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György Lukács

~ il primo blog in progress dedicato a Lukács

György Lukács

Archivi tag: letteratura tedesca

LINKS – Rivista di letteratura e cultura tedesca – Zeitschrift für deutsche Literatur- und Kulturwissenschaft

14 mercoledì Dic 2016

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia in tedesco, Bibliografia su Lukács, segnalazioni

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Tag

Brecht, Classici, epistolario, lavoro, letteratura tedesca, Marx, realismo


Si segnalano i seguenti articoli su Lukács dalla rivista

LINKS – Rivista di letteratura e cultura tedesca – 
Zeitschrift für deutsche Literatur- und Kulturwissenschaft
Anno XVI, 2016

links

* Georg Lukács, Brief an Hans Mayer vom 19. Juni 1961. Realismus-Debatte und Politik

* Mauro Ponzi, Die “Eingleisigkeit” der Dialektik. Ein Rückblick auf die Auffassung des Verhältnisses Kunst-Politik bei Brecht und Lukács

* Konstantin Baehrens, “[D]en ganzen menschen”. Lukács’ Humanistische Anthropologie und die literatur der Deutschen Klassik

* Matteo Gargani, “L’intero segreto della concezione critica”. Sul lavoro in Lukács e Marx

 

Deutsche Literatur in zwei Jahrhunderten

08 lunedì Set 2014

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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Tag

Cases, Goethe, letteratura tedesca, Mann


di Cesare Cases

da Scegliendo e scartando. Pareri di lettura 
a cura di M. Sisto, Nino Aragno Editore, Torino 2013

I testi di Cases raccolti in quest’opera erano pareri di lettura per Einaudi


Deutsche Literatur in zwei Jahrhunderten, Neuwied Luchterhand 1964 (Werke, Bd. 7)

Il volume è composto di tre volumi già pubblicati (Goethe e il suo tempo, Realisti tedeschi dell’Ottocento e Thomas Mann) più l’ottimo saggio su Minna von Barnhem (pubblicato anch’es­so, in «Belfagor») e una prefazione al tutto. A noi appartiene solo Goethe e il suo tempo, gli altri volumi sono stati pubblicati da Feltrinelli, ma Luchterhand vuole cedere i diritti del mal­loppo intero indipendentemente da quelli dei singoli volumi. Potrebbe certo essere utile raccogliere anche in italiano in un solo volume tutti gli scritti di Lukács riguardanti la letteratura tedesca. È da tener presente che le traduzioni di Goethe e il suo tempo e del Thomas Mann andrebbero riviste perché entrambe assai cattive. Un’idea di origine davichiana che mi sembra inte­ressante è quella di aggiungere al volume anche la Breve storia della letteratura tedesca dal 700 ad oggi. Nel piano delle opere complete di Luchterhand questo scritto sarebbe compreso in un volume di ‘scritti minori’ che comprenderebbe anche Esi­stenzialismo o marxismo oltre a saggi e articoli vari. Penso che un volume così eterogeneo non possa mai essere pubblicato da noi, che per il momento almeno non abbiamo intenzione di fare delle opere complete. Quindi ritengo che l’idea di Davico sia giusta e vada proposta a Luchterhand. In questo modo si avrebbe veramente un ‘tutto Lukács’ per quanto riguarda i suoi studi di letteratura tedesca.

c. 1745 bis. Parere contiguo al precedente.

La proposta non ha avuto seguito, ma i saggi di Lukács sulla letteratura tedesca sono stati in gran parte raccolti in Scritti sul realismo I, a cura di Andrea Casalegno, Torino, Einaudi, 1978, Biblioteca di cultura filosofica.

Breve storia della letteratura tedesca dal Settecento ad oggi

10 giovedì Lug 2014

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letteratura tedesca, progresso, reazione, storia letteraria


di Paolo Chiarini

«Società», 1956

Scritta nell’inverno 1944-45, quando più che mai attuale si presentava il compito della ricostruzione di una Germania democratica sulle rovine di quella nazista, questa Storia della letteratura tedesca di Lukács è forse uno dei suoi lavori più civilmente «impegnati» e, nello stesso tempo, senza dubbio, uno dei più acuti e convincenti. Ciò è dichiarato a tutte lettere nella premessa all’edizione italiana, apparsa ora presso Einaudi: «All’estero… si sottovaluta spesso la lotta eroica che eminenti poeti tedeschi hanno combattuto e combattono ancora oggi per il rinnovamento della loro nazione, per ricondurla sulla retta via. Questo piccolo libro intende anzitutto descrivere questa lotta» (pp. 9-10). La dialettica di progresso e reazione nella letteratura tedesca dell’età classica e poi dell’epoca dell’imperialismo costituisce il filo conduttore del discorso critico, costretto – certo – al rapido schizzo e alle grandi linee maestre di svolgimento dalla natura compendiosa del libro, ma mai indulgente (ed era questo il pericolo principale) alla schematica contrapposizione di idee e valori contenutistici. Anche quando sottolinea le caratteristiche essenziali di un’epoca o di uno scrittore, Lukács, lo fa sempre tenendo d’occhio (sia pure, a volte, solo implicitamente) le sfumature e il chiaroscuro, né la «passione» civile e politica gli fa velo gli impedisce di restituire a questo o quell’autore, sul piano delle conquiste stilistiche, ciò che gli toglie nell’ambito della polemica ideologica e umana (si veda, ad esempio, quanto dice di Ernst Jünger). Concordando con quanto si legge nella scheda bibliografica che accompagna il volume, è lecito affermare che ci troviamo per la prima volta davanti a «una compiuta sintesi storica d’un’intera letteratura, così sapiente e articolata nella sua sistematica brevità da far scadere al rango di cronache o di compendi molte delle tradizionali storie letterarie». Ed è sintomatico il fatto che, in alcuni dei suoi più cospicui risultati, il lavoro del Lukács concordi sostanzialmente con talune delle tesi più avvedute e ragionate della recentissima Storia della letteratura tedesca di Vittorio Santoli, che pure parte da premesse davvero antitetiche (ma anche da una eguale, rigorosa probità scientifica): come l’iniziale polemica contro il concetto, d’origine romantica, di un «passato organico del popolo tedesco, della cultura tedesca, della letteratura tedesca» (p. 17 sgg.), in realtà inesistente come omogenea continuità storica. Il lettore non troverà certo, in questa Storia, delle partite analisi estetiche («il nostro schizzo somiglia, per forza di cose, a una carta geografica, che non è neppur essa in grado di riprodurre le caratteristiche essenziali, estetiche od altro, delle città e dei paesaggi»: p. 23), ma, in fondo, qualcosa di più: una guida preziosa (con la quale si potrà anche a volte dissentire) attraverso l’intricato sviluppo della letteratura tedesca negli ultimi due secoli.

Beiträge zur Geschichte der Aesthetik

10 giovedì Lug 2014

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Antigone, bello naturale, Cernysevskij, Classici, Engels, Estetica, Hegel, letteratura tedesca, Marx, Omero, Schiller, Shakespeare, Stalin, superstruttura, tragico, Vischer


di Cesare Cases

[Scheda]

«Società», 6, dicembre 1955

Nella prefazione a questo volume, l’a. esprime la speranza che gli sia possibile un giorno «trattare i problemi dell’estetica nel loro ordine sistematico». Si deve qui probabilmente scorgere un’allusione a un’opera sui problemi del rispecchiamento estetico a cui L. sta attualmente lavorando e un capitolo della quale (sul «problema della particolarità nella filosofia classica tedesca») è stato pubblicato nella «Deutsche Zeitschrift für Philosophie» (n. 4, 1954). Quest’opera esaminerà in particolare la differenza tra rispecchiamento scientifico e rispecchiamento estetico della realtà e la definizione di questo ordine di problemi ad opera di uno studioso del valore di L. sarà certo di grande importanza ai fini dell’elaborazione di un’estetica marxista. Avremo così modo di confrontare il pensiero di L. con le obiezioni mosse da Galvano della Volpe (Il verosimile filmico ed altri scritti di estetica, Roma, 1954, p. 121) di fronte ad accenni contenuti in altre opere.

In attesa di questo volume che dovrebbe dare un carattere più decisamente sistematico al pensiero estetico di L., eccoci di fronte a una raccolta di saggi sulla storia dell’estetica, scritti in varie epoche e in varie occasioni. Accanto a tre lunghi studi (sull’Estetica di Schiller, su Karl Marx e Friedrich Theodor Vischer e su Franz Mehring) troviamo qui un più breve saggio su Nietzsche come precursore dell’estetica fascista e tre introduzioni (all’Estetica di Hegel, agli scritti estetici di Cernicevski e a quelli di Marx ed Engels, quest’ultima già tradotta in italiano nel volume Il marxismo e la critica letteraria, Torino, 1953) nonché una conferenza su La letteratura e l’arte come superstruttura, tenuta all’Accademia ungherese delle Scienze come contributo alla discussione intorno allo scritto di Stalin sulla linguistica.

La connessione tra tutti questi saggi è data dal fatto che essi trattano momenti importanti della storia dell’estetica e attraverso i rimandi propri di un pensatore di così vasti orizzonti rischiarano anche periodi e figure non esplicitamente presi in esame. Non possiamo qui esporre né tanto meno discutere il contenuto di tutti i saggi. Rinunceremo a trattare quello su Schiller e quello su Mehring (interessante perché pone in luce i limiti lassalliani del grande critico della II Internazionale e il suo influsso sul gruppo dei brandleriani e sul loro teorico, August Thalheimer), accontentandoci di seguire due importanti problemi, e cioè il bello di natura e la definizione del tragico, così come essi si presentano nel periodo dell’elaborazione del pensiero marxiano, tra Hegel e Cernicevski da una parte e il teorico liberale Fr. Th. Vischer dall’altra. Ciò darà modo di vedere come anche in questi saggi storiografici L. tenga sempre presente l’esigenza sistematica.

Nel saggio su Cernicerski L. sottolinea l’energica rivalutazione del bello di natura operata dal critico russo contro gli idealisti. La vita, la realtà, è sempre infinitamente più varia e più ricca della opera d’arte. Ciò non significa che il bello di natura sia qualche cosa di esistente al di fuori dell’uomo. Richiamandosi a un passo di Marx dove si dice che «l’oro e l’argento non sono denaro per natura, ma il denaro è per natura oro e argento» (per le loro proprietà fisico-chimiche – quindi indipendenti dalla nostra coscienza – che, rileva Marx, determinano anche certe impressioni estetiche non senza importanza nella scelta di questi metalli come incarnazione del denaro), L. afferma (p. 146): «Il bello di natura è dunque inseparabile dal carattere oggettivo del fenomeno, ma ciò che è bello, sublime ecc. per l’uomo è contemporaneamente determinato dai suoi bisogni. Cioè il bello di natura è insieme più oggettivo e anche più soggettivo di quanto non sostenga l’estetica idealistica: è inseparabile dal mondo oggettivo della natura e può al contempo realizzarsi come bello di natura solo sul terreno dei bisogni umani».

Questa giusta concezione del bello di natura non può essere raggiunta finché si contrappone meccanicamente la natura come alcunché di assolutamente indipendente dall’uomo all’arte come attività puramente soggettiva: in questo caso avremo sempre la tendenza a oscillare tra l’esaltazione unilaterale del bello di natura (Diderot) e l’idea che il bello è un prodotto esclusivo della coscienza (Kant). Solo in Hegel (p. 117) si intuisce che «quella natura che figura come oggetto dell’estetica, in cui può apparire il bello di natura, è un terreno di interazione tra società e natura». Ma Hegel stesso finisce sovente per ricadere nel disprezzo idealistico della natura.

Ora Cernicevski, nella sua rivendicazione antiidealistica del bello di natura, cade nell’opposto eccesso di una certa svalutazione dell’arte. Egli afferma, p. es., che la riproduzione artistica del reale è utile e indispensabile, ma aggiunge «nel caso che manchi il pieno godimento estetico quale lo offre la realtà». L. commenta (p. 157): «Cernicevski contrappone all’estremo falso e unilaterale dell’estetica idealistica per cui l’arte costituisce un’“integrazione” metafisica del reale al bello di natura, dannato a un’ “eterna imperfezione”, l’altro estremo – come abbiamo visto, per molti riguardi meglio adeguato ai fatti, ma tuttavia falso – per cui l’arte rappresenta per noi solo un surrogato in casi in cui il bello di natura è per noi inattingibile per ragioni soggettive o oggettive». Questi limiti di Cernicevski, così come la sua scarsa sensibilità per i problemi della forma, sono una conseguenza dell’antropologismo feuerbachiano, che esalta la «vita» come un dato senza esaminarne da vicino le articolazioni.

Per quel che riguarda la definizione del tragico (argomento già affrontato p. es. nel saggio sulla polemica tra Marx-Engels e Lassalle a proposito del Sickingen di questo ultimo, tradotto in Il marxismo ecc., cit.), interessano anzitutto le oscillazioni che essa subisce nella estetica di Fr. Th. Vischer in corrispondenza alla sua involuzione politica. La necessità tragica era notoriamente per Hegel l’espressione della necessità del decorso storico, per cui nel cozzo tra due stadi dell’evoluzione dello Spirito quello storicamente superato deve fatalmente soccombere. L’esempio più noto è il conflitto tra famiglia e Stato nell’Antigone, ma già esso porta tratti moderni e l’analoga analisi di Shakespeare come interprete del tramonto dell’epoca «eroica» medioevale di fronte alla moderna «società civile» mostra come per Hegel il conflitto tragico per eccellenza sia quello in cui il passato preborghese cede le armi di fronte alla società borghese sviluppata. La sola tragedia nota a Hegel è dunque quella del conservatore venuto troppo tardi, mentre Marx ed Engels aggiungono quella di Thomas Münzer, cioè del rivoluzionario venuto troppo presto (un esempio isolato di questo tipo è, nelle lezioni hegeliane sulla Storia della filosofia, Socrate, anticipatore del Cristianesimo).

Già nella sua Estetica Vischer, pur prendendo le mosse da Hegel, modifica la concezione del tragico nel senso che «l’eroe stesso deve essere convinto della necessità della sua fine». Ne consegue da una parte una soggettivizzazione del conflitto (che in Hegel aveva basi oggettive: la fine di Antigone è la fine di un mondo) e dall’altra una sua generalizzazione in senso formalistico, per cui tutto è necessario. Ciò emerge chiaramente nell’atteggiamento di Vischer di fronte alla rivoluzione del ’48. La necessità tragica è sia nella controrivoluzione che nella debolezza della borghesia rivoluzionaria «convinta» di dover fallire. L. così riassume tale posizione (p. 242): «È dunque in egual modo “tragicamente necessario” che gli Hohenzollern dominino incontrastati sulla Germania come è “tragicamente necessario” che i borghesi tedeschi e i loro ideologi lecchino gli stivali degli Hohenzollern». Più tardi il riconoscimento della necessità del fatto compiuto porta Vischer ad accettare la soluzione bismarckiana e a giustificare la guerra del ’66 col fatto che «ci sono situazioni tragiche in cui se non si agisce una vecchia colpa continuerà a portare sempre nuovi mali, eppure, non si può agire senza commettere nuove colpe». La concezione irrazionalistica soggiacente a questa teoria della necessità tragica è espressa chiaramente in una lettera della stessa epoca: «Non ho perduto la fede in una legge che governa la storia. Ma noi non possiamo conoscere le vie di questa legge… La prospettiva è falsa: non è per una via organica, ma per una via caotica che le cose possono cambiare». È chiaro il collegamento tra queste concezioni e quelle dello Hebbel postquarantottesco (il «sonno del mondo» di Gige e il suo anello) trattate altrove da L. Qui egli insiste sulla linea che conduce da questo irrazionalismo di Vischer, attraverso la teoria dell’Einfühlung che egli mutua negli ultimi scritti dal figlio Robert, a Dilthey e al moderno irrazionalismo estetico (cui è dedicato anche il saggio su Nietzsche).

Il disfattismo della concezione vischeriana del tragico è aspramente combattuto da Cernicevski. I suoi colpi sono diretti anzitutto contro l’idea di «destino» che serve a fondare tale disfattismo e che è ripresa da tutta la drammaturgia dell’Ottocento dalla Schicksalstragödie in poi. La nuova importanza assunta da quest’idea dopo che essa era stata respinta dall’Illuminismo (si ricordi il motto napoleonico «il destino è la politica», convalidato da Goethe) si deve, ricorda L., all’incertezza delle basi dell’esistenza individuale nel regime capitalista. La critica di Cernicevski rivela brillantemente come le teorie dell’estetica liberale sulla «necessità» e la «colpa tragica» costituiscano una giustificazione degli orrori della società classista. Perciò egli dà la seguente definizione del tragico: «Il tragico è il terribile nella vita umana». Tale identificazione del tragico col terribile equivale, dice L. (p. 179) «a un appello alla lotta rivoluzionaria contro tutti gli orrori dovunque essi si rivelino, sia nella indifferenza della natura di fronte agli uomini, sia nella convivenza sociale degli uomini stessi».

Ma al solito anche qui si manifestano i limiti dovuti all’antropologismo di Cernicevski. Nella sua lotta contro la «necessità tragica» egli sottolinea il carattere accidentale del tragico concepito come terribile. Almeno nella vita, egli afferma, un destino tragico può essere del tutto accidentale senza cessare di essere tragico (e dà come esempio la morte di Gustavo Adolfo a Lützen, al colmo dei suoi trionfi). Ora in tal modo per negare la «necessità tragica» generalizzata dai teorici liberali si viene a negare ogni e qualsiasi necessità tragica come fatto sociale inevitabile. Tale è difatti la concezione esposta nel romanzo Che fare?, dove tutti i conflitti insolubili dal punto di vista borghese vengono appianati grazie all’elevatezza morale e intellettuale dei protagonisti. L. riconnette a questa concezione (di carattere sostanzialmente illuministico) la teoria dell’«assenza di conflitti» per qualche tempo sostenuta nell’Unione Sovietica. (Interessanti sviluppi delle idee di L. sul tragico si possono ora vedere nello studio di Hans-Günther Thalheim, Schillers “Demetrius„ als Klassische Tragödie in “Weimarer Beiträge„ I-II-1955).

Non possiamo abbandonare il libro di L. senza esserci soffermati sull’importante conferenza La letteratura e l’arte come superstruttura. Qui si insiste dapprima sul carattere superstrutturale di entrambi i campi, da molti contestato sulla scorta di un’erronea interpretazione degli articoli di Stalin sulla linguistica («forse ognuno è disposto ad accettare come superstruttura la specialità dell’altro», annota ironicamente L.). In secondo luogo si dimostra come la superstruttura letteraria e artistica sia collegata alla produzione solo indirettamente, attraverso la base. Qui L. riprende motivi già visti a proposito di Cernicevski. Mentre nella scienza gli strumenti di osservazione si emancipano sempre più dagli organi sensoriali, l’arte non ne può mai superare i limiti; può però, entro questi limiti, variare, perfezionare e raffinare i propri strumenti. «Tutto ciò riposa proprio sul fatto che l’arte rispecchia immediatamente soltanto i rapporti di produzione, mentre rispecchia solo attraverso la loro mediazione tutto il resto, cioè precisamente la natura. Si ha così la peculiare oggettività della rappresentazione artistica, la necessaria presenza dell’uomo nel rispecchiamento della realtà oggettiva, senza che ne sia annullata la oggettività» (p. 417). L. dà l’esempio dell’evoluzione della natura morta dagli olandesi a Cézanne e Van Gogh: proprio qui, dove il tema immediato è soltanto la natura, si può cogliere lo stretto nesso tra il suo rispecchiamento e i rapporti sociali, l’ordine della produzione.

Infine L. sviluppa il discorso, già accennato nella Skizze einer Geschichte der deutschen Literatur, sulle ragioni della sopravvivenza delle opere d’arte. Egli parte dalla constatazione che ogni classe riprende quella parte della superstruttura del passato che può utilizzare nella sua lotta, ciò che dà luogo a sopravvalutazioni e deformazioni. L’avvento del socialismo pone termine a questo modo di risuscitare l’arte del passato, ma ciò non significa che essa cessi di interessarci ove non ci siano più classi che hanno interesse a richiamarsi ad essa. Anzi proprio l’estinzione della lotta di classe pone i presupposti per un’esatta valutazione dell’eredità artistica. Rifacendosi alla nota frase di Marx nell’Introduzione alla critica della economia politica, L. così definisce, in maniera, ci sembra, anch’essa «classica», le ragioni della sopravvivenza delle opere d’arte: «L’arte greca agisce quindi su di noi come la “infanzia normale”, che non ritornerà mai, dell’umanità; dunque nel ricordo, come fissazione artistica di un’importante tappa del cammino finora percorso dall’umanità. E anche qui non si tratta di un qualsiasi ricordo di questa tappa, bensì esclusivamente di un ricordo che concentra in forma classica i fattori decisivi della tappa stessa (usando l’aggettivo “classico” nello stesso senso in cui lo definisce Engels nelle sue ricerche sui rapporti tra logica e storia). Di conseguenza nell’effetto estetico che fa dei poemi di Omero “una norma e un modello ineguagliabile” è inscindibilmente implicito anche il carattere superstrutturale dell’arte: le grandi opere d’arte rispecchiano in modo esemplare la base, i rapporti di produzione e i rapporti sociali fondamentali della loro epoca» (pp. 424-25). Questo per quanto riguarda il contenuto. Ma anche la forma «è tanto più compiuta, quanto più organicamente essa collega i rapporti più essenziali di una base concreta (cioè dei rapporti umani che la costituiscono) con la capacità di rendere plasticamente sensibili uomini concreti, quindi individualizzati. Quanto più una forma artistica ci può mettere in grado di rivivere immediatamente i rapporti umani concreti da essa rappresentati e tanto pili sicura è la sopravvivenza dell’opera d’arte in questione. Tanto più infatti anche l’uomo di un lontano futuro sarà in grado di riconoscere immediatamente se stesso negli uomini e nelle vicende rappresentate e nel mondo oggettivo che media queste vicende, di riconoscere il proprio passato nel passato dell’umanità» (p. 425).

Cesare Cases

Goethe und seine Zeit

24 martedì Giu 2014

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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Engels, Goethe, letteratura tedesca, Marx, marxismo, poesia


Benedetto Croce

Benedetto Croce

di Benedetto Croce

«Quaderni della Critica», n. 14, luglio 1949.

Per cominciare, ho voluto vedere che cosa in questo libro si dicesse della Gretchen-Tragödie, della tragedia di Margherita, alla quale è assegnato uno speciale capitolo (pp. 176-90). Il signor Lukács, naturalmente, da insigne ripetitore, qual è, del Marx, la riconduce senz’altro alla polemica e critica «sociale», non passandogli neppur per la mente che, oltre le faccende e i contatti sociali, c’è qualcosa al mondo che si chiama poesia. E la polemica e la critica, nel caso di Margherita, sarebbe stata quella che la borghesia conduceva, nella seconda metà del settecento, contro il decadente feudalismo, per le seduzioni e poi l’abbandono che i suoi rappresentanti usavano verso le ragazze della sua classe; il che prese torma di opere letterarie e in ispecie di drammi, tra i quali celebri l’Emilia Galotti del Lessing e il Kabale und Liebe dello Schiller. Ora, ammettiamo pure che in queste due famigerate ma mediocri e impoetiche tragedie ci sia una polemica di quella sorta esplicita o implicita; ma nella tragedia di Margherita non c’è. È risaputo che la materia ossia l’occasione ne venne al Goethe dal tema, che altri scrittori allora trattarono, delle ragazze infanticide le quali venivano condannate a morte e giustiziate, e che a lui aveva suggerito l’argomento di una tesi per il dottorato in giurisprudenza. Non richiamerò particolari ben noti; ma aggiungo che il Beutel, direttore della Casa di Goethe di Frankfurt (la guerra distrusse poi anche questa casa), mi mandò nel 1940 un suo volume di saggi goethiani, nel quale c’è il racconto del minuto cerimoniale della esecuzione capitale di una di codeste infanticide, che ebbe luogo proprio in Frankfurt, nel 1772, e nel quale figurarono amici e parenti del Goethe. La frequenza di queste esecuzioni commosse, impietosì e rese pensoso il giovane poeta. Né l’antitesi di classe qui aveva alcun luogo, ma forse quella che un tedesco mi definì in mia gioventù la maggiore «ingenuità» e «innocenza» delle fanciulle tedesche rispetto a quelle italiane, riflessive e avvedute, onde erano facilmente sedotte; ma altri mi fece poi osservare che la «Lebensfreude» della ragazza tedesca è più esuberante che non sia quella delle italiane. Come che sia, il signor Lukács, dopo aver confermato che nel Goethe c’era il momento della critica contro i don Giovanni dell’estremo feudalismo, e dopo aver notato che questo momento è certamente importante ma è un momento, vuole che il Goethe, sebbene non si ribellasse direttamente al capitalismo, penetrasse a fondo la situazione che all’amore è assegnata nella società borghese, precorrendo su ciò la dottrina di Federico Engels: che il «capitalismo» impedisce la «fusione delle anime nell’amore», perché l’individuo deve rispondere alla domanda se amore e matrimonio siano proficui o dannosi alla sua «carriera», il che porta a un conflitto che va dal più brutale e materiale tornaconto fino all’egoismo basso ed angusto e di tragica conseguenza. Solo negli strati plebei – come dimostrava l’Engels, – e particolarmente nel proletariato, il problema si pone altrimenti; e, sparite le classi, l’unione e la vera armonia si attueranno da sé, spontaneamente. E il Goethe – tanto grande era il suo genio – anticipò questa soluzione proletaria e avveniristica. Dove? si domanderà. Ma nella conclusione del Faust, nell’ultima scena della seconda parte, nella quale la forma è romantico-cattolica e reazionaria, ma nel contenuto di pensiero non si tratta già di una soluzione trascendente e paradisiaca, sì invece della fede saldissima in uno svolgimento storico-sociale del genere umano. Con quella conclusione egli rinunziò veramente al suo aristocraticismo spirituale e fece omaggio all’elemento plebeo, nel quale soltanto vide attuata la spontanea armonia delle facoltà; e perciò aveva cercato a preferenza le creature della sua poesia negli strati plebei. Non importa al signor Lukács che il Goethe non abbia mai parlato di «plebeo», e abbia spiegato l’interessamento, a lui rimproverato per la «cattiva società», dicendo che questa gli forniva la drammaticità che egli non trovava nella buona e insipida società regolare; né che la chiusa del Faust sia una confessione, fatta a mezza voce e quasi con ironia verso sé stesso, di quella sorta di misticismo erotico che più volte si affacciò al suo animo e al quale di recente egli aveva dato espressione nella elegia di Marienbad.
Dopo di che, ho rinunziato a leggere il libro intero del signor Lukács, che è uno dei soliti nei quali ora si rinnova indefessamente l’attentato di istupidire il lettore, recitandogli monotonamente sempre le stesse formole e raccontandogli fatti che non sono mai accaduti; forse si spera così, non potendo convincere le menti e infervorare gli animi, di vincerli meccanicamente. E con meccanica industria i neoscolari di Marx ed Engels e Lafargue nelle cose e nella critica dell’arte e della poesia, che si sono annunziati ora in Italia, si accingono a gettarsi pesantemente sulla storia della poesia e dell’arte e a farne governo a lor modo. Pure, se non ci facessero troppo aspettare la pienezza dello spettacolo promesso ma non ancora attuato, darebbero a noi diletto, e forse a sé stessi procurerebbero un salutare rapido disebriamento.

Realisti tedeschi del XIX secolo

24 martedì Giu 2014

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ebraismo, Heine, letteratura tedesca


di Ettore Camaschella

«La Rassegna Mensile di Israel», terza serie, vol. 29, No. 3/4 (Marzo-Aprile 1963), pp. 168-170

L’edizione originale tedesca (Aufbau-Verlag di Berlino) è del 1956. In Italia erano già apparse molte traduzioni del noto critico letterario marxista, tra cui i saggi sul Goethe, i dibattiti sulla fondazione di una nuova estetica materialistica coll’enunciazione dei canoni del «realismo», le varie teoriche dell’ideologia marxista in campo estetico, vari saggi minori ecc. generalmente pubblicati dall’editore Einaudi di Torino.

Il presente volume è composto di otto capitoli: una prefazione di carattere generale, un saggio sul Kleist, uno sull’Eichendorf, uno sul Büchner, uno sul Heine, uno sul Keller, uno sul Raabe ed uno sul Fontane. L’Autore è indubbiamente un profondo conoscitore della letteratura tedesca, anche se è evidente che l’angolo di visuale da cui si pone per interpretare e classificare il valore dell’opera esaminata è necessariamente unilaterale, implicitamente ed esplicitamente dedotto dai postulati marxisti, di cui sono peraltro numerose le sfumature originali (che hanno causato, tra l’altro, alcuni tentativi di scomunica per «revisionismo» ideologico del marxismo).

Noi accenneremo qui soltanto al saggio su «Heinrich Heine come poeta nazionale» (pp. 95-157), saggio che inizia con una curiosa confessione di insufficiente comprensione marxista dell’importanza che indubbiamente avrebbero le biografie dei grandi scrittori del periodo borghese.

Infatti (pag. 95), «nella maggior parte gli scrittori di valore che il destino ha situato fra i due estremi della miseria assoluta e della piena sicurezza economica sono soggetti a una quantità di circostanze sinistre e avvilenti, che impediscono e deformano il loro sviluppo». Heine vive in Germania nel periodo della formazione del moderno capitalismo, appartiene a famiglia povera, ma con parentele altolocate e finanziariamente importanti. In quel paese è già possibile per gli «scrittori produttivi e popolari» vivere del frutto del proprio lavoro, senza più bisogno di mecenatismo (anche se ancora praticato e spesso sollecitato). Altro fatto curioso: l’editore di Heine ricavò grandi profitti dalla vendita delle sue opere, mentre lo scrittore non fu mai in grado di vivere colle entrate delle sue pubblicazioni. Fu così che il poeta dovette subire l’umiliante «dipendenza» dai ricchi parenti amburghesi, dipendenza che, a dire del Lukács, non gli offriva del resto che modesti aiuti finanziari.

L’articolo si dilunga in particolari biografici, in aneddoti vari, allo scopo precipuo di cogliere l’addentellato economico-sociale dei fatti col significato artistico dell’opera, non nel senso, naturalmente, di un obiettivo valore estetico, bensì di un inquadramento storico come inserimento positivo nel moto di trasformazione della società in senso socialistico.

A dire il vero, il Lukács sembra talora confondere la situazione economica-finanziaria dell’autore colla posizione «storica» della sua opera letteraria, quasi a farne una determinante meccanicistica degli sviluppi e delle direzioni del contenuto artistico da essa assunto, a prescindere, naturalmente, dal fatto che rimane ancora da dimostrare il valore estetico, per lo meno nel senso goethiano di creazione «für ewig». È la nota questione dell’autonomia dell’arte dalle circostanze che essa idealmente esprime, autonomia che il Croce intendeva nel senso «formale» di intrinseco valore estetico, pur riconoscendo le necessarie connessioni di ordine storico e, quindi, biografico.

La posizione «tattica» di Heine nella battaglia politica che si svolgeva in Germania e altrove (ma principalmente nei suoi riflessi germanici) giustifica le contraddizioni, secondo il Lukács, in cui si trovò avvolto il poeta, sino a cadere in un prolungato isolamento e in una desolante solitudine spirituale, nonostante i successi popolari della sua opera letteraria. Le ragioni non andrebbero viste nella contraddizione fra il suo latente ebraismo e la formale conversione al protestantesimo. Dice il Lukács: (pag. 102) «La causa di questa solitudine e della diplomazia che necessariamente ne seguiva non va ricercata nelle personali qualità psicologiche di Heine, e meno che mai nel fatto che egli era ebreo, fatto al quale i suol critici antisemiti e i suoi difensori sionisti attribuiscono sempre tanta importanza. Noi crediamo, contro queste due tendenze, che come poeta e pensatore Heine sia profondamente legato allo sviluppo della Germania, che il suo isolamento non abbia a che fare con la sua origine ebraica; il problema dell’isolamento, infatti, non si presenta né in Börne né in Marx. La ragione sta appunto nel fatto che Börne era intimamente legato al movimento della piccola borghesia radicale tedesca, e Marx a quello del proletariato tedesco, così che entrambi hanno preso parte, in modo diverso, alla vita e allo sviluppo di una classe. Heine invece non era legato ad alcuna classe, ad alcun partito della Germania».

L’aver compreso l’importanza della funzione storica del proletariato, senza peraltro essere un «vero rivoluzionario proletario», ecco le ragioni della contraddizione che è causa dell’isolamento spirituale del poeta, a dire del nostro critico. Tale posizione contraddittoria sembra paradossalmente costituire motivo di efficacia espressiva dell’arte di Heine, poiché in tutto quel tempo «non troviamo neppure uno scrittore che si sia elevato all’altezza contraddittoria di Heine» (pag. 106). Forse in questa frase la chiave per comprendere l’importanza dell’opera letteraria del poeta: la capacità di tradurre le contraddizioni storiche (intese nel sento marxista di conflitti economico-sociali, di cui le forze politiche sono le espressioni della sovrastruttura ideologica) in efficaci risultati artistici. Rimane, a mio avviso, il problema fondamentale: in che cosa consiste, SUL PIANO ARTISTICO, il valore dell’opera del Heine?

Molto bene è messo in luce dal Lukács il motivo dell’amore-dolore-odio per la «tedescheria», motivo di origine goethiana, ma pateticamente sfociante in drammatiche espressioni e contraddittori motivi di nostalgia, evidente in Deutschland, ein Wintermärchen e nel Buch der Lieder.

E così, il motivo del contrasto cielo-terra (che potrebbe forse richiamarsi al proteismo e alla stessa Toràh, che SU QUESTA TERRA vogliono edificare un mondo migliore) è sarcasticamente dipinto dal poeta come contrasto (almeno secondo il Lukács, idealismo-materialismo, ovvero ideologia borghese e ideologia proletaria). Per il nostro critico si tratterebbe di «entusiasmo Incondizionato al socialismo». Citiamo i noti versi del coro dei tessitori:

Ein neues Lied, ein besseres Lied,
O Freunde, will ich euch dichten!
Wir wollen hier auf Erden schon
Das Himmelreich errichten.
Wir wollen auf Erden glücklich sein
Und wollen nicht mehr darben;
Verschlemmen soll nicht der faule Bauch,
Was fleissige Hände erwarben.
Es wächst hienieden Brot genug
Für alle Menschenkinder,
Auch Rosen und Myrten und Schönheit und Lust,
Und Zuckererbsen nicht minder.
Ja, Zuckererbsen für jedermann,
Sobald die Schoten platzen!
Den Himmel überlassen wir
Den Engeln und den Spatzen.

Ma vari problemi rimangono aperti: è proprio secondaria la contraddizione «cristiano-ebraica» della vita del poeta rispetto alla contraddizione «social-capitalistica»? Delle varie opere del grande poeta e scrittore, quali hanno, artisticamente, maggiore importanza «für ewig»?
Nonostante queste lari»rie, il saggio del Lukács è di grande interesse: dobbiamo essere grati al critico di aver, sia pure con prospettiva discutibile, rivendicato al grande poeta ebreo tedesco una posizione di primo piano nella storia della letteratura europea.

Carteggio Lukács-Cases

19 giovedì Giu 2014

Posted by nemo in Carteggi e lettere, I testi

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Tag

1956, Beckett, Brecht, capitalismo, Cina, De Roberto, De Sanctis, decadenza, democrazia proletaria, Estetica, Hitler, irrazionalismo, Kafka, Kraus, letteratura tedesca, Mann, Manzoni, marxismo, Morante, Musil, romanzo storico, Stalin, storia della letteratura, ungheria, Urss, Usa, Verga, Zola


Balla Demeter (1931- ) Lukács György (1971)Il testo iniziale è di Cesare Cases. Il carteggio è stato pubblicato in C. Cases Su Lukács. Vicende di un’interpretazione, Einaudi, Torino 1985. A seguire sarà riportata una lettera casesinedita di L. a C., pubblicata in spagnolo in Testamento político y otros escritos sobre política y filosofia. Textos inéditos en castellano, a cura di A. Infranca e M. Vedda, Ediciones Herramienta, Buenos Aires, 2003. Continua a leggere →

Il dramma moderno II

08 domenica Giu 2014

Posted by nemo in I testi

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Tag

critica letteraria, dramma moderno, Giovane Lukács, Grillparzer, Hebbel, Ibsen, Lessing, letteratura tedesca, Schiller, teatro


TBico

La genesi della tragedia borghese da Lessing a Ibsen

Il dramma moderno è il prodotto dell’impegno teatrale attivo del giovane Lukács a Budapest, tra il 1908 e il 1909, e solleva questioni che Lukács affrontò direttamente, nella prassi, quando, negli anni 1904-1907, fu uno dei direttori della Thalia-Gesellschaft. La questione di fondo posta dall’Autore è se esista — e se possa esistere in assoluto — un dramma moderno. Attraverso una analisi estetica e storico-sociologica della letteratura, Lukács dimostra che il dramma moderno, qualitativamente diverso dal dramma classico, è il dramma borghese: finora l’unico che non scaturisce da una coscienza mistico-religiosa, ma che si è avvicinato alla sfera religiosa solo nel corso di un successivo sviluppo.
La genesi della tragedia borghese da Lessing a Ibsen, secondo volume di Il dramma moderno, è una disamina del processo di sviluppo del dramma borghese, dalle sue premesse storiche fino all’«epoca eroica» che vede il tentativo, di Hebbel e di Ibsen, di creare una tragedia borghese. Partendo da una analisi specifica della Weltanschauung lessinghiana, il giovane filosofo ungherese passa attentamente in rassegna le fasi più significative di ciò che egli considera l’effettiva genesi del dramma moderno: il concetto di destino in Schiller, la svolta di Immermann e Grillparzer, la chiarezza problematica goethiana, la possibilità drammatica della tragedia di classe in Hebbel, fino alla problematizzazione ibseniana dell’individuo stesso e del suo rapporto con la storia.

Intellettuali e irrazionalismo

07 sabato Giu 2014

Posted by nemo in I testi

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Tag

fascismo, filosofia, imperialismo, intellettuali, irrazionalismo, letteratura tedesca


iicoL’ideologia di destra e nazionalsocialista, il problema dell’irrazionalismo, il rapporto intellettuali-fascismo sono i principali temi di questi scritti lukacsiani, inediti o poco noti, dei primi anni ’30. Lukács prende posizione critica sugli esponenti di tutte le più diffuse tendenze filosofiche e letterarie di questo periodo: Jünger, Rosenberg, Rathenau, Baümler, Bartels, Schauwecker; discute di scrittori come Musil, si confronta con Bloch. Ne emerge un Luckás inedito che fa meglio comprendere anche quello, più noto, dell’estetica e della critica letteraria. Nell’Introduzione, Vittoria Franco ricostruisce questo momento del pensiero di Lukács evidenziando gli elementi teorici che definiscono la «svolta» ontologica del 1930 come un «nuovo inizio» in tutti i campi della sua indagine. E rileva come proprio questi nuovi elementi teorici acquisiti inducano Lukács ad avviare la riflessione sulla storia e sulla cultura della Germania su basi completamente diverse rispetto all’ortodossia ufficiale della III Internazionale comunista e alle tendenze culturali predominanti. Viene così illuminata anche la genesi di un’opera tanto discussa come La distruzione della ragione che, nelle linee fondamentali, nasce in questo periodo. Si scopre che proprio negli anni dello stalinismo Lukács era impegnato a costruire, sia pure faticosamente, una sua autonoma e originale posizione filosofica e politica oltre che estetica. Egli cominciava a pensare in termini nuovi il rapporto, inscindibile, fra democrazia e socialismo e poneva le basi filosofiche delle sue ultime maggiori opere: l’Estetica e l’Ontologia dell’essere sociale.

Scritti sul realismo

30 mercoledì Apr 2014

Posted by nemo in I testi

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Tag

Kafka, letteratura tedesca, Mann, realismo


screQuesto primo volume raccoglie le edizione italiane di opere apparse precedentemente, avente come filo conduttore il concetto di realismo. Il secondo volume invece, che avrebbe dovuto verosimilmente riunire i Saggi sul realismo e Il romanzo storico, non è mai apparso.
Le opere comprese nel primo volume sono:

Breve storia della letteratura tedesca dal Settecento a oggi

Questa Breve storia della letteratura tedesca dal Settecento ad oggi scritta nell’inverno del 1944-45, è una chiara analisi delle correnti e delle personalità di maggior rilievo che hanno animato la cultura tedesca degli ultimi due secoli. Lukács intende valutare, al di là dei limiti della pura storia letteraria e alla luce della dialettica fra progresso e reazione, il cammino percorso dalla Germania nel passato, e, insieme, le linee portanti nello sviluppo dello spirito tedesco. Nell’economia e nella politica dell’imperialismo germanico, Lukács individua le basi sociali, le cause efficienti delle tendenze e dei fenomeni letterari da lui presi in esame.

Goethe e il suo tempo

Scritti da György Lukács nel 1940, nel momento più oscuro della nostra storia, questi “Studi sul Faust” spiccano oggi come una delle migliori introduzioni al capolavoro goethiano e come uno dei saggi del filosofo ungherese che meglio hanno retto l’usura del tempo. Goethe non è soltanto per Lukács il genio che meglio sintetizza il momento più splendido della letteratura borghese nella sua fase ascendente, nella sua contrapposizione vittoriosa alla visione del mondo della feudalità al tramonto; è anche e soprattutto un poeta al quale lo avvicina un’empatia profonda, che gli consente di superare le angustie di un’interpretazione a tratti ideologica, che pesa su molte delle sue analisi della letteratura contemporanea. Gli “Studi sul Faust” e gli altri saggi sull’età goethiana poi raccolti in “Goethe e il suo tempo” consentono a Lukács di contrapporre alla barbarie del nazismo la voce più umana, più illuminata, più europea in cui si sia mai incarnato il magistero della lingua tedesca. L’applicazione intelligente delle categorie interpretative ricavate dalle opere giovanili di Marx, lungi dall’essere una gabbia ideologica che irrigidisce l’interpretazione, si trasforma in una leva potente, che permette a Lukács di mettere in luce un elemento fondamentale della visione di Goethe: la perfetta convergenza della “magia” di Mefistofele con il “magico” potere del denaro che, nella nascente società del capitalismo industriale, si appropria delle forze essenziali dell’uomo e le sfrutta a proprio vantaggio.

Realisti tedeschi dell’Ottocento

Il volume Realisti tedeschi dell’Ottocento riprende saggi pubblicati sulla «Internationale Literatur» tra il ’37 e il ’40, salvo quello su Fontane, apparso in «Sinn und Form» nel ’51. Nello stesso anno apparve la raccolta completa presso l’Aufbau Verlag, con il titolo Deutsche Realisten des 19. Jahrhunderts.

Thomas Mann

In questi tre saggi, raccolti in volume dall’autore, il filosofo marxista György Lukács (1885-1971) ci ha lasciato la sua interpretazione di Thomas Mann, da lui considerato “l’ultima grande espressione del realismo critico borghese”. Il primo – una conferenza pronunciata per celebrare i settant’anni dello scrittore – è una lettura complessiva del “work in progress” manniano. Nel secondo, scritto nel 1948, Lukács interpreta il Doctor Faustus, come “la tragedia tipica dell’arte e della spiritualità borghese moderna”, e come il percorso esemplare di un intellettuale tedesco negli anni che precedono l’avvento del nazismo. Il terzo raccoglie i fili del lungo confronto di Lukács con l’opera di Mann.

Il significato attuale del realismo critico

Il significato attuale del realismo critico [Die Gegenwartsbedeutung des kritischen Realismus] apparve per la prima volta in italiano, nella traduzione di Renato Solmi (Einaudi, Torino 1957), condotta direttamente sul dattiloscritto; dopo il ’56 Lukács era stato infatti messo al bando nei paesi socialisti. L’anno seguente usciva anche l’originale tedesco, ma presso una casa editrice occidentale, con il titolo, scelto dall’editore, Wider den missverstandenen Realismus (Contro il fraintendimento del realismo), Claassen, Hamburg 1958.

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