I carteggi con Elsa Morante, le indicazioni politiche di Togliatti, i giudizi critici di Croce e Fortini e le citazioni lukacsiane negli scritti di Che Guevara. Queste e altre autorevoli voci, assieme a documenti e materiali poco noti, e riunite dal sapiente lavoro storico-critico di Lelio La Porta, ci aiutano a ripercorrere la vita e il pensiero di György Lukács (1885-1971), intellettuale marxista fra i più influenti del secolo scorso. Uno strumento puntuale e affidabile per conoscere la vita turbolenta e tempestosa del pensatore ungherese e il suo impianto storico-filosofico, ancora oggi saldo punto di riferimento per la scienza politica. Contributi di Nicola Abbagnano, Cesare Cases, Carlos Nelson Coutinho, Benedetto Croce, Franco Fortini, Antonio Gramsci, Ferdinando Gueli, Ernesto Che Guevara, Ágnes Heller, Antonino Infranca, Janos Kelemen, Guido Liguori, István Mészáros, Elsa Morante, Zoltán Mosóczi, Aldo Rosselli, Pier Aldo Rovatti, Palmiro Togliatti, Miklós Vásárhelyi.
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N. Tertulian, Modernité et Antihumanisme. Les combats philosophiques de Georg Lukács (segnalazioni)
Nicolas Tertulian
Modernité et Antihumanisme
Les combats philosophiques de Georg Lukács
Klincksieck, 2020
368 pages
coll. Critique de la politique
N° dans la collection : 20
Parution : 08/11/2019
EAN13 : 9782252043363
Ce livre rassemble des articles dont la rédaction s’étend sur plus de trois décennies. Il esquisse les linéaments d’une philosophie de la démocratie radicale, centrée sur la figure du penseur hongrois Georg Lukács (1885-1971).
À travers une critique rigoureuse des tendances antihumanistes du XXe siècle — et notamment des systèmes conceptuels développés par Martin Heidegger et Carl Schmitt —, Lukács a rappelé dès les années 1930 les exigences d’une pensée européenne responsable, désireuse à la fois d’assumer ses origines révolutionnaires et de tirer les conséquences des grandes catastrophes politiques du XXe siècle. Dans son oeuvre propre, Lukács pose les fondements philosophiques d’une pensée de l’égalité et de l’inclusion qui, sans rien perdre du mordant critique de sa matrice marxiste, s’efforce d’articuler les différents niveaux de manifestation d’une rationalité plurielle. La tâche ultime de la philosophie ne doit pas être de séparer, d’opposer et de discriminer, mais de retrouver dans la théorie de la connaissance, l’expérience quotidienne, la création artistique, l’instauration institutionnelle, l’unité d’un projet humain. Lukács revient ainsi au premier plan du combat pour une modernité ouverte et sans mépris, pour une véritable culture de l’égalité dans la démocratie.
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Nicolas Tertulian, né en 1929 à Iaşi en Moldavie roumaine, est un philosophe, esthéticien et essayiste, installé en France depuis 1982. Spécialiste reconnu de la pensée de Georg Lukács, il a enseigné de 1982 à 2010 l’« Histoire de la pensée allemande (XIXe-XXe siècle) » à l’EHESS. Il est l’auteur, en français, de deux ouvrages consacrés à la pensée lukácsienne. D’innombrables publications, du Brésil au Japon, ont fait connaître ses travaux, notamment ses études critiques sur Heidegger et Schmitt. Nicolas Tertulian est décédé en septembre 2019 à Suresnes, sans avoir vu paraître ce livre.
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Table des matières
Présentation de Pierre Rusch
Première partie. Lukács et la pensée ontologique du XXe siècle
Chapitre 1 : Histoire de l’Être et révolution politique. Réflexions sur un ouvrage posthume de Heidegger
Chapitre 2 : Qui a peur du débat ? Réponse à M. de Beistegui
Chapitre 3 : Lukács et Heidegger – les deux ontologies (une confrontation)
Chapitre 4 : Le concept d’aliénation chez Heidegger et Lukács
Chapitre 5 : Nicolai Hartmann – Lukács, une alliance féconde
Deuxième partie. Lukács et le marxisme du XXe siècle
Chapitre 6 : Adorno – Lukács : polémiques et malentendus
Chapitre 7 : Distanciation ou catharsis ? (Sur les divergences entre Brecht et Lukács)
Chapitre 8 : Gramsci, l’Anti-Croce et la philosophie de Lukács
Chapitre 9 : Ernst Bloch – Georg Lukács, paradoxes d’une amitié
Chapitre 10 : Sartre : de l’intelligibilité de l’histoire
Troisième partie. Figures de l’antidémocratie
Chapitre 11 : Croce et Gentile – de l’amitié à l’hostilité
Chapitre 12 : Arnold Gehlen – la genèse de sa pensée
Chapitre 13 : Carl Schmitt : la théologie politique
Chapitre 14 : Carl Schmitt : le juriste et le Führer
Chapitre 15 : Scènes de la vie philosophique sous le IIIe Reich : Steding, Schmitt, Heidegger
Una storia di maschere?
di Franco Fortini
«Avanti!» 3 luglio 1949
[Avvertenza: riprendiamo il testo di questo articolo da una copia cartacea rovinata, per cui alcuni passi non sono leggibili. In quel caso è posta il simbolo […] ad indicare la mancanza. Inoltre – piccola nota filologica – quando Fortini usa l’aggettivo “virtuistico”, fa riferimento alla terminologia di Vilfredo Pareto e lo mutua dal suo maestro Giacomo Noventa, che ne fece grande uso. In generale l’aggettivo vale come “moralistico”, nel senso negativo del termine].
M’è avvenuto di leggere, nei giorni passati, la Breve storia della letteratura tedesca del critico e filosofo marxista Georg Lukács, tradotto in francese nelle edizioni Nagel. È questa una storia sociologica e politica della letteratura tedesca, un’essenziale discorso sulle vittorie e sugli errori di una cultura, espressa nelle forme letterarie, equivalenti, se non esattamente paralleli alle rare vittorie e ai molti funesti errori della evoluzione democratica tedesca. La leggevo con particolare attenzione, perché, da noi, si può dire quasi inesistente, o appena i suoi inizi, una critica letteraria di ispirazione marxista; e poi, perché è questo, di una critica letteraria ispirata a quei principi (ma bisognerebbe dire persino di una estetica rinnovata, di contro alla tradizione dell’idealismo; vedi l’importante lavoro di Galvano Della Volpe) uno degli argomenti di più frequente riso e critica, fra uomini non solo delle altre, ma anche delle nostre tendenze politiche.
E in questi giorni l’Avanti! ha ospitato una «Breve storia degli intellettuali italiani» che mi ha dato molto da riflettere. Iniziativa, quella di G. Peirce, lodevole, soprattutto se la sua forma giornalistica fosse stata la conseguenza di uno studio vero e proprio; ma, diversamente da quella del Lukács, molto pericolosa e ricca di equivoci. Diciamo subito che fare della critica “marxista” (metto deliberatamente tra virgolette questa parola per indicare il riferimento più o meno preciso al complesso della tradizione marxista, mentre parlando di marxismo tout court oggi, è impossibile non intendere il marxismo-leninismo nell’interpretazione stalinista, cioè comunista, e nelle sue applicazioni più recenti) non può voler dire cercare delle semplici corrispondenze e dei rapporti di causa-effetto tra fattori sociali e politici e strutture economiche, da una parte, e opere d’arte o di letteratura (espressioni delle sovrastrutture) dall’altra. Dire, come fa Peirce, e come molti dicono, che il movimento letterario e culturale rappresenta il tal momento politico o la tal altra esigenza di difesa o di offesa di classe (e dirlo, poi, con esasperante schematismo) non può non ridurre opere di pensiero e di letteratura a maschere ideologiche da “smascherare” secondo una locuzione troppo frequentemente e imprudentemente; in questo caso la storia di una letteratura sarà ridotta a una storia di maschere e di burattini; e la storia della filosofia ad una storia di ideologie, cioè di filosofia considerate soltanto nella loro fase di decadenza e di “applicazione” (e mi si permetto, a questo proposito lamentare che i socialisti stiano confermando l’uso improprio di chiamare “ideologica” ogni attività culturale e teorica di partito). Una critica di tal genere sembra covare in chiunque si illude che il marxismo sia una “riduzione all’economico” e in chi porta una intima incomprensione e forse un segreto dispetto e odio alla letteratura e all’arte, (che sono senza dubbio, uno dei più vistosi strumenti e aspetti della iniquità sociale e dello sfruttamento); una critica di tal genere non sarà una critica “partitica”, ma soltanto una critica virtuistica (e finalmente ingenua) che non potrà far altro se non “smascherare” falsità, menzogne, errori e brutture, tesa all’auspicio di una letteratura che…non mascheri nulla. Io mi permetto di consigliare (per qualche esperienza che ho di questo genere di discorsi) di stare molto attenti: si rischia di dire alcune clamorose sciocchezze, di ingannare dei compagni che mancano del modo di controllare i nostri errori, e di disgustarne inutilmente altri. Voglio dire che queste «storie brevi» sarebbe meglio considerarli saggi di sociologia delle lettere e delle arti. Se si dichiara che l’opera letteraria non ha altro senso che quello di rappresentare un momento della struttura economica e politica, non capisco perché si studino i grandi poeti e gli scrittori e non già la minore pubblicistica o le opere di mero successo che quei momenti rappresentano, documentano o denunciano tanto più chiaramente. Se invece (pur con la necessaria prudenza dopo i recenti abusi delle alleanze crociano-cattoliche e della critica idealistico-mistica) si maneggi il criterio della distinzione estetica, si arriverà forse ad una conclusione che si può sì compendiare come segue.
L’indagine dei rapporti fra la espressione artistica (nelle forme che siamo soliti chiamare «poesia» e «letteratura») e il mondo della società storica (indagine che non è nata con le ultime leve!) è una forma di filologia, serve cioè da strumento per una più esauriente comprensione di quella espressione, e, correlativamente, di quel mondo. Si tratta di stabilire anzitutto i limiti di questa, come di qualsiasi altro strumento di interpretazione. Cioè, se l’attività critica deve soltanto tradurre in termini di sociologia, di politica, di «sovrastrutture» l’opera letteraria, la categoria estetica sarà negata; se invece essa deve introdurre (e non sostituirsi), la sua indagine dovrà essere molto più profonda e delicata di quel che certa gente creda. Per fare un esempio: dire che la tal poesia di X è l’espressione della borghesia imperialista del paese Y nella fase Z è fare un giro inutile e costoso quando sarebbe infinitamente più semplice e redditizio ricercare altre forme di espressione della borghesia di Y in Z. Serve comunque a poco; e ci preclude […]biamente ogni possibile avvicinamento alla poesia di […] Bisognerà invece, servendosi naturalmente di tutti i mezzi filologici a nostra disposizione, avvicinarci alla differenza specifica che c’è tra l’espressione X, e le espressioni N, S, […] di Y in fase Z. Arriveremo molto probabilmente ad accertare in ogni espressione di arte e di poesia una certa particolare tensione ed equilibrio dinamico tra elementi volontari e involontari, fra plurimi significati ed echi fra valori «espressivi» e «comunicativi», ecc. in che facciamo consistere propriamente l’espressione artistica e (con le dovute distinzioni) quella cosiddetta letteraria. Insomma, per dirla molto grossolanamente, non si tratta di «passare» dal cosiddetto «contenuto» alla cosiddetta «forma»; ma da un contenuto esplicito ad uno implicito, e al rapporto tra i due. Vedremo che X «significa», « rappresenta», «maschera» Y in Z (e anche ben altro!) in modo, però, tale che, per comprenderlo e sentirlo convenientemente, (perché insomma il composto chimico, che X è, diventa disgregabile e assimilabile) è necessario un tempo diverso da quello che solitamente si impiega per comprendere manifestazioni e le espressioni, N.S.R… Tempo che nessuna sociologia può accelerare. Si potrà fabbricare il grano che, cresce in tre settimane ma non una autentica poesia capace di risolversi, di comunicarsi a favore della fretta dei distratti.
Affermazioni di questo genere ci paiono abbastanza ovvie, ed è abbastanza penoso che si sia ancora a doverle ripetere quando sarebbe tanto necessario lavorare molto seriamente a mettere in pratica critica una revisione, della nostra letteratura, specie contemporanea. Speriamo, paradossalmente, che la dichiarata fine delle speranze e delle illusioni di garibaldinismo culturale, il visibile trionfo della reazione culturale ci costringa a vendette non verbali, a serietà e furore di studi, per distruggere, ma davvero, quel che avevamo creduto sufficiente dimenticare, (e soprattutto per evitare che alcuni santoni naviganti eternamente fra due acque piangano le loro lacrime di coccodrillo sulla letteratura e sulla critica rivoluzionaria).
In quanto alle storie o alle cronache meramente sociologiche, esse sono necessarie, se condotte con l’opportuno senso dei loro limiti. E anzi bisognerebbe che le «piccole storie» dei letterati italiani fossero condotte fino ai nostri giorni, con fredda accettazione dello scandalo, descrivendo le subordinazioni economiche alle potenze politiche, i rapporti con il fascismo, con l’editoria, il costume, le bizze, i falsi scandali, le conversioni, i mestieri, i premi ecc. della casta letteraria. Proseguire Gramsci, insomma, non in modo aneddotico, naturalmente, ma come descrittiva di un «ceto» organico. Ma non dimenticavo davvero i fini di una simile indagine: una critica ad uomini-istituti, che non è, o non basta per essere, una critica alla loro poesia o letteratura. Apparirà allora chiaro quello che andiamo ripetendo da tanto tempo: che il mondo della cultura e della politica italiana seguitano, e volutamente, a giuocare con un equivoco; gli uni e gli altri, in fondo, lietissimi che l’equivoco si perpetui. «Impegnati» e «impegnatori», avversari o no dell’«impegno», tutti però concordi, in silenzio, su di un punto: gli uomini di cultura a non parlare mai della cultura dei loro politici, e i politici a non prender mai sul serio la cultura dei loro uomini di cultura. Questi solo desiderosi di lasciare la loro «organizzazione» in mano ai «pratici». E i «pratici», felicissimi, sempre, di tenersela.
Ricordi su Lukács (di Victor Serge)
di Victor Serge
da Memorie di un rivoluzionario, e/o, 2001.
I marxisti sanno, mi diceva György Lukács, autore di “Geschichte und Klassenbewusstsein”, che si possono commettere impunemente molte piccole porcherie quando si fanno grandi cose; l’errore di certi consiste nel credere che si può arrivare a grandi risultati facendo soltanto piccole porcherie….
[…]
Apprezzavo soprattutto György Lukács, cui debbo molto. Universitario a Budapest poi commissario di una divisione rossa al fronte, filosofo nutrito di Hegel, di Marx, di Freud, spirito libero e rigoroso scriveva grandi libri che non dovevano vedere la luce. Vedevo in lui uno di quei cervelli di prim’ordine che avrebbero potuto dare al comunismo una grandezza intellettuale se il comunismo si fosse sviluppato in quanto movimento sociale, anziché degenerare in movimento di sostegno di una potenza autoritaria.
Il pensiero di Lukács lo portava a una visione totalitaria del marxismo che abbracciava per lui tutti gli aspetti della vita umana; la sua teoria del partito poteva essere, a seconda delle circostanze, ammirevole o mortale.
Riteneva, per esempio, che la storia, non potendo essere estranea alla politica, dovesse essere scritta da storici al servizio del Comitato centrale. Parlavamo un giorno del suicidio dei rivoluzionari condannati a morte (a proposito dell’esecuzione a Budapest nel 1919, del poeta Otto Corvin, che aveva diretto la Ceka ungherese e di cui l’alta società venne a contemplare l’impiccagione come uno spettacolo di prima scelta).
Il suicidio disse Lukács, ci avevo pensato al momento in cui mi aspettavo di essere arrestato e impiccato con lui, e avevo concluso di non averne il diritto: un membro del Comitato centrale deve dare l’esempio. (Incontrai più tardi György Lukács e la sua compagna, nel 1928 o 1929, in una strada di Mosca. Lavorava all’Istituto Marx-Engels, ci soffocavano i suoi libri, viveva coraggiosamente nella paura; pressappoco benpensante, non osò stringermi la mano in luogo pubblico, giacché ero escluso e noto come oppositore. Sopravvive fisicamente. Scrive articoletti grigi sulle riviste del Comintern.)
[…]
Soprattutto mi diceva György Lukács, una sera che andavamo errando sotto le guglie grigie della chiesa votiva, non fatevi stupidamente deportare per nulla, per il rifiuto di una piccola umiliazione, per il piacere di votare con sfida… Credetemi, le vessazioni non hanno grande importanza per noi. I rivoluzionari marxisti hanno bisogno di pazienza e di coraggio; non hanno affatto bisogno di amor proprio. L’ora è cattiva, siamo a una svolta oscura. Risparmiamo le nostre forze: la storia farà ancora appello a noi.
Rispondevo che se l’ambiente del partito a Leningrado e Mosca mi fosse diventato troppo pesante, avrei domandato una missione in qualche parte della Siberia e là, in mezzo alle nevi, lontano dalle politiche tortuose, avrei scritto i libri che avevo in testa aspettando giorni migliori.
Di Lukács e di altro
di Antonello Trombadori
«L’Unità», 2 gennaio 1957
Il signor Giovanni Russo, corrispondente romano del Corriere della Sera, ha dato una singolare risposta a Franco Fortini e a tutti coloro che, nelle ultimo due settimane, hanno voluto isolare con particolare risalto dalla tragedia ungherese le personali vicende di Giorgio Lukács. Scrive il signor Russo nel numero di dicembre della rivista Nord e Sud: «Fu Lukács a consigliare Nagy di denunciare il patto di Varsavia e di fare appello all’intervento occidentale». Non sappiamo dove il corrispondente del quotidiano milanese abbia attinto la notizia, né se egli l’abbia coniata di sana pianta nell’intento di calunniare Lukács o nel proposito, non dissimile, di esaltare in lui un tardivo seguace della «scelta della libertà». Se di premeditata calunnia si tratta ai danni del filosofo ungherese, vorremmo tuttavia conoscere che cosa ne pensano Franco Fortini e i suoi più o meno autorevoli imitatori (vedi sull’ultimo numero del Punto anche le lettere dei f.lli Bertelli). Essi saranno di certo, quanto noi, sprovvisti dell’informazione necessaria ma in questi casi più della stessa informazione vale l’ipotesi e l’apprezzamento che se ne deriva. La domanda potrebbe esser questa: è una calunnia o un titolo d’onore qualificare Lukács come promotore di così catastrofiche misure di governo nei giorni della sommossa della disgregazione e del caos?
Uno dei f.lli Bertelli risponde già sua sponte. Egli non fa distinzioni tra Lukács, Nagy e tutti gli altri membri dell’ex governo ungherese che oggi si trovano, a quanto ufficialmente consta, in Transilvania. Sul filo della logica non vi sarebbe, dunque, stato, a suo avviso, un solo momento lungo tutto il corso della tragedia ungherese nel quale le sorti indivisibili della pace e del socialismo abbiano seriamente rischiato d’esser compromesse. Il governo Nagy cedeva alla tracotanza del cardinale. Finalmente un gesto non «settario» verso la gerarchia! Il governo Nagy si lasciava ad ora ad ora sopraffare dagli avventurieri tipo Dudasz? Finalmente un non «settario» riconoscimento delle tradizioni militari della nazione magiara! Il governo Nagy tentennava davanti alle rivendicazioni dei latifondisti sulle terre espropriate? Finalmente una coraggiosa ammissione dei diritti della «produttività»! Il governo Nagy non riusciva a comporre nel quadro della legalità socialista le impetuose e disordinate pressioni delle più contrastanti velleità politiche e ad esso indulgeva con irrealizzabili promesse? Finalmente il libero gioco dei partiti e delle opinioni! Il governo Nagy indicava nell’esercito che un tempo aveva liberato Budapest dai nazisti e dai vilasz il nemico numero uno dell’indipendenza ungherese? Finalmente una critica aperta e leale nei rapporti tra Stati socialisti! Il governo Nagy faceva appello all’intervento occidentale? Finalmente un costruttivo e spregiudicato colloquio col mondo capitalista!
È questa la base di un ragionamento che, come si è detto, ha una sua logica. Questa logica però, se si vuol condurre a fondo e lealmente il dibattito, non deve essere occultata. È la logica di coloro che, per dirla coi comunisti cinesi, «quando l’Ungheria si trovava a fronteggiare la sua crisi, non solo non hanno sollevato la questione di realizzare una dittatura proletaria, ma si sono pronunciati contro i giusti passi compiuti dall’Unione Sovietica per aiutare le forze socialiste in Ungheria. Si sono fatti avanti a chiedere che il governo rivoluzionario operaio e contadino estendesse la democrazia ai controrivoluzionari». È la logica di coloro che, per dirla ancora coi comunisti cinesi, «negano che vi sia una linea di demarcazione tra la dittatura del proletariato e la dittatura della borghesia, tra il sistema socialista e il sistema capitalista, tra il campo socialista e il campo imperialista. Secondo costoro un capitalismo di stato in certi paesi borghesi è già di per se stesso socialismo e perfino la società umana, nel suo complesso, è già maturata nel senso del socialismo». Ed è anche la logica di coloro che, proprio a differenza di quanto comprese Giorgio Lukács fin dal 1919, non hanno mai meditato su una considerazione che dieci anni dopo Bela Kun premetteva a un suo breve saggio sul terrore bianco in Ungheria: «Lo scatenamento della controrivoluzione che ha seguito la rivoluzione proletaria ungherese è una evidente conferma della tesi di Engels, che nel periodo della rivoluzione proletaria tutte le forze della controrivoluzione si raggruppano attorno parola d’ordine della pura democrazia. La socialdemocrazia rappresentò la pura democrazia al tempo della dittatura del proletariato in Ungheria».
Se si ha il coraggio di guardare le cose come stanno e di porre la questione in questi termini, se si ha il coraggio, cioè, di riconoscere che da posizioni simili è inevitabile scivolare fino alla vergognosa (vergognosa in particolare per un uomo di scienza) tesi di Fianco Venturi secondo cui sarebbe finalmente iniziato il periodo dell’accerchiamento socialista dell’URSS (guidato dal Patto Atlantico, dagli azionisti della General Motors e dalla «solidarietà occidentale» – n.d.r.), tutta la nostra contesa con coloro ai quali si è fatto cenno all’inizio può prendere la giusta dimensione, uscire dall’equivoco e svilupparsi sul terreno della chiarezza. Ma perché ciò sia possibile è necessario che tutti i nostri contraddittori accettino fino in fondo le proprie responsabilità. Infatti delle due l’una: o Fortini e i suoi imitatori intendono convenire sul fatto che il governo Nagy fu travolto ad un tempo dalla sua incertezza, dal suo miracolismo democratico e dalla sua pretesa equidistanza dal campo socialista e dal campo imperialista, ammettendo, di conseguenza, che quando quel governo si scisse la ragione fu dalla parte dei Kádár e dei Marosán (la ragione rivoluzionaria) e il torto dalla parte di coloro che optarono per il rifugio nell’ambasciata jugoslava: ovvero Fortini e i suoi imitatori non possono evitare di porsi sul terreno di coloro che se non plaudirono, tollerarono le parole del cardinale quando la radio Budapest, nei giorni in cui si trattava di correggere e di denunciare gli errori compiuti ai danni del socialismo da Rákosi e da Geroe, preferiva lanciare la parola d’ordine della liquidazione del socialismo al cospetto della democratica impotenza di chi, in buona o mala fede, aveva lasciato scatenarsi senza freno le forze mescolate del caos dell’anarchia, della restaurazione e della disperazione popolare.
Alla luce di una delle due scelte non può non essere posta anche la particolare vicenda di Giorgio Lukács. Essa, lo ripetiamo, non deve servire di pretesto a chicchessia: sarebbe infatti grave slealtà tentar di contrabbandare, sotto il velo del disappunto e del dolore che in ogni marxista derivano dal non sapere oggi un uomo come Lukács al fianco del governo ungherese, ben più complesse o inconfessabili operazioni politiche.
Chi oggi rivendica solidarietà per Giorgio Lukács, volendo fare di lui una bandiera della controrivoluzione e della liquidazione del socialismo, dovrebbe più dignitosamente e utilmente ceder la penna ai propagandisti del monopolio, della curia e della socialdemocrazia di destra. Eviterà di barare al gioco.
Chi voglia invece porsi il problema della penosa sorte toccata a Giorgio Lukács dopo la sua uscita dall’ambasciata jugoslava, conservando intatta la speranza di non veder sporcato l’illustre scrittore dalle calunnie del signor Russo e di poterlo rivedere, con rinnovato slancio, a fianco di coloro che in Ungheria portano oggi la duplice croce degli errori di Rákosi e degli errori di Nagy, dovrebbe, come noi abbiamo fatto, giudicare l’operato politico di Lukács nel contesto stesso degli avvenimenti ungheresi, delle loro implicazioni internazionali e delle responsabilità che su ciascuno degli uomini di governo ricaddero fin dal momento delle estreme decisioni di Kádár e dei fondatori del nuovo partito socialista degli operai ungheresi. Anche la condotta di Lukács non deve sfuggire alla severità della critica politica che di qui discende. Rimane tuttavia un quesito: fin dove si spinse in questi giorni confusi e drammatici l’iniziativa di Lukács, fin dove giunsero le sue personali responsabilità? Noi ci rifiutiamo di credere che egli cadde nell’intrigo degli «appelli» calunniosamente attribuitigli dal signor Giovanni Russo. Resta il fatto comunque che da quegli appelli egli non dissentì o non poté apertamente dissentire. Ma anche se così stanno le cose fino a qual punto deve essere spinto il giudizio politico, la critica anche severa verso Lukács, in primo luogo da parte dei suoi compagni, dei comunisti? È quanto vorremmo conoscere da coloro che soli possono fornire l’esatta versione dei fatti: le autorità governative ungheresi, i dirigenti del partito socialista degli operai ungheresi, le autorità sovietiche che diressero l’intervento risolutivo nei giorni in cui l’esistenza stessa dello Stato popolare fu sul punto d’esser travolta.
È solo in base a queste premesse (e solo in base alle informazioni che da nessun altro intendiamo accogliere) che un particolare giudizio sulle conseguenze politiche condivise da Lukács col governo Nagy, potrà essere formulato. Al di fuori delle calunnioso provocazioni, nel quadro sereno ma fermo della critica politica.
È giusto per intanto ricordare a Fortini, ai suoi imitatori, nonché a quei professori e letterati che soltanto sei mesi fa finsero, per paura di compromettersi, di non accorgersi d’un viaggio di Lukács a Roma, a Milano e a Firenze, che qualunque potrà essere il definitivo giudizio dei militanti marxisti sulle responsabilità politiche di Giorgio Lukács, un fatto è certo fin d’ora: che il pensiero del filosofo ungherese nelle questioni dell’arte e della letteratura non potrà mai, per sua stessa natura, diventare sostegno di operazioni revisionistiche del marxismo-leninismo. Accadde anche a Kautsky e a Plechanof di cadere nell’errore politico: ciò non ha mutato il giudizio dei marxisti su quel che di marxista v’è nel loro pensiero. È questa un’affermazione che, al di sopra d’ogni sospetto, possiamo a voce alta proclamare proprio noi comunisti italiani che della tragedia ungherese abbiamo indicato le origini, in primis et ante omnia, negli inammissibili errori commessi ai danni del socialismo da Rákosi, da Geroe e dai loro fallimentari seguaci. Noi che a quei danni intendiamo riparare rinsaldando le fila della direzione operaia, accrescendo la consapevolezza democratica delle masse e percorrendo, in questo spirito, la via della rivoluzione italiana.
Nagy e il filosofo Lukács si trovano nei Carpazi.
di Orfeo Vangelista
«L’Unità», 2 dicembre 1956
Nagy e il filosofo Lukács si trovano nei Carpazi. Si precisano i compiti dei Consigli operai
Il Primo ministro Kádár visita le miniere di Tatabanya – Un’intervista con il segretario dei Sindacati ungheresi
A Tatabánya, centro minerario a una sessantina di chilometri dalla Capitale ungherese, il primo ministro János Kádár si è incontrato con i rappresentanti dei consigli operai dei minatori.
Tatabánya è una piccola città interamente velata dalla patina scura del carbone. I volti depli uomini recano le tracce del lavoro in miniera: volti duri, permeati dalla polvere sottile dei pozzi. Dopo i moti delle scorse settimane, a Tatabánya è tornata la calma, ma nelle miniere il lavoro viene ripreso con lentezza: la recente paralisi produttiva ha provocato l’allagamento dei pozzi, alcune gallerie e impianti hanno sofferto dello lunga stasi.
Più difficile che altrove si è dunque rivelata la situazione dei bacini minerari, proprio nel momento in cui la ripresa della produzione industriale è subordinata alle forniture di carbone e di materie prime.
Il primo ministro Kádár ha illustrato ai minatori di Tatabánya gli aspetti critici dell’attuale situazione e le cause che l’hanno determinata, sottolineando la necessità di approfondire l’opera chiarificatrice fra le masse lavoratrici, di svolgere una più intelligente attività educativa e orientatrice.
Dal canto loro, i rappresentanti dei consigli hanno parlato con estrema franchezza, esprimendo l’esigenza di un rinnovamento democratico negli apparati amministrativi mediante la gestione autonoma e diretta dei Consigli operai nelle miniere.
In questa occasione, Kádár ha nuovamente ribadito la funzione di direzione economica spettante ai consigli operai.
Su questi ultimi e i loro problemi, ci ha concesso stamane una breve intervista il presidente del Consiglio centrale dei sindacati ungheresi. Sándor Gáspár. «I Consigli operai – ci ha detto Gáspár – sono organi autonomi di direzione della fabbrica, attraverso i quali si realizza la direzione operaia dell’azienda. Essi sono autorizzati a svolgere tutti i compiti relativi alla vita dell’azienda: sistemi di pagamento, piano economico della fabbrica, ripartizione degli utili in base alla quota fissata dagli organi dello Stato, sfruttamento della «capacità libera» della azienda, cioè della parte estranea al completamento del piano, col relativo acquisto delle materie prime e, naturalmente, vendita indipendente dei prodotti.
«Ciò spiepa le caratteristiche principali dei Consigli: essi non sono organi per la difesa degli interessi dei lavoratori, né organi politici, ma di direzione economica.
«Già sono iniziate – ha proseguito Gáspár – le consultazioni per la creazione di organi superiori in ogni settore industriale, simili alle Camere dell’industria. Successivamente, quando la situazione lo permetterà, potrà essere eletto – non su base territoriale – un Consiglio nazionale dei produttori, avente funzioni analoghe a quelle della Camera bassa del Parlamento. Codesti orientamenti sono già largamente condivisi dagli attuali Consigli operai e anche da una parte dei membri del Consiglio centrale provvisorio di Budapest.
«Naturalmente, ciò non vuol dire che in seno agli stessi Consigli provvisori, soprattutto a quelli sorti affrettatamente e su una base scarsamente o per niente rappresentativa, non esistano tendenze ostili a questo orientamento. L’azione chiarificatrice richiederà sicuramente molto tempo, ma è fin d’ora certo che riuscirà ad affermarsi la corrente sorretta dal crescente appoggio delle masse lavoratrici: quella che si ispira ai principi della direzione economica dell’azienda e non a programmi o punti politici di derivazione antidemocratica».
«Quali sono le relazioni – abbiamo chiesto a Gáspár – tra i Consigli operai e i sindacati?»
Gáspár ci ha ricordato l’azione svolta dai sindacati, all’indomani del 23 ottobre scorso, favorevole alla istituzione dei Consigli operai. Furono i sindacati a farsi promotori, sul piano nazionale, di codesta iniziativa. «Oggi – precisa Gáspár – i sindacati appoggiano i Consigli operai. Nella settimana prossima apriremo un corso di studio per presidenti e membri di Consigli, dove verranno approfondite ricerche ed elaborazioni teoriche strettamente pertinenti all’attività e alle nuove esperienze degli organi aziendali. L’obiettivo è di formare presidenti di Consiglio capaci di dirigere una fabbrica».
«Per quale ragione – domandiamo ancora a Gáspár – l’attuale Consiglio centrale provvisorio di Budapest continua a porre al governo questioni e rivendicazioni di carattere politico?»
«Ho già accennato prima alla esistenza di tendenze diverse in seno ai Consigli – ha risposto Gáspár – Lo stesso fatto si verifica evidentemente in seno al Consiglio di Budapest: da una parte vi sono coloro che desiderano collaborare con noi per la ripresa del lavoro, secondo una giusta interpretazione dei compiti e delle finalità proprie di codesti organi, dall’altra si manifestano ancora insofferenze e resistenze di ordine politico, estranee agli interessi immediati del Paese e delle masse lavoratrici».
«E gli operai che ne pensano?»
«La nostra è una situazione di lotta – risponde francamente Gáspár – Nelle maggiori industrie di Budapest, alla Csepel, alla Muvag, alla Ganz, i consigli operai, negli ultimi giorni, meglio orientati da un più attivo intervento delle maestranze, sono sostanzialmente d’accordo con l’impostazione dei sindacati. Sarebbe tuttavia ingenuo pensare che non esistano larghe zone ancora turbate, sconvolte dai recenti avvenimenti. Una settimana fa, quando vi è stata la minaccia dello sciopero di 48 ore la Csepel già assumeva una posizione contraria alla sospensione del lavoro. Oggi la situazione è ulteriormente migliorata».
Le dichiarazioni di Sándor Gáspár, un ex operaio metalmeccanico di 39 anni, eletto lo scorso anno presidente del Consiglio centrale dei sindacati ungheresi, tracciano un profilo esatto della situazione dei Consigli operai, una situazione in lento sviluppo, nella fase iniziale del rinnovamento democratico.
A Budapest frattanto proseguono i lavori di ricostruzione, soprattutto nei quartieri centrali. Accanto a questi sintomi di distensione, bisogna però segnalare episodi di disordine che riaffiorano di tanto in tanto. Gli elementi più irriducibili della controrivoluzione cercano di riaccendere il [illeggibile] col lancio di manifestini ciclostilati annuncianti nuovi scioperi. Non è difficile creare apprensioni e timori in mezzo a gente così turbata dai tragici moti delle scorse settimane: di ciò approfittano i provocatori ed il cammino verso la quiete e la rinascita diviene più lento e difficile. Stasera la radio ha trasmesso un comunicato del Consiglio operaio di Budapest nel quale si attaccano coloro che diffondono manifestini falsi invitanti a scioperi.
Oggi, intanto, abbiamo appreso che l’ex presidente del Consiglio, accompagnato da alcuni suoi amici, tra cui lo scrittore e filosofo Lukács, si troverebbe in una località ai piedi dei Carpazi, nella Transilvania romena, a Sinaia, una ben nota stazione di riposo. Si crede che l’ex primo ministro e i suoi collaboratori siano sistemati in una o più ville della lussuosa stazione climatica, un tempo preferita dai reali di Romania. Un’altra indiscrezione ci ha oggi confermato l’ubicazione della cittadina romena dove attualmente soggiornano Nagy e il suo gruppo. Un collaboratore dell’ex primo ministro avrebbe telefonato ieri direttamente ai suoi parenti a Budapest per informarli della sua ottima sistemazione, del suo buon umore e del tempo magnifico dei Carpazi.
Il centenario lukacsiano
di Gian Mario Cazzaniga
«Rivista di Storia della Filosofia», 1, 1986.
La stagione di convegni che sembra aprirsi in occasione del centenario della nascita di Lukács può agevolare la ripresa del dibattito su una figura culturale, certamente importante, alla cui estese influenza passata in campo filosofico e nella critica letteraria ha corrisposto negli ultimi anni una attenzione tutto sommato scarsa.
Il convegno «György Lukács nel centenario della nascita 1885-1985», svoltosi ad Urbino il 13-15 febbraio 1985 per iniziativa dell’Istituto di scienze filosofiche e pedagogiche della Facoltà di Magistero e dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, ha costituito una interessante occasione di confronto fra studiosi di orientamento diverso, realizzando quindi l’obiettivo di un primo bilancio sullo stato presente degli studi.
Hai iniziato Guido Oldrini (Università di Bologna) con una relazione su «Giovane Lukács o Lukács maturo?», in cui viene sottolineata l’importanza della svolta teorica degli anni Trenta, sotto l’influenza delle letture moscovite dei Quaderni filosofici Lenin e dei manoscritti giovanili marxiani, svolta che pone le premesse teoriche per la futura Ontologia. In questo quadro viene esaminata criticamente la letteratura recente, in particolare anglosassone, che esaltando l’idealismo soggettivo giovanile ignora o misconosce la produzione della maturità, con una operazione storiograficamente infondata. Il recupero della distinzione fra le alienazione e oggettivazione nella centralità del concetto di lavoro permette infatti a Lukács di cogliere una genesi e costituzione ontologica degli strati del reale che ne consente una distinta autonoma lettura. Il terreno sociale e la sfera culturale risultano quindi dotate di proprie leggi, non riducibili meccanicamente a quelle della struttura materiale.
Nicolae Tertullian (Ecole Pratique des Hautes Etudes, Parigi) ha sviluppato la sua relazione su «Adorno e Lukács: la conciliazione impossibile». La tensione fra i due teorici, che giunge alla sprezza della Conciliazione sforzata di Adorno (1958) e della risposta di Lukács nella Prefazione del 1962 a Teoria del romanzo, ha finito per celare i fondamenti comuni delle due teorie estetiche, individuabili nella tradizione classica di Goethe e Hegel. L’obiettivo polemico per Adorno è la teoria del rispecchiamento, cui oppone la distanza della forma estetica dall’empirico, pur senza negarne la natura di fatto sociale. Il ruolo della mediazione soggettiva, in quanto costitutiva del fatto artistico, è tuttavia presente e sottolineata in tutta l’estetica lukacsiana. La stessa polemica contro le avanguardie viene motivata dalla insufficiente qualità del filtro soggettivo, non dalla soggettività in quanto tale, come mostra il riguardo di Lukács per Bartók e Kafka. Ciò che viene respinto in Adorno è piuttosto l’immersione nel negativo, l’assunzione del momento antirealistico come espressione condivisa del disincanto del mondo. In questo senso Lukács parlerà in una lettera del 1968 di un ruolo «schopenauriano» di Adorno, certo agli antipodi con le sue posizioni militanti sul terreno della politica culturale.
La relazione di Luciano Amodio (Milano) su «Lukács e la fiaba infinita» ha analizzato Sette fiabe, una recensione di Lukács a Bela Balázs del 1918. Abbiamo qui un frammento di una teoria dei generi letterari in cui la fiaba, in quanto equivalenza di possibilità e realtà, si costituisce come genere a sé. Si pone tuttavia una ulteriore distinzione fra mondo della fiaba antica, molteplicità di realtà possibili che è piuttosto ritrovamento che invenzione, e forma della fiaba moderna in quanto allegoria, non coincidenza col mondo che è tuttavia anche nostalgia di un mondo possibile. Di qui l’antinomia fra forma tragica, in cui la possibilità originaria viene elevata a destino, e forma fiabesca in cui domina piuttosto una scelta originaria da porre in questione. L’attenzione per la fiaba assume perciò per Amodio un carattere paradigmatico. Nel momento della crisi (1917), Lukács sceglierà di andare incontro alla rivoluzione non come a utopia, in quanto weberiana possibilità oggettiva, ma come a fiaba, possibilità esistenziale e istanza di novità assoluta.
Pasquale Salvucci (Università di Urbino) nella sua relazione «Lukács e la filosofia classica tedesca (Fichte)» ha ripreso criticamente la lettura lukacsiana di Fichte, con particolare riferimento a Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica. Mentre Fichte rappresenta nel suo giacobinismo il momento più radicale dell’idealismo soggettivo, il suo limite è costituito per Lukács dal contrasto assoluto fra libertà e realtà, contrasto colto dal giovane Hegel che, riconducendo la storia della libertà sul terreno sociale, ne concretizza il manifestarsi e lo sviluppo delle realizzazioni possibili. Questo tema di una hegeliana «fame di realtà» ritornerà più tardi nell’Ontologia. Ma il contrasto fra libertà e realtà è per Salvucci già presente in Fichte, sia pure con una strumentazione debole individuata nel ruolo degli intellettuali e dello stato pedagogo. Né la tesi fichtiana della natura come regione della coscienza risulta infirmata dalle critiche di Schelling ed Hegel, il cui idealismo oggettivo finisce per costituire una «autoillusione filosofica», peraltro secondo Lukács storicamente necessaria affinché il farsi della coscienza storica possa essere riportato dalla successiva critica materialistica su un diverso e vincente terreno.
Domenico Losurdo (Università di Urbino) nella relazione «Lukács e la distruzione della ragione» ha cercato di ricollocare nel suo reale significato storico questo testo controverso. La stesura nasce dalla lotta antifascista, contro i recuperi nazisti di Hölderlin ed Hegel, completandosi nel dopoguerra con un duplice obiettivo polemico contro la Norimberga storiografica che riportava le origini del Terzo Reich da Lutero a Hegel, col rischio di una condanna-assoluzione generale, e contro la tesi zdanoviana che riconduceva lo stesso Hegel al filone della reazione feudale. La classica coppia materialismo-spiritualismo diventa perciò qui contrapposizione tra idealismo e irrazionalismo, nel tentativo di recuperare all’interno della tradizione marxista un filone borghese progressista. Abbiamo qui una difesa della soggettività come cardine del razionalismo moderno, mentre il limite va piuttosto individuato nella tesi della continuità tra decadenza e nazismo. Lukács teorico della rottura rivoluzionaria rischia qui di ricadere in uno schema evoluzionistico, così come Croce, teorico della continuità, vedendo nel fascismo la rottura di una tradizione finirà per celarne radici e responsabilità storiche.
Italo Mancini (Università di Urbino) nella relazione «La differenza che non è infinita» ha ridiscusso criticamente le tesi di Goldmann di una presenza lukacsiana, con Pascal e Racine, fra i costruttori della coscienza tragico cristiana, con particolare riferimento a Metafisica della tragedia (1911). In questo periodo lukacsiano emerge con forza il tema della differenza, della Vita come altro dalla quotidianità, dell’irradiamento della bontà come categoria gnostica che unifica soggetto ed oggetto. Se il dramma è un gioco fra l’uomo e il destino, dove Dio è spettatore, questa dimensione esistenziale resta per Lukács differenza nel finito, non si fa mai prospettiva teologica nell’infinita differenza fra l’io-tempo e l’eternità. Di qui la critica di Bloch, che nella categoria weberiana del caso riscopre i fondamenti realistici dell’azione libera e della stessa utopia religiosa che si proietta in un tempo storico inteso come possibilità, multiversum. Gli spunti di metafisica cristiana si annullano dunque su un terreno radicalmente laico e appaiono piuttosto una gigantesca metafora della storia d’amore con Irma Seidler, dove l’attesa del miracolo non va oltre l’essere coscienza e segno della crisi.
Tito Perlini (Milano) nella relazione «L’etica nel tardo Lukács» ha analizzato l’ultimo periodo come ripresa di una simbolica goethiana, dove l’idea conserva la realtà dandole significato, in opposizione ali allegoria, dove il concetto elimina la cosa e tradisce l’immagine risolvendola in astrazione. Di qui il primato lukacsiano del realismo in quanto realizzazione dell’immanenza del significato, in polemica col naturalismo e con le avanguardie che costituiscono il riflesso del processo di dissoluzione della realtà prodotta dalla fase tardo-capitalistica. In questo quadro Estetica e Per l’ontologia dell’essere sociale si pongono come introduzione all’Etica che Lukács non scriverà, in quanto tentativo di riflessione sullo sviluppo del mondo moderno, processo di laicizzazione che supera l’etica indviduale astratta della religione nella padronanza sociale del mondo tramite l’arte e la scienza.
Proprio il porsi di queste ultime come strumenti di consapevolezza e veicoli di liberazione fonda l’ottimismo ancora ottocentesco lukacsiano, figlio della deutsche Klassik, e motiva la sua debole presenza oggi, dove questo ottimismo diventa improponibile.
Laura Boella (Università di Milano) nella relazione «Etica e ontologia nell’ultimo Lukács» ha cercato di cogliere gli elementi di continuità fra la tarda elaborazione teorica lukacsiana e la produzione precedente. La svolta degli anni Trenta costituisce una riflessione su una fase di riflusso del movimento rivoluzionario, in cui il recepimento di riconciliazione hegeliana con la realtà non annulla il progetto lukacsiano di redenzione del mondo. In questo contesto è significativo il saggio su Keller (1939), in cui una società civile non ancora assoggettata al capitalismo si proietta nel futuro come modello di comunità etica. L’Ontologia dell’essere sociale si pone come introduzione ad un’Etica che resterà progetto, ponendo il lavoro come prassi teleologica costitutiva della natura umana e fondante il mondo della rappresentazione simbolica e della produzione di valori. Natura e cultura restano tuttavia come antinomia irrisolta e proprio questa perdurante contraddizione dell’ultimo Lukács ripropone come attuali i temi della critica alle aporie del progresso e della persistenza dei problemi metafìsici dell’esistere umano.
Giuseppe Prestipino (Università di Siena) nella relazione «L’Ontologia di Lukács: revisioni oggi possibili» ha analizzalo il tentativo nell’Ontologia di superare la teoria del rispecchiamento privilegiando la struttura teleologica del lavoro, in quanto autorealizzazione umana e conseguente arretramento della barriera naturale, e rielaborando l’analisi hartmanniana di un tempo pluristrato (cosale, vissuto, pensato). È possibile ripercorrere una analisi materialistica a partire dal cogito cartesiano, in cui la forma teleologica compiuta di una comunità autoprogettantesi costituisca il punto di partenza per i livelli inferiori di realtà: momento organico della teleologia non cosciente, momento inorganico ateleologico. Sul rapporto fra materia e forma è significativo che mentre Hartmann distingue fra tempo delle forme psichiche e tempo delle forme sociali, Lukács unifichi nel tempo dell’essere sociale. C’è qui un passaggio incompiuto. Lukács intravede una forma futura socioteteologica che si autoregola consapevolmente, ma in sostanza resta bloccato sul tempo presente, dove la forma sociale non ha regolazione cosciente. Tuttavia questo tentativo può essere ulteriormente sviluppato: solo partendo da una forma compiuta di realtà oggi non ancora visibile, in quanto possibile ma non realizzata, il progetto ontologico può avere fondamento sviluppo.
La relazione di Hans H. Holz (Università di Croningen) su «Il problema della mimesis nell’estetica di Luktìcs» ha analizzato l’estetica lukacsiana della maturità in chiave di tensione irrisolta fra una ontologia materialistica fondata sulla dialettica della natura ed una teoria del rispecchiamento come mimesis dell’umanizzazione della natura. La mimesis sorge come riproduzione di accadimenti umani e naturali, si articola nelle forme della raffigurazione e della riflessione producendo livelli mimetici cumulativi, prima nel rituale magico e poi nel mito, da cui sorge la distinzione tra magia e arte in quanto secolarizzazione (consapevolezza del carattere mimetico del rito). Lukács coglie però insufficientemente il livello più astratto della rappresentazione (relazione e strutture), da cui la sua incomprensione dell’arte astratta. Resta inoltre un concetto debole di natura, da cui la riduzione del lavoro al momento teleologico e la svalutazione della scienza, colta come disantropomorfismo, nei confronti dell’arte intesa come simbolo di libertà, massimo distacco dall’essere-in-sé. Nell’Ontologia si intrecciano nuovi e vecchi tempi, riemerge con insistenza uno status soteriologico dell’arte come Vita, per cui la teoria materialistica della mimesis resta un gigantesco progetto incompiuto.
La relazione di Cesare Cases (Università di Torino) sugli studi faustiani di Lukács ha infine affrontato la lettura lukacsiana del Faust come tappa della storia dell’umanità, grandiosa allegoria del capitalismo in cui la traduzione poetica non cela contraddizioni e possibilità di rovesciamento verso una più umana futura comunità. Ma il testo, e particolarmente l’atto finale, manifestano piuttosto la consapevolezza che il capitalismo apre un processo di distruzione dei rapporti umani e autodistruzione, da cui scaturisce la rivolta della natura violentata. Mentre per Lukács il Faust chiude la fase classica dell’arte, mentre successivamente solo il romanzo sarà in grado di affrontare criticamente la realtà capitalistica, si può invece rilevare che proprio la scrittura allegoria del secondo Faust risulta capace di riflettere i processi di mercificazione, mentre il realismo balzachiano, dove l’umano prevale ancora sull’astrazione, distoglie dal generale dominio del denaro. Di qui l’incomprensione del testo nel secondo Ottocento e la riscoperta nella scrittura allegorica faustiana sono da parte di quella avanguardia novecentesca che Lukács non amava. Nelle Faust-Studien opera una lettura della storia come susseguirsi necessario di stadi, il cui limite è la permanente tendenza a sfociare nel giustificazionismo storico, limite peraltro presente non solo nell’opera lukacsiana ma in tutto il marxismo.
La diversità di temi orientamenti espressi dal convegno si è poi ulteriormente allargata nelle comunicazioni (G.M. Cazzaniga, Università di Urbino, «Kultur e Zivilisation nel giovane Lukács»; A. De Simone, Università di Urbino, «Dalla tragedia alla dialettica. Note sul rapporto tra il giovane Lukács e Simmel»; A. Mazzone, Università di Messina, «Causalità e teleologia dell’ontologia lukacsiana»).
Il dibattito sulle relazioni ha infine contribuito a mettere in luce diversità dei filoni interpretativi e nodi controversi, dal significato della pubblicistica lukacsiana all’interno del dibattito culturale terzinternazionalistico al possibile rapporto fra i diversi periodi dell’esperienza intellettuale e politica di Lukács. Nel confronto con i contemporanei è stato dibattuto in particolare il rapporto con il messianismo blochiano e con la teoria critica di Adorno, così come la presenza di Hartmann nelle opere più tardi, mentre è forse rimasto in ombra il momento più specificamente storiografico dell’influenza lukacsiana sul dibattito culturale e letterario di questo secolo.
È difficile prevedere se l’occasione del centenario stimolerà una ripresa di studi originali su questo pensatore, alla cui indubbia influenza in ambiti culturali diversi ed in forme e tempi diversi a seconda dei contesti nazionali sembra oggi corrispondere una attenzione debole, una sorta di silenzio che attende ancora un bilancio storiografico meditato.
Gli atti del convegno urbinate, che si annunciano imminenti, costituiranno comunque un utile materiale sullo stato attuale della ricerca.
Lukács , la DDR e la Germania di oggi
Questa estate sono andato a Berlino. Tra le prime tappe della visita, il museo sulla DDR (uno dei tanti per la città, ma sicuramente il più importante). All’interno vi scorgo la sezione dei libri censurati durante il periodo comunista. Non senza sorpresa, almeno in un primo momento, vi trovo il libro di Lukács su Solzhenitsyn (attualmente non sono in grado di capire quando e dove è stata pubblicata la copia presente nella foto).
Cosa più interessante è che, invece, spulciando tra le bancarelle, le librerie dell’antiquariato o moderne, anche tra quelle più politicizzate, non mi è mai capitato di trovare un solo testo di Lukács. Alla domanda, “Avete libri di Lukács?”, la risposta era sempre uguale, accompagnata da un viso cortese e un po’ sorpreso: “No, mi dispiace”.
Mentre in Italia, nonostante tutto, è ancora possibile trovare testi del filosofo comunista (magari del giovane, ma non raramente anche del vecchio), la damnatio memoriae a cui è destinata l’opera di Lukács in Germania non è cambiata, nonostante i cambi di regime.
Ps: afferma Lukács in un’intervista del 1968 rilasciata a Bernie Taft e poi pubblicata postuma nel 1971, dopo la sua morte (così come aveva richiesto lo stesso Lukács) nella Australian Left Review: “Nella DDR mi considerano un morto dal 1957”.
Teorie marxiste della letteratura
Le teorie marxiste della letteratura esaminate storicamente nel corso del dibattito che inizia in Germania negli anni Venti e che continua ancora oggi. Un’analisi che cerca di superare il dualismo pro-contro Lukács, fa i conti con le trasformazioni della società industriale e con i nuovi mezzi di comunicazione, e recupera recenti e diverse esperienze culturali, sino allo strutturalismo.
The Master and the Slave: Lukács, Bakhtin, and the Ideas of their Time
This book is a comparative study in the history of ideas. It is an innovative examination of the intellectual background, affiliations and contexts of two major twentieth-century thinkers and an historical interpretation of their work in aesthetics, cultural theory, literary history, and philosophy.
Unlike all existing texts on Lukacs and Bakhtin, this book offers a comparison of their writings at different stages of their intellectual development and in the broad context of the ideas of their time. The book introduces unknown archival material and discusses hitherto disregarded or overlooked texts by Lukacs and Bakhtin. It puts forward new readings of best-known work on Dostoevsky, Rabelais, and Goethe and treats in an original way the question of the coherence of Bakhtin’s ouevre. The book offers valuable insight into the sources of Bakhtin’s terminological repertoire and through examination of Bakhtin’s and Lukacs’s intellectual affiliations–of the limits and substance of their originality as thinkers.
Lukacs and Bakhtin emerge from the book as thinkers, whose intellectual careers followed strikingly similar paths. They both were confronted with similar agendas and questions posed for them by their time. Bakhtin however, had to find answers not only for this common agenda but also to the answers that Lukacs himself had already provided.