Lukács: ritorno al concreto

di György Lukács

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.

Intervista concessa a Naïm Kattan e pubblicata nella “Quinzaine Littéraire”, 1/15 dicembre 1966 con il titolo “Lukács: revenir an concret”. Tradotta e pubblicata in italiano da “L’Espresso”, n. 2, gennaio 1967, p. 11 con il titolo “Lo scrittore a piede libero”, senza indicazione del traduttore.


L’appartamento di Lukács è all’ultimo piano di un edificio che si affaccia sul Danubio. Le pareti sono tappezzate di libri. Guardo a caso: opere complete di Hegel e di Marx. Sulla scrivania, altri libri, riviste in ungherese, in tedesco, in francese. È qui, che da dieci anni, Lukács prosegue nel suo lavoro.

Si sa che fu Ministro della Cultura nel governo di Imre Nagy. Dopo che la rivoluzione ungherese fu schiacciata, Lukács visse alcuni mesi, in un esilio volontario, in Romania. Dal suo ritorno, si è imposto il compito di terminare la sua “summa” filosofica. Un primo volume di più di mille pagine è già stato pubblicato in tedesco. Lukács è in tenuta da lavoro: pantaloni scuri, giacca kaki. Piccolo e magro, dà l’impressione di possedere un mondo. Ci si dimentica che egli ha 82 anni.

«Ho cominciato la mia vera opera a 70 anni», esordisce Lukács. «A volte, si direbbe che esistano delle eccezioni alle leggi biologiche. In questo senso sono un seguace di Epicuro. Ma io pure invecchio. Per molto tempo ho cercato la mia vera strada. Sono stato idealista, poi hegeliano, e in Storia e coscienza di classe ho cercato di essere marxista. Durante lunghi anni sono stato funzionario del Partito Comunista a Mosca; è in questo periodo che ho avuto il tempo di leggere e rileggere molto, da Omero a Gorki. Fino al 1930, però, i miei scritti erano soprattutto delle esperienze intellettuali. È dopo che vennero i primi traguardi e le basi per il lavoro successivo.

Questi scritti possono sembrare oggi superati, ma essi hanno forse fornito ad altri un suggerimento, una spinta. Certo, può sembrare strano che io abbia dovuto toccare il settantesimo anno per mettermi a lavorare intorno alla mia opera. Una vita non è poi infinita. Pensate a Marx, a questo genio colossale. Ebbene egli non è riuscito a dare che un abbozzo del suo metodo. Nella sua opera non ci sono tutte le risposte che vorremmo. In realtà, stava nel suo tempo. Io utilizzo il suo metodo per i miei studi di estetica. Se egli vivesse oggi, sono sicuro che scriverebbe di estetica». Continua a leggere

Weber, Lukács e il marxismo “occidentale”

di Maurice Merleau-Ponty

da Lukács negli scritti di..., a c. di G. Oldrini, ISEDI, Mondadori, Milano 1979.


Maurice Merleau-Ponty (1908-1961), noto esponente dell’esistenzialismo francese di sinistra, ha insegnato filosofia alla Sorbona, all’École Normale e, dal 1952 in poi, al Collège de France. Tra le sue opere: La structure du comportement, Paris, 1942 (trad. it. Bompiani, Milano, 1963); Phénoménologie de la perception, Paris, 1945 (trad. it. Il Saggiatore, Milano, 1965); Humanisme et terreur. Essai sur le problème communiste, Paris, 1947 (trad. it. Sugar, Milano, 1965); Sens et non sens, Paris, 1948 (trad. it. Il Saggiatore, Milano, 1962); Les aventures de la dialectique, Paris, 1955 (trad. it. SugarCo, Milano, 1965); Signes, Paris, 1960 (trad. it. Il Saggiatore, Milano, 1967); Le visible et l’invisible, Paris, 1964 (trad. it. Bompiani, Milano, 1969).

Il saggio che segue è tratto, per stralci, dal cap. II delle già cit. Aventures de la dialectique, nella traduzione di Franca Madonia (Umanesimo e terrore e Le avventure della dialettica, con pref. di Andrea Bonomi, SugarCo, Milano, 1965, pp. 238-42, 248-56, 263-65). Continua a leggere

Su Lenin e il contenuto attuale del concetto di rivoluzione (Intervista)

György Lukács

L’intervista televisiva su Lenin fu concessa al regista András Kovács nell’ottobre 1969. Nata da una precedente idea di «girare» un reportage sulla vita di Lukács, a cui quest’ultimo si era rifiutato per non dover apparire sugli schermi televisivi «come una star», l’intervista venne accettata da Lukács quando assunse la forma di un intervento sulla figura di Lenin e sul contenuto attuale del concetto di rivoluzione. La registrazione venne eseguita il 2 ottobre 1969 nella casa di riposo di Jávorkurt e durò due ore e mezzo. Il testo qui tradotto è quello pubblicato sulle riviste ungheresi Uj Iras, 1971, n. 8 (prima parte) e Kritika, 1972, n. 5 (seconda parte).
Originariamente apparso in italiano in L’uomo e la rivoluzione, Editori Riuniti, Roma 1973, ora Edizioni Punto Rosso, Milano 2013.


Ha avuto un contatto personale con Lenin?

Ebbi con lui un solo contatto personale, in occasione del III Congresso dell’Internazionale, in cui ero delegato del partito ungherese e come tale fui presentato a Lenin. Non bisogna dimenticare che il 1921 fu un anno di aspra lotta da parte di Lenin contro le correnti settarie che stavano sviluppandosi nel Comintern. E poiché io appartenevo allora alla frazione settaria – non la si può chiamare frazione, chiamiamola «gruppo» – Lenin aveva verso di me un atteggiamento di ripulsa, come l’aveva in genere verso la massa dei settari. Non mi viene infatti nemmeno in mente di paragonare la mia persona a quella di un Bordiga, che rappresentava il settarismo nel grande partito italiano, oppure al gruppo Ruth Fischer-Maslow, che rappresentavano il partito tedesco. Lenin, naturalmente, non attribuiva altrettanta importanza a un funzionario del partito illegale ungherese. Continua a leggere

Le forze produttive e la coscienza di classe

di Mario Spinella

«Il Contemporaneo-Rinascita», 30 luglio 1971.


La continuità tra il libro politico del 1923 e gli studi di estetica e letteratura

Nell’eredità culturale che György Lukács ci ha lasciato, due temi emergono e fanno spicco: l’estetica e critica letteraria e la problematica della coscienza di classe. Si tratta di due motivi in certo senso disgiunti? di un Lukács politico e di un Lukács «soltanto» uomo di cultura? Vi è chi lo pensa, svalutando – secondo la propria specifica posizione – or l’uno, or l’altro di questi momenti del pensiero lukacsiano. Ma Lukács è stato un marxista, e per un marxista non esistono «scienze» o campi di indagine autonomi e separati: spetta perciò alla riflessione su Lukács individuare i nessi tra le sue posizioni di «politico» e quelle di «critico letterario». Si tratta tuttavia di «una ricerca che va condotta al livello teoretico e storico-pratico, e non sulla base di una vaga «concezione del mondo»: troppo facile, infatti, sarebbe il cavarsela dimostrando che la critica letteraria lukacsiana ha avuto, da un certo momento in avanti, il fine preciso di individuare nella letteratura una precisa posizione di classe, come troppo facile sarebbe attribuire ad una eventuale «delusione» politica di Lukács il suo «ritorno» agli studi e alle ricerche della gioventù, ad un campo di indagine che gli era più congeniale e nel quale – prima ancora di divenire marxista – aveva ottenuto i più lusinghieri riconoscimenti.

Se ci si attiene a tale problematica, la centralità dei saggi raccolti nel 1923 nel volume Storia e coscienza di classe appare evidente – indipendentemente dalle autocritiche e dalla polemica che quest’opera, da allora in poi, ha sempre suscitato. Una rapida ricognizione preliminare dei suoi contenuti è perciò indispensabile.

Occorre intanto osservare che gli scritti raccolti in Storia e coscienza di classe coprono un arco di tempo (1918-1922) che vide da una parte la temporanea vittoria della rivoluzione proletaria in Ungheria, dall’altra la sua successiva sconfitta e, insieme con essa, il crollo delle diffuse speranze su un rivolgimento rivoluzionario in Germania; mentre, sullo sfondo, campeggia l’Ottobre ed il faticoso consolidarsi del potere proletario in Russia. Perché la classe operaia possa vincere, perché possa essere, invece, sconfitta: queste le domande, vissute nel vivo di un momento storico densissimo di eventi, che stanno al fondo della riflessione di Lukács in quegli anni. Intorno a queste domande egli si arrovella, cercando una risposta nella sua esperienza di militante e dirigente della rivoluzione in Ungheria e di studioso del marxismo: uno studio che – come egli ci dice nello schizzo autobiografico del 1933 e ripete nella prefazione all’edizione italiana di Storia e coscienza di classe (1967) era iniziato negli anni dei liceo, e lo aveva sempre più fortemente impegnato a partire dalla prima guerra mondiale.

La sua preparazione filosofica (Simmel, Weber, Kierkegaard, poi soprattutto Hegel) induceva a porre con forza l’epicentro della storia e della sua dinamica nell’uomo: ma il suo marxismo, vissuto e teorico, gli aveva insegnato a mediare e concretizzare questa categoria, che un certo storicismo mantiene ancora nel generico, attraverso la determinazione delle classi sociali. Anzi, proprio nella classe operaia, forza produttiva determinante e insieme polo essenziale dei rapporti di produzione nella società capitalistica, egli individuava la realtà storica capace di «ritotalizzare», di restituire l’unità concreta, ad una umanità divisa.

Questo, delle forze produttive, è un nodo cruciale del pensiero marxista: esse comprendono, come è noto, sia la attrezzatura tecnica (e scientifica) che permette l’appropriazione della natura da parte dell’uomo, sia il lavoro stesso, incarnato nella classe produttiva: nel nostro caso il proletariato. Schematicamente può dirsi che ogni volta che il marxismo pone l’accento sulla strumentazione tecnica, facile è la degenerazione riformistica e la sostituzione della categoria di evoluzione a quella di rivoluzione; ogni volta, invece, che è «lavoratore collettivo», la classe operaia a emergere dell’analisi marxista, avviene il contrario: viene posto, cioè, correttamente, il problema della trasformazione sociale rivoluzionaria. Ciò è ben chiaro a Lukács, come in genere ad una esperienza marxista che è tutta protesa alla polemica contro la Seconda internazionale e la concezione sempre sostanzialmente deterministica che ne caratterizzò le varie correnti, sia di destra (Bernstein), sia di centro (Kautsky), sia di sinistra (Rosa Luxemburg) e contro la quale era insorto polemicamente Gramsci nel noto articolo «La rivoluzione contro il Capitale», riprendendo – sia pure in forma a prima vista paradossale – il nocciolo della concezione di Lenin.

A questo campo interpretativo appartiene certamente Lukács: da ciò, in Storia e coscienza di classe, il suo leninismo: che sarà, del resto, confermato dal suo saggio su Lenin del 1924. Si tratta anzi di una continuità che va sottolineata contro la tendenza a vedere in quest’ultimo scritto una svolta (autocritica) del pensiero di Lukács. In realtà proprio il paragone tra le due esperienze, l’una vittoriosa (Russia), l’altra sconfitta (Ungheria e Germania) poneva in primo piano, per Lukács, il valore e il significato della costruzione del partito, e quindi l’azione di Lenin e dei bolscevichi: si veda, particolarmente, il saggio «Considerazioni metodologiche sulla questione della organizzazione», e la sua chiusa: «Come il partito in quanto intero supera le distinzioni reificate secondo le nazioni, le professioni, ecc. e le forme fenomeniche della vita (economica e politica), agendo nel senso della coesione e dell’unità rivoluzionaria, per produrre la vera unità della classe proletaria, così, proprio per via della sua organizzazione caratterizzata da una rigida coesione interna e dalla ferrea disciplina che essa richiede, in seguito all’esigenza di impegnare tutti i suoi membri nella loro personalità complessiva, esso lacera i veli della reificazione che, nella società capitalistica, ottenebrano la coscienza dello individuo… Proprio perché il sorgere del partito comunista può essere soltanto l’opera coscientemente compiuta dagli operai che hanno coscienza di classe, ogni passo orientato nel senso di una conoscenza giusta è qui, nello stesso tempo, un passo verso la realizzazione».

Appare anche in questo passo il termine «reificazione», che è oggetto di ampia analisi nell’altro scritto «La reificazione e la coscienza di classe del proletariato»: su tale saggio esiste un’amplissima letteratura; sui suoi limiti ha insistito lo stesso Lukács nella citata prefazione dei 1967: non è qui il caso di affrontarne tutti i risvolti problematici. Nella chiave di lettura che abbiamo enunziato, ciò che va posto in primo piano è la questione della intenzionalità di Lukács, del perché la reificazione e la coscienza di classe assumono per lui, in quel momento, nel loro nesso contraddittorio, una importanza decisiva. Si tratta, per il militante e lo studioso che è Lukács, di analizzare e di approfondire le ragioni della sconfitta della classe operaia in Ungheria e in Germania (soprattutto, anzi, in Germania, un paese considerato come il luogo privilegiato di una possibile rivoluzione proletaria); ma in pari tempo – ed è questo lo sfondo essenziale del saggio – confermare, contro ogni delusione e cedimento, la necessità storica della rivoluzione socialista. Ed ecco che la categoria di reificazione – portata alla luce in maniera geniale da Lukács e sottratta alla vera e propria rimozione cui era stata sottoposta nel marxismo della Seconda internazionale – viene ad assumere una duplice funzione: da un lato esplicativa, dall’altro critico-pratica.

In quanto funzione esplicativa la categoria di reificazione contribuisce fecondamente a rispondere al quesito che, qualche anno più tardi, Wilhem Reich formulerà in termini concettualmente forse ancora più chiari, certo ineccepibili: che cosa impedisce alla classe operaia, il cui sviluppo come forza produttiva, come classe in sé, è continuo, di acquisire la coscienza del proprio ruolo rivoluzionario, di divenire, cioè, classe per sé? Contro ogni tendenza meramente «sovrastrutturale» o «culturalistica» Lukács individua e sottolinea nelle stesse modalità del processo produttivo la fonte prima della reificazione e delle sue implicazioni profonde sulla stessa classe operaia e sulla sua coscienza reale, storicamente costituitasi e storicamente determinata. Ma questo significa, in parole povere, che, se è vero che è il sistema di produzione capitalistico a produrre i fenomeni di reificazione, essi investiranno e coinvolgeranno la sua totalità: anche cioè la borghesia, la classe dominante. Riemerge pertanto in tutto il suo valore gnoseologico la «falsa coscienza» marxiana: non è che avvenga un processo cosciente per cui la classe dominante – attraverso i suoi molteplici strumenti – «provochi e mantenga» la reificazione della classe operaia, impedendole di acquisire la coscienza di classe rivoluzionaria (anche se una determinata «politica culturale» della borghesia e delle sue istituzioni possa agire in questo senso); bensì la reificazione operaia è un momento specifico di quei più generali e totalizzanti processi di reificazione che scaturiscono direttamente dai rapporti di produzione e che coinvolgono quindi la società nel suo complesso.

Qui entra in gioco la funzione critico-pratica della categoria di reificazione. Una volta dimostrato – come Lukács fa ampiamente – che i fenomeni di reificazione contrastano e impediscono lo sviluppo e individuale e collettivo, sono causa del permanere e dell’aggravarsi della «miseria» dell’uomo, il loro superamento diviene un fine necessario e «universale»: la classe operaia, e solo la classe operaia, ha, e può assolvere, questo compito storico, cui invece la borghesia è negata proprio in quanto la sua stessa esistenza è ancorata al mantenimento di quegli stessi rapporti di produzione che producono anche i fenomeni di reificazione. È vero che la coscienza di classe del proletariato non nasce spontaneamente e automaticamente, che è soltanto «coscienza possibile»; ma essa è, appunto «possibile» e comporta quel superamento della reificazione che per la classe antagonista, la borghesia, è invece – come si è detto – impossibile. «Progresso» e/o «regresso» dell’umanità in generale, sono dunque legati alla coscienza di classe del proletariato ed ai suoi sviluppi rivoluzionari. Basterà osservare, di passata, che proprio a partire da questa impostazione di Lukács, la parte più attenta e sensibile della grande cultura contemporanea ha fatto della analisi delle vicissitudini della coscienza di classe l’oggetto essenziale della propria ricerca: ma andare oltre questo cenno ci porterebbe lontano; anche perché si tratterebbe di vedere quanto, in una tale ricerca, è rimasto di quel «soggettivismo» di cui Lukács (ancora nella Prefazione del 1967) si autoaccusa, per non aver tenuto conto della «grande idea di Marx secondo la quale “la produzione per la produzione non significa altro se non sviluppo delle forze produttive umane, e quindi sviluppo della ricchezza della natura umana come fine in sé”».

Ma riprendiamo, a questo punto, il discorso iniziale: quello del nesso tra questa impostazione lukacsiana e il suo ulteriore lavoro di critico della letteratura e di studioso di estetica. A chi, come Lukács, abbia visto con tanta chiarezza i nessi essenziali tra forze produttive, rapporti di produzione, coscienza di classe, non si può certo rimproverare un atteggiamento «culturalistico», l’ignoranza, o almeno la sottovalutazione, del livello reale in cui si svolge, nella sua asprezza che non ammette se non una soluzione alternativa, lo scontro di classe. Ma egli è anche convinto, sino in fondo, del carattere internazionale di tale lotta e del significato decisivo, in questo ambito, della rivoluzione bolscevica e della nascita del primo Stato socialista. La rottura del modo di produzione borghese nella URSS apre una nuova fase della lotta di classe: il proletariato, assurto al ruolo di classe dirigente, è ormai potenzialmente in grado di imporre il proprio «punto di vista» su tutto l’arco della produzione umana, sia materiale che spirituale. Il lavoro svolto da Lukács in Unione Sovietica, le sue ricerche sull’estetica marxista, le ricostruzioni critiche di alcune grandi tradizioni letterarie, il ruolo da lui assunto nella battaglia polemica per il realismo, le polemiche contro tanta parte della cultura moderna, indicano chiaramente che egli si considera, in quanto militante operaio, direttamente impegnato in una lotta per l’egemonia culturale di un proletariato che ha già una sua base produttiva e statale, un suo Stato. I due compiti della rivoluzione mondiale e della costruzione di una nuova cultura, di una «riforma intellettuale e morale» (per dirla con Gramsci) assumono, con il consolidamento e gli sviluppi della rivoluzione bolscevica, più che mai una loro organicità e contemporaneità. Il proletariato ha ormai un suo «territorio» dal quale irradiare, in piena autonomia, una sua interpretazione critica del passato e del presente, in tutti i campi della produzione umana, nell’atto stesso di costruire il futuro: e cioè nelle condizioni che conoscitivamente Lukács considera privilegiate.

Questo grande intellettuale marxista, che viene comunemente tacciato di essere troppo «occidentale», trova, al contrario, un suo probabile limite nell’esserlo stato, a un certo momento, troppo poco: dall’avere identificato lo sviluppo della rivoluzione in URSS con lo sviluppo della rivoluzione in generale, nello aver scambiato – proprio lui, anche lui! – un dato della contingenza, certamente reale, realissimo, con l’orizzonte storico della lotta rivoluzionaria proletaria e marxista. Al limite, perciò – come in molti intellettuali – sembra possibile parlare, per questo Lukács, di una sopravvalutazione dei fattori economici (i nuovi rapporti di produzione in URSS) e strettamente politici (il nuovo Stato socialista) e non certo di una loro sottovalutazione. Qui, anzi, è da vedere la radice di quell’indiscutibile suo isolamento dalla vivente realtà dei paesi ancora capitalistici e dalla loro cultura in divenire che sta alla base degli schematismi della Distruzione della ragione e della sua incomprensione verso la grande letteratura europea del periodo successivo alla prima guerra mondiale e alla Rivoluzione di ottobre. E qui sono da vedersi anche le incertezze e le oscillazioni del Lukács «politico» di questo dopoguerra, e il suo faticoso, ma purtroppo episodico e spesso eccessivamente immediato, riproporsi in maniera critica la problematica del socialismo. Senza tuttavia mai più, dopo il 1945, ritornare alla profondità di analisi e al vigore critico costruttivo degli anni venti, senza più superare interamente l’isolamento cui la controrivoluzione europea lo aveva obiettivamente, e troppo a lungo, costretto.

Problemi della coesistenza culturale

di György Lukács

[Probleme der Kulturellen Koexistenz (1964),  tra. it. di Giuseppina Panzieri Saija, in «Nuovi Argomenti», nn. 69-71, 1964, ora in G. L., Marxismo e politica culturale, Einaudi, Torino 1968].


Qualunque possa essere l’esito immediato degli attuali colloqui per la pace, è certo che nei prossimi decenni la coesistenza pacifica tra il mondo borghese e quello socialista acquisterà importanza sempre crescente. E poiché le discussioni attuali intorno a questo tema mostrano per lo più una notevole confusione sia nella determinazione dei fondamenti sia in quella delle prospettive, ci sembra opportuno esaminare brevemente i problemi teorici più generali che stanno alla base di questo complesso.

I

Soprattutto da parte dell’Occidente, si sottolinea di continuo che fino a quando l’Unione Sovietica non avrà rinunziato al suo obbiettivo, comunismo mondiale, non si potrà mai parlare di vera coesistenza. Sul piano teorico, questo ci sembra un discorso vuoto, mentre sul piano pratico esso significherebbe – per lo meno – il perpetuarsi della guerra fredda. Infatti, chiunque abbia una conoscenza anche approssimativa dell’essenza economica del capitalismo e del socialismo, dovrebbe sapere che entrambi i sistemi, a differenza di precedenti strutture economiche, hanno, in base ai loro stessi fondamenti, un carattere di universalità. Entrambi poterono sorgere soltanto sul fondamento per cui il mondo intero è diventato sul piano economico, e per ciò stesso anche politico, una struttura intrinsecamente interdipendente. In entrambi vi è la tendenza a modellare il mondo secondo la propria forma specifica, né possono rinunziare a questo tentativo obbiettivamente necessario senza contemporaneamente rinunziare a se stessi. Di conseguenza, il problema reale può essere posto soltanto così: dal momento che la guerra atomica, e con essa ogni guerra capace di sovvertire il mondo, esce dall’ambito delle possibilità reali, con quali mezzi queste tendenze di sviluppo totalmente universalistiche possono operare per realizzarsi? Pertanto, un modo pratico e razionale di rapporto tra questi due grandi sistemi può essere cercato soltanto sulla base del presupposto di queste attività necessariamente universali.

Ciò significa che la coesistenza dei due sistemi – dopo aver eliminato dapprima di fatto e poi su un piano sempre più decisamente istituzionale la possibilità di soluzioni belliche – può essere soltanto una forma nuova della lotta di classe internazionale. In una conferenza da me tenuta nell’estate del 1956, indicavo già che la domanda di Lenin «chi a chi?» è il fondamento dinamico di ogni coesistenza, di ogni dialogo all’interno della coesistenza. Da parte marxista, ciò è stato sempre affermato. Ora ciò che importa è che i politici e gli ideologi occidentali pervengano alla convinzione che anche la loro posizione, sia che venga esaminata nel campo della politica e dell’economia, della filosofia o dell’estetica, è una posizione di classe e non già la «rivelazione» di una ragione posta al difuori della società. Da tale convinzione non scaturisce affatto che i dialoganti debbano intendere il proprio punto di vista in modo relativo. Possono benissimo continuare a considerarlo l’unico giusto, così come facciamo noi marxisti; il riconoscimento teorico dell’inevitabilità del fondamento di classe nella pretesa di universalità sociale da parte dell’avversario, non deve portare ad un relativismo autocritico, giacché tale pretesa, pur essendo riconosciuta inevitabile sul piano sociale ed economico, può essere criticata su quello teorico come contraddittoria e insostenibile, così come avviene per l’ideologia capitalistica del punto di vista del marxismo. Di conseguenza, non si tratta di compiere ritirate né concessioni, ma soltanto di comprendere storicamente la posizione reale dell’avversario, di polemizzare contro ciò che egli realmente intende e deve necessariamente intendere, partendo dal suo punto di vista.

Il principio realmente attivo che determina la tendenza all’universalità di una formazione sociale, risiede naturalmente nella struttura e nella dinamica della sua economia. Pertanto, una analisi veramente ampia ed esauriente della coesistenza dovrebbe prendere le mosse di qui. Ma poiché il nostro obbiettivo non è così ampio, dobbiamo limitarci su questo problema ad alcune osservazioni, per poter giungere al più presto al nostro tema specifico. Innanzi tutto, una eliminazione istituzionale della guerra prima o poi dovrà portare all’abbandono di qualsiasi discriminazione nelle relazioni economiche. Tali discriminazioni, infatti, sono sostanzialmente una preparazione economica della guerra, e il fatto che potenti organizzazioni monopolistiche possano sfruttare una situazione di questo tipo per propri interessi più ristretti, non muta sostanzialmente il quadro complessivo, anche perché tutte le misure discriminatrici dal punto di vista economico sono strumenti della guerra fredda, e questa, una volta eliminata stabilmente la guerra vera e propria, dovrà scomparire prima o poi, più facilmente poi che prima.

È chiaro che soltanto la competizione economica tra i sistemi, che da ciò scaturisce, la forma reale della coesistenza economica, forniscono il motivo – in ultima analisi – decisivo per cui gli uomini di un sistema sceglieranno in favore del proprio o di quello avversario, ciò che costituisce appunto il contenuto decisivo della lotta di classe che sta alla base della coesistenza. Ho già illustrato in altre occasioni come lo stesso sviluppo economico fornisca la propaganda più efficace in questa competizione. Ma, ovviamente, ciò vale per lo sviluppo reale, non per uno sviluppo proclamato propagandisticamente. Ho già richiamato l’attenzione sul fatto che questa preponderanza della sfera economica non è un motivo operante in assoluto. Anzi – e ancora una volta in ultima analisi – si tratta di vedere quale sistema economico sia in grado di garantire agli uomini una vita più ricca di contenuto e di significato.

In precedenti articoli ho parimenti sottolineato questa limitazione ultima nell’efficacia ideologica dei fatti economici, soprattutto riferendomi alla grande forza spirituale di attrazione della Rivoluzione socialista negli anni venti, in un’epoca nella quale dal punto di vista economico non erano stati neppure riparati i danni prodotti dalla guerra. Per il presente, questo problema viene posto in primo piano anche soltanto perché l’ultima fase dello sviluppo capitalistico ha conferito al tempo libero, all’ozio un’importanza mai verificatasi prima in una misura socialmente così ampia. E ciò in due direzioni. Da un lato, il costante aumento quantitativo del tempo libero è insito nella tendenza di sviluppo dell’economia, dall’altro, la sua utilizzazione da parte dell’uomo non avviene con la naturalezza e la semplicità (non problematicità) in cui avveniva nella vita delle precedenti classi dominanti. Questi due aspetti, l’enorme aumento del numero di coloro che partecipano del tempo libero, e la crescente incapacità di utilizzarlo in modo umano, creano uno dei problemi culturali di fondo del nostro tempo, del quale i teorici del mondo borghese cominciano ad occuparsi sempre più intensamente. In tali circostanze, appare ovvio che i problemi culturali acquistino, per la decisione fra le alternative sociali, un’importanza che alcuni decenni fa sembrava inconcepibile. Anche Marx, che circa cento anni fa esaminava questo problema, e che nella «riduzione del lavoro necessario della società ad un minimo» scorgeva uno stato al quale «corrisponde la formazione artistica, scientifica ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero per tutti e grazie ai mezzi a disposizione di tutti», giudicava che tale stato potesse essere realizzato soltanto nel socialismo. Invece – e questo Marx nel 1857-58 non poteva in alcun modo prevedere – già nel capitalismo si è realizzato un tempo libero socialmente considerevole. Evidentemente, esso viene manipolato in modo conforme ai propri interessi dal capitalismo, che nel frattempo ha sottomesso al proprio dominio l’intera fabbricazione dei mezzi di consumo fino alla organizzazione della vita culturale. Questa contraddizione tra la crescente rilevanza sociale del tempo libero ed il suo vuoto interno parimenti crescente, la sua incapacità di soddisfare realmente gli uomini e tanto meno di conferire alla loro vita un più alto contenuto, costituisce oggi uno dei problemi culturali centrali nei paesi capitalistici ad alto livello di sviluppo.

Marx credeva ancora che tale livello delle forze produttive avrebbe potuto essere raggiunto soltanto nel socialismo. Dato il suo metodo schiettamente scientifico di analizzare soltanto le forze motrici che introducono il futuro e fare anche intorno a queste soltanto accenni generali che possano chiarirle come prospettive, egli non ha affrontato i problemi concreti del «regno della libertà», secondo la sua definizione posteriore. Le tendenze generali deformanti, sia teoriche sia pratiche, del marxismo-leninismo nel periodo staliniano hanno come conseguenza che agli uomini che soffrono per il vuoto capitalisticamente deformato del loro ozio, alla base divenuta astratta del loro sviluppo umano, non si profila alcun modello socialista, non viene prospettata una via d’uscita socialista. Inoltre – e ancora una volta si tratta di un fatto di somma importanza – non esiste alcun sostituto immanente al capitalismo per la mancanza di una prospettiva socialista come modello e via d’uscita.

Ai nostri fini, è sufficiente aver indicato i contorni più generali di questo nodo di problemi. Abbiamo inteso così soffermare l’attenzione sul fatto che, nell’evoluzione prevedibile dell’immediato futuro i problemi della cultura saranno chiamati a svolgere un ruolo qualitativamente più rilevante che in epoche precedenti, cioè in uno stadio inferiore di sviluppo del capitalismo.

II.

Abbiamo definito la coesistenza culturale una forma della lotta di classe. Naturalmente, in tal modo non si è detto nulla di nuovo. Fin da quando sono esistite le classi, la classe dominante ha sempre cercato di imporre agli sfruttati una concezione del mondo ad essa conveniente. Questa funzione della religione, della scuola ecc. è antichissima. Fin dal Medioevo, la pittura in quanto sostituto ed esplicazione della Bibbia fu uno strumento per esercitare in questo senso un’influenza sugli analfabeti. E non c’è dubbio che anche nel campo ideologico in senso più stretto tale lotta si verifichi da secoli, cioè fin da quando l’analfabetismo delle classi oppresse tende sempre più rapidamente a scomparire.

Naturalmente, in Occidente molti considerano queste affermazioni una volgarizzazione della cultura. E tale sarebbe se si assumesse che ogni filosofia, ogni opera poetica ecc. sia sorta soltanto allo scopo di adempiere a tale funzione nella lotta di classe. Ma il vero marxismo è ben lontano da tale concezione. Esso sa benissimo che, da un lato, ciascun ideologo è nato e cresciuto in un determinato paese, in una determinata epoca, in una determinata classe. Le impressioni ed influenze che formano la sua personalità si rivelano, di necessità, in tutto il suo modo di pensare e di sentire e quindi anche nella sua produzione. Questo effetto dell’ambiente sociale può naturalmente essere anche di tipo repulsivo; così, ad esempio, Friedrich Engels, figlio di un industriale, divenne comunista.

Ciò modifica in modo sostanziale il contenuto di classe nel singolo, ma non può sopprimere il carattere di classe dell’intero complesso. Ma la genesi sociale delle opere di cultura è soltanto una componente – e neppure decisiva – della loro essenza sociale. Indipendentemente dalle intenzioni del suo creatore, la creazione esercita una determinata influenza sulla vita sociale del suo tempo e eventualmente anche in quella posteriore. A prescindere dall’atteggiamento personale di Copernico, Keplero e Galilei verso i problemi religiosi del loro tempo, le loro opere hanno distrutto una ontologia religiosa che durava da più di un millennio, dando così una nuova fisionomia a tutte le lotte sociali sul terreno della concezione del mondo.

Se si vuole addivenire ad una valutazione realistica di tali lotte nel presente, bisogna intendere il concetto di concezione del mondo in senso assai vasto, ben oltre l’ambito della filosofia in senso stretto. Questa tendenza è sempre stata presente in modo assai accentuato nel marxismo, ma non certo esclusivamente in esso. Ad esempio, William James iniziò le sue lezioni sul pragmatismo con una citazione di Chesterton, il cui contenuto approvava senza riserve. Chesterton inizia i suoi saggi con le parole: «Vi sono individui – ed io tra questi – che ritengono che per un uomo la cosa praticamente più importante sia la sua concezione del mondo. Per un affittacamere che esamina il suo inquilino è certo molto importante conoscere le entrate di costui, ma ancor più importante è conoscere la sua filosofia». Se si sviluppa fino in fondo questo pensiero, si giunge a scoprire nelle azioni di ciascun uomo un particolare nesso sistematico che, da un lato, è determinato dal suo essere sociale – come abbiamo visto, l’atteggiamento di opposizione non sopprime questo universale essere determinati – dall’altro, conferisce a tutte le sue azioni immediate una unità di cui spesso egli stesso non è consapevole, o ne ha una consapevolezza fallace. Pertanto, non è affatto inesatto definire in generale concezione del mondo questo campo di forza psichico tra la riproduzione della realtà e la reazione ad essa. Non è questa la sede in cui analizzare i gradi molto diversi di consapevolezza di queste concezioni del mondo. Qui ci interessa mostrare la funzione di queste concezioni del mondo nel decidere sulle alternative della vita, in particolare su quelle che riguardano l’accettazione o il rifiuto del mondo sociale nel quale l’uomo vive, ed eventualmente – ciò che nella pratica è assai frequente – l’astensione dal giudizio su questo problema, astensione che può essere rassegnata, cinica ecc.

Per influenza del neopositivismo, in Occidente è assai diffusa l’opinione che soltanto i cosiddetti sistemi totalitari diano importanza alla concezione del mondo, mentre il «mondo libero» per principio sarebbe privo di concezione del mondo, e in ciò consisterebbe appunto la sua forza. Naturalmente, contro questa definizione forse un po’ troppo rozzamente sintetica alcuni avanzeranno obbiezioni. Ma dovrebbero tener presente che i maggiori neopositivisti per principio eliminano dal campo di ciò che può essere colto scientificamente o anche soltanto razionalmente tutto ciò che sfugge ad una manipolazione matematica dei fenomeni. Così, in un’opera celebre come il Trattato di Wittgenstein si legge: «La maggior parte delle affermazioni e delle domande che sono state scritte su oggetti filosofici non sono false ma prive di senso. Perciò a domande di questo genere non possiamo affatto rispondere ma soltanto accertare la loro mancanza di senso… E non c’è da stupirsi del fatto che i problemi più profondi in sostanza non siano veri problemi». Ed egli ne trae, con coraggio e coerenza, tutte le conseguenze. Così dice: «Per questo motivo, non vi possono essere proposizioni etiche», e più oltre, «Noi sentiamo che anche se vi fosse una risposta per tutte le possibili domande scientifiche, i problemi della nostra vita non ne sarebbero affatto toccati». A questo modo, Wittgenstein ha relegato tutti i problemi essenziali per l’uomo nel campo del non razionalizzabile, nell’irrazionale, e appunto con questo rifiuto radicale di tutti i problemi relativi alla concezione del mondo ne indica l’inevitabilità pratico-reale: gettandoli fuori della porta della filosofia, essi rientrano dalla finestra. Perciò non è un caso che l’esistenzialismo – e le concezioni del mondo, religiose o irreligiose, ad esso legate – abbia occupato questo spazio in nome di un irrazionalismo conforme al nostro tempo. E la polare complementarità di queste posizioni immediatamente antitetiche definisce sostanzialmente l’ambito delle concezioni del mondo dominanti in Occidente. Va a onore di Sartre di non potersi accontentare filosoficamente di questa polarità e di sforzarsi di continuo di superarla.

È possibile contrapporre con successo il marxismo a questa problematicità di principio di tutte le concezioni del mondo, è possibile, cioè, tra di essi un dialogo fecondo? Certamente, non con gli eredi del periodo staliniano. Costoro alla raffinata manipolazione della conoscenza contrappongono soltanto una grossolana rigidezza, alla irrazionalità della prassi umana, delle questioni importanti dell’esistenza umana, soltanto una rigidezza dogmatica. E quando, nel periodo successivo al XXII Congresso, alcuni marxisti cercano di correggere la manipolazione dogmaticamente grossolana accettando qualcosa dalle filosofie occidentali – la semantica ecc. nel campo del materialismo dialettico, la microsociologia ecc. in quello del materialismo storico – si trovano in errore. La «esigenza del giorno» per la teoria e la prassi dei comunisti è la conoscenza marxista di ciò che di nuovo si è avuto, dopo la morte di Lenin, nei mutamenti strutturali, nelle tendenze di sviluppo ecc. della vita sociale. Vi sono nuovi fenomeni di massa che non possono essere risolti appellandosi a Marx e a Lenin. Già nel 1922, introducendo la NEP nel capitalismo di Stato, Lenin diceva: «Neppure a Marx venne in mente di scrivere anche soltanto una parola in proposito, ed egli è morto senza aver lasciato neppure una citazione esatta o indicazioni inconfutabili. Perciò ora dobbiamo cercare di aiutarci da soli». Chruščëv nel suo discorso a Bucarest ha applicato questo metodo di Lenin in modo coraggioso ed esatto alla nuova situazione, alle affermazioni, esatte a suo tempo, di Lenin sul rapporto tra l’imperialismo e l’inevitabilità della guerra. Ciò significa, da un lato, che esiste tutta una serie di fatti nuovi, soprattutto economici, sia nel campo capitalista sia in quello marxista, che i classici del marxismo non poterono esaminare perché ai loro tempi non esistevano, e dall’altro, che Stalin ed i suoi seguaci hanno deformato su questioni importanti il metodo marxista, trasformandone la vitalità e l’apertura in irrigidimento. I nuovi fatti della vita possono essere decifrati unicamente mediante una rinascita del metodo marxista, un riesame spregiudicato su questa base, non incorporando acriticamente riflessi borghesi altrettanto acritici del nuovo sviluppo nel metodo staliniano rimasto – nell’essenza – immutato.

III.

Potrebbe sembrare che con tale analisi della situazione ideologica del capitalismo e del socialismo si venga a sottrarre alla coesistenza culturale ogni terreno intellettuale. In realtà, avviene esattamente il contrario: soltanto attraverso questo bilancio critico del presente è possibile spianare la via del futuro, la via verso la coesistenza culturale, che si avrà inevitabilmente. A tal fine, la premessa evidente è la resa dei conti con l’eredità staliniana quanto alla concezione socialista del mondo. Ciò, naturalmente, vale soltanto per coloro che sono in grado di comprendere il carattere di concezione generale del mondo proprio del marxismo. Da Max Weber a Wright Mills, non sono pochi coloro che – in misura maggiore o minore – l’hanno compreso. È difficile, invece, stabilire un dialogo su questo argomento con coloro che, come Madariaga, ritengono che la concezione del mondo di Lenin fosse: «O mi dai ragione o ti sparo». Per questo, Madariaga è rimasto sorpreso e urtato perché in un mio precedente l’ho nominato insieme a Enver Hodja; per questo non ha compreso come il tertium comparationis sia stato semplicemente l’adesione (presa di posizione affermativa) di entrambi alla guerra fredda e addirittura alla guerra calda. L’Occidente – nel suo stesso interesse – dovrà comprendere che l’alternativa attuale della visione del mondo e del metodo socialista è la scelta tra il ristabilimento del vero marxismo e la sua applicazione ai nuovi fenomeni del presente e l’irrigidirsi sui metodi deformati di Stalin, non già – come spesso si ritiene – tra Molotov e Köstler.

Se qui la lotta per trovare una via è evidente almeno ai pensatori più avanzati, la grande maggioranza concepisce la situazione ideologica dell’Occidente in modo indubbiamente troppo statico; né, sostanzialmente, ciò muta per il fatto che la valutazione pratica dello stato attuale assuma talvolta la forma di una «critica della cultura». Dietro questa staticità o questo sviluppo immutabilmente uniforme alla superficie, la realtà opera però un mutamento significativo, che, in verità, oggi si esprime soltanto in singoli tentativi politici su base pragmatistica, anche se – in sé significa per mutamento importante e di principio per tutto il mondo capitalistico. Per eliminare a priori ogni malinteso, si tratta di un mutamento all’interno del sistema capitalistico; non sto parlando ora delle possibilità di una rivoluzione socialista. Dopo la grande crisi del 1929, Franklin D. Roosevelt aveva compreso che, data la grande labilità di tutto il mondo attuale, data l’esistenza di un potente Stato socialista, il ripetersi di simili crisi avrebbe potuto recare con sé gravi pericoli anche per gli Usa. Di conseguenza, elaborò una politica economica la cui linea fondamentale mirava a evitare le crisi, a creare misure profilattiche per evitare il loro scoppio, ecc. Prescindendo dal fatto se questa posizione sia stata assunta con una giusta o falsa coscienza della sua base economica, il suo significato oggettivo risiede nella difesa degli interessi generali del capitalismo nel suo complesso, se necessario anche contro gli interessi di singoli gruppi capitalistici, per quanto potenti ed influenti. Infatti, non c’è alcun dubbio che alcuni di essi, in determinate circostanze, possano essere interessati allo scoppio di una crisi, anzi, addirittura a provocarla, per raggiungere una più ampia concentrazione delle posizioni di monopolio e distruggere dei concorrenti molesti. Ma la scossa mondiale che si è avuta nel 1929 e dopo ha dimostrato che in tali casi può essere messo in pericolo il sussistere del sistema capitalistico. Per contro, Roosevelt riuscì a realizzare in Usa questa linea di politica economica, anzi, a trasformarla nel filo conduttore della prassi capitalistica nei paesi capitalistici più sviluppati.

Il secondo caso in cui si presentò questa nuova politica fu la guerra contro la Germania di Hitler. Anche qui, interessi parziali di potenti gruppi capitalistici portarono a Monaco e alle sue conseguenze. A quel tempo, Roosevelt e Churchill avevano compreso che gli interessi collettivi del mondo borghese esigevano una guerra contro il sistema hitleriano – sia pure alleandosi con l’Unione Sovietica – e che qualora gli interessi parziali di singoli gruppi fossero prevalsi più a lungo, avrebbero condotto alla rovina del sistema nel suo complesso. Da quel momento, la questione non è mai più stata cancellata dall’ordine del giorno. Il sorgere di una potente coalizione di Stati socialisti, l’irresistibile movimento di liberazione dei popoli coloniali, la tendenza altrettanto irresistibile di paesi economicamente arretrati a superare la propria arretratezza, la trasformazione generale della strategia a causa delle armi nucleari, ecc., hanno reso ormai obiettivamente sempre più impossibile ignorare tale problema. Tuttavia, dalla morte di Roosevelt in poi, Kennedy è stato il primo, e finora l’unico, uomo politico del mondo capitalistico a riprendere questo programma, in condizioni differenti e assai più sviluppate. E che anche qui si tratti del contrasto di interessi tra il capitalismo nel suo complesso e le singole organizzazioni monopolistiche, è dimostrato con la massima chiarezza dal rapporto tra gli Usa e gli Stati dell’America centrale e meridionale: l’attuazione pratica di una stretta collaborazione economica politica, in cui uno sviluppo maggiore, una modernizzazione degli Stati del Centro e del Sud-America sarebbero di interesse vitale per il capitalismo statunitense nel suo complesso, naufraga sempre per il fatto che potenti gruppi capitalistici sono interessati a determinate situazioni di arretratezza di questi Stati – monoculture, grande proprietà terriera feudale, ecc.

Abbiamo indicato soltanto il problema di fondo, giacché la sua realizzazione in tutti i campi della vita internazionale non può essere assolutamente il fine di questo saggio. Basti accennare soltanto alla questione negra, come problema di politica interna, e all’infausto appoggio dato, in politica estera, alle tendenze e ai governi più reazionari del Centro e Sud-America, per rendere evidenti l’universalità di tale problema. Né questo saggio può porsi come obiettivo l’analisi delle possibilità e prospettive di tale sviluppo. Per noi, questo fatto storico ha soprattutto una importanza ideologica. Infatti, una sua conseguente attuazione richiede un ripensamento ideologico quanto lo richiede nel mondo socialista il superamento dei metodi staliniani. Osserviamo, incidentalmente che la parola «quanto» dovrebbe essere messa tra virgolette, giacché il ripensamento ideologico del mondo borghese ha una struttura, una dinamica ecc. differenti da quello marxista. Ma, per limitarci soltanto all’essenziale, quanto più coerentemente questo nuovo orientamento viene attuato sul piano pratico, tanto più viene a trovarsi in aspro contrasto con la generica manipolazione oggi imperante e basata sul neopositivismo. Infatti, essa considera lo stato odierno già, ed erroneamente, come un dominio degli interessi collettivi della società. Alcuni ideologi vanno tanto oltre da negare addirittura il carattere capitalistico dell’economia. Ma per quanto abilmente si possano manipolare i problemi che qui emergono – ad esempio, usare soltanto tra virgolette parole come imperialismo, colonialismo, ecc. – i fatti rimangono tali, e i reali mutamenti di struttura della realtà finiscono sempre per imporsi, prima o poi, direttamente o indirettamente, in modo adeguato o deformato. I contrasti che determinano in modo decisivo l’azione pratica non possono essere eliminati totalmente neppure dal pensiero. Questa potenza dell’essere sociale è tale che le conseguenze concettuali e sentimentali dei suoi mutamenti qualitativi possono essere avvertite assai prima della sua comparsa decisiva, anche se ciò avviene soltanto da parte degli ideologi nei quali la routine non ha soffocato la comprensione delle trasformazioni capillari, e il timore di un non-conformismo sostanziale – e perciò impopolare – non è diventato il motivo conduttore del pensiero. Numerose sono oggi queste affermazioni isolate, e senza dubbio aumenteranno in numero e in intensità acquistando sempre maggiore influenza, anche se ci vorrà molto tempo prima che possano diventare la voce dominante. Naturalmente, questo sviluppo sul piano economico-politico e ideologico non è limitato agli Usa, dove però assume, oggettivamente e soggettivamente, un’espressione fenomenica di particolare rilievo.

IV.

Queste due grandi tendenze del nostro tempo conferiscono alla coesistenza culturale il suo significato peculiare. Sono ben lontano dal sottovalutare le forme iniziali già esistenti, dalle manifestazioni sportive e gare di scacchi alle rappresentazioni di balletti e ai concerti di virtuosi. Data la manipolazione generale dell’opinione pubblica, che può avere per conseguenza che ampie masse di un sistema giudichino gli appartenenti all’altro sistema dei barbari della cultura, esse possono essere utili e istruttive, spianando la via a contatti più profondi, ma in esse manca assolutamente il motivo, da noi indicato come motivo centrale, del «Chi a chi?» Allo stesso modo, anche l’internazionalizzazione, sempre più necessaria, della scienza, soprattutto di quella applicata, non può costituire una svolta decisiva in questo problema. Quanto più essa si verifica, tanto maggiore diviene di necessità l’abitudine straordinariamente importante all’internazionalità di tutti i campi di attività dell’uomo, teorici e pratici; tuttavia nessuno per ciò stesso vede minato il sentimento di appartenere al proprio sistema o viene attratto dall’altro perché magari in esso è stato inventato un medicinale migliore o uno strumento più efficace. Tutto ciò costituisce la base insostituibile della coesistenza tra sistemi culturali che vicendevolmente si negano, ma non può essere la cosa essenziale.

Quando parliamo di questa, dobbiamo innanzi tutto rammentare ciò che abbiamo indicato in precedenza come la funzione della concezione del mondo nella vita umana, e anche all’interno di questo complesso innanzi tutto quei momenti che portano all’accettazione o al rifiuto dell’ambiente sociale di volta in volta dato. Vi è un nesso intimo tra la validità storica di una concezione del mondo e l’intensità con cui essa serve alla conservazione della sua formazione sociale. Abbiamo detto: validità storica, perché in determinate situazioni storico-sociali, ad esempio, certe teorie ontologiche possono conferire una grande solidità alla concezione del mondo, del tutto indipendentemente dal fatto che in seguito la scienza ne dimostri l’insostenibilità. Ciò deriva dal fatto che in questo contesto l’elemento fondamentale è il legame ideologico dell’individuo col suo sistema sociale, e l’ontologia ha la funzione di rafforzare questo legame. Naturalmente, lo stimolo a dissolvere la vecchia concezione del mondo può anche venire dal lato ontologico; in tali casi, si tratta sempre dell’incontro tra trasformazioni sociali e scoperte teoriche, come, ad esempio, nel caso di Galilei.

Così la lotta di classe è anche sempre una lotta tra diverse concezioni del mondo. Ma sarebbe una volgarizzazione troppo semplicistica ritenere che esse rivestano qui il ruolo di un epifenomeno. In pratica, non lo crede nessuno. Appunto per questo, l’epoca staliniana mirò a mantenere tutta la sua intelligentsia – intesa nel senso più ampio – lontana dalla conoscenza di altre concezioni del mondo. Formalmente, un atteggiamento simile è estraneo alla cultura occidentale, tuttavia non si dimentichi che proprio su questo terreno è possibile una manipolazione quanto mai raffinata, che spesso è più efficace di una manipolazione brutale. Infatti, mentre nel mondo socialista, dopo la crisi della teoria staliniana, concezioni del mondo fino allora tenute lontane stanno vivendo un periodo di prestigio acritico, la raffinata manipolazione che predomina a Occidente è ampiamente riuscita a diffondere nell’opinione pubblica la credenza che il marxismo sia una dottrina e un metodo totalmente superati, di cui non è affatto il caso di occuparsi seriamente; abbiamo già accennato, peraltro, alle eccezioni costituite dai migliori.

Io credo dunque che le due grandi trasformazioni, provocate dallo sviluppo economico, di cui abbiamo parlato sopra, porteranno a conoscere la concezione del mondo – le concezioni del mondo – dell’avversario, per poter realmente confutare il reale avversario di classe. La gran maggioranza delle lotte fra concezioni del mondo nel nostro tempo avviene ancora in modo tale che – nel migliore dei casi – viene «persuaso» soltanto chi è già persuaso. E perfino un obiettivo tanto modesto come quello di rafforzare in una certa misura i seguaci della propria concezione del mondo, viene raggiunto in modo assai problematico. Quando si verifica una perturbazione sociale, queste difese artificiali si dimostrano quanto mai incapaci di opporre una resistenza.

Per giustificare la necessità dell’esigenza da noi formulata sopra, basti accennare al fatto che un discorso impostato meramente sull’entusiasmo e la fede potrebbe essere forse in grado di infiammare gli ascoltatori per un breve scontro, ma anche se fosse ripetuto più volte non riuscirebbe a suscitare la forza di resistenza spirituale e morale necessarie per una vera guerra. Applicando questo paragone alle lotte tra concezioni del mondo, si vedrà che la differenza tra una singola battaglia e una guerra prolungata non è che quest’ultima sia una sintesi meramente quantitativa di molteplici ripetizioni di quelle, bensì qualcosa di differente qualitativamente e strutturalmente. Per passare dall’immagine alla cosa: quando due ampi sistemi sociali sono reciprocamente in lotta sulla concezione del mondo, i singoli dibattiti, che per lo più hanno come oggetto immediato campi differenti, erigono «fronti» assai differenti l’uno dall’altro; colui che è alleato su un campo può facilmente essere un avversario su un altro campo e viceversa, anzi, è possibile che la stessa teoria, applicata o interpretata in modi diversi, serva di sostegno ora all’uno o all’altro partner della discussione. Si pensi, ad esempio, alla seconda metà del secolo scorso, quando il darwinismo nelle sue linee principali appoggiava gli ideologi progressisti, ma contemporaneamente – ad esempio, nel cosiddetto darwinismo sociale – poteva costituire un ausilio per la reazione ideologica, e così via.

Date le circostanze, obbiettivamente non è contraddittorio che noi da un lato partiamo dal fatto che tutta la coesistenza culturale sia una grande lotta tra la concezione del mondo socialista e quella borghese, ma dall’altro, e contemporaneamente, nei singoli dibattiti che costituiscono gli elementi concreti di questa totalità, ammettiamo che la funzione volta per volta attuale di singole dottrine, teorie, metodi ecc. sia del tutto diversa, anzi possa operare in senso opposto. Una concezione monolitico-univoca della lotta di classe tra concezioni del mondo di sistemi sociali in concorrenza conduce ad una incomprensione totale della sua essenza. Questo non è meramente il risultato di singole innovazioni scientifiche ecc., estremamente complesse, ma scaturisce piuttosto dall’essenza di ciascuna trasformazione sociale. Già nel 1916, Lenin si faceva beffe dei seguaci di una teoria così monolitica. «Le cose starebbero così – scriveva: – da una parte si raduna un esercito e dichiara: “Noi siamo per il socialismo”, e da un’altra parte si raduna un altro esercito e dichiara: “Noi siamo per l’imperialismo”, e questa è poi la rivoluzione sociale!» Giustamente egli definiva questo «un punto di vista ridicolo e pedante». È evidente che quanto più un fenomeno ideologico è lontano dalla lotta di classe immediata, tanto maggiormente conferma con i suoi effetti l’esattezza di queste parole di Lenin.

Ma ciò ha conseguenze di grande importanza per la lotta ideologica all’interno della coesistenza culturale. Per poterle anche soltanto scorgere, è necessario che in entrambi i sistemi vengano superati vecchi e stantii pregiudizi la cui essenza consiste nel fatto che le manifestazioni culturali dell’altro campo vengono monoliticamente considerate come ostili. Ciò è senz’altro evidente per le tradizioni staliniste. Qui – come assai spesso – snaturando un’affermazione di Lenin è stato messo in circolazione un termine peculiare, «oggettivismo», per bollare coloro che osano criticare i fenomeni ideologici del mondo borghese in modo reale, giusto e non unilaterale. In proposito, posso forse richiamarmi ad esperienze personali. Quando, alla fine degli anni quaranta, pubblicai un’aspra critica dell’esistenzialismo francese, cercai di dimostrare come alcuni aspetti, non certo trascurabili, di questa filosofia derivassero dalla situazione ideologica della «résistance». Ciò parve a Fadeev una manifestazione di «oggettivismo», giacché equivaleva a trovare delle scusanti per pensatori idealisti, per agenti della borghesia. Naturalmente, vi fu anche un’eccezione a questa regola critica: alcuni ideologi che avevano firmato determinati manifesti politici furono dichiarati tabù per qualsiasi critica. Anche qui, mi permetto di rifarmi alla mia esperienza personale. Prima del viaggio di André Gide nell’Unione Sovietica, scrissi un saggio teorico-letterario, nel quale criticavo in modo rispettoso ma nella sostanza aspro alcune sue concezioni. La redazione della rivista pretese che questa parte del mio saggio fosse eliminata. Il lavoro uscì soltanto dopo il ritorno di Gide a Parigi e dopo la pubblicazione del suo libro contro l’Unione Sovietica. Il direttore mi chiese, disperato: «Perché mai abbiamo soppresso dal suo articolo quel passo su Gide?»

Ma sarebbe una pericolosa illusione credere che una simile prassi sia estranea al «mondo libero». Il fatto che – spesso – essa si presenti in modo non centralizzato ma spontaneo, non muta proprio nulla alla sostanza del fatto. Al rifiuto monolitico, alle conseguenze che se ne traggono – spesso tacitamente ma spesso addirittura in modo aperto – importa soprattutto che l’ideologia del socialismo possa essere «spiritualmente» distrutta anche senza studiarne le fonti più importanti, che contro di essa non si osservino le regole della correttezza scientifica e letteraria, che si possa polemizzare con essa falsificandone le citazioni, deformandone i concetti, tacendo o inventando fatti. Per rifarmi ancora una volta a esperienze personali, Adorno mi rimproverò di aver trattato semplicisticamente Freud da fascista nel mio libro La distruzione della ragione, sebbene, conforme agli obiettivi di quell’opera, io non avessi in essa esaminato né criticato le teorie di Freud. Se qui respingiamo questi metodi di lotta letteraria, in primo luogo lo facciamo non per motivi di correttezza letteraria – per quanto anche questa sia importante – ma perché una vera lotta tra concezioni del mondo, che scaturisce di necessità dalla coesistenza culturale, viene resa obbiettivamente impossibile da questo metodo di concepire l’avversario in modo volgarmente monolitico.

La concezione monolitica è cieca tanto di fronte allo sviluppo ineguale dei differenti campi di cultura quanto alle controversie reali all’interno di un sistema particolare. Soltanto respingendola si può arrivare a comprendere come le posizioni da noi sostenute possano sempre trovare alleati totali o parziali, anzi, che può accadere addirittura di assimilare criticamente la dottrina o il metodo di un ideologo dell’altro sistema. Così, ad esempio, Marx ha incorporato Darwin o L. H. Morgan nella sua concezione del mondo, che ne è risultata arricchita e concretizzata. Ovviamente, oggi non si riesce a scorgere un’analogia con questo esempio, ma ciò non significa affatto che un marxista possa ignorare i contrasti ideologici esistenti in Occidente, per esempio le posizioni assai controverse sul problema dell’alienazione, la coraggiosa posizione di Sartre in tutte le questioni coloniali, i suoi tentativi di assimilare il materialismo storico, l’onesto comportamento di N. Hartmann verso le questioni ontologiche della filosofia della natura, verso i problemi della teleologia, le ricerche di Werner Jaeger sulla vita spirituale greca, le concezioni archeologiche di Gordon Childe, ecc., che rivelano in modo assai chiaro alcuni di questi contrasti. Ma non si deve dimenticare che antitesi di questo genere non di rado possono essere presenti anche all’interno di una stessa opera: così, in A. Gehlen troviamo, da un lato, preziose e feconde osservazioni antropologico-sociologiche e dall’altro, miti del tutto correnti e alla moda. Paragonando ad esempio N. Hartmann con Heidegger o con i neopositivisti, Werner Jaeger o Gordon Childe con gli sproloqui mistificatori di Jung o di Kerényi, appare chiaro da quale parte stiano gli avversari reali e da quale altra i possibili alleati su problemi particolari.

Per l’ideologia occidentale, il superamento del giudizio culturale monolitico si concentra intorno alla comprensione della vera essenza della dottrina e del metodo marxisti. Indubbiamente, anche su questo terreno sono in atto tentativi che dimostrano una onesta volontà di comprendere, anche se ancor oggi sono, com’è naturale, sporadici e per lo più assenti negli ideologi più influenti. Tuttavia è sintomatico e significativo che mentre alcuni decenni or sono i freudiani «di sinistra» cercavano di correggere Marx, con iniezioni di teorie del loro maestro, oggi invece assistiamo al tentativo di rendere attuale Freud integrandolo con Marx. Fenomeni analoghi sono visibili anche in altri campi anche se, senza dubbio, attualmente sono assai scarsi; infatti, domina ancora quella compiaciuta ignoranza alla quale abbiamo già accennato. Ma non si deve dedurne che l’impostazione dei problemi sia sempre ed esclusivamente monolitica, giacché contrasti esistono ovunque in tutti i problemi; ad alcuni abbiamo accennato nell’ultima parte.

Se la coesistenza economica e politica continuerà a progredire, questo processo di differenziazione, e con esso la presa di posizione differenziata, dall’assimilazione di certe teorie all’alleanza su singoli problemi fino a un rifiuto radicale basato però sulla conoscenza, acquisteranno ampiezza e profondità. Allora soltanto la vera coesistenza potrà verificarsi come lotta reale tra concezioni del mondo. Per comprenderla rettamente, dobbiamo sapere soprattutto che ogni concezione del mondo corre dei rischi sia che soddisfatta di sé rimanga chiusa in se stessa, sia che sia pronta ad accogliere quanto viene dall’esterno. Che il primo di questi comportamenti conduca all’inaridimento e quindi – in situazioni di crisi – all’incapacità a resistere, può essere facilmente confermato in base alle esperienze storiche. Del resto, oggi lo possiamo riscontrare come fenomeno largamente diffuso sia nel capitalismo sia nel socialismo. Nell’altro caso, si dimostra che ogni concezione del mondo, proprio perché scaturisce sempre da un determinato essere sociale, è internamente assai sensibile. Per rifarci ad un esempio meno recente: l’assimilazione di L. Morgan da parte di Marx ed Engels rafforzò grandemente il materialismo storico, mentre l’assimilazione di Kant da parte di Bernstein e Max Adler ha largamente e lungamente paralizzato il materialismo dialettico. Ma poiché questo rischio si basa su un’alternativa reale, è impossibile sfuggire ad esso. Ogni fatto importante scoperto, ogni apertura di un nuovo terreno metodologico, perfino ogni «scoperta» sensazionale, anche se inesatta, pone ciascuna concezione del mondo di fronte a una tale alternativa, e spesso le decisioni apparentemente ovvie, comode o radicali sono proprio le più pericolose. Così, molti socialisti, nei quali l’irrigidimento contro l’Occidente ha indebolito la capacità critica di autodifesa del marxismo, negli ultimi tempi assai spesso hanno accettato acriticamente tutto ciò che viene dall’Occidente, come se il marxismo avesse perduto tutti i suoi poteri di immunizzazione.

Questo saggio non intende pronunciare dei giudizi sui problemi ideologici, anche se l’autore non ha mai nascosto di essere un deciso seguace del marxismo. Ciò che qui si è voluto tentare è piuttosto di indicare la funzione sociale e la sorte sociale delle concezioni del mondo nel campo delle formazioni sociali. Tale funzione consiste nella valutazione orientativa all’interno di un mondo sociale dato; la conoscenza della realtà concreta attuale e della prospettiva del suo sviluppo in questo caso non è per l’individuo fine a se stesso ma uno strumento per una vita vissuta pienamente. La verità dell’immagine del mondo, la giustezza della prospettiva, la forza liberatrice di contenuto dell’orientamento etico decidono della capacità di resistenza o della fragilità di una concezione del mondo. Perciò le crisi nella vita personale o nel sistema sociale sono i criteri ultimi di ciò che una concezione del mondo è in grado di fare. La coesistenza culturale preme in direzione di queste prove, in particolare quando entrambi i sistemi sono in procinto di superare le loro odierne inadeguatezze interne sul piano economico, sociale e ideologico, quando l’aumento universale del tempo libero rivela il vuoto della sua realtà attuale sempre più chiaramente e ad un numero sempre maggiore di uomini e li spinge a cercare da sé un senso da dare alla propria vita.

Nessuno può oggi prevedere quali forme concrete assumeranno le lotte ideologiche nella coesistenza culturale. Ci troviamo oggi agli inizi di un processo lungo e complesso. Ma ci sembra certo che la loro importanza sarà maggiore che nei precedenti passaggi da una forma sociale all’altra. Vi contribuisce, innanzi tutto, la scomparsa della guerra, e il fatto che con ciò non siano ancora eliminate in linea di principio le guerre civili non muta nulla questa crescente importanza sociale delle questioni che concernono la concezione del mondo, anzi può ulteriormente rafforzare tali tendenze. Le forme concrete di questi passaggi sono oggi ancora così imprevedibili che non è il caso di parlarne. Infatti proprio l’acuirsi dei contrasti interni di classe è un fatto che fa emergere alla superficie della vita umana la capacità di resistenza o la fragilità, l’elasticità e la rigidezza delle concezioni del mondo. Naturalmente, l’agire reale degli uomini – in ultima analisi – viene determinato dal loro essere sociale. Ma il passaggio dall’essere alla coscienza è non soltanto inevitabile e significativo ma anche assai complesso, dialetticamente contraddittorio, ineguale. E in questo passaggio, a nostro giudizio, il ruolo delle concezioni del mondo nella futura coesistenza sarà maggiore che mai prima nella storia.

V.

Infine, alcune osservazioni sul ruolo dell’arte, soprattutto della letteratura in questo complesso di problemi della coesistenza culturale. Se vogliamo ottenere un quadro fedele della realtà dobbiamo guardarci, e con maggiore attenzione che mai, dalle generalizzazioni monolitiche. Ancor oggi esse sono dominanti in entrambi i sistemi, soprattutto per il fatto che si tende a ignorare le lotte interne di tendenza nel campo dell’avversario. Non si poté evitare che ciò avvenisse nell’epoca di Stalin, ed ho già accennato altrove ad alcune conseguenze, ancora oggi operanti. La più importante, e la più pericolosa per lo sviluppo della letteratura socialista, è che non si tiene conto della lotta mai interrotta, anzi sempre più intensa, che si svolge in Occidente tra realismo e antirealismo. In Occidente, tali pregiudizi riguardo al realismo socialista sono del resto dominanti. Si dimentica che il periodo prestaliniano della Rivoluzione, i cui effetti perdurarono nella letteratura fino alla metà degli anni trenta, hanno prodotto non soltanto films ma anche scrittori come Šolochov e Makarenko, opere come gli ultimi drammi di Gor’kij, ad esempio Klim Samgin. E non si dimentichi che l’opposizione contro i metodi stalinisti, anche se fino a ora è soltanto agli inizi, ha rivelato scrittori come Solženitsyn o Nekrasov, le cui opere non significano affatto una rottura con il realismo socialista bensì il suo interno rinnovamento adeguato alle esigenze attuali. Questa è la via per la quale la letteratura socialista potrà riconquistare la sua importanza.

Non trattiamo tutti i problemi che scaturiscono da questa situazione, e dal suo futuro superamento da un osservatorio meramente estetico, ma soltanto come parti di quel complesso che abbiamo cercato in precedenza di intendere come lotta tra concezioni del mondo. Non per questo viene escluso il fattore estetico, al contrario. Esso sostiene un ruolo decisivo, giacché un’influenza generale, profonda e durevole sul piano della concezione del mondo scaturisce assai di rado da opere artisticamente minori. Proprio dove, come qui, si considerano gli effetti dell’arte come una parte – assai importante – delle lotte fra concezioni spirituali del mondo analizzate in precedenza, la loro capacità di penetrazione spirituale-sensibile è della massima importanza, ed in essa sono contenuti momenti decisivi dell’estetica. Ciò che, da questo punto di vista, distingue gli effetti artistici da quelli scientifici e ideologici è soprattutto il fatto che i limiti di classe nell’assimilazione vengono superati assai più di frequente e con maggiore intensità di quanto non avvenga di solito. Allorché un confronto intellettuale comincia ad influenzare il comportamento ideologico degli uomini, è quasi inevitabile che sorga nell’uomo una controversia interna, anche socialmente consapevole. Se invece l’influenza nasce attraverso la rappresentazione artistica di uomini e destini umani, la sua immediatezza può spezzare con maggiore facilità i limiti o gli ostacoli di classe. Dal Figaro di Beaumarchais al film La corazzata Potëmkin, la storia presenta numerosissimi esempi di questo tipo di influenza, che la riserva, tuttavia – dal punto di vista della lotta tra concezioni del mondo – che tali impressioni vengono nuovamente incorporate nel vecchio sistema di persuasione – e per ciò stesso rese socialmente «innocue» – assai più facilmente che non le influenze direttamente intellettuali e ideologiche.

In ogni caso, non si debbono sottovalutare gli effetti dell’arte, sia che sconvolgano o plachino, producano rivolta o apatia, entusiasmo o cinismo, sul piano della concezione del mondo. Noi crediamo anzi che le grandi e decisive emozioni che da essa scaturiscono abbiano le più profonde radici proprio nel terreno del contenuto umano della concezione del mondo. Quando l’aspetto puramente formale dell’arte viene posto in modo quasi esclusivo al centro dell’interesse, questo è generalmente il segno di un sostanziale affievolimento del rapporto tra arte e pubblico, ovvero il convergere dei suoi effetti in un accomodamento cinico-apatico dalle forme di vita volta per volta date, mentre il vero realismo – in modi sempre differenti – suole esercitare un’influenza stimolante, liberatrice per la conservazione dell’integrità morale dell’uomo. In tutto ciò, bisogna naturalmente considerare che qui si parla soltanto degli effetti dell’opera stessa, non delle intenzioni dell’autore. Ovviamente, anche nel campo della teoria esiste un legame diseguale e contraddittorio tra l’intenzione soggettiva e la tendenza e il peso oggettivi riguardo all’influenza sugli uomini. Tuttavia, questa contraddittorietà nel campo dell’arte si accresce qualitativamente. Ed è per essa una tendenza negativa il fatto che oggi si trascuri questo momento della dialettica di intenzione e realizzazione. Soprattutto il periodo staliniano negò la possibilità di raffigurazioni artistiche che fossero in contraddizione con le loro intenzioni consapevoli. Perciò, una direzione intellettuale che parta da tali premesse eserciterà per forza un’influenza paralizzante. Quando poi tale direzione arriva fino a imporre divieti, assai facilmente porterà a conferire a tendenze in sé superficiali e passeggere un’eccessiva forza di attrazione, a rendere la loro influenza più profonda e durevole di quel che non sarebbe stata nella sua spontaneità. In ultima analisi, anche i tentativi che compiono in Occidente per diffamare il realismo da un punto di vista estetico opereranno allo stesso modo.

Queste brevi osservazioni non hanno certo la pretesa di prendere posizione esteticamente sull’arte del nostro tempo e sulle prospettive del suo sviluppo nello svolgimento della coesistenza culturale. Si è inteso soltanto accennare ad alcuni tratti essenziali che precisano il peculiare ruolo dell’arte entro le lotte ideologiche della coesistenza culturale.

In generale, abbiamo cercato, al di là delle difficoltà attuali, specifiche e prevedibilmente condannate ad essere superate dallo sviluppo futuro, di accennare alle sue prospettive, che – eliminate le meschine polemiche attuali – annunciano, a quel che è dato di vedere, una sostanziale e aspra lotta ideologica tra i due sistemi. L’autore di questo saggio non vuole nascondere la sua persuasione che in questa gara tra concezioni del mondo nella coesistenza culturale il marxismo, che avrà ritrovato se stesso e sarà ridiventato autentico, risulterà vittorioso.

Lettera al signor Carocci

di György Lukács

«Nuovi Argomenti», n. 57-58, 1962 [in G.L., Marxismo e politica culturale, trad. di Anna Solmi Marietti, Einaudi, Torino 1968].


Caro signor Carocci,

sarei molto tentato di rispondere diffusamente ai problemi che lei pone nelle sue otto domande: poiché vi si trova concentrato praticamente tutto ciò che da anni occupa e interessa molti di noi. Purtroppo le circostanze in cui mi trovo mi obbligano a rinunciare a questa intenzione. Ma poiché non le voglio tacere del tutto le mie idee in proposito, mi limito ad una semplice lettera privata, che naturalmente non ha affatto la pretesa di trattare sistematicamente tutte le questioni essenziali.

Comincio con l’espressione «culto della personalità». Va da sé che ritengo assurdo ricondurre la sostanza e la problematica di un periodo così importante della storia del mondo al carattere particolare di un individuo. È vero che, quand’ero studente, si insegnava nelle università tedesche: «Männer machen die Geschichte» [«Le forti personalità fanno la storia»]. Ma già il mio sociologismo simmeliano o maxweberiano di allora bastava a farmi sorridere di queste dichiarazioni retoriche. E che dire ora, dopo decenni di educazione marxista?

Già la mia prima reazione al XX Congresso, quasi ancora puramente immediata, si rivolgeva, oltre la persona, all’organizzazione: all’apparato che aveva prodotto il «culto della personalità», e che lo aveva poi fissato in una sorta d’incessante riproduzione allargata. Mi raffiguravo allora Stalin come il vertice di una piramide che, allargandosi sempre più verso il basso, era composta di tanti «piccoli Stalin»: i quali – visti dall’alto – erano gli oggetti, e – visti dal basso – i produttori e garanti del «culto della personalità». Senza il funzionamento regolare e incontrastato di questo meccanismo, il «culto della personalità» sarebbe rimasto un sogno soggettivo, un fatto patologico, e non avrebbe mai potuto raggiungere quell’efficacia sociale che esercitò per decenni.

Non occorreva riflettere molto per capire che quell’immagine immediata, senza essere falsa, poteva dare solo un’idea frammentaria e superficiale delle origini, del carattere e degli effetti di un periodo importante. Per gli uomini pensanti, e veramente dediti alla causa del progresso, sorgeva necessariamente il problema della genesi sociale di questa fase evolutiva, problema che Togliatti formulò esattamente per primo, dicendo che bisognava mettere in luce le condizioni sociali della nascita e del consolidamento del «culto della personalità», naturalmente in base alla dinamica interna della rivoluzione russa; Togliatti aggiungeva, altrettanto esattamente, che a questo lavoro erano chiamati in primo luogo i sovietici. Naturalmente non si tratta solo di un problema storiografico. La ricerca storica trapassa necessariamente in una critica della teoria e della prassi che si sono così determinate. E una siffatta indagine approfondita – ne fui convinto fin dall’inizio – doveva mettere in luce tutto ciò che vi era di falso nell’ideologia connessa al «culto della personalità» e da esso prodotta. Dovrebbe succedere, a questi studiosi, come alla signora Alving negli Spettri di Ibsen, che ne descrive così la «svolta ideologica»: «Volevo toccare solo un nodo, ma quando lo ebbi tirato, tutta la storia mi si sciolse tra le mani. E allora mi accorsi che era solo cucita a macchina». Questo risultato non dipende, in primo luogo, dall’atteggiamento di coloro che affrontano il problema; è la conseguenza organica del materiale trattato.

Questa ricerca è rimasta, a tutt’oggi, solo un postulato per il vero marxismo, e lei non si può attendere da me, che non sono uno specialista in questo campo, nemmeno un semplice tentativo di soluzione; tantomeno in una lettera, che ha necessariamente un carattere ancora più soggettivo e frammentario di quello che avrebbe un saggio sull’argomento. In ogni caso deve essere chiaro, per ogni uomo pensante, che il punto di partenza può essere solo la situazione interna e internazionale della rivoluzione proletaria russa del 1917. Da un punto di vista oggettivo, bisogna pensare alle devastazioni della guerra, al ritardo industriale, alla relativa arretratezza culturale della Russia (analfabetismo, ecc.), alla serie di guerre civili, di interventi, da Brest-Litovsk a Vrangel’, eccetera. Come elemento soggettivo (spesso trascurato), bisogna aggiungere la posizione di Lenin nella possibilità di tradurre in pratica le sue giuste teorie. Oggi – poiché in quegli anni le sue decisioni finirono sempre per imporsi – si tende spesso a dimenticare quali resistenze egli dovette superare all’interno del proprio partito. Chi conosce anche solo in parte gli antefatti del 7 novembre, della pace di Brest-Litovsk, della NEP, capirà che cosa intendo dire. (Circolava più tardi un aneddoto su Stalin, che avrebbe detto, ai tempi, delle discussioni interne sulla pace di Brest: «Il compito più importante è quello di assicurare a Lenin una maggioranza sicura nel Comitato centrale»).

Dopo la morte di Lenin era bensì terminato il periodo delle guerre civili e degli interventi stranieri, ma, specialmente per quanto riguarda questi ultimi, senza la minima garanzia che non potessero rinnovarsi da un giorno all’altro. E l’arretratezza economica e culturale appariva come un ostacolo difficilmente superabile ad una ricostruzione del paese, che doveva essere insieme, edificazione del socialismo e garanzia della sua difesa contro ogni tentativo di restaurazione capitalistica. Con la morte di Lenin, naturalmente, le difficoltà all’interno del partito non fecero che aumentare. Poiché l’ondata rivoluzionaria che era stata scatenata dal 1917 era passata senza instaurare una stabile dittatura del proletariato anche in altri paesi, occorreva affrontare risolutamente il problema della costruzione del socialismo in un solo paese (arretrato). È in questo periodo che Stalin si rivelò uno statista notevole e lungimirante. L’energica difesa della nuova teoria leniniana della possibilità di una società socialista in un solo paese contro gli attacchi soprattutto di Trotskij, rappresentò, come non si può fare a meno di riconoscere oggi, la salvezza dell’evoluzione sovietica. È impossibile giudicare in modo storicamente giusto il problema Stalin, se non si considerano da questo punto di vista le lotte di tendenza del Partito comunista; Chruščëv ha già trattato come si deve questo problema in occasione del XX Congresso.

Mi permetta ora una breve digressione sul significato delle riabilitazioni. Va da sé che tutti coloro che negli anni trenta e più tardi furono ingiustamente perseguitati, condannati, assassinati da Stalin, devono essere riabilitati da tutte le «accuse» inventate contro di loro (spionaggio, sabotaggio, ecc.). Ma ciò non implica affatto che debbano andare soggetti a «riabilitazione» anche i loro errori politici, le loro false prospettive. Questo vale soprattutto per Trotskij, che fu il principale esponente teorico della tesi che la costruzione del socialismo in un paese solo è impossibile. La storia ha confutato da tempo la sua teoria. Ma se ci trasportiamo nell’epoca immediatamente successiva alla morte di Lenin, questo punto di vista genera necessariamente l’alternativa: allargare la base del socialismo con «guerre rivoluzionarie», o ritornare alla situazione sociale anteriore al 7 novembre; e cioè il dilemma di avventurismo o capitolazione. Qui la storia non consente in alcun modo una riabilitazione di Trotskij; sui problemi strategici allora decisivi, Stalin ebbe pienamente ragione contro di lui.

Altrettanto ingiustificata mi pare la leggenda diffusa in Occidente, che se Trotskij fosse giunto al potere, avrebbe avviato uno sviluppo più democratico di Stalin. Basta pensare alla discussione sui sindacati del 1921, per capire come si tratti di una pura leggenda. Trotskij sostenne allora, contro Lenin, la tesi che bisognava statalizzare i sindacati per incrementare più efficacemente la produzione, che significa poi, obiettivamente, che essi dovevano cessare di essere organizzazioni di massa con una vita propria. Lenin, che partiva dalla situazione concreta, dalla posizione dei sindacati fra il partito e il potere centrale, nel senso della democrazia proletaria, assegna loro persino il compito di difendere gli interessi materiali e spirituali dei lavoratori, ove occorra, anche contro uno stato burocratizzato. Non voglio e non posso, qui, affrontare diffusamente questo problema. Ma è certo che Stalin, negli anni seguenti, ha proseguito de facto (anche se non nell’argomentazione) la linea di Trotskij, e non quella di Lenin. Se quindi Trotskij, più tardi, rimproverò a Stalin di essersi appropriato del suo programma, si può ben dire che, in questo, egli aveva per molti aspetti ragione. Ne consegue, per il mio giudizio sulle due personalità, che ciò che oggi consideriamo come dispotico e antidemocratico nell’epoca staliniana, ha rapporti strategici assai stretti con le idee fondamentali di Trotskij. Una società socialista guidata da Trotskij sarebbe stata almeno altrettanto poco democratica di quella staliniana, solo che si sarebbe orientata strategicamente sul dilemma: politica catastrofica o capitolazione, anziché sulla tesi sostanzialmente esatta di Stalin, della possibilità del socialismo in un solo paese (le impressioni personali che ho tratto dai miei incontri con Trotskij nel 1921, hanno suscitato in me la convinzione che egli, come individuo, era portato al «culto della personalità» ancor più di Stalin). Quanto a Bucharin, ritengo inutile scriverne diffusamente. Verso la metà degli anni venti, quando la sua posizione non era attaccata da nessuno, ho già fatto notare quanto fosse discutibile il suo marxismo, proprio in rapporto ai suoi fondamenti teoretici.

Torniamo ora al tema principale. Le vittorie meritate nelle discussioni degli anni venti non hanno fatto sparire le difficoltà della posizione di Stalin. Quello che era obiettivamente il problema centrale, il ritmo fortemente accelerato dell’industrializzazione, era, con ogni probabilità, difficilmente risolubile nel quadro della normale democrazia proletaria. Sarebbe vano, oggi, domandarsi se e in che misura Lenin avrebbe saputo trovare una via d’uscita. Retrospettivamente vediamo, da un lato, le difficoltà della situazione oggettiva, e, dall’altro, che Stalin, per dominarle, superò vieppiù, col passare del tempo, i limiti dello strettamente necessario. Mettere in luce le proporzioni esatte sarebbe appunto il compito di quella ricerca che Togliatti ha detto di attendersi dalla scienza sovietica. Si ricollega strettamente a questo problema (senza perciò identificarsi con esso) quello della posizione di Stalin nel partito. È certo che egli ha costruito a poco a poco, durante e dopo il periodo delle discussioni, quella piramide di cui parlavo all’inizio. Ma non basta costruire un simile meccanismo, bisogna anche tenerlo continuamente in funzione; esso deve reagire sempre nel modo desiderato, e senza possibilità di sorprese, ai problemi quotidiani di ogni genere. Si dovette così elaborare, a poco a poco, quel principio che oggi si suole chiamare «culto della personalità». Anche qui la storia dovrebbe essere riesaminata a fondo da studiosi sovietici competenti di tutta la materia (compreso il materiale finora inedito). Quel che si poteva constatare anche dall’esterno, era anzitutto la liquidazione sistematica delle discussioni interne di partito, in secondo luogo l’accrescersi di misure organizzative contro gli oppositori, in terzo luogo il passaggio da queste misure a provvedimenti di carattere giudiziario e statale-amministrativo. Quest’ultimo crescendo fu accolto naturalmente con muto spavento. Durante la seconda fase agiva ancora il tradizionale umorismo dell’intelligentsia russa. «Qual è la differenza tra Hegel e Stalin?», era la domanda. E la risposta: «In Hegel ci sono tesi, antitesi e sintesi, in Stalin rapporto, controrapporto e misure organizzative». Per il giudizio storico su questo sviluppo Chruščëv ha già dato una giusta indicazione al XX Congresso, definendo i grandi processi degli anni trenta come politicamente superflui, poiché la forza effettiva di ogni opposizione era già stata allora pienamente stroncata.

Non mi ritengo affatto competente a descrivere questo sviluppo e le sue forze motrici. Anche dal punto di vista teoretico bisognerebbe mostrare come Stalin, che negli anni venti difese ancora con abilità e intelligenza l’eredità di Lenin, venne sempre più a trovarsi, in tutti i problemi importanti, in opposizione a lui: circostanza a cui non cambia nulla il suo attaccamento verbale alle dottrine di Lenin. Anzi: poiché Stalin seppe ottenere, sempre più efficacemente, di essere considerato come il legittimo erede di Lenin, come il suo unico autentico interprete, e che si riconoscesse in lui il quarto classico del marxismo, finì per consolidarsi sempre più il fatale pregiudizio dell’identità delle teorie staliniane coi principi fondamentali del marxismo. Ripeto che non può essere mio compito esporre scientificamente questa situazione e le sue origini. La prendo così com’è nella realtà, come un fatto, e cerco, nelle pagine che seguono, di metterne in rilievo le conseguenze teoriche e culturali, come il metodo ad essa immanente, sulla scorta di alcuni fatti importanti, di alcuni punti nodali. Dove premetterò subito che non m’interessa di sapere se e in che misura determinate teorie debbano ricondursi positivamente allo stesso Stalin. Nella centralizzazione spirituale da lui creata, era comunque impossibile che si affermassero stabilmente delle teorie che non fossero almeno da lui autorizzate; la sua responsabilità nei loro confronti è quindi in ogni caso evidente.

Comincio con una questione di metodo in apparenza estremamente astratta: la tendenza staliniana è sempre quella di abolire, ovunque possibile, tutte le mediazioni, e di istituire una connessione immediata fra i dati di fatto più crudi e le posizioni teoretiche più generali. Proprio qui appare chiaramente il contrasto fra Lenin e Stalin. Lenin distingueva molto esattamente fra teoria strategia e tattica, e ha sempre studiato accuratamente e tenuto conto di tutte le mediazioni che le collegano tra loro (spesso in modo estremamente contraddittorio). Mi è naturalmente impossibile, in una lettera (per quanto mi si venga allungando nello scriverla), anche solo toccare per accenni questa prassi teoretica di Lenin. Mi limito a prendere, da questo grande complesso, un solo esempio: il concetto così importante per Lenin del ripiegamento tattico. È una regola metodologica affatto ovvia che la necessità e utilità di una ritirata può essere intesa solo sulla base dei concreti rapporti di forza di volta in volta esistenti, e non dei principi teoretici più generali; questi determinano – più o meno mediatamente – gli obiettivi ecc. dell’azione attuale, e hanno una grande importanza per la ritirata stessa in quanto contribuiscono a determinarne il modo, la misura, ecc., facendo sì che non diventi un ostacolo a una nuova avanzata. Che per realizzare elasticamente la ritirata si richieda la conoscenza di tutto un sistema assai intricato e complesso di mediazioni, è chiaro senza bisogno di altre spiegazioni. Stalin, che non disponeva dell’autorità di Lenin, prodottasi in virtù di grandi azioni e importanti realizzazioni teoriche, e diventata ormai qualcosa di «naturale», trovò il modo di dare una giustificazione immediatamente evidente di tutte le sue misure, presentandole come la conseguenza diretta e necessaria delle dottrine marxiste-leniniste. A questo scopo bisognava sopprimere tutte le mediazioni, e la teoria e la prassi dovevano essere collegate immediatamente fra loro. È per questo che tante categorie di Lenin scompaiono dal suo orizzonte; anche il ripiegamento appare in lui come un’avanzata.

La mancanza di scrupoli di Stalin giunse qui fino al punto di alterare, se necessario, anche la teoria, per venire incontro alle sue pretese di autorità. Ciò appare, in modo particolarmente grottesco, nel problema cinese, dove il grottesco nasce dal fatto che Stalin, questa volta, da un punto di vista tattico aveva pienamente ragione. (Anche la critica più severa non deve mai farci dimenticare che Stalin fu una figura politica di prim’ordine). Trotskij e i suoi seguaci sostenevano la tesi che, poiché in Cina predominavano i rapporti asiatici di produzione studiati teoricamente da Marx, una rivoluzione democratico-borghese (corrispondente al passaggio del feudalesimo al capitalismo in Europa) era superflua, e bisognava attendersi lo scoppio immediato di una rivoluzione proletaria. Stalin comprese esattamente la falsità e pericolosità politica di questa posizione. Ma, anziché confutarla con un’analisi concreta della situazione cinese contemporanea e dei compiti tattici che ne scaturivano, espunse, sic et simpliciter, dalla scienza i rapporti asiatici di produzione, e stabilì l’esistenza di un feudalesimo cinese (e asiatico in genere). Tutta l’orientalistica, nell’Unione Sovietica, fu così costretta a porre alla «base» di tutte le sue ricerche una formazione inesistente.

La stessa metodologia appare in un altro caso, molto più noto. Mi riferisco al patto di Stalin con Hitler nel 1939. Anche qui, a mio avviso, Stalin prese una decisione – da un punto di vista tattico – sostanzialmente giusta, che ebbe però tragiche conseguenze perché anche qui, anziché trattare come tale il ripiegamento tattico imposto dalle circostanze concrete, egli fece delle sue misure dettate dalla necessità, senza nessuna mediazione teoretica, criteri di principio della strategia internazionale del proletariato. Non voglio affrontare qui l’arduo nodo problematico dei vantaggi e svantaggi (di carattere politico e morale) prodotti dal patto del 1939. Il suo senso immediato fu quello di rinviare la minaccia di un imminente attacco di Hitler, e di un attacco che, probabilmente, sarebbe stato appoggiato, apertamente o di nascosto, da Chamberlain e Daladier. L’ulteriore prospettiva tattica era che, se Hitler – come effettivamente accadde – avesse sfruttato il patto con l’Unione Sovietica come occasione favorevole per una offensiva contro l’Occidente, più tardi, nel caso di una guerra fra la Germania e l’Unione Sovietica, per quest’ultima l’alleanza con le democrazie occidentali (già tentata ai tempi di Monaco) avrebbe acquistato caratteri di estrema probabilità; anche qui i fatti hanno confermato la previsione tattica di Stalin.

Fatali per tutto il movimento operaio rivoluzionario furono le conseguenze di carattere teorico-strategico che ne trasse Stalin. Si dichiarò che la guerra fra la Germania di Hitler e le potenze europee era una guerra mondiale imperialistica come la prima. E cioè che le formule strategiche di Lenin, allora esatte («Il vero nemico è nel tuo paese», «Trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile», ecc.), dovevano valere immutate per i paesi che volevano e dovevano difendersi contro il fascismo hitleriano. Basta leggere il primo volume del ciclo «I comunisti» di uno scrittore ortodosso come Aragon, per vedere chiaramente le conseguenze internazionali disastrose di questa «generalizzazione staliniana» di una mossa tattica. Ma le conseguenze più nefaste trascendono i casi particolari, per quanto enormi. La grande autorità del marxismo ai tempi di Lenin si basava sul fatto che l’unità dialettica di fondatezza teoretica, stabilità di principi ed elasticità tattica era avvertita da tutti. Questa nuova «metodologia» di Stalin fece sì che ampi circoli, e non sempre a priori ostili al marxismo, d’ora in poi non videro altro, nelle affermazioni teoretiche di Stalin, che «giustificazioni» spesso sofistiche, in molti casi pseudoteoretiche, di misure puramente tattiche di validità spesso assai contingente. Stalin venne incontro così ai voti teorici di molti pensatori borghesi, per cui il marxismo sarebbe solo un’«ideologia» politica come tutte le altre. Se oggi formulazioni profonde ed esatte di Chruščëv (evitabilità della guerra imperialistica, coesistenza, ecc.) sono interpretate per molti aspetti in modo analogo, è anche questo un frutto dell’eredità staliniana. Una liquidazione radicale e di principio di tale metodologia (e non solo di errori singolarmente presi) è quindi un’«esigenza del giorno» anche nel senso pratico più urgente.

Gli errori qui elencati sono naturalmente casi estremi. I loro principi furono però universalmente applicati nella prassi quotidiana. Dove non bisogna dimenticare, accanto ai motivi finora menzionati, che una parte notevole della vecchia intelligentsia di partito era in opposizione a Stalin (che non significa, naturalmente, che tali opposizioni rappresentassero un punto di vista metodologicamente e oggettivamente giusto). Stalin aveva bisogno di una precisa esecuzione delle sue decisioni da parte dell’apparato, ed anche, se possibile, dell’approvazione delle grandi masse; anche per questo semplificò radicalmente le sue enunciazioni teoretiche. La soppressione delle mediazioni, il collegamento diretto dei principi più generali alle esigenze concrete della prassi quotidiana, appariva in questo senso un mezzo assai idoneo. Anche qui non si concretizzò la teoria applicandola alla prassi, ma, viceversa, si semplificarono e volgarizzarono i principi secondo le esigenze (spesso solo presunte) della prassi. Anche qui mi limito a fare un solo esempio particolarmente tipico (ma se ne potrebbero fare infiniti altri). Nella sua ultima opera economica Stalin «scoprì» ciò che era «sfuggito» a Marx, Engels e Lenin, che ogni formazione economica ha una «legge fondamentale» che può essere sintetizzata in una breve proposizione. È così semplice che anche il funzionario più limitato e incolto la capisce subito; e, anzi, è messo in grado, col suo aiuto, di condannare senz’altro, nelle sue deviazioni «di destra» o «di sinistra», ogni lavoro di scienza economica di cui non capisce oggettivamente nulla. Marx, Engels e Lenin sapevano che le formazioni economiche costituiscono sistemi mobili e complicati la cui essenza è definibile solo mediante un rilievo esatto di tutte le loro determinazioni importanti, le loro interazioni reciproche, proporzioni, ecc. Le «leggi fondamentali» di Stalin enunciano pure banalità, non spiegano un bel nulla, ma danno ad alcuni circoli l’illusione di sapere tutto in anticipo. In questa direzione, della volgarizzazione mediante la soppressione dei termini medi, si situa l’enunciazione di Stalin nel suo saggio sulla linguistica, per cui la scomparsa di una formazione economica determina anche quella della sua ideologia, ecc. ecc.

I diversi momenti del metodo staliniano formano un’unità sistematica all’interno della quale trapassano l’uno nell’altro. Avrà già fatto certamente caso al soggettivismo nella posizione di Stalin. Esso costituisce, effettivamente, un momento fondamentale in questo sistema: ma assume la sua forma pura nella concezione staliniana della partitarietà. Anche qui si tratta di un importante elemento della concezione teoretica di Lenin. Già nelle sue opere giovanili egli si occupò di questo problema, e ne elaborò i momenti soggettivi e oggettivi. Il momento soggettivo è chiaro e semplice: una presa di posizione risoluta nella lotta di classe. Ma quando Lenin critica l’oggettivismo degli studiosi borghesi, si riferisce ad un certo tipo di determinismo, che può rovesciarsi facilmente in un’apologetica dei fatti intesi come necessari. Poiché la partitarietà materialistica indaga gli avvenimenti in modo più profondo e concreto, a partire dalle loro forze motrici reali, è più rigorosamente oggettiva dell’«oggettivista», valorizza l’oggettività in forma più profonda e completa. Con Stalin viene completamente a cadere questo secondo momento, e ne risulta una condanna radicale di ogni impulso all’oggettività: che è bollato col marchio dell’«oggettivismo» e dichiarato spregevole. Poiché Stalin era un uomo intelligente, si spaventò, a volte, delle conseguenze del soggettivismo da lui scatenato, per esempio nell’economia. Ma non poté né volle mai eliminarlo stabilmente, poiché questo atteggiamento era troppo profondamente radicato nel metodo da lui introdotto.

Poiché Stalin vuol mantenere ad ogni costo la continuità «citazionale» con l’opera di Lenin, ne conseguono deformazioni non solo dei fatti, ma anche dei testi leniniani. L’esempio più evidente è quell’articolo di Lenin del 1905, dove egli si proponeva di far ordine – nelle nuove condizioni della legalità – nella stampa e nelle edizioni di partito. Ma sotto Stalin quell’articolo divenne a poco a poco la Bibbia della «partitarietà» in tutto il campo della cultura e anzitutto della letteratura, allo scopo di trasformare lo scrittore in una semplice rotella del grande meccanismo. E sebbene N. Krupskaja, moglie e collaboratrice strettissima di Lenin, abbia richiamato l’attenzione, in una sua lettera, sul fatto che quell’articolo di Lenin non si riferisce minimamente alla letteratura, non mancano ancora oggi le tendenze a lasciare che la Bibbia… resti la Bibbia. Qualcosa di simile accadde per Hegel al tempo della seconda guerra mondiale, quando, per esigenze propagandistiche della lotta contro la Germania hitleriana, lo si fece passare per ideologo dell’opposizione reazionaria alla rivoluzione francese. A prescindere affatto dal contrasto in cui questa tesi si trova con quelle di Marx, Engels e Lenin, è abbastanza comico ricordare che nello stesso periodo, per analoghe esigenze propagandistiche, il generale zarista Suvorov divenne un rivoluzionario. Che Suvorov abbia condotto campagne militari contro la rivoluzione francese, mentre Hegel, fino alla fine della sua vita, prese entusiasticamente le sue difese, non disturbava minimamente la «partitarietà» staliniana; il riconoscimento dei fatti sarebbe stato un «oggettivismo».

Il punto culminante di questa tendenza è rappresentato dalla Storia del partito, diffusa in molti milioni di copie. Qui la «partitarietà» del funzionario supremo è il demiurgo che crea o fa sparire i fatti, e, secondo le esigenze, conferisce essere e valore a uomini ed eventi, oppure li annulla. È una storia di lotte di correnti, che non sono, però, rappresentate o sostenute da uomini, di opposizioni anonime, ecc., una storia dove, a parte beninteso Lenin, solo Stalin possiede un’esistenza. (Nella prima edizione c’era bensì un’eccezione: vi compariva anche Ežov, «il nostro Marat», il primo organizzatore dei grandi processi; dopo la sua caduta anche il suo nome venne cancellato).

In tutto ciò si rivela un altro aspetto metodologico. Per i classici del marxismo era ovvio che la scienza fornisse il materiale e i punti di vista in base ai quali vengono prese le decisioni politiche. Propaganda e agitazione ricevono il loro materiale della scienza, dalla prassi scientificamente elaborata. Stalin rovesciò questo rapporto. Per lui, in nome della «partitarietà», l’agitazione è il momento primario. Le sue esigenze determinano (come ho già mostrato sulla base di alcuni esempi) ciò che la scienza deve dire e il modo in cui deve dirlo. Anche qui un esempio può chiarire questo stato di fatto. Nel celebre capitolo quarto della Storia del partito Stalin definisce l’essenza del materialismo dialettico e di quello storico. Trattandosi di un libro popolare per un pubblico di massa, nessuno potrebbe rimproverare a Stalin di aver ridotto le considerazioni assai sottili e complesse dei classici su questo tema ad alcune definizioni elencate una dopo l’altra in forma schematica e manualistica. Ma il destino delle scienze filosofiche dopo la pubblicazione di quest’opera mostra che si tratta di una metodologia cosciente e di una politica culturale deliberata, e proprio nel senso che ho indicato prima. E cioè le semplificazioni (spesso volgarizzazioni) propagandistiche di Stalin divennero subito la norma unica, imperativa e il limite invalicabile dell’indagine filosofica. Chi osava, richiamandosi, per esempio, ad annotazioni filosofiche di Lenin, andare oltre le definizioni del quarto capitolo, o semplicemente integrarle, andava incontro alla condanna ideologica e non poteva pubblicare le sue ricerche. Non per nulla, al XX Congresso Il’ičëv ha constatato che, negli ultimi decenni, filosofia, economia e storiografia sono rimaste stagnanti.

Queste forme di subordinazione non si limitarono al capitolo quarto e alla filosofia. Tutta la scienza e tutta la letteratura dovevano servire esclusivamente alle esigenze propagandistiche formulate dall’alto, dallo stesso Stalin. La comprensione ed elaborazione autonoma della realtà attraverso la letteratura era bandita sempre di più. La letteratura «partitaria» non deve già rispecchiare creativamente la realtà oggettiva, ma illustrare in forma letteraria le decisioni del partito. Torna ad onore del critico letterario Elena Usevič aver preso posizione, già negli anni trenta, contro l’obbligo della letteratura illustrativa. Nel suo discorso al XXII Congresso il poeta Tvardovskij ha proseguito questa lotta anche oggi necessaria. Si tratta di un problema cruciale della letteratura. Essa può pervenire ad una rappresentazione autentica solo se prende le mosse da problemi reali di uomini reali, e se rispetta la dialettica interna dell’evoluzione che scaturisce da quelle premesse. L’obbligo dell’illustrazione pone a base dell’opera una verità generale astratta (ammesso che si tratti di una verità), e gli uomini ed i loro destini devono adeguarsi ad ogni costo a questa tesi.

Tutto ciò non era naturalmente fine a se stesso. Nasceva dalla posizione di Stalin, dal suo bisogno di un’autorità indiscussa. Devo ripetere anche qui, come prima, che solo indagini approfondite di studiosi competenti potranno stabilire quale parte vi ebbero le difficoltà oggettive e quale le reazioni inadeguate di Stalin. Vi fu senza dubbio, negli anni trenta, un inasprimento oggettivo della situazione: all’interno, oltre che all’industrializzazione accelerata, anche in seguito alla collettivizzazione dell’agricoltura, in politica estera in seguito all’ascesa al potere di Hitler e alla minaccia di un attacco portato all’Urss dalla Germania fascista. Se la lotta di classe nel paese, nonostante tutte le difficoltà economiche, si sia realmente inasprita in modo decisivo, è un problema su cui potranno dare un giudizio competente solo indagini precise di studiosi della materia. Stalin, comunque, trovò presto la parola d’ordine della semplificazione-generalizzazione propagandistica: l’incessante inasprimento della lotta di classe è necessario nella dittatura del proletariato, stavo per dire: è la sua «legge fondamentale».

Questa tesi, di cui già il XX Congresso ha smascherato la falsità, mette in luce le conseguenze più nefaste del metodo staliniano. Essa intende suscitare un’atmosfera di continua diffidenza reciproca, di vigilanza di tutti contro tutti, un clima da stato d’assedio in permanenza. Posso accennare qui solo in breve e frammentariamente alle conseguenze secondarie: la paura, spinta oltre ogni limite, di nemici, spie e sabotatori, e un sistema di segretezza ossessiva per tutto ciò che abbia qualcosa a che fare con la politica. Così, per esempio, la statistica divenne una scienza «strettamente segreta», i cui risultati erano accessibili solo alle persone assolutamente fidate; i lavoratori scientifici dell’economia appartenevano solo in casi eccezionali – e mai per ragioni scientifiche – a questa ristretta cerchia di eletti.

Il quadro del metodo staliniano acquista così un tratto complementare che ancora gli mancava: tutto ciò che in una situazione rivoluzionaria acuta, dove è effettivamente in gioco l’essere o il non essere di una società, è obiettivamente inevitabile, fu arbitrariamente eretto da Stalin a fondamento della prassi quotidiana sovietica. Non voglio soffermarmi qui a parlare dei grandi processi. È questo il tema che è stato trattato finora più diffusamente, e nel suo discorso al XXII Congresso Šelepin ne ha analizzato assai esattamente le conseguenze per il diritto sovietico e la giurisprudenza socialista. Vorrei solo attirare brevemente l’attenzione su alcune conseguenze di ordine culturale. Già la soppressione delle mediazioni contiene in sé la tendenza a trattare come blocchi monolitici tutti i fenomeni della vita. La permanenza della situazione rivoluzionaria acuta intensifica ulteriormente questa tendenza. Ciascuno si risolve senza residui – nella totalità della sua esistenza, in tutte le determinazioni della sua personalità e della sua opera – nella funzione che svolge (o si pretende che svolga) momentaneamente in una vita così concepita. Così, per prendere un esempio dalla logica dei processi: poiché Bucharin, nel 1928, si oppose al piano staliniano della collettivizzazione, è certo che nel 1918 egli partecipò ad una congiura per uccidere Lenin. Questo è il metodo di Vyšinskij nei grandi processi. Ma questa metodologia si estende anche a metodo di giudizio della storia, della scienza e dell’arte. Anche qui è istruttivo contrapporre il metodo di Lenin a quello di Stalin. Lenin, per esempio, ha criticato duramente e aspramente la politica di Plechanov nel 1905 e nel 1917. Ma insieme – e questo «insieme» non implica alcuna contraddizione per Lenin – egli insiste sul fatto che bisogna utilizzare l’opera teoretica di Plechanov per la diffusione e l’approfondimento della cultura marxista nel socialismo, e ciò benché, anche sul piano puramente teoretico, egli sollevasse contro Plechanov varie e importanti obiezioni.

Eccetera eccetera, devo scrivere a questo punto, perché non ho affatto esaurito l’argomento. Ma anche queste note brevi e frammentarie le mostreranno che nel caso Stalin non si tratta affatto (come per molto tempo si volle far credere da parte di alcuni) di errori particolari e occasionali, ma di un falso sistema di idee che si costituì a poco a poco, di un sistema i cui effetti nocivi si fanno sentire tanto più dolorosamente, quanto meno le condizioni sociali attuali sono paragonabili a quelle di cui il sistema staliniano appare il rispecchiamento deformato e deformante. Anche qui i fatti decisivi sono noti a tutti. Mi limito quindi a elencarli brevemente: gli eventi successivi alla seconda guerra mondiale hanno trasformato il socialismo in un solo paese, come l’arretratezza economica e culturale dell’Urss, in una reminiscenza storica; come appartiene al passato anche la possibilità di un accerchiamento capitalistico. A questi fatti si aggiunge la vittoriosa emancipazione dei popoli coloniali e la radicale trasformazione della tecnica bellica con l’introduzione di razzi e bombe nucleari. Per tutti questi motivi anche l’inevitabilità delle guerre imperialistiche ha cessato di essere una necessità. È gran merito del XX e del XXII Congresso aver preso atto di questa nuova situazione e averne tratto le principali conseguenze teoriche e pratiche. Naturalmente gli animi si dividono anzitutto secondo il loro atteggiamento verso la guerra e verso la pace. È intorno a questo problema che si acuiscono al massimo anche i problemi ideologici. Senza poter qui nemmeno sfiorare i problemi politici fondamentali, devo sottolineare che, in campo culturale, l’accentuazione del pericolo di guerra, la sottovalutazione del peso delle forze che operano a favore della coesistenza pacifica, sono rivolte, nella maggior parte dei casi, piuttosto verso l’interno che verso l’esterno; e cioè mirano assai più a conservare o a far sorgere un’atmosfera di guerra, che a preparare o scatenare effettivamente una guerra. Dove è evidente la sopravvivenza di tendenze staliniane negli ambienti del settarismo aperto o mascherato. Pochi manterranno oggi, con le stesse parole, la tesi staliniana del fatale inasprimento della lotta di classe. Per conservare lo status quo staliniano all’interno, basta constatare ogni volta, per il momento presente, l’esistenza di questo inasprimento, e conservare così, in uno stato di acuta tensione, anche il controllo centralizzato di tutte le manifestazioni culturali; il «momento» può essere naturalmente prolungato a piacere. È questa la base dell’alleanza presente de facto fra le tendenze estremistiche nel capitalismo e nel socialismo. Entrambe mirano, in ultima analisi, a conservare inalterati i metodi staliniani. Gli ideologi borghesi, perché un marxismo ridotto a Stalin possiede una forza d’attrazione assai minore di quello genuino, e quelli che si pretendono socialisti, perché è molto più comodo governare coi metodi staliniani che coi metodi di Marx e di Lenin. Perciò Enver Hodja e Salvador de Madariaga agiscono oggi (paradossalmente, a prima vista) nello stesso senso: si battono entrambi, in fin dei conti, per l’integrità del sistema staliniano.

D’altra parte la coesistenza implica necessariamente un’intensificazione anche dei rapporti culturali reciproci fra capitalismo e socialismo, e quindi una sfida, per la cultura socialista, a uscire vittoriosa da una competizione viva con quella capitalistica. Il settarismo fa di tutto, non solo per indebolire le condizioni di una concorrenza vittoriosa, ma anche per mascherare la situazione reale. Che è in realtà molto più favorevole che negli anni venti, quando i metodi staliniani non erano ancora perfezionati né applicati sistematicamente a tutti i prodotti culturali. Il critico della Germania occidentale Walter Jens descrive così la letteratura tedesca di quel periodo: «Nessuno dubiterà, alla fine, che non sia stato proprio e in ultima analisi l’interesse per l’Unione Sovietica a improntare di sé l’arte degli anni venti». E così si esprime sugli effetti del metodo staliniano trionfante: «Gli intellettuali divennero, e per sempre, senza patria». Il grande compito della cultura socialista, è quello di additare agli intellettuali, e oltre di essi alle masse, una patria spirituale. Negli anni venti, politicamente ed economicamente così difficili, essa vi riuscì in larga misura. Che in seguito queste tendenze si siano nettamente indebolite nell’arena internazionale della cultura, è una conseguenza del periodo staliniano. Ma queste forze possono ridestarsi, se si eliminano le condizioni sfavorevoli al loro dispiegamento. Un film come La ballata di un soldato di Cuchraj mostra chiaramente che il regime staliniano ha potuto solo conculcare, ma non già spegnere, le energie creative. Con questa constatazione non voglio certo sottovalutare le difficoltà del periodo di transizione. Poiché gli apparati culturali dei paesi socialisti sono ancora in larga misura detenuti dai seguaci dogmatici di Stalin (che, nel migliore dei casi, si adeguano esteriormente alle novità), poiché parti notevoli dei nuovi quadri sono state educate e formate nello spirito staliniano, poiché il sistema è un paradiso per tutti quelli che mancano di talento e si adattano senza sforzo, e poiché anche molti degli elementi più dotati non hanno potuto resistere alla lunga pressione senza risentirne gravemente nella capacità e nel carattere, e via dicendo: il passaggio ad una situazione culturale che promuova realmente la scienza e l’arte sarà con ogni probabilità contraddittorio, difficile, pieno di ricadute.

Il XX Congresso ha fornito, fra l’altro, una serie di importanti relazioni sulla situazione attuale. Ho già citato alcune di queste voci. Ma la cosa più interessante, oggi, non è ciò che avviene direttamente nel campo della cultura, ma sono quelle misure economiche e politiche che introducono nella realtà sociale una generale democratizzazione in senso comunista. Qui la necessità di riforme è assai più immediata e imperiosa che in campo culturale. Con tutti i suoi errori, l’industrializzazione staliniana ha saputo creare le condizioni e i requisiti tecnici della guerra vittoriosa contro la Germania di Hitler. Ma la nuova situazione mondiale pone l’Unione Sovietica, in campo economico, di fronte a compiti del tutto nuovi: essa deve creare un’economia che superi, in tutti i settori della vita, il capitalismo più sviluppato, quello degli Stati Uniti, che elevi il tenore di vita della popolazione sovietica a un livello superiore a quello americano, e che sia insieme in grado di prestare un aiuto economico di ogni genere, sistematico e permanente, sia agli altri stati socialisti che ai popoli economicamente arretrati in via di emancipazione. A tale scopo sono necessari metodi nuovi, più democratici, meno burocraticamente centralizzati, di quelli che poterono svilupparsi fino ad oggi. Il XXII Congresso ha avviato qui un insieme grandioso e molteplice di riforme. Mi limito a ricordare il deliberato, di estremo interesse e importanza, che nelle elezioni alle cariche di partito il 25 per cento dei vecchi dirigenti non possano essere rieletti. Solo un rinnovamento democratico sistematico di tutta la vita può fornire una base sana alla rinascita culturale nel socialismo.

La resistenza ad una critica radicale e di principio del periodo staliniano è tuttora molto forte. In essa si raccolgono i motivi più disparati. Ci sono, per esempio, gli ingenui e i benintenzionati che temono che dalla denuncia spietata degli errori del sistema staliniano deriverebbe una perdita di prestigio per il comunismo. Essi dimenticano che proprio in ciò si afferma la forza irresistibile del comunismo: i movimenti storici maturi non possono essere ritardati indefinitamente da misure per quanto sfavorevoli. La loro espansione, il loro raggio d’azione possono essere ridotti, ma non già il loro sviluppo e il loro consolidarsi definitivo. E c’è ancora questo da osservare: una riflessione imparziale non potrà mai trascurare quanto vi fu di positivo nell’attività di Stalin; io stesso ho accennato qui alla sua meritata vittoria nei dibattiti degli anni venti, e si potrebbero fare senza dubbio molti altri esempi. Ma l’«esigenza del giorno» è la liberazione del socialismo dalle catene dei metodi staliniani. Quando Stalin farà parte della storia, del passato, e non sarà più – come oggi – il principale ostacolo all’evoluzione futura, sarà possibile, senza troppe difficoltà, formulare su di lui un giudizio storico esatto. Io stesso ho fornito vari spunti di una valutazione storica equanime; ma essa non deve intralciare il lavoro di riforma, oggi così importante.

Si tratta di liberare quelle forze che sono contenute nel giusto metodo di Marx, Engels e Lenin. Nel suo discorso di Bucarest, Chruščëv ha chiarito l’opposizione fra metodo leniniano autentico e affermazioni dogmatiche e contingenti nel senso di Stalin, con la felice immagine che oggi Lenin tirerebbe le orecchie a chi volesse servirsi di citazioni dai suoi scritti e discorsi per proclamare l’inevitabilità delle guerre ai nostri giorni. Ma il ritorno al metodo autentico dei classici del marxismo è anzitutto un fare i conti col presente e col futuro. L’ultima ricerca marxista originale in campo economico, l’Imperialismo di Lenin, è apparsa nel 1917; l’ultima in campo filosofico, l’analisi leniniana di Hegel, è stata scritta negli anni 1914-15 e pubblicata negli anni trenta. Ma se la nostra teoria si è irrigidita, il mondo non si è fermato. Il ritorno ai metodi dei classici del marxismo serve appunto a cogliere marxisticamente il presente, qual esso è in realtà, per desumere così il criterio della condotta e dell’azione, della creazione e della ricerca, dalla realtà esattamente conosciuta, e non da una schematica «citatologia». Naturalmente questo processo è tutt’altro che semplice (anche a prescindere dagli ostacoli posti dalle istanze burocratiche). Fa parte dell’essenza dell’indagine scientifica – e della creazione artistica – che esse non possano raggiungere, per lo più, un’approssimazione massima alla realtà senza passare attraverso errori e peripezie molteplici. Poiché nel periodo staliniano l’istanza centrale doveva essere infallibile, dovevano essere ugualmente «perfette» anche le applicazioni effettuate dai piccoli Stalin. (Che questa «perfezione» e «definitività» fosse quanto mai effimera, che non di rado, dopo breve tempo, fosse condannata come deviazione, è un’altra caratteristica di questo periodo. Anche qui c’è una battuta umoristica che documenta lo stato d’animo dell’intelligentsia russa all’inizio degli, anni trenta. Usciva allora, ogni anno, un volume dell’Enciclopedia letteraria, sempre redatto nel senso della più rigorosa «perfezione». Ma prima che il testo fosse finito di stampare, quasi tutte le verità dogmaticamente fissate diventavano errori altrettanto dogmaticamente stabiliti. Così quell’opera era chiamata da tutti «Enciclopedia delle deviazioni»). Rinunciare a questa «definitività» burocraticamente decretata, discutere apertamente e pubblicamente le divergenze effettive nella scienza e nell’arte, imprimerebbe al marxismo, all’interno, uno slancio superiore ad ogni previsione, e (a differenza di quanto pensa la burocrazia culturale staliniana) non farebbe che accrescere, all’esterno, l’autorità degli studiosi e degli artisti marxisti veramente capaci.

Nel 1789, in una discussione sui cambiamenti costituzionali nel Württemberg, il giovane Hegel scriveva: «Se ha da esserci un mutamento, qualcosa ha da essere mutato». Queste parole si attagliano benissimo alla situazione attuale, e permettono di distinguere con sicurezza i due schieramenti. Poiché, dopo il XXII Congresso, è ormai impossibile evitare del tutto la critica al periodo staliniano. Questa critica è ormai generale. Ma c’è chi dice: «Sì, questo e quest’altro era sbagliato, ma la scienza e l’arte sono già in piena ripresa». E chi dice invece: «Abbiamo cominciato con la critica del passato; ora si tratta, sulla base di questa critica tuttora in corso, di creare le basi ideali e organizzative di una ripresa futura». È chiaro che i primi vogliono «cambiare» in modo che tutto resti com’era: si tratta solo di dare un’etichetta nuova a cose vecchie. Naturalmente, nel secondo caso, non si vuol dire che si debba condurre a termine un’opera di riforma i cui risultati saranno visibili solo in seguito, ad opera finita. No. Un’opera sincera di riforma può produrre nuovi risultati nella scienza e nell’arte già nel corso della lotta per gettare le fondamenta. Ma si tratta di un processo lungo, complicato e contraddittorio.

Caro signor Carocci, mi accorgo che la mia lettera è diventata spaventosamente lunga, anche se ho detto solo una piccola parte di ciò che le sue domande hanno suscitato dentro di me. La prego quindi di scusare, sia la lunghezza, che il carattere frammentario di questa lettera.

Coi miei cordiali saluti                                                                                Georg Lukács

Marxismo e romanzo storico

di Guido Piovene

«La Stampa» 30 giugno 1965

La più importante opera critica di Giorgio Lukács Marxismo e romanzo storico

Per il filosofo, il romanzo vivo e classico è sempre “storico”: rievocando il passato (Manzoni) o rappresentando il presente (Balzac), fa della società la vera protagonista – Mancando questa coscienza, decade: da Dostoevskij a Kafka, il giudizio di Lukács è negativo

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Pubblicato e discusso nell’Unione Sovietica, dove il famoso pensatore ungherese risiedeva a quel tempo, pochi anni prima della guerra, Il romanzo storico di Giorgio Lukács è uscito ora presso Einaudi. Nella sua bella introduzione, Cesare Cases lo definisce «il libro più fuso e articolato che il Lukács critico e storico letterario abbia scritto»; ma ammette che il nostro interesse nel leggere qualche parte del libro è più storico che attuale; ci troviamo di fronte al monumento critico di un periodo «ormai concluso». Il marxismo di Lukács, ricordiamo qui di passaggio, suscitò controversie e riprovazioni settarie. Lukács fu imprigionato, poi liberato, dopo la rivolta di Budapest. Nel complesso Lukács ci ha dato l’espressione più vera e più completa della critica marxista di quel periodo, giacché non possiamo chiamare vera la critica di quelli che toglievano all’arte qualsiasi autonomia per farne un semplice strumento del potere politico. Il concetto su cui Lukács impernia il suo discorso è l’eccellenza, il valore esemplare del romanzo «classico» e, a contrasto, l’inferiorità di tutto quello che rientra nella categoria molto vasta del «decadente». L’apertura, o chiusura, all’ispirazione storica di chi scrive romanzi costituisce il criterio discriminante. Il titolo, Il romanzo storico, non deve indurre a credere che vi siano per Lukács altri generi di romanzi di pari dignità. Il romanzo che ammira e accetta è sempre storico, rappresenti la storia passata (Walter Scott, Manzoni, tenuto molto in alto), o «il presente come storia» (Balzac, Stendhal). Il romanzo, nel periodo d’oro, è stato l’epopea della società borghese ancora progressiva, e potrà esserlo domani di quella socialista, purché vi ritrovi lo stesso grado di libertà nel descrivere, senza sovrapporvisi arbitrariamente, tutte le varietà e i conflitti d’una società reale. I più grandi romanzi sono nati dall’affermarsi della «consapevolezza storicistica»; o il romanziere sente, rappresenta dal vivo, il moto e il dramma della storia, ed è realista e progressivo; o, se prende altra strada, esce dalla realtà, cade nel falso, fa opera reazionaria. La «consapevolezza storicistica», e il romanzo storico che ne deriva, hanno il loro grande prologo nella rivoluzione francese. Si apre il periodo d’oro del romanzo storico, anzi del romanzo tout court, che si chiude approssimativamente con la reazione successiva ai moti del 1848. Il romanzo storico sostituisce l’antica epopea perché la psicologia degli uomini, «le circostanze economico-morali della loro vita», si sono così complicate da rendere necessaria una descrizione vasta e differenziata. L’arte del grande romanziere come Balzac, che per Lukács costituisce il vertice, sta nell’essere dentro «la varietà e molteplicità d’aspetti della vita di un popolo», nel subbuglio delle «aspirazioni e tendenze individuali», ma di vederle miste al «contenuto sociale dei conflitti», da cui non si possono scindere. «Gli elementi complessi e capillari di tutta la società dell’epoca trovano il loro giusto posto nel quadro»; «lo sviluppo delle circostanze oggettive» emerge dal «graduale manifestarsi dei caratteri individuali che ne scaturiscono». Ma il grande romanziere, realista e non naturalista, non copia la realtà; la concentra nelle sue invenzioni, la esprime in individui tipici. Le grandi personalità della storia sono rappresentate nella loro giusta luce se il romanziere fa sentire com’esse sorgano dalle oscure correnti del popolo, a cui danno voce; sono, nel tempo stesso, dominatrici ed accessorie. La società coi suoi conflitti è la vera protagonista. Il secondo periodo, quasi del tutto negativo, si estende dalla reazione borghese dopo il 1848, che separa borghesia e popolo come «due nazioni diverse», alla soglia dei nostri giorni. Il senso della storia decade e si corrompe. Il romanzo la elimina, o la conserva come ambiente ornamentale-esotico di psicologie private, di destini personali chiusi. Nel soffio di tendenze destoricizzanti, metafisiche, mistiche, la storia d messa in causa solo per tradire se stessa. Un esempio cospicuo della «disumanizzazione» o «privatizzazione» della storia in un grande artista è Salammbô di Flaubert; l’immenso e indifferente scenario di Cartagine, in cui si accumula l’atroce, l’inumano, lo strano, l’anormale, il mostruoso, è costruito solo per fare da sfondo alle agitazioni isteriche della protagonista e per fuggire come in sogno l’odioso presente. Il popolo non è più fatto d’individui diversi e veri ma diventa una massa amorfa. Esistono gli scrittori dalla parte del popolo (Zola). Ma, costretti a rappresentarlo diviso dall’insieme della società, ne danno un’immagine falsa, astratta, generica, e cadono negli stessi vizi del romanzo borghese a cui vogliono contrapporsi. Vi è poi il terzo periodo, quello più vicino a noi. Anche tra i migliori, che aspirano a ritrovare il contatto col popolo, il rapporto tra idea e rappresentazione è «troppo diretto, troppo intellettualistico, troppo generale». Necessario, secondo Lukács, «il superamento della funesta eredità dell’evoluzione ideologica tardo-capitalistica», la sua «liquidazione artistica», il ricollegamento al romanzo storico classico della borghesia progressiva, (Balzac, Tolstoj, ecc.), ideologico senza forzature, solo perché sentiva la realtà dal suo interno. Il marxismo deve spiegare che l’intermezzo decadente ha dato opere senza verità, inadeguate anche artisticamente, anche quando si devono ad artisti con grandi doti. È una conclusione che certo non ci può rendere contenti. La visione di Lukács, conservando la propria forza, rivela oggi tutto quanto v’è in essa di antistorico e d’irreale. Tolstoj è glorificato; Dostoevskij, proprio in un libro imperniato sul grande romanzo dell’Ottocento, è taciuto. Negato ogni valore all’eccentrico, al soggettivo, e naturalmente al perverso. Il repertorio dei salvati e quello dei respinti, la graduatoria dei valori, non sono ammissibili. Si dà un peso eccessivo ad Anatole France, a Romain Rolland romanziere, a Gorkij («il più grande scrittore del nostro tempo»); Joyce e Musil sono citati di passaggio e soltanto a titolo di biasimo, e di Proust e di Kafka nemmeno e fatto il nome. Al loro posto compaiono nella scena scrittori comprimari o anche dimenticati. Anche nel mondo socialista ogni sforzo intellettuale autentico è volto a demolire questo genere di restrizioni. La realtà ha un numero troppo grande di stanze perché si possa aprirle tutte con una chiave sola, come in quel periodo s’illusero anche critici e storici dell’altezza di Lukács. Con i suoi criteri parziali, egli ne apre una parte; penetra a fondo nel romanzo, che gli è congeniale, della prima metà del secolo XIX; scrive pagine geniali e fertili su quel romanzo, sui rapporti tra romanzo e dramma, e su altri argomenti che qui dobbiamo sorvolare. Ma altri reparti gli rimangono chiusi. La stessa critica marxista successiva (vedi Edwin Perry Burgun) investe la letteratura forse con meno impeto e calore ideologico, ma anche con maggiore ricchezza di strumenti, il che la rende più prudente nell’eliminare i maestri. E rimane il fatto che i versi di Baudelaire citati da Lukács («Emporte-moi, wagon! enlève-moi, frégate!», con quel che segue) malgrado la «infinita e disperata, delusione» che esprimono, la loro ispirazione antistorica, bastano da soli a seppellire le buone intenzioni di cento romanzieri «storici» secondari.

“Il romanzo storico” di György Lukács in Italia.

di Andrea Manganaro

in «Moderna: semestrale di teoria e critica della letteratura», VIII, 1 2, 2006.


Sono trascorsi poco più di quaranta anni dalla pubblicazione in Italia, nel 1965, de Il romanzo storico di G. Lukács: un’opera che già nel 1968, chi provava ad aggiornare un consuntivo sulla presenza di Lukács in Italia (quello, acutissimo, sul decennio precedente, era di Franco Fortini) disponeva sugli scaffali degli «ammirevoli classici», più che dei libri «utili per il presente». Anno centrale, nel nostro paese, per la storiografia e la critica letteraria, quel 1965 in cui apparvero anche Scrittori e popolo di Asor Rosa, Verifica dei poteri di Franco Fortini, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano di Timpanaro. Non era “nuovo” però il ponderoso saggio di Lukács edito da Einaudi con introduzione di Cesare Cases: proveniva infatti quasi da un’altra epoca e un altro mondo, Il romanzo storico, elaborato, attraverso varie stesure, a Mosca, durante i terribili anni trenta. E giungeva con notevole ritardo in Italia, un decennio dopo l’edizione della traduzione tedesca, di poco preceduto dalla pubblicazione di due opere giovanili (Teoria del romanzo, 1962 e L’anima e le forme, 1963) che attestavano concezioni fortemente divergenti da quelle della maturità e segnatamente da Il romanzo storico. Posizioni senz’altro antitetiche nella concezione del rapporto arte-scienza e quindi della forma saggio e della qualità della scrittura: «Felice il tempo nel quale la volta stellata è la mappa dei sentieri praticabili e da percorrere, che il fulgore delle stelle rischiara»: così iniziava Teoria del romanzo, il libro dell’inverno 1914-15 in cui tale genere si annunciava come la categoria centrale del pensiero estetico di Lukács, ma con la nostalgica evocazione di un utopico passato del mondo dell’epos e della sua totalità perduta – antecedente la scissione io-mondo della moderna (fichtiana) «epoca della compiuta peccaminosità». E risulta davvero difficile ravvisare, in questo incipit, identità autoriale con chi, lo stesso Lukács, avrebbe poi voluto «scriver male», premunirsi intenzionalmente da prelievi di luccicanti citazioni, bandire ogni approccio aforistico, non potendo più sottrarsi al «demone dell’oggetto», alla continua tensione alla totalità, ad indicare sempre «il rapporto d’insieme, lo sviluppo sistematico e storico». Continua a leggere