere speculativo della «ragione» (Vernunft). La filosofia che Hegel critica non riesce, secondo lui, a «digerire» effettivamente i fenomeni (le apparenze), a aderire ai loro contorni concreti, alle loro articolazioni e ai loro nessi interni, grazie al lavoro concreto di una «ragione» dinamica: la realtà conserva qualcosa di una morta esteriorità, di un residuum non assimilato integralmente, il finito non viene realmente dissolto e assorbito nella totalità infinita. L’intento hegeliano di tuffarsi nelle determinazioni finite della realtà, rispettandone scrupolosamente la logica immanente, non per fermarsi dinnanzi a esse (il che equivarrebbe a «ridurre il mondo a un polo soggettivo fisso»), ma per oltrepassarle di continuo, alternando il rispetto dinnanzi alla scissione e all’opposizione con la tendenza alla loro soluzione continua, mostra bene il duplice movimento, contraddittoriamente unitario, della dialettica hegeliana: la straordinaria sottomissione all’immanenza dell’oggettività, che ha sedotto sia Lukács che Adorno, si accompagna necessariamente a un instancabile lavoro di mediazione operato dalla soggettività. Questo lavoro non ha lo scopo di riassorbire in modo lineare l’oggetto nel soggetto, di pervenire a ciò che Adorno, nel primo dei Tre studi su Hegel, chiama «l’univocità di una identità immediata»: il lavoro di mediazione della soggettività è destinato a dissolvere le «determinazioni irrigidite dei fenomeni», a penetrare negli strati profondi del reale, a scoprire articolazioni e rapporti difficilmente accessibili all’intuizione immediata, anche se nell’idealismo hegeliano il termine ad quem resta il riassorbimento della sostanza nel soggetto, una mitica identità tra soggetto e oggetto.

Adorno, Bloch e Lukács si incontrano nella celebrazione della filosofia hegeliana come vittoria definitiva sul formalismo dell’idealismo soggettivo; convergono nell’elogio rivolto a Hegel d’aver sviluppato un pensiero «che si fa carico di tutto il peso del suo oggetto», che si sforza di integrare nella rete delle sue determinazioni l’opacità, la resistenza e la durezza cogente del reale. Nel capitolo dell’Ontologia dell’essere sociale dedicato a Hegel, che ha per titolo «Falsa e vera ontologia di Hegel», Lukács parla del fatto che Hegel è dominato da «una fame talmente intensa di realtà genuina quale forse dopo Aristotele non è riscontrabile più in nessun altro pensatore». Nel Giovane Hegel egli dedica pagine notevoli alla differenza e alla superiorità della dialettica hegeliana rispetto a quella del suo grande contemporaneo e amico di giovinezza Schelling. La decisione ostinata di non bruciare le tappe troppo in fretta, di rispettare scrupolosamente le determinazioni finite della realtà, di giungere al loro necessario superamento attraverso mediazioni laboriose, sviluppate nell’immanenza dell’oggetto, e non librandosi sopra di esso, di fare della contraddizione e del movimento della sua soppressione – non dell’esser-soppresso, come accade in Schelling – il principio assoluto della realtà, ecco i tratti distintivi del «realismo» hegeliano.

Lukács non ha mai dimostrato la minima simpatia per il carattere «costruttivo» dell’idealismo di Schelling, per sintesi folgoranti del genere della famosa «intuizione intellettuale», per l’elogio schellinghiano di un contatto immediato con l’Assoluto, oltre i limiti e le restrizioni dell’intelletto. La contrapposizione tra la «fisionomia intellettuale» di Hegel e quella di Schelling, tra il metodo fondato sulla «pazienza del concetto» (Gérard Lebrun), sul duro lavoro del negativo, sulle mediazioni laboriose, e spesso penose, del primo, e quello fondato su lampi divinatori e «slanci di genio» del secondo, è profondamente rivelatrice della fisionomia intellettuale dello stesso Lukács. Egli non ha mai amato lo stile spettacolare e i grandi gesti ispirati in filosofia. Nel suo libro su Thomas Mann gli capita del resto a un certo punto di contrapporre al modo di filosofare di Schelling, il quale, secondo il rilievo critico di Hegel, «ha compiuto la sua formazione filosofica al cospetto del pubblico», lo stile estremamente coscienzioso (gewissenhaft) e scrupoloso di Thomas Mann, il suo rigore e il suo esemplare riserbo borghese, la sottile dialettica tra l’intento di fare della sua opera uno «specchio del mondo» e l’espressione della coscienza del borghese tedesco, caratterizzata da integrità morale e dall’etica del lavoro ben fatto. Chiedendosi se non ci sia contraddizione tra queste due esigenze, l’opera come «specchio del mondo» e come «coscienza della borghesia tedesca», Lukács risponde negativamente e tesse l’elogio del radicarsi di Thomas Mann nell’immanenza della realtà, a partire dalla quale, senza abbandonarne per un solo momento la solida base, egli lascerebbe progressivamente trasparire il suo «ideale»:

il dover essere non deve ergersi, come in Kant e per buona parte in Schiller, materialmente estraneo, contro la realtà, di natura affatto diversa. Può sorgere – hegelianamente – dalla contraddittoria identità di fenomeno ed essenza. La consapevolezza è allora soltanto l’ammonimento: divieni, tu che sei, sii per essenza, dispiega, a dispetto degli influssi disturbatori del mondo esterno ed interno, quanto in te, come nucleo, come essenza, aleggia vivo ed è sempre15.

Si può vedere qui, in un esempio concreto, come il pensiero di Hegel abbia fornito, soprattutto con la sua critica del moralismo e del dover-essere kantiano e fichtiano, uno dei principali fondamenti teorici all’estetica del realismo di Lukács. Quanto alla critica di Hegel a Schelling, bisogna dire che Adorno la sottoscriverà con non minore energia di Lukács, denunciando il dogmatismo dell’«intuizione intellettuale» come forma di contatto immediato con l’Assoluto16, mentre Ernst Bloch verrà adottando una posizione più comprensiva nei riguardi di Schelling, ciò che lo condurrà a significative divergenze con Lukács.

3. L’assunto centrale del Giovane Hegel è che la maturazione del pensiero dialettico di Hegel procede di pari passo con il suo abbandono delle illusioni giacobine della sua prima giovinezza e con l’accettazione della società borghese del suo tempo come di una realtà storica necessaria, certi aspetti della quale le assicuravano, sul piano della diversificazione o della «privatizzazione» della vita sociale, una superiorità nei confronti della società antica, società che pure Hegel ha sempre tanto ammirato e glorificato. Hegel avrebbe piegato il suo pensiero alla complessità di questo nuovo tipo di società, avrebbe impregnato il suo metodo della molteplicità delle sue contraddizioni e sarebbe stato così condotto, gettandosi nel «letame delle contraddizioni», a forgiare la dialettica nella sua forma moderna. Alla fedeltà a lungo conservata da Fichte o da Hölderlin nell’ideale giacobino, Lukács oppone il sobrio realismo di Hegel e il suo spirito d’accomodamento con la realtà borghese post-rivoluzionaria. L’assunto apparentemente paradossale dell’autore del Giovane Hegel è che proprio il rigorismo giacobino del pensiero di Fichte avrebbe provocato il ristagno e, da ultimo, l’involuzione del suo pensiero, che si sarebbe bloccato dinnanzi alla nuova realtà post-rivoluzionaria, mentre lo spirito di «conciliazione», la flessibilità e il realismo di Hegel sarebbero divenuti la fonte della straordinaria fecondità del suo pensiero. Si spiegherebbe così perché non il democratico-rivoluzionario Fichte, ma il «borghese» Hegel sia divenuto il grande pensatore dell’epoca moderna.

Si pone qui un problema riguardante la biografia intellettuale dello stesso Lukács: il modo in cui egli ricostruisce l’itinerario politico e filosofico di Hegel, dagli scritti ispirati all’ideale repubblicano e rivoluzionario degli inizi sino al «sobrio realismo» che si fa luce a partire dagli scritti di Jena, la particolare comprensione testimoniata a riguardo dell’accettazione hegeliana della società post-rivoluzionaria come di una realtà irreversibile, non rappresentano forse un’espressione mascherata, dietro la biografia del giovane Hegel, del suo proprio percorso intellettuale, dal messianismo e volontarismo utopistico degli scritti giovanili del periodo di Storia e coscienza di classe sino all’apologia incondizionata del realismo negli scritti della maturità?

Lucien Goldmann ha sollevato per primo il problema, con molta intuizione, ma in una forma che ci pare assai discutibile. Nella «voce» Lukács scritta per l’Encyclopedia Universalis Goldmann richiama la caratterizzazione che Trockij dà dello stalinismo come dittatura bonapartistica, concetto che designerebbe la realtà sociale della dittatura post-rivoluzionaria in generale. Goldmann afferma, senza puntellare questa affermazione con prove tangibili, che Lukács avrebbe accolto questa caratterizzazione dello stalinismo come bonapartismo, ma in senso affatto diverso da quello che gli aveva dato Trockij. L’ipotesi di Goldmann è che Lukács abbia aderito allo Stalinismo (contrariamente a quanto afferma Lukács stesso), avendo egli stabilito, anche senza confessarlo apertamente sul piano politico, un parallelismo tra la dittatura staliniana, come espressione necessaria di una situazione post-rivoluzionaria («davanti alla minaccia hitleriana, Lukács aderisce allo stalinismo», scrive Goldmann), e la dittatura napoleonica, instaurata in Francia per difendere le conquiste essenziali della Rivoluzione di fronte alla pressione militare del mondo reazionario estero. È in virtù di questa logica, se si prolunga il ragionamento di Goldmann, che Lukács avrebbe messo dapprima consapevolmente «tra parentesi» gli aspetti violentemente repressivi dello stalinismo, denunciati con tanto vigore da Trockij, e avrebbe accettato lo stalinismo come una forma di bonapartismo. Ma è così soprattutto che Goldmann spiega l’apologia compiuta da Lukács, nei suoi scritti degli anni Trenta, dell’opera di Goethe e di Hegel, in cui il critico ungherese avrebbe visto i due soli grandi scrittori tedeschi giunti a comprendere il significato della vicenda napoleonica come momento della Rivoluzione francese e a schierarsi con ammirazione in favore di Napoleone.

L’ipotesi di Goldmann si è fatta strada in scritti più recenti (ma in forma peggiorata): l’elogio di Lukács per la saggezza rassegnata delle opere della maturità di Goethe o per l’«accomodamento» di Hegel con la società borghese post-termidoriana diviene in questa interpretazione una sorta di proiezione della sua propria rassegnazione (per non dire capitolazione) dinnanzi alla realtà post-rivoluzionaria della Russia staliniana. È l’espressione del disincanto dalle sue illusioni rivoluzionarie giovanili a spingerlo alla comprensione tanto della tragedia di Hölderlin o dell’impasse della filosofia di Fichte, quanto del substrato profondo delle opere di Goethe e Hegel. Esiste anche una importante testimonianza di Cesare Cases, amico di Lukács, secondo cui Lukács stesso non negava che alla sua ricostruzione dell’itinerario del giovane Hegel si potesse guardare come a un’«allegoria» del suo proprio cammino dalla frenesia rivoluzionaria del periodo di Storia e coscienza di classe sino alla rassegnazione degli scritti posteriori dinnanzi alla realtà costrittiva dell’epoca post-rivoluzionaria17.

Se anche si tralascia il suggerimento di Goldmann circa la pretesa ammissione, da parte di Lukács, di un’analogia tra dominio napoleonico e dominio staliniano, ciò che spiegherebbe il suo appassionato interesse per figure come Goethe e Hegel (in questa forma il ragionamento ci pare molto poco convincente), ci sembra verosimile che l’elogio del «realismo» di Hegel, e soprattutto il modo in cui Lukács mostra che la dialettica di Hegel si è forgiata grazie all’immersione nel «letame delle contraddizioni» della società a lui coeva, si siano alimentati della sua personale esperienza storico-sociale: è l’esperienza della durezza, dell’opacità e della resistenza costrittiva del reale, in confronto alle illusioni volontaristiche e messianiche della sua giovinezza, l’esperienza dell’«astuzia della storia» e dell’ineguaglianza del suo sviluppo, in opposizione a qualsiasi visione rettilinea della sottomissione della materia storica al dominio del soggetto, che Lukács può ritrovare nella «grandiosa oggettività» delle analisi hegeliane.

Certo Lukács non passa sotto silenzio, in alcun punto del Giovane Hegel, l’idealismo consustanziale alla dialettica hegeliana: la sua tesi, che suscitava un tempo lo scontento di Eric Weil (questi la trovava probabilmente troppo impregnata di ortodossia marxista) è che, non potendo la visione hegeliana estremamente lucida delle contraddizioni sociali sboccare a una soluzione reale, immanente al processo sociale, di queste contraddizioni, il filosofo tedesco la proietta nel cielo ideale di una mitica identità tra soggetto e oggetto. L’impossibilità oggettiva di trovare una soluzione agli antagonismi sociali avrebbe avuto come contropartita l’armonizzazione fittizia di queste contraddizioni nell’idea di un riassorbimento finale dell’oggetto in soggetto.

4. L’atteggiamento di Adorno verso Hegel è, grosso modo, altrettanto ambivalente di quello di Lukács: grandi elogi per l’intento hegeliano di profondarsi col pensiero nella immanenza delle cose, di aderire il più possibile ai loro contorni e alle loro articolazioni, ai loro rapporti e alla loro dinamica, dunque per la potente approssimazione di Hegel all’oggettività, ma al tempo stesso critica reiterata nei confronti del suo idealismo filosofico, della restaurazione conclusiva del primato del soggetto in virtù dell’assunto della identità tra soggetto e oggetto. Adorno sottolinea, beninteso, che questi due orientamenti contraddittori sono strettamente intrecciati nel pensiero di Hegel:

Hegel è capace di pensare movendo dalla Cosa stessa, di rimettersi per così dire passivamente al suo merito intrinseco, solo perché essa viene tratta, in forza del sistema, alla sua Identità con il Soggetto assoluto. Le cose parlano da sé in una filosofia che si fa forte di mostrare che essa stessa è all’unisono con le cose18.

Ma il confronto di Adorno con la dialettica di Hegel, che torna come un leit-motiv da un capo all’altro della sua opera filosofica, ha sfumature particolarissime, dettate da ciò che forma il nocciolo del suo pensiero. Il principium movens della riflessione di Adorno è l’intento di difendere, su tutti i piani, i diritti imprescrittibili del singolare, del particolare, dell’individuale, contro l’invadente pressione dei meccanismi sovrapersonali, contro il potere dominante dei sistemi totalitari, contro l’egemonia repressiva di quella che chiama la «cattiva universalità». Colpisce nei suoi ragionamenti che egli associ sempre la critica delle società fondate sull’asservimento dell’individuo a strutture uniformizzanti, sia che si tratti di quelle rette dal principio di scambio oppure di quelle sottomesse all’egemonia di un partito unico, alla critica dei sistemi di pensiero fondati sulla preminenza dell’universale sul particolare, del soggetto trascendentale sul soggetto empirico, dell’identico sul non-identico. È come se ogni pensiero che afferma il potere dominante del concetto sulla materia ribelle dell’aconcettuale (dell’empirico), del principio d’identità sul singolare non-identico, del soggetto sull’oggetto (e qui è preso di mira anche l’idealismo classico tedesco per intero), garantisse con la sua stessa struttura, sul piano sociale, il dominio delle forze sovrapersonali sugli individui, la repressione collettiva della singolarità, il sacrificio dell’individuo a un potere che necessariamente lo oltrepassa.

Pensatore di un «tempo di miseria» (si dovrebbe applicare a Adorno, piuttosto che a Heidegger, questa formula usata da Karl Löwith nei riguardi del secondo: Heidegger, Denker in dürftiger Zeit), Adorno vuol fare della sua riflessione filosofica la portavoce della singolarità oltraggiata, di una realtà troppo a lungo screditata, a suo parere, dai sistemi di pensiero tradizionali (ivi compreso quello di Hegel), quelli che sarebbero stati edificati sulla preminenza del concetto e della totalità sull’aconcettuale e sui momenti particolari. Un passo dell’introduzione alla Dialettica negativa esprime chiaramente questo programma:

In base alla situazione storica la filosofia ha il suo vero interesse là dove Hegel, d’accordo con la tradizione, dimostrava il suo disinteresse: nell’aconcettuale, individuale e particolare; in ciò di cui – da Platone in poi – ci si è sbarazzati come irrilevante e caduco, che Hegel etichettò come esistenza inerte. Tema della filosofia sarebbero le qualità da essa degradate, in quanto contingenti, a quantité négligeable. Per il concetto diventa pressante ciò che non riesce a toccare, che viene eliminato dal suo meccanismo d’astrazione, che non è già un esemplare del concetto19.

La tecnica del ragionamento filosofico di Adorno è la retroversione diretta (direi quasi brutale) dei teoremi filosofici in realtà storico-sociali. C’è in lui un’osmosi continua tra la critica dei principi della grande filosofia tradizionale e la critica dei differenti tipi di società che l’umanità ha conosciuto fino al presente: è come se i primi non avessero altra funzione che di giustificare e trasfigurare i secondi. Quando gli capita, a esempio, e gli capita spesso, di denunciare la preminenza dell’universale sul particolare (peccato di cui accusa anche la filosofia hegeliana), egli prende di mira in fondo degli universali sociali (invarianti) precisi: pensa al fatto che la società moderna, nel processo di socializzazione progressiva della vita individuale, è giunta necessariamente a creare strutture costrittive, a carattere sovrapersonale (principio di scambio in economia, Stato o norme giuridiche ecc.), le quali però, funzionando per loro stessa natura al di sopra della spontaneità dei singoli, si impongono loro come una generalità imperativa, e non come un ricettacolo armonioso della diversità delle loro aspirazioni. Il predominio dell’Uno sul molteplice nei sistemi filosofici del passato non sarebbe altro che una giustificazione trasfigurata di questa egemonia di un’identità costrittiva (la generalità sociale) sul non-identico oppresso (i soggetti individuali nelle società sottomesse al principio di dominio). Ascoltiamo lo stesso Adorno:

L’esperienza di quell’oggettività preordinata all’individuo e alla sua coscienza è l’esperienza dell’unità della società totalmente socializzata. L’idea filosofica dell’assoluta identità le è strettamente apparentata in quanto non tollera nulla al di fuori di sé. Per quanto l’elevazione dell’unità a filosofia possa averla ingannevolmente innalzata a costo del molteplice, il suo primato, considerato il summum bonum della tradizione filosofica affermatasi a partire dagli eleati, non è tale, ma certo un ens realissimum. L’unità possiede realmente qualcosa della trascendenza che i filosofi esaltano in essa come idea20.

La forza persuasiva delle argomentazioni di Adorno si manifesta ogni volta che egli punta il suo dito accusatore contro strutture e meccanismi collettivi che, pur essendo sorti, nelle società fin qui esistenti, per regolamentare la vita dei singoli e la sopravvivenza della specie, si accompagnano nondimeno, per via della loro intrinseca natura «astratta», all’ablazione delle inclinazioni e delle aspirazioni più intime dei soggetti che compongono la società. L’esistenza di siffatte strutture collettive gli fornisce il modello per la critica di quella che chiama la «dittatura» e la «violenza dell’universale»: l’universale preso di mira da Adorno è quello che non riesce a calarsi nell’intimità del particolare, a rispettare effettivamente le sue determinazioni peculiari, per stabilire un rapporto armonioso con esse. L’egemonia di un tale universale porta dunque necessariamente a una «falsa riconciliazione» tra il generale e il particolare, giacché mantiene in fondo la scissione tra il collettivo e l’individuale, il dominio del primo sul secondo. Il principale rimprovero che Adorno muove a Hegel, e che torna come un leit-motiv da un capo all’altro della Dialettica negativa, è di aver privilegiato nel suo procedimento filosofico, malgrado le tendenze contrarie inerenti alla dialettica, l’universale rispetto al particolare, di aver trasfigurato il primo in una forza necessariamente positiva, senza tener conto che nella vita reale la generalità sociale in actu (le leggi economiche nella società regolata dal principio di scambio, le norme giuridiche del diritto positivo, le prescrizioni statualistiche ecc.) poggia spesso sul sacrificio di ciò che vi è di specifico e di irriducibilmente qualitativo negli individui. Ecco il quadro tracciato da Adorno a sostegno del suo assunto:

L’universalità, che riproduce il mantenimento della vita, la minaccia anche sempre di più. La violenza dell’universale che si realizza non è identica con l’essenza degli individui in sé, come pensava Hegel, ma anche sempre contraria ad essi. Non solo essi sono, in una presunta sfera particolare dell’economia, maschere, agenti del valore. Anche dove s’illudono di essere sottratti al primato dell’economia, fin dentro la loro psicologia, la maison tolérée dell’individuale inafferrato, essi reagiscono sotto la coazione dell’universale: quanto più sono identici con esso, tanto meno identici lo sono d’altra parte in quanto obbedienti senza difesa. Negli individui stessi si esprime il fatto che il tutto, loro compresi, si mantiene solo tramite l’antagonismo21.

La descrizione di Adorno si fa particolarmente appassionante là dove egli mostra che gli individui giungono ad agire nel senso della costrizione sociale (dell’universale), che è così aiutata a imporsi, non per loro scelta, ma contro la loro coscienza, sotto la pressione degli imperativi di autoconservazione: «Infinite volte degli uomini, anche se coscienti e capaci della critica all’universalità, vengono costretti da motivi irresistibili dell’autoconservazione ad azioni ed atteggiamenti, che aiutano ciecamente l’universalità ad affermarsi, mentre per la loro coscienza gli si oppongono». E di nuovo Hegel è fatto responsabile (ma ci si può chiedere seriamente se non sia per caso a torto) di aver sanzionato filosoficamente, col suo culto dell’Idea, la colpevole subordinazione dell’individuo alla totalità sociale, dunque la falsa conciliazione tra i due estremi: «Soltanto perché essi devono far proprio ciò che gli è estraneo per sopravvivere, nasce l’apparenza di quella conciliazione, che la filosofia hegeliana, la quale ha incorruttibilmente riconosciuto il predominio dell’universale, trasfigura corrottamente in idea»22.

Adorno è convinto che per salvaguardare l’irriducibilità qualitativa dell’individuale occorre sottomettere a una drastica revisione taluni teoremi fondamentali della filosofia classica. Uno dei più spettacolari rovesciamenti che egli tenta di compiere nei confronti della dialettica hegeliana è la contestazione del famoso assunto della prefazione alla Fenomenologia dello spirito di Hegel: das Ganze ist das Wahre («il vero è l’Intero»). Alla fine del secondo dei Tre studi su Hegel Adorno rimprovera a Hegel di aver trasfigurato in senso positivo l’idea di totalità, di essersi convinto che si può giungere a comprendere senza residui il particolare a partire dalla totalità di cui esso fa parte, dimenticando ciò che vi è di irriducibile e di non-identico in ogni particolare. Ciò che viene messo in causa è l’ottimismo hegeliano riguardo al potere del rigore logico di stringere completamente l’oggetto nella rete delle determinazioni concettuali, dunque il riassorbimento dell’oggetto nell’attività predicativa del soggetto, sino all’identità soggetto-oggetto.

5. È piuttosto difficile riassumere l’atteggiamento di Adorno verso Hegel, tanto le pagine che egli consacra al suo grande predecessore si caratterizzano per una continua oscillazione della bilancia tra giudizi positivi e negativi. Adorno non può nascondersi che nel suo proprio corso di pensiero quasi tutto si radica alla tradizione hegeliana. Dispensa a Hegel non pochi elogi per aver egli rotto definitivamente con la teoria formalistica della conoscenza, per aver aperto il pensiero al contenuto del processo cognitivo (immersione nell’oggetto), per aver fatto della contraddizione e della «negazione determinata» la legge di sviluppo del reale altrettanto che del pensiero.

Hegel aveva obiettato alla gnoseologia, – scrive Adorno nella Dialettica negativa – che si diventa fabbro solo battendo il ferro, realizzando la conoscenza a ciò che le resiste, in certo modo l’ateoretico. In ciò deve essere preso in parola; questo soltanto ridarebbe alla filosofia la libertà di volere l’oggetto, come l’ha chiamata Hegel, che essa aveva perduto nell’incantesimo del concetto di libertà, dell’autonomia del soggetto che definisce il senso23.

Adorno sa benissimo che l’impulso a discendere nell’immanenza del particolare e individuale, la mancanza di paura di sporcarsi a contatto dello specifico, la convinzione che colui che resta nella sfera del generale è condannato alla sterilità, vengono da Hegel. È d’altronde Hegel che nei suoi frammenti personali di Jena annota la proposizione da noi già richiamata a proposito delle analisi di Lukács: ha – sembra – il significato dei principi «solo colui che ha il particolare». La professione di fede di Adorno si iscrive nella via aperta da Hegel:

La Dialettica significa che la conoscenza filosofica non dimora là dove la sua provenienza l’ha fatta approdare, dove essa prospera troppo facilmente, alleggerita dal peso e dalla resistenza dell’essente; ma che essa comincia autenticamente nel punto in cui rompe ciò che al pensiero abituale sembra opaco, impenetrabile, mera individuazione. A questo «momento» si riferisce la proposizione dialettica: «… il reale è, in tutta schiettezza, un’identità dell’universale e del particolare»24.

Ma fin dalle prime pagine della Dialettica negativa i grandi elogi rivolti a Hegel per aver preconizzato un pensiero aperto alle determinazioni infime della realtà, a ciò che è eterogeneo all’attività sintetica del soggetto, si accompagnano al rimprovero di aver annullato quell’orientamento fondamentale fecondo del suo pensiero con la tendenza contraria a riassorbire l’infinito nella totalità, il reale nel Tutto dello Spirito. «Se la dottrina hegeliana della dialettica rappresenta il tentativo ineguagliato di mostrarsi con concetti filosofici all’altezza di ciò che gli è eterogeneo, nella misura in cui esso è fallito bisogna attribuirlo al precario rapporto con la dialettica»25.

Ci si può domandare con quale diritto Adorno veda nella proposizione hegeliana «il vero è l’Intero» la sanzione dell’idea di un sistema sociale delimitato, di un universo chiuso, in cui gli individui sono asserviti al principio del dominio (e di cui il moderno «mondo amministrato» sarebbe l’espressione più caratteristica). È interessante notare che per una volta, alla fine di questo secondo studio su Hegel, Adorno prende le difese di Kant contro Hegel, proprio perché il primo non avrebbe accettato di sopprimere l’eterogeneità del reale rispetto al pensiero e non avrebbe dissolto le contraddizioni nella sintesi integrativa di un Tutto onnicomprensivo (l’Assoluto hegeliano).

Il processo fra Kant e Hegel, nel quale l’imbattibile procedimento dimostrativo di quest’ultimo aveva l’ultima parola, non è finito; forse perché ciò che lo fa apparire concludente, il prepotente rigore della stretta logica, è proprio ciò che manca di verità rispetto alla capacità kantiana di stare nella frattura. Se Hegel, proprio in forza della sua critica a Kant, ha esteso in modo grandioso il filosofare critico al di là della sfera formale, tuttavia ha anche eluso abilmente il supremo momento critico: la critica alla Totalità dell’Infinito dato come conclusione26.

Si pone qui un quesito decisivo per il valore delle argomentazioni di Adorno: la sua legittima angoscia nei confronti di una organizzazione sociale concepita come totalità repressiva giustifica il processo all’idea hegeliana di totalità, ritenuta responsabile di «quella reale struttura di connessione illusoria nella quale il semplice singolo rimane incapsulato», sino a scagliare verso Hegel la contro-proposizione provocatrice: «L’Intero è il non-vero»?27 L’idea hegeliana del «Tutto» (das Ganze) non ci sembra affatto escludere il carattere aperto della totalità, che si arricchisce in continuazione attraverso le determinazioni singole (il che, beninteso, non diminuisce la legittimità delle critiche nei riguardi dell’idealismo assoluto hegeliano e della sua ambizione di costruire un sistema onnicomprensivo). Eppure il processo a Hegel di Adorno si dirige non soltanto contro la chiusura del sistema hegeliano, ma contro l’idea stessa di totalità. Ci sembra dunque che Lukács abbia ragione di difendere, alla fine delle sue Conversazioni con Abendroth, Holz e Kofler, il principio della totalità, respingendo la contro-proposizione di Adorno «L’Intero è il non-vero», giacché questo principio della totalità, ben compreso (come totalità aperta), mantiene intatto il suo valore ontologico e epistemologico.

La critica di Adorno al principio hegeliano «il vero è l’Intero» è strettamente associata alla contestazione di un altro famoso asserto di Hegel: quello che concerne la razionalità del reale. È nella Filosofia del diritto che Hegel sostiene: «Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale». Adorno si leva con veemenza contro il principio della «razionalità del reale», individuando in questo teorema di Hegel una colpevole sanzione del dato, una capitolazione dinnanzi alla realtà esistente. Egli rimprovera d’altronde a Lukács d’aver «riscaldata» questa tesi, che definisce «una delle tesi più discutibili di Hegel»: nel Significato attuale del realismo critico Lukács si sarebbe fondato su di essa, come anche sulla distinzione hegeliana tra «possibilità reale» e «possibilità astratta», per tessere l’elogio di una letteratura «realistica» nel senso della subordinazione alla realtà data e «per diffamare la letteratura che si scosta dalla realtà empirica». Adorno vede dunque nella tesi hegeliana della «razionalità del reale» il pericolo di accordare appoggio alla realtà che giunga a imporsi, ciò che neutralizzerebbe la possibilità di far emergere il «diverso» (das ganz Andere). «Una tale filosofia marcia sempre con i battaglioni più forti. Essa fa propria la sentenza di una realtà che seppellisce sotto di sé ciò che potrebbe essere altrimenti»28.

Adorno si rende certamente conto che la tesi hegeliana della razionalità del reale è in fondo legata a un orientamento di pensiero che si trova al centro del suo proprio filosofare, quello della «resistenza» del reale alle pretese egemoniche del pensiero: la legge del pensiero si trova in ciò che è altro da esso (nel «reale») e non in una sua presunta autarchia.

L’ambivalenza dell’atteggiamento di Adorno nei riguardi di Hegel si manifesta anche in questa occasione. Egli si dichiara solidale con Hegel nella misura in cui la sua tesi della razionalità del reale o quella della preminenza della possibilità reale sulla possibilità astratta significano l’esigenza di sottomettersi alle costrizioni del reale, di non dar credito con facilità alle illusioni e ai fantasmi della soggettività: ciò che è accaduto effettivamente nella realtà ha una sua logica intrinseca, una causalità immanente. «Qui è il contenuto di verità anche di quei settori della filosofia di Hegel, dove questi – come nella Filosofia della Storia e particolarmente nella Prefazione alla Filosofia del Diritto – fa atto di rassegnazione alla realtà o sembra darle malignamente ragione, dileggiando coloro che si propongono di «migliorare il mondo». Adorno vede nella sottomissione alla realtà così predicata da Hegel un atteggiamento con conseguenze conservatrici sul piano storico-sociale e non esita a escogitare il paradosso che proprio questo atteggiamento verrà a costituire il retroterra della critica del socialismo scientifico di Marx e Engels all’utopismo: «Sono gli elementi più reazionari, non i liberali-progressivi, di Hegel, quelli che hanno preparato il terreno alla posteriore critica socialista dell’utopismo astratto; anche se hanno poi fornito i pretesti per una rinnovata repressione nella storia stessa del socialismo»29.

Ma, passando all’estremo opposto, egli protesta contro l’idea della razionalità del reale, nella misura in cui razionalità significa possibile accordo tra le aspirazioni della soggettività (che è la vera attrice della storia) e l’andamento oggettivo delle cose, possibile congiunzione armonica tra soggetto e oggetto. Adorno fa di nuovo appello alla realtà effettiva dell’esperienza storico-sociale per mettere innanzi l’idea che non la ratio, bensì piuttosto l’irratio domina la vita sociale contemporanea, e per dare così una smentita, grazie a questo argomento empirico, all’idea della razionalità del reale. «La Ragione diventa impotente ad afferrare il reale non per la sua propria impotenza, ma perché il reale non è ragione».

Non è difficile vedere che il termine ‘razionalità‘ è preso questa volta in un’accezione normativa, quella cioè di un accordo armonioso tra le inclinazioni della soggettività e la logica oggettiva delle cose. Razionale in questo senso sarebbe effettivamente la società in cui si realizzasse tale accordo. Ci si può domandare se Adorno non usi lo stesso termine, «razionalità», in due contesti differenti. Una volta il termine concerne una realtà di fatto, l’esistenza di una logica o di una causalità intrinseca agli avvenimenti (è, ci sembra, il senso che Hegel dà al suo asserto: «ciò che è reale è razionale»), l’altra il termine razionale viene preso in senso normativo, in quello cioè di un accordo senza incrinature tra la soggettività e l’oggettività.

Una società irrazionale in questo secondo senso, dove gli antagonismi tra i bisogni reali degli individui e la struttura sociale esistente restano palesi e irriducibili (quella che ha di mira Adorno quando dice che «il reale non è ragione»), può risultare perfettamente spiegabile, nel suo funzionamento, con gli strumenti razionali di una teoria critica della società.

Qual è dunque il senso del rimprovero formulato da Adorno nei confronti di Lukács, di aver «riscaldato» (rimesso in funzione, aufgewärmt) la «discutibile» tesi di Hegel della «razionalità del reale»? Lukács sottometteva alla prova della critica l’immagine della realtà offerta da una certa letteratura d’avanguardia: la sua critica prendeva di mira la natura irrigidita della negatività del reale in questa letteratura e l’immagine non meno statica e riduttiva degli individui che vi sono coinvolti. Egli deplorava il fatto che le situazioni evocate vi riescono prive delle loro mediazioni storico-sociali, le sole che potrebbero dinamizzare e dare coerenza a questa immagine: la rappresentazione del reale nella letteratura condannata da Lukács sarebbe necessariamente caratterizzata dalla «mancanza di significato», facendole difetto la «prospettiva» circa i veri sbocchi della dinamica storico-sociale e circa la vita degli individui che vi sono coinvolti. In questo contesto egli cita la frase di Hegel che sembra aver provocato la recriminazione di Adorno: Wer die Welt vernünftig ansieht, den sieht sie auch vernünftig an; beides ist in Wechselbestimmung («Chi guarda ragionevolmente il mondo, anche il mondo lo guarda ragionevolmente; l’una cosa è in rapporto reciproco con l’altra»).

Adorno rifiutava la posizione di Lukács perché gli sembrava che l’esigenza di una prospettiva razionale sul mondo finisse con l’occultare il carattere profondamente scisso e lacerato di questo mondo, col dissimulare l’antagonismo fino a oggi irriducibile tra le strutture sociali oggettive e le pulsioni e i bisogni degli individui. Nell’esperienza sociale contemporanea nulla giustificherebbe una possibile congiunzione armoniosa tra soggetto e oggetto. Egli temeva che al mondo rappresentato dagli artisti contemporanei Lukács volesse imporre una coerenza «dal di fuori», una razionalità estranea alla sua logica intima, il che contraddirebbe alle esigenze intrinseche della creazione artistica (ma la verità è che Lukács non ha mai rinunciato all’idea dell’«immanenza di significato» nell’opera d’arte, idea che si trova formulata nella Teoria del romanzo e che Adorno riprende spesso). La posizione di Adorno non riesce comprensibile che a partire dal retroterra storico-sociale del suo pensiero, quello di un mondo profondamente incrinato e zeppo di distorsioni: come «la tesi della razionalità del reale venne smentita dalla realtà, così la concezione dell’Identità filosofica è filosoficamente rovinata. La differenza di Soggetto e Oggetto si lascia sopprimere nella Teoria tanto poco quanto essa, fino ad oggi, è stata spianata nell’esperienza della realtà»30.

Grande energia Adorno esplica nella Dialettica negativa a favore della liberazione dei tratti individuali dei fenomeni da quella che egli chiama la «coazione all’identità». Il suo pensiero è animato da un impulso radicale all’emancipazione dell’individualità dalla pressione dei meccanismi coercitivi (Zwangsmechanismen). Egli si rende certo perfettamente conto che l’universale ha un’esistenza non meno oggettiva dell’individuale (lo prova la sua critica al nominalismo), ma nella dialettica di particolare e generale, di individuale e universale, l’accento di valore e il centro d’interesse cadono sull’individuale. Ecco, per concludere su questo punto, la penultima frase della Dialettica negativa:

I minimi tratti intramondani sarebbero rilevanti per l’assoluto, perché lo sguardo micrologico frantuma il guscio dell’impotentemente isolato in base al criterio del concetto superiore, che lo sussume, e fa saltare la sua identità, l’inganno che esso sia meramente un esemplare31.

Con non minor energia Lukács sottolinea nell’Ontologia dell’essere sociale il peso degli individui e delle loro scelte singole nell’evoluzione storica, ma il centro del suo interesse cade sulla capacità della scelta individuale di iscriversi nel destino dell’umanità in quanto genere, sul suo potenziale universalmente umano, dunque sulla convergenza tra gli atti singoli degli individui e la legge universale del genere umano (da lui chiamata Gattungsmässigkeit). Le radici hegeliane di questo orientamento fondamentale del Lukács della maturità ci sembrano anche in questo caso incontestabili. Basta ricordare che nel Giovane Hegel Lukács dà rilievo non solo alla legittima polemica di Hegel contro un certo formalismo e carattere astratto dell’etica di Kant e di Fichte, ma anche alla legittimità della sconfessione operata da Hegel, al polo opposto, dell’individualismo e dell’empirismo della morale di Jacobi. Un’etica fondata sul sentimento immediato, sulla pura spontaneità affettiva, sprovvista di confronto con le esigenze della collettività (che è la posizione di Jacobi), viene respinta da Hegel come non meno astratta di quella fondata sulla maestà della legge universale di Kant e di Fichte. Jacobi polemizza a buon diritto con l’astrazione della morale kantiana o fichtiana, difendendo le azioni che si possono considerare «delitti» secondo l’etica formale, perché «la legge è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge». Ma a un certo punto, per provare la sua concezione, egli si richiama all’esempio di due spartani che, all’invito del re persiano a restare presso di lui, risposero: «Come potremmo noi vivere qui, abbandonare il nostro paese, le nostre leggi e uomini tali che noi, per morire per loro, abbiamo intrapreso un viaggio così lungo?». Hegel cita anzitutto l’interpretazione che Jacobi dà di questo esempio:

Essi non cercarono neppure di fargli capire la loro verità […]. Essi non si richiamarono al loro intelletto, al loro fine giudizio; ma solo a cose e alla loro inclinazione a queste cose. E neppure si vantarono di alcuna virtù e non ebbero alcuna filosofia; ma dichiararono solo il senso del loro cuore, il loro affetto […] la loro esperienza […].

All’interpretazione di Jacobi, Hegel contrappone la sua:

Ma Jacobi chiama ciò che è più vivo, patria, popolo e leggi, cose, a cui essi sarebbero abituati come si è abituati a cose. Egli non le concepisce come cose sacre, ma come cose comuni […]. Egli concepisce come un’accidentalità e dipendenza ciò in cui si trova la suprema necessità e la suprema energia di libertà etica, vivere secondo le leggi di un popolo, e per giunta di quello spartano – come qualcosa di volgarmente empirico ciò che è più razionale.

Riproducendo per l’essenziale la polemica di Hegel con Jacobi, Lukács si sofferma sul principio che Hegel formula a guisa di conclusione: «Alla bellezza etica non può mancare nessuno dei due lati, né il suo carattere vivente di individualità, per cui non obbedisce al morto concetto, né la forma del concetto e della legge, l’universalità e oggettività»32.

Possiamo dire che qui si trova prefigurata, in nuce, la convinzione che animerà tutto il pensiero ultimo di Lukács: l’esperienza individuale nella sua pura singolarità, in quanto priva dell’apporto dell’universale, o quella che Lukács definirà «particolarità astratta», viene respinta; desta invece il suo interesse e la sua approvazione la convergenza tra la singolarità di ogni scelta individuale e lo sviluppo del patrimonio delle qualità che costituiscono il corpus del genere umano. Le esigenze del «razionale» e dell’«universale» hegeliani sono quindi conservate.

È interessante ricordare, in proposito, la conclusione delle note autobiografiche redatte da Lukács poco prima della morte e a cui si può guardare come al suo testamento spirituale. Egli considera la vita umana (Lebensführung) come un teatro di lotta tra la «(vera!) curiosità» e la «vanità». Questa seconda viene da lui condannata come il «principale vizio» dell’uomo, perché chiude l’individuo nella sua pura particolarità (anche la «frustrazione» gli appare come un ristagno al livello della particolarità, come un complemento della vanità); è la «(vera!) curiosità», cioè l’apertura senza limiti nei riguardi del mondo, l’autentica liberazione della soggettività atta a impregnarsi del diverso, che Lukács esalta, perché questa gli appare come l’unica via che conduca verso la fusione tra individuale e universale, verso ciò che egli chiama «il divenir-uomo dell’uomo».

1 B. Croce, Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Bari 1952, p. 72. Il passo di Croce è il seguente: «…un libro scritto in tedesco dal noto marxista ungaro-russo Lukács, che già presentai ai lettori italiani nel suo aspetto di interprete, ahimé!, della tragedia di Gretchen nel Faust col criterio della lotta di classe; e le cui elucubrazioni, che pretendono di mettere in rapporto la dialettica hegeliana con l’economia, non debbono essere considerate in questa sede, ma rimandate a quella che, come abbiamo detto, non ci riguarda».

2 A. Peperkzak, Le jeune Hegel et la vision morale du monde, La Haye 1960, p. 26.

3 T. W. Adorno, Tre studi su Hegel, trad. di F. Serra, Bologna 1971, pp, 15-6.

4 Hegels theologische Jugendschriften, hrsg. von H. Nohl, Tübingen 1907, p. 142 (Hegel, Scritti teologici giovanili, trad. di Vaccaro-Mirri, Napoli 1972, p. 222).

5Lukács, Der junge Hegel. Ueber die Beziehungen von Dialektik und Oekonomie (Werke, Rd. 8), Neuwied-Berlin 19673, p. 293 (Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, trad. di R. Solmi, Torino pp. 324-5).

6 E. Bloch, Soggetto-Oggetto. Commento a Hegel, trad. di R. Bodei, Bologna 1975, p. 50.

7 Cfr. Dokumente zu Hegels Entwicklung, hrsg. von J. Hoffmeister, Stuttgart- Bad Canstatt 19752, pp, 281-2.

8 Lukács, Der junge Hegel, cit., p. 202 (trad. cit., p. 221; corsivo nostro).

9 Ibid., pp. 325-6 (trad. cit., pp. 362-3).

10 Fichte’s Leben, II, 2, pp. 161-2 (cit. da X. Léon, Fichte et son temps, Paris 1954-59, II, pp. 121-2).

11 Lukács, Der junge Hegel, cit., p. 309 (trad. cit., p 343).

12 Ibid., p. 311 (trad. cit., p. 346).

13 Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 24.

14 Fichtes Briefwechsel, Berlin 1925, II, pp. 292-3 (cit. da Lukács, Der junge Hegel, cit. p 319; trad. cit., p. 355).

15 Lukács, Thomas Mann, in Deutsche Literatur in zwei Jahrhunderten (Werke, Bd. 7), Neuwied-Berlin 1964, p. 511 (Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna, trad. di G. Dolfini, Milano 1956, p. 24).

16 Cfr. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 17.

17 Cfr. C. Cases, Einleitung a Lehrstück Lukács, hrsg. von J. Matzner, Frankfurt a.M. 1974, p. 39 (Lukács e i suoi critici, nell’«Immagine riflessa», II, 1978, p. 166).

18 Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 15.

19 Adorno, Dialettica negativa, trad. di C.A, Donolo, Torino 1970, p. 8.

20 Ibid., p. 282.

21 Ibid., p. 279 [trad. modificata, N.d.T.].

22 Ibid., p. 279-80 [trad. ritoccala, N.d.T.].

23 Ibid., pp. 25-6.

24 Adorno, Tre studi su Hegel, cit., pp. 103-4. Il rinvio è a Hegel, Aufsätze aus dem kritischen Journal der Philosophie und andere Schriften aus der Jenenser Zeit, hrsg. von H. Glockner, Stuttgart 19583, p. 527 (Scritti di filosofia del diritto, trad. di A. Negri, Bari 1962, p. 113).

25 Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 4.

26 Adorno, Tre studi su Hegel, cit., pp. 110-1 (corsivo nostro).

27 Ibid., p. 112.

28 Ibid., p. 106

29 Ibid., p. 109

30 Ibid., p. 110

31 Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 369.

32 Hegel, Erste Druckschrilten, hrsg. von G. Lasson, Leipzig 1928, pp. 305 sgg. (cit. da Lukács, Il giovane Hegel, cit., pp. 416-7; corsivo nostro).

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