Il Mandarino meraviglioso contro l’alienazione

di György Lukács

«Rinascita-Il Contemporaneo», n. 37, 18 settembre 1970


A venticinque anni dalla morte di Béla Bartók

La rivista letteraria ungherese Nagyvilág reca nel suo numero dell’agosto scorso il bellissimo saggio di György Lukács per il 25° anniversario della morte di Béla Bartók, che qui riproduciamo nella traduzione di Marinka Dallas. A 85 anni di età, l’insigne filosofo comunista continua la sua straordinaria attività di riflessione sulla storia, la cultura, le lotte del movimento operaio in questo secolo. La rievocazione di Bartók gli offre qui l’occasione per una rimeditazione su tutte le vicende della sua patria da cent’anni a questa parte e sul suo peso culturale nel mondo.

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L’arte moderna e la grande arte

di György Lukács

«Rinascita-Il Contemporaneo» n. 9, 27 febbraio 1965


Il dialogo con György Lukács che qui riportiamo, si è svolto a Budapest il 7 febbraio 1965. Nel riferire le dichiarazioni rilasciate dalla studioso ungherese, usiamo volutamente una forma discorsiva. Dipende da due motivi. Anzitutto molte risposte hanno, per ammissione dello stesso Lukács, il valore di una prima approssimazione ai problemi che il marxismo si pone oggi in tutti i paesi e in tutti i partiti comunisti. È un contributo, cioè, che lo stesso Lukács considera provvisorio, almeno per quanto riguarda le formulazioni delle proposte da lui fornite. Inoltre dobbiamo avvertire i nostri lettori che alcune affermazioni troppo recise (come i giudizi sulle esperienze letterarie e artistiche contemporanee o la professione di fede «antimodernista») erano pronunciate non senza qualche sfumatura di ironia o di auto-ironia che diventa difficile far balenare in un testo scritto. Per riprodurre almeno in parte il tono di vivacità che il nostro interlocutore ha voluto usare durante il colloquio, abbiamo pensato di riferire le sue dichiarazioni nella forma più diretta.

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A proposito di letteratura e marxismo creativo

di György Lukács

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.

a cura di A. J. Liehm

Intervista rilasciata al giornalista cecoslovacco A. J. Liehm nel dicembre 1963 e pubblicata nel n. 3 della rivista Literární noviny, Praga, gennaio 1964. Qui ripubblichiamo la traduzione italiana apparsa nel n. 69 de Il contemporaneo, febbraio 1964, Roma. Non ci sono indicazioni del nome del traduttore. Si sono apportate alcune rare correzioni.


Lukács – Ecco, di un libro m’interessa sempre se ciò che in esso è detto, non sarebbe stato possibile raccontarlo nella medesima dimensione, diciamo, del reportage, se vi si pongono questioni oppure si risolvono problemi a un livello realmente artistico e non nelle dimensioni della sociologia. A tal riguardo sono un conservatore ed esigo che per tutto quanto vi è di importante nell’arte, si trovi una forma corrispondente. Questo vale da Omero sino a Kafka. Allo stesso modo, sono contro la forma senza contenuto e senza un problema poeticamente concreto, all’interno e viceversa. Per il resto vi sono altri mezzi e strumenti, per esempio la stampa. Credo che un buon lavoro sociologico sia più importante e, dal punto di vista della conoscenza, più redditizio, forse, dell’Homo Faber di Frisch. Affinché un ingegnere si renda conto della propria alienazione nella società capitalistica, non deve necessariamente avere un rapporto con la propria figlia. Questa è un’aggiunta poeticamente inorganica per il lettore modernista. Il problema della alienazione ci viene rappresentato in modo molto più suggestivo da ogni buon sociologo. Compito dell’artista è scoprire il problema mediante la forma artistica. Continua a leggere

Lukács: ritorno al concreto

di György Lukács

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.

Intervista concessa a Naïm Kattan e pubblicata nella “Quinzaine Littéraire”, 1/15 dicembre 1966 con il titolo “Lukács: revenir an concret”. Tradotta e pubblicata in italiano da “L’Espresso”, n. 2, gennaio 1967, p. 11 con il titolo “Lo scrittore a piede libero”, senza indicazione del traduttore.


L’appartamento di Lukács è all’ultimo piano di un edificio che si affaccia sul Danubio. Le pareti sono tappezzate di libri. Guardo a caso: opere complete di Hegel e di Marx. Sulla scrivania, altri libri, riviste in ungherese, in tedesco, in francese. È qui, che da dieci anni, Lukács prosegue nel suo lavoro.

Si sa che fu Ministro della Cultura nel governo di Imre Nagy. Dopo che la rivoluzione ungherese fu schiacciata, Lukács visse alcuni mesi, in un esilio volontario, in Romania. Dal suo ritorno, si è imposto il compito di terminare la sua “summa” filosofica. Un primo volume di più di mille pagine è già stato pubblicato in tedesco. Lukács è in tenuta da lavoro: pantaloni scuri, giacca kaki. Piccolo e magro, dà l’impressione di possedere un mondo. Ci si dimentica che egli ha 82 anni.

«Ho cominciato la mia vera opera a 70 anni», esordisce Lukács. «A volte, si direbbe che esistano delle eccezioni alle leggi biologiche. In questo senso sono un seguace di Epicuro. Ma io pure invecchio. Per molto tempo ho cercato la mia vera strada. Sono stato idealista, poi hegeliano, e in Storia e coscienza di classe ho cercato di essere marxista. Durante lunghi anni sono stato funzionario del Partito Comunista a Mosca; è in questo periodo che ho avuto il tempo di leggere e rileggere molto, da Omero a Gorki. Fino al 1930, però, i miei scritti erano soprattutto delle esperienze intellettuali. È dopo che vennero i primi traguardi e le basi per il lavoro successivo.

Questi scritti possono sembrare oggi superati, ma essi hanno forse fornito ad altri un suggerimento, una spinta. Certo, può sembrare strano che io abbia dovuto toccare il settantesimo anno per mettermi a lavorare intorno alla mia opera. Una vita non è poi infinita. Pensate a Marx, a questo genio colossale. Ebbene egli non è riuscito a dare che un abbozzo del suo metodo. Nella sua opera non ci sono tutte le risposte che vorremmo. In realtà, stava nel suo tempo. Io utilizzo il suo metodo per i miei studi di estetica. Se egli vivesse oggi, sono sicuro che scriverebbe di estetica». Continua a leggere

La teoria lukacsiana del rispecchiamento estetico

di Béla Királyfalvi

da Lukács negli scritti di..., a c. di G. Oldrini, ISEDI, Mondadori, Milano 1979.


Béla Királyfalvi, di origine ungherese, insegna letteratura drammatica alla Wichita State University del Kansas.
Diamo qui di seguito la versione integrale di un capitolo, il IV («The Theory of Aesthetics Reflection»), del suo volume The Aesthetics of Gydrgy Lukacs, Princeton University Press, Princeton-London, 1975, pp. 54-70.

* * *

Una volta che Lukács comincia a dare contributi sistematici all’estetica marxista (dall’inizio degli anni trenta), la teoria del rispecchiamento estetico acquista un’importanza centrale nelle sue opere. Quattro decenni di scritti contengono innumerevoli esempi, illustrazioni, chiarificazioni, definizioni negative, analogie e riferimenti alle precedenti e contemporanee autorità in argomento, mai però l’ultima definizione conclusiva al modo, poniamo, di Aristotele. Il motivo è semplice: la dialettica materialistica non permette definizioni conclusive (che sono statiche), bensì soltanto «determinazioni» flessibili. La teoria continua a evolversi in lui fino all’Estetica (1963) e, mentre il concetto di rispecchiamento estetico è, nel suo nocciolo, semplice, la sua interrelazione con altri importanti principi estetici è notevolmente complessa. A causa della complessità del problema, quanto qui segue è un che di mutilo, benché speriamo non di distorto, senza il beneficio del contenuto dei tre capitoli successivi. Eppure è necessario, per amor di chiarezza, iniziare con una discussione relativamente isolata del concetto, perché la teoria del rispecchiamento estetico forma senza dubbio l’ossatura e la spina dorsale dell’intero sistema estetico di Lukács. Continua a leggere

Georg Lukács e a literatura do século XX

di Carlos Nelson Coutinho

da Lukács, Proust, Kafka, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, 2005.

[Questo testo rappresenta il capitolo 1 del libro, la cui Appendice contiene uno scambio di lettere tra l’autore e L., e una rassegna dei passi di testi lukacsiani in cui l’ultimo L. parla di Kafka. Come si capirà leggendo il capitolo qui proposto, il libro nel suo complesso vuole condurre un’analisi dell’opera dei due autori citati nel titolo, partendo da tarde categorie lukacsiane criticando quelle espresse da L. medesimo in L’attualità del realismo critico, in particolare l’opposizione realismo/avanguardia – specie per i due autori in oggetto – e la posizione di fronte al socialismo quale criterio di valore per giudicare un’opera del XX secolo. L’importanza di questo scritto ci sembra risiedere non solo nella serietà dell’argomentazione – la cui validità è oggetto del giudizio del lettore – ma anche nell’aver affrontato testi lukacsiani non tradotti in italiano e – per quel che ne sappiamo – per niente letti dai critici italiani].


1.

Uma análise das obras de Marcel Proust e de Franz Kafka — ainda que sumária e parcial, como a que pretendo esboçar nos capítulos seguintes deste livro — requer sempre uma justificativa prévia. Poucos autores, contemporâneos ou não, mereceram uma similar atenção por parte da crítica. Quase todos os pensadores importantes do século XX sentiram a necessidade de acertar contas com a obra destes dois autores, sobretudo com aquela de Kafka. Cabe assim uma pergunta: restará algo a dizer sobre Proust e Kafka? Não terá essa vasta literatura crítica, ou pelo menos sua parte mais significativa, indicado e explicitado a totalidade dos possíveis ângulos de abordagem e, sem naturalmente esgotar o conteúdo da produção destes dois autores (que, como o de toda grande obra de arte, é sempre em certo sentido inesgotável), fornecido o máximo de conhecimento possível — na etapa histórica em que vivemos — sobre o seu significado essencial?

Não se trata, evidentemente, de propor uma resposta radicalmente negativa. Nessa massa de análises críticas de variada orientação, podem-se indicar alguns pontos firmes essenciais, ou seja, conquistas que se incorporaram definitivamente à compreensão do significado do mundo estético de Proust e de Kafka. Mas, ao mesmo tempo, também é possível observar que a descoberta de tais pontos e a fixação dessas conquistas ocorreram freqüentemente no interior de visões de conjunto problemáticas, que, em muitos casos, lançaram um denso véu de equívocos sobre a verdadeira natureza estético-ideológica dos relatos destes dois notáveis escritores.

No caso de Proust, tais equívocos dizem respeito, essencialmente, ao lugar ocupado por sua obra na evolução da literatura e, em particular, do romance. Embora À la recherche du temps perdu tenha, na época do seu aparecimento, despertado forte oposição nos meios “vanguardistas”, tornou-se depois moeda corrente na crítica mais recente a inclusão de Proust, juntamente com Joyce e Kafka, entre os iniciadores da “revolução formal” que caracterizarla a chamada “literatura de vanguarda”. Apontada como exemplo de superação da “anacrônica” estrutura romanesca tradicional, a obra proustiana aparece assim desligada da herança realista que, no plano da arte narrativa, alcançou sua máxima expressão no romance do século XIX.

Ainda que dominante, esta leitura “vanguardista” de Proust está longe de ser unânime. Thomas Mann, por exemplo — que jamais se limitou, em suas análises literárias, a uma abordagem puramente estilística dos autores e das obras —, incluiu Proust entre os romancistas do século XIX, colocando-o expressamente ao lado de Balzac, Stendhal, Flaubert, Tolstoi e Dostoievski. Além disso, desde o aparecimento dos primeiros tomos da Recherche, houve críticos franceses que, como Jacques Rivière — cuja análise, de resto, mereceu a aprovação do próprio Proust —, insistiram sobre o caráter antimodernista de sua obra, ou seja, sobre a estreita ligação déla com a “tradição clássica”.1 Estamos diante de duas avaliações radicalmente contrapostas, as quais, precisamente por sua unilateralidade, levam a equívocos. Mas me parece também que, malgrado esta unilateralidade, ambas colocam problemas reais: com efeito, como tentarei demonstrar no capítulo sobre Proust, a melhor chave para entender a obra do romancista francês é mostrar que, embora se situé na tradição do romance do século XIX, ela já antecipa algumas características da literatura própria do século XX, com todas as implicações conteudísticas e formais que disso decorrem.

Já no caso de Kafka, a polêmica não girou sobre a natureza inovadora ou não da forma estética por ele criada: ao que eu saiba, ninguém pos em discussão o caráter vanguardista e inovador de seus relatos. O que aqui esteve em discussão foi, quase sempre, a natureza da visão do mundo que Kafka expressou em sua obra, discussão que deu lugar à criação de inúmeros equívocos. Com seu costumeiro radicalismo, Theodor W. Adorno observou em 1953: “Do que se tem escrito sobre ele [Kafka], pouca coisa conta; a maior parte é existencialismo.”2 E já bem antes, em 1934, Walter Benjamin dissera: “Há dois mal-entendidos possíveis com relação a Kafka: recorrer a uma interpretação natural e a uma interpretação sobrenatural. As duas, a psicanalítica e a teológica, perdem de vista o essencial.”3

No núcleo dessas interpretações equivocadas, parece-me residir, antes de mais nada, um falso conceito de arte, que se expressa, no caso concreto de Kafka, na tentativa de transformar sua obra em “expressão” ou “ilustração” de uma visão do mundo preexistente à construção dos seus relatos. Mais precisamente: o erro fundamental dessas interpretações (existencialistas, psicanalíticas, religiosas, sociológicas) não depende tanto do conteúdo da visão do mundo que em cada oportunidade se atribui a Kafka, conteúdo que — conforme a ideologia do intérprete ou o ambiente cultural do momento — pôde ser indicado como “ilustração” da mística judaica, do complexo de Édipo, da “derrelição” ontológica do homem num mundo absurdo e irracional, das contradiçoes paralisadoras da ideologia pequeno-burguesa de nosso tempo, etc., etc. O problema é que desse modo, implícita ou explicitamente, nega-se o fato de que a obra kafkiana — como toda obra de arte significativa — é representação mimética da realidade social objetiva e não expressão direta de uma subjetividade individual (consciente ou “profunda”) ou pseudo-universal (religiosa ou classista).

Minha convicção — que tentarei expor nos capítulos seguintes deste livro — é que o significado das obras de Proust e de Kafka não reside na “expressão” de uma idéia abstrata qualquer, nem tampouco tem sua gênese na biografia do autor ou na “psicologia social” de uma classe ou de uma nação. Se quisermos alcançãr esse significado em sua riqueza concreta, deveremos analisar estes dois excepcionais escritores à luz de uma poética do realismo, ou seja, de uma teoria da arte como representação (ou figuração mimética) da essência de uma realidade social e humana históricamente determinada. Nos capítulos seguintes, portanto, tentarei definir, por um lado, o conteúdo histórico-humano-social que serve de pressuposto às objetivaçõs estéticas de Proust e de Kafka; e, por outro, o modo pelo qual esse pressuposto é reposto artisticamente na estrutura de seus relatos. Somente a partir desse critério histórico-materialista será possível definir a visão do mundo imanente à obra dos dois autores (única que interessa numa análise estética materialista), bem como os peculiares problemas formais e técnicos que o modo de reposição estética por eles adotado indiscutivelmente coloca.

2.

O leitor informado terá percebido que o método de abordagem acima proposto é aquele formulado e quase sempre aplicado ñas obras da maturidade de Georg Lukács. E aqui se coloca uma questão: esse mesmo leitor saberá também que o juízo de Lukács sobre Proust e, em particular, sobre Kafka, embora tenha sofrido alterações nos últimos anos da sua longa vida, pôde ser considerado — ao contrário daquele que resulta de minhas análises — como essencialmente negativo.

Sobre Proust, Lukács falou muito pouco em sua vasta obra. Ao longo das quase duas mil páginas de sua Estética, por exemplo, o criador da Recherche é mencionado apenas três vezes, e nunca em função de sua obra narrativa, mas de uma incidental observação que ele fez acerca da presença do reflexo da realidade na obra de Mallarmé.4 É também apenas de passagem que Lukács se refere a Proust em duas outras obras, em ambos os casos para indicar que a visão do mundo do narrador francês inspira-se na concepção do tempo de Bergson, que Lukács considera expressão de um intenso subjetivismo irracionalista.5 Já no fim da vida, contudo, num momento em que se dispunha a algumas revisões de seus juízos críticos anteriores sobre a literatura contemporânea (como veremos mais amplamente no caso de Kafka), Lukács afirma, numa entrevista ao poeta inglês Stephen Spender: “O caso de Proust é muito diferente do de Joyce. Em Á la recherche du temps perdu existe um retrato real do mundo, não uma fotomontagem naturalista (pretensiosa e grotesca) de associações [como em Joyce]. O mundo de Proust pôde parecer fragmentário e problemático. De muitas maneiras, ele preenche a situação do último capítulo de L’éducation sentimentale [de Flaubert], em que Frédéric Moreau volta para casa depois do esmagamento da revolução de 1848; ele já não tem nenhuma experiência da realidade, apenas a nostalgia de seu passado perdido. O fato de que esta situação constitua, com exclusividade, o conteúdo da obra de Proust é a razão de seu caráter fragmentario e problemático. Não obstante, estamos diante da figuração de uma situação verdadeira, produzida com arte.”6 Trata-se, a meu ver, de uma fecunda indicação, que — como o leitor poderá comprovar — tento desenvolver no capítulo sobre Proust.

Ao contrário, pelo menos a partir de 1957, foram inúmeras as vezes em que Lukács se referiu a Kafka. Não é difícil perceber que a obra kafkiana provocou no filósofo húngaro uma sincera admiração, ainda que ele a visse como expressão do vanguardismo que tão duramente combatia. Com efeito, Kafka ocupa um posto decisivo na estrutura da obra que, em 1957, Lukács dedicou aos problemas da literatura contemporânea. Contrapondo Thomas Mann e Kafka como a alternativa típica no seio da literatura “burguesa” do século XX, Lukács afirmava nesta obra que, enquanto Mann construíra “um realismo crítico verdadeiro como a vida”, Kafka seria nada mais do que a expressão de “uma decadência artisticamente interessante”.7 A obra kafkiana aparece como a manifestação mais típica da tendência vanguardista, que Lukács rejeitava pelo menos desde os anos 1930. Embora insistisse sobre o talento realista revelado por Kafka na seleção e composição dos detalhes, Lukács afirmava que esse realismo parcial estaria a serviço de uma construção essencialmente alegórica e, como tal, anti-realista: o objetivo final de Kafka seria indicar o “nada” (o absurdo do mundo) como a essência da realidade. Lukács sintetiza de modo bastante claro sua visão da obra kafkiana: “Uma imagem da sociedade capitalista com um pouco de cor local austríaca. O alegórico consiste no fato de que toda a existência dessa camada e de seus dependentes, bem como de suas indefesas vítimas, não é representada como uma realidade concreta, mas como reflexo atemporal daquele nada, daquela transcendência que — não existindo — deve determinar toda a existência.”8

O aparente brilho da análise lukacsiana — que retomava as idéias sobre a alegoria desenvolvidas por Benjamin nos anos 1920 e, desse modo, emprestava um caráter mais sofisticado à sua já antiga condenação sumaria da arte de vanguarda —9 não deve ocultar sua essencial inadequação. Embora com sinal avaliativo invertido, o que Lukács escrevia em 1957 sobre Kafka era também “existencialismo”. Decerto, a interpretação “existencialista”, como veremos no capítulo III, dá conta de parte das produções kafkianas, em particular do romance inacabado O desaparecido (ou América) e de muitos relatos curtos construídos explicitamente como parábolas alegóricas. Mas tal interpretação deixa de lado, por insuficiência ou mesmo por deformação, aquilo que de mais significativo e duradouro foi criado pelo autor de O processo. Em minha opinião, a linha de demarcação entre alegoria e símbolo — tão bem traçada por Lukács em nivel teórico — passa no interior da obra de Kafka e, de modo mais geral, no interior daquilo que o filósofo húngaro chama de “modernismo” ou (como nas línguas neolatinas) “vanguardismo”. Deve-se observar que Lukács, em algumas passagens de escritos posteriores a Realismo crítico hoje, formulou juízos sobre Kafka (assim como o já mencionado sobre Proust) que alteravam objetivamente os formulados em 1957. Todavia, na medida em que ele jamais voltou a tratar sistemáticamente (como fizera em 1957) da obra do autor tcheco, esses juízos fragmentários — ainda que por vezes iluminadores — não podem, por seu caráter tópico, elevar-se a uma nova avaliação global que funcione efetivamente como uma autocrítica.10

3.

Durante algum tempo, estive convencido de que Lukács cometera certamente um “erro de avaliação”, que envolvia Proust e Kafka, mas que tal erro não alterava a justeza essencial de sua teoria sobre a arte e a literatura do século XX.11 Não concordo mais com essa visão simplista, embora recuse igualmente o simplismo oposto, que consistiría em manter a alternativa formulada por Lukács mas com sinal trocado, ou seja, optando por Kafka (pela vanguarda) contra Thomas Mann (contra o realismo).12 São precisamente estas alternativas radicáis que devem ser postas em questão, como tentarei demonstrar em seguida.

O que eu considerava “erros de avaliação” localizados me parecem hoje o índice de certas conexões problemáticas na própria teoria lukacsiana da literatura do século XX, que decorrem em última instancia da concepção geral de Lukács acerca da evolução histórica posterior à Revolução de Outubro de 1917. Desde sua adesão ao marxismo (ocorrida em 1918) até pelo menos meados dos anos 1920, Lukács — como tantos outros comunistas — esteve firmemente convencido de que a época histórica inaugurada pela revolução bolchevique se caracterizava pelo que ele chamou de “atualidade da revolução”, ou seja, pelo fato de que estaría em curso uma rápida expansão aos países ocidentais da revolução socialista concebida segundo o modelo bolchevique. Como se sabe, foi sob a égide desta convicção que Lukács escreveu seus primeiros escritos marxistas.13 Contudo, já no final dos anos 1920, quando havia se tornado evidente o refluxo da onda revolucionária iniciada em 1917, Lukács elaborou uma nova avaliação do presente, cuja primeira expressão aparece em suas Teses de Blum.14 Esta avaliação — que se apoiava essencialmente, como veremos, em dois pressupostos, um bastante problemático e outro inteiramente falso — se manteria pelo menos até meados dos anos 1960, quando o pensador húngaro esboça algumas tardias e quase sempre tímidas tentativas de revisão de suas antigas posições.

O primeiro dos pressupostos a que aludi era a idéia de que uma aliança entre o socialismo e a democracia radical — a grande herança do “período heroico” da burguesia — seria o melhor antídoto contra as tendências reacionárias e fascistas que o capitalismo vinha gestando como resposta à revolução russa. Tal aliança se expressaria, no terreno da ideologia e da arte, por meio de uma aproximação entre os intelectuais burgueses progressistas e os intelectuais socialistas, com base, respectivamente, na defesa da razão e da arte realista. A aliança militar entre as “democracias” ocidentais e a “pátria do socialismo”, ocorrida na luta comum contra o nazifascismo durante a Segunda Guerra Mundial, parecia confirmar plenamente essa idéia, que Lukács partilhou então com a maioria do movimento comunista. Não me parece casual que tenha sido no período das frentes populares — que buscaram e muitas vezes conseguiram criar esta aliança já antes da guerra — que Lukács redigiu algumas de suas principáis obras, não só os belíssimos ensaios sobre o realismo do século XIX (Balzac, Stendhal, Dostoievski, Tolstoi, etc.), mas também as excepcionais monografias sobre O romance histórico e sobre O jovem Hegel, nas quais ele busca precisamente valorizar o legado humanista da burguesia, respectivamente nos terrenos da arte e da filosofia.15

De resto, a enfática defesa desta aliança entre democracia e socialismo permitiu a Lukács evitar o dogmatismo sectario que colocava uma muralha chinesa entre a herança da cultura burguesa (considerada em bloco como reacionária) e uma pretensa cultura socialista “radicalmente nova”. Com isso, ele pôde elaborar uma política cultural relativamente aberta, centrada na valorização da herança democrática que se expressaria no realismo crítico e na defesa da razão, política que se distinguia radicalmente do sectarismo dominante na época de Stalin e mesmo depois dela.16

Não se trata de contestar a validade deste projeto estratégico. É indubitável que Lukács percebeu a problemática essencial do período que se inicia com o refluxo da onda revolucionária iniciada em 1917, ou seja, a necessidade de encontrar um novo modo de articulação entre democracia e socialismo.17 No terreno dos princípios, este projeto era válido não apenas nos anos 1930 e no segundo após-guerra, mas continua a sê-lo — mutatis mutandis — ainda hoje. O que o tornou problemático foram as novas condições geradas precisamente neste segundo após-guerra, quando se tornou evidente que ele não mais poderia ser realizado nos termos em que fora formulado na época das frentes populares. Lukács, contudo, continuou a insistir em sua exeqüibilidade, o que o fez assumir um ponto de vista fortemente “otimista”, cada vez mais negado pelos fatos.

Este “otimismo” transparece em vários escritos lukacsianos imediatamente sucessivos ao fim da guerra. Assim, por exemplo, numa conferência pronunciada em 1946, em um encontro do qual participaram importantes intelectuais da Europa Ocidental, Lukács afirmou com ênfase que estava ocorrendo naquele momento “o começo de um restabelecimento da aliança entre a democracia e o socialismo”.18 Ora, na verdade, o que estava então para se iniciar não era tal aliança, mas sim a “guerra fria”, que consolidaria nos dois lados do mundo um poderoso déficit tanto de democracia quanto de socialismo. O segundo após-guerra, portanto, impôs cada vez mais a necessidade de rever alguns dos conceitos implícitos na estratégia das frentes populares, o que Lukács não quis ou não pôde fazer. Com efeito, tornou-se então evidente que a contradição no seio do mundo burguês não se dava apenas entre a herança da democracia radical e a aberta reação fascista ou belicista, mas também — e agora talvez sobretudo — entre esta herança democrática (cada vez mais fragilizada) e a irrupção de novas formas de dominação e de alienação que já se apresentavam (e iriam se apresentar cada vez mais) sob a cobertura de regimes formalmente democráticos.19

4.

Se esse primeiro pressuposto da visão lukacsiana do presente tornou-se problemático pelas razões apontadas, o segundo revelou-se inteiramente falso: Lukács estava firmemente convencido de que a União Soviética dos anos 1930 e seguintes na qual ele julgava já se ter realizado a transição para o socialismo, ou seja, para uma etapa superior da humanidade continuava a ser um farol seguro e não problemático a indicar o caminho do futuro aos pensadores e artistas que se mantivessem fiéis à herança democrática. Ora, ao contrário do que Lukács supunha, a URSS — que, já em 1932, Gramsci dizia estar dominada pela “estatolatria” — estava longe de se apresentar como expressão de uma humanidade emancipada: a regressão stalinista (iniciada no final dos anos 1920) minimizou, terminando mesmo por extinguir, o fascínio que a Revolução de Outubro certamente exerceu por algum tempo sobre os intelectuais e artistas ocidentais, inclusive sobre muitos daqueles que Lukács considerava “vanguardistas”. De ambos os lados do mundo, portanto, cresceram novas formas — mais sofisticadas porém não menos inumanas — de alienação e de manipulação burocrática da vida. A aliança entre democracia e socialismo, nos moldes em que Lukács a imaginava, não se cumpriu, por escassez tanto de democracia como de socialismo.

Cabe ainda lembrar que somente depois de 1956, ou seja, depois das denúncias dos crimes de Stalin no XX Congresso do PCUS, é que Lukács começou a tomar publicamente distância — e, mesmo assim, quase sempre timidamente — em face das formas sociais e políticas dominantes não só na ex-União Soviética, mas também nos demais países do chamado “socialismo real”, surgidos no segundo após-guerra. Em ambos os casos, a projetada aliança de democracia e socialismo era patentemente desmentida pelos fatos. Esta tomada de distância assume talvez seu ponto mais alto num pequeño livro escrito em 1968, no qual, apesar de indiscutíveis avanços, as formulações do pensador húngaro me parecem ainda insuficientes.20 Neste livro, com efeito, Lukács considera que as deformações do “socialismo real” — que são agora claramente identificadas na ausência de democracia, em particular do que ele chama de “democracia da vida cotidiana” — poderiam ser resolvidas com um simplista e utópico “retorno a Lenin”, a cujo pensamento, diga-se de passagem, Lukács se manteve fanaticamente fiel até o fim da vida. Além disso, as duras críticas contidas neste livro não anulam o fato de que Lukács, malgrado tudo, continuou a se identificar até o fim com o “socialismo real”, como se pôde constatar numa enfática afirmação que ele repetiu reiteradamente em muitas de suas últimas entrevistas: “Do meu ponto de vista, mesmo o pior socialismo é preferível ao melhor capitalismo. Estou profundamente convencido disso e vivi todo este tempo com tal convicção”.21

Por tudo isso, parece-me assim no mínimo problemática a afirmação do pensador húngaro, feita em 1957, de que um dos pontos de discriminação entre o realismo crítico e a “vanguarda” seria a diversa atitude destas duas correntes artísticas em face de uma perspectiva socialista. Para Lukács, o realista crítico “não precisa situar-se no terreno do socialismo, mas basta que o socialismo não seja eliminado a priori dos seus interesses de homem e de artista, que o socialismo não se choque com uma previa recusa do escritor; caso contrário, este escritor privar-se-ia de toda visão orientada para o futuro”.22 Quando se refere à vanguarda, ao contrário, Lukács sente-se “no direito de denunciar, como traço real por trás do cinismo e do niilismo, por trás do desespero e da angústia mais mistificados, a recusa do socialismo”.23 Antes de mais nada, caberia perguntar: mas de que socialismo se trata? Se lembrarmos os traços concretos assumidos pelo chamado “socialismo real”, o único efetivamente existente — que se caracterizava, mesmo depois de Stalin, pela presença de novas formas de alienação e de manipulação burocrática, quando não mesmo pela permanência do uso aberto do terrorismo de Estado —, poderíamos objetar a Lukács que a “recusa do socialismo” nem sempre foi injustificada, nem sempre foi expressão de “cinismo” e de “mistificação”.

Certamente, Lukács tem razão quando afirma que uma perspectiva artística realista deve tomar distância em relação ao presente, ou seja, deve considerar que a realidade da alienação e da manipulação não constitui a condição eterna da vida humana. Mas essa distância pôde não apenas assumir a forma de uma recusa do “socialismo realmente existente” (como ocorre, por exemplo, nos primeiros escritos de Soljenitsin), mas também se fundar numa perspectiva crítica não necessariamente baseada numa abertura para o socialismo em geral (como é o caso, entre outras, da notável obra, de William Styron). A contraposição ao mundo alienado do capitalismo atual de certos valores gerados na época revolucionária da burguesia, como é o caso da luta pela realização da autonomia do indivíduo, pôde funcionar como meio de crítica historicista à aniquilação do indivíduo no presente burocratizado e reificado. Caberia mesmo examinar até que ponto uma perspectiva anticapitalista romântica — que Lukács define univocamente como reacionária — pôde servir de base a construçõs artísticas realistas.

Este novo “estado geral do mundo”, para usarmos uma expressão hegeliana, fez com que um certo pessimismo em face do futuro da humanidade não só encontrasse ampia difusão, mas também se tornasse relativamente justificado. Essa nova modalidade de “consciência infeliz”, para continuarmos com a terminologia de Hegel, era uma “figura do espírito” cuja validade relativa não podia ser prevista no itinerário otimista da “fenomenologia” lukacsiana do presente.24 Uma tal consciência pessimista não era apenas, como parecía supor Lukács, expressão da “decadência”, ou seja, mera resposta reacionária ou desesperada em face das tendências históricas predominantes, as quais, na opinião do filósofo húngaro, apontavam necessariamente para o socialismo — e um socialismo que ele identificava com sua caricatura vigente na União Soviética e nos demais países de modelo soviético. Este pessimismo assinalava também, pelo menos em seus melhores representantes, um justo sentimento de indignação em face do endurecimento burocrático promovido pelo novo capitalismo monopolista, inclusive em suas formas pseudodemocráticas, endurecimento diante do qual o “socialismo realmente existente” estava longe de aparecer como uma alternativa válida. Não foram assim poucos os pensadores e artistas progressistas — alguns abertamente de esquerda — que, com justificadas razões, negaram-se a aceitar a idéia de que “o pior socialismo é preferível ao melhor capitalismo”.

Decerto, a relativa justificação desse pessimismo não anula o fato de que ele frequëntemente expressa uma forma de “falsa consciência”, precisamente na medida em que muitas vezes se coagula na aparente insolubilidade das contradições do período e não é capaz de adotar diante délas um distanciamento crítico. Como Lukács viu corretamente, ainda que com alguns excessos, esta “falsa consciência” pessimista é deletéria no caso da reflexão filosófica, cujo objetivo é precisamente a descoberta das mediações e sua conceituação universalizadora.25 Na arte e na literatura, contudo, as coisas podem se dar diversamente, já que estas últimas têm como meta a figuração de uma particularidade concreta.26

É certo que, em muitas criações artísticas do período — como Lukács apontou corretamente —, as contradições sociais foram transpostas numa abstração falsamente “ontológica”, ou seja, em exemplos de uma pretensa insensatez da realidade enquanto tal, recebendo assim uma configuração formal alegórica e, como tal, anti-realista. Contudo, houve também artistas e escritores de vanguarda — o que Lukács freqüentemente ignorou — que, mesmo sem superarem sua “consciência infeliz” e seu pessimismo, foram capazes de plasmar tais contradições em sua figura social-concreta, apresentando a sua aparente insolubilidade como condição contraria à essência do homem e criando assim autênticos símbolos realistas que expressavam os impasses concretos do homem contemporâneo. Com isso, foram capazes de denunciar esteticamente em suas obras os mitos ideológicos (a “segurança”, o “bem-estar”, o “fim dos conflitos”, etc.) através dos quais se tentou e ainda se tenta legitimar as manifestações aparentemente “democráticas” do capitalismo tardio. Este modo simbólico-realista de expressar artísticamente a “consciência infeliz” contemporânea deu lugar a obras particularmente bem realizadas no terreno da lírica, onde a subjetividade como fator estruturante dispensa claramente a figuração da totalidade. Este me parece ser o caso, por exemplo, de poetas como T. S. Eliot e Rilke (que Lukács avaliava de modo negativo), mas também de outros que ele não conheceu, como Fernando Pessoa e Carlos Drummond de Andrade. E essa possibilidade se apresenta também no caso da arte narrativa, particularmente da novela, como veremos ao examinar mais de perto a obra de Franz Kafka.

5.

Durante os anos 1930 e 1940, como vimos, foi possível a Lukács defender, com relativo apoio nos fatos, sua perspectiva “otimista” de uma aliança estratégica entre a democracia (que ele sempre teve a lucidez de distinguir do liberalismo) e o socialismo realmente existente. Contudo, com a derrota militar do nazifascismo e a imediata eclosão da guerra fria (que pôs por térra as ilusões de uma convergência duradoura entre as “democracias” ocidentais e o “socialismo” de tipo soviético), esta perspectiva “otimista” perdeu seus vínculos com os fatos, convertendo-se em nada mais do que generosa utopia.

Malgrado isso, nos anos 1950 e no inicio dos 1960 — e, em particular, em Realismo crítico hoje —, Lukács continuou a insistir na necessidade desta aliança, que se expressaria artísticamente na convergência entre realismo crítico e “realismo socialista”, isto é, na comum oposição de ambos ao vanguardismo.27 Mas, enquanto ñas décadas de 1930 e 1940 a base política e ideológica de tal aliança era a concreta frente antifascista, que crescera a partir da própria realidade, esta base é agora apontada por Lukács no chamado “Movimento dos Partidarios da Paz”, uma iniciativa soviética de pouquíssimo impacto entre os intelectuais e artistas ocidentais.28 Se a proposta de articular a polaridade entre fascismo e antifascismo com aquela entre irracionalismo e defesa da razão, ou até mesmo entre vanguarda e realismo, podia aparecer (ainda que muitas vezes forgadamente, sobretudo no segundo caso) como parcialmente justificada no período situado entre os anos 1920 e 1940,29 tornava-se agora impossível — sem cometer uma clara violência contra os fatos — colocar a vanguarda ao lado dos que defendiam a guerra ou a julgavam inevitável e o realismo ao lado dos defensores da paz. Mas é precisamente isso o que faz Lukács em 1957: “O nosso fenômeno de base, portanto, é essa convergência de dois pares de elementos contrastantes: por um lado, realismo ou anti-realismo (vanguardismo, decadência); por outro, luta pela paz ou guerra.”30 Basta, entre muitos outros, o expressivo exemplo de Picasso — o criador de Guernica — para demonstrar a falsidade desta correlação.

A angústia dissolutora que Lukács percebe corretamente em autores como Beckett não se liga somente ao temor de uma hecatombe bélica considerada como inevitável, mas reflete também o horror e a desorientação de “consciências infelizes” (coaguladas fetichisticamente nesta infelicidade) diante das formas vitáis assumidas tanto pelo capitalismo monopolista como pelo “socialismo” burocrático. Lukács está certo ao indicar que Beckett e muitos outros escritores e artistas do século XX constroem suas obras numa forma alegórica, ou seja, transformando experiências vitais históricamente concretas da alienação capitalista ou “socialista” em “condição eterna do homem”. Mas, quando ele afirma que “o nada de Beckett é um mero jogo com abismos ficticios, aos quais não mais corresponde algo de essencial na realidade histórica […]”,31 provavelmente porque o perigo da guerra teria sido superado gragas à ação dos “partidarios da paz”, certamente não faz jus nem à sua aguda inteligência nem ao seu espírito crítico.

Por outro lado, não deverá ter escapado ao leitor de Realismo crítico hoje a dificuldade em que se encontrava Lukács para apontar exemplos contemporâneos de um grande realismo crítico nos moldes em que ele o concebía na época. Thomas Mann, morto em 1955, aparece como um gigante isolado (incidentalmente são citados como realistas Federico García Lorca, Sinclair Lewis, Alberto Moravia e pouquíssimos outros), enquanto na outra margem “vanguardista” do rio se situava, junto com Kafka, a grande maioria dos escritores realmente significativos do século XX. Subsumindo ao conceito de alegoría a totalidade da chamada “vanguarda”, Lukács impedia-se de realizar a única operação capaz não só de salvar a justeza essencial de sua teoria estética e de sua poética realista, mas também, como conseqüência, de lhe permitir uma compreensão mais adequada da arte e da literatura do século XX. Esta necessária operação, a meu ver, consistiría num reexame da produção da vanguarda à luz das novas experiencias históricas acima aludidas e, desse modo, numa distinção — no seio desta produção — entre os autores que, por um lado, apontavam no sentido de uma nova floração do realismo crítico (evidentemente transformado em suas estruturas formais por causa do novo “estado geral do mundo”) e, por outro, aqueles que, “ontologizando” os impasses da época, adotavam efetivamente a alegoría como base formal e ideológica da configuração estética do real.

6.

Contudo, seria um equívoco reduzir apenas a essa avaliação problemática do presente as razões dos limites contidos em Realismo crítico hoje, limites que o próprio Lukács reconheceu no fim da vida.32 Essa avaliação problemática se traduz também numa questão de método, cuja elucidação poderá ajudar o leitor a avaliar melhor o objetivo prioritário deste livro, que consiste precisamente em analisar Proust e Kafka à luz das teorías estético-filosóficas de Lukács, mas em contradição com muitas de suas observações concretas sobre estes dois autores e em parcial discordancia com sua análise das alternativas da literatura no mundo contemporâneo.

Uma leitura atenta de Realismo crítico hoje revela que nele Lukács se afasta, em aspectos essenciais, do método estético-crítico que ele mesmo formulou em suas obras teóricas da maturidade e que aplicou com sucesso na maioria de suas análises concretas de períodos e autores singulares, em particular dos romancistas do século XIX. Façamos um rápido paralelo entre Realismo crítico hoje e O romance histórico. Nessa última obra, escrita em 1936-37 — ou seja, em plena época das frentes populares e da luta antifascista —, a preocupação essencial de Lukács consiste em mostrar como uma determinada constelação histórica objetiva, gerada pela Revolução Francesa e pelas guerras napoleónicas, obrigou o romance a renovar sua forma, no sentido de introduzir a historicidade concreta como elemento determinante na caracterização literária dos personagens e das situações. Esse movimento de renovação formal, que tem seu inicio em Walter Scott e se explícita no grande realismo do século XIX (que, como diz Lukács, aprendeu a “tratar o presente como história”33), é apresentado como a reposição estética de concretos pressupostos histórico-sociais, um processo que o pensador húngaro analisa tanto pelo ângulo da gênese quanto por aquele do resultado artístico-formal. O romance histórico, sobretudo em seus tres primeiros capítulos — entre os quais se destaca a belíssima digressão sobre o romance e o drama enquanto estruturas formais que refletem constelações histórico-universais da vida humana, digressão que é certamente a maior contribuição de Lukács a uma teoría marxista dos gêneros literários34 —, aparece assim como um paradigma, talvez o mais alto na obra lukacsiana, de aplicação criadora do método histórico-sistemático no terreno da literatura. Trata-se precisamente de um método que articula orgánicamente as determinações histórico-sociais com as determinações estruturais imanentes (no caso, as determinações estéticas) das objetivações humanas. Faz parte deste método a utilização por Lukács, não só em O romance histórico
mas também na maior parte de sua obra, da fecunda categoría engelsiana da “vitória do realismo”:35 essa renovação formal do romance, essa capacidade de narrar o presente como história, entra freqüentemente em contradição com a concepção do mundo explicitamente professada pelos romancistas da época, como ocorre sobretudo no caso dos conservadores Walter Scott e Balzac.

Realismo crítico hoje funda-se numa diferente abordagem metodológica. Em vez de partir de uma análise da sociedade contemporânea — ou seja, das transformações sofridas pelo capitalismo em sua etapa monopolista e da involução “estatolátrica” da União Soviética stalinista e pós-stalinista —, Lukács toma como pressuposto de sua investigação o que ele chama de “concepção do mundo subjacente à vanguarda”.36 Tal concepção, que se identificaria essencialmente com aquela formulada em nível teórico pelas várias filosofias irracionalistas, teria seu núcleo central na afirmação de que o homem é um ser ontologicamente solitário, afirmação que se choca frontalmente com a velha noção aristotélica de que o homem, ao contrário, é um “animal social”. Além disso, esta concepção vanguardista se caracterizaria por asseverar que o mundo real não tem um sentido imanente, que tal sentido só poderia provir de uma transcendência que na verdade não existe e que, portanto, se identificaria com o nada. Num processo abstrativo pouco dialético, já que não se apresenta como etapa inicial de uma elevação ao concreto, Lukács subsume sob essa concepção do mundo a totalidade dos autores de vanguarda, em particular Proust e Kafka, afirmando que suas obras não passariam de ilustrações alegóricas deste “nada”.

Em Realismo crítico hoje, portanto, não se trata de deduzir dialeticamente as características formais das obras analisadas a partir das determinações histórico-sociais do seu hic et nunc, como ocorre em O romance histórico, mas de demonstrar que tais obras são ilustração alegórica de uma visão do mundo anterior e transcendente ao produto artístico. Mais grave ainda: para tal demonstração, Lukács não recorre a uma análise imanente, estético-formal, dos autores de vanguarda, através da qual se evidenciasse que a concepção do mundo imanente às suas obras é efetivamente similar áquela visão irracionalista que eles ilustrariam alegóricamente.37 O que ele chama de “concepção subjacente à vanguarda” é definida em termos filosóficos gerais, de modo apriorístico em relação à obra concreta dos escritores; e, quando a produção de tais autores é chamada a corroborar a suposta adesão deles a tal concepção, Lukács freqüentemente se vale de suas declarações conceituais, expostas em ensaios teóricos, cartas, diarios, etc., ou mesmo, como no caso de T. S. Eliot, a fragmentos de poemas que, enquanto fragmentos, tornam-se puramente descritivos e não são capazes de evidenciar com que pathos emocional o ego lírico do poeta norte-americano vivencia na criação poética os eventos que descreve. Portanto, Lukács não parte dos autores para determinar a concepção do mundo que eles expressam em suas obras específicamente estéticas, mas comega por expor os traços gerais abstratos desta suposta concepção “vanguardista”, e só num segundo momento busca subsumir a eia os autores de que trata, em particular Kafka. É evidente que este procedimento lhe facilita defender sua tese, afirmada repetidas vezes ao longo do livro, segundo a qual os autores de vanguarda apenas ilustrariam alegóricamente esta abstrata concepção irracionalista do mundo.

Procedendo desse modo, Lukács abandona o emprego de seu próprio método histórico-sistemático, ou genético-estético, impedindo-se ao mesmo tempo de utilizar a fecunda categoria da “vitória do realismo”, que seria particularmente operatoria — como veremos — nos casos de Proust e, sobretudo, de Kafka. Se, como Lukács diz em Realismo crítico hoje, é “a imagem do mundo que deve ser representada na obra”, ou se o esforço do artista passa a ser o de “reproduzir adecuadamente, com meios poéticos, essa visão do mundo”,38 então desaparece o conceito básico da poética lukacsiana, ou seja, o de que a arte é representação mimética da realidade histórico-social objetiva e não expressão direta da visão do mundo do artista. Em conseqüência, desaparece a possibilidade do cotejo entre a objetivação estética e o mundo histórico-social que lhe serve de pressuposto, cotejo que está na base do mencionado conceito de “vitória do realismo”.

O exemplo maior deste equívoco metodológico transparece precisamente na análise de Kafka. Se, em vez de subsumir o autor tcheco a uma concepção do mundo irracionalista, Lukács tivesse buscado efetuar uma análise imanente de sua obra, certamente veria que a “imagem da sociedade capitalista com cor local austríaca”, que para ele é apenas o substrato inessencial de uma fuga na transcendência alegórica, contém na verdade uma reposição estética das conseqüências humanas mais profundas das novas modalidades de alienação geradas pelo capitalismo em sua fase monopolista.39 O método que o filósofo húngaro utiliza em Realismo crítico hoje está mais próximo do método de Lucien Goldmann (que vê a obra de arte como expressão direta de uma “visão do mundo”)40 do que do método teorizado e aplicado em outros inúmeros casos pelo próprio Lukács (o que concebe a arte como representação mimético-evocativa da realidade). A adoção deste “novo” método prejudica boa parte das análises contidas em Realismo crítico hoje, impedindo Lukács até mesmo de utilizar com maior profundidade (como viria a fazê-lo na Estética de 1963) o conceito benjaminiano de alegoria.

7.

O emprego deste “novo” método — ou, se preferirmos, o temporário abandono do autêntico método histórico-sistemático por ele mesmo elaborado — não permitiu que Lukács aplicasse adequadamente à literatura contemporânea uma de suas mais brilhantes teses, ou seja, a de que “a obra de arte autêntica (e somente essa pôde se tornar a base de uma fecunda universalização histórica ou estética) satisfaz as leis estéticas apenas na medida em que, ao mesmo tempo, as amplia e aprofunda”.41 De que modo, na verdade, se daria essa ampliação e esse aprofundamento na literatura do século XX? Durante os anos 1930 e 1940, Lukács subestimou esse problema, parecendo supor que o realismo de nosso tempo — pelo menos o realismo crítico ocidental — seria uma simples continuação formal do realismo do século XIX. Uma primeira tentativa de resposta, todavia, aparece já nos anos 1960, quando o pensador húngaro formula a idéia de que o realismo crítico é compatível com o uso de técnicas criadas pela vanguarda. Referindo-se a seus ensaios da década de 1930, num prefacio escrito em 1965 para uma reedição dos mesmos, Lukács comentou: “Naquele tempo, quando do primeiro choque (de certo modo) com o modernismo, a prioridade da inovação técnica foi radicalmente negada. Todavia, depois se tornou cada vez mais claro para mim, ao analisar artistas e obras particulares, que — embora essa inovação técnica enquanto principio de julgamento estético merecesse certamente uma total repulsa — certas inovações técnicas podiam se converter, enquanto reflexos de relações humanas realmente novas e independentemente das teorias e intenções de seus inventores e propagandistas, em elementos de figurações verdadeiramente realistas.”42

Graças a essa nova formulação, Lukács pôde não apenas avaliar melhor as produções da maturidade de Thomas Mann, mas também apresentar depois de 1957, ou seja, depois da redação de Realismo crítico hoje, sobretudo em muitas das numerosas entrevistas que concedeu no final de sua vida, uma aitude bem mais aberta diante da produção literária de autores mais recentes, como Jorge Semprun, Heinrich Böll, William Styron, Rolf Hochhutt, etc. Além disso, em algumas páginas acrescentadas em 1963 à edição em inglês de Realismo crítico hoje, Lukács apresenta também como autores realistas não só os norte-americanos Thomas Wolfe e Eugene O’Neill, mas também Elsa Morante e Bertolt Brecht.43 Sobre este último, aliás, cabe lembrar que, em 1945, Lukács ainda o considerava como um autor que “reduz a desejada renovação social da literatura a um experimento formal, certamente interessante e inteligente”; já em 1963, depois de conhecer as obras brechtianas mais tardias, em particular Os fuzis da Senhora Carrar e A vida de Galileu, ele afirma enfaticamente que “o Brecht da maturidade, superando suas anteriores teorias unilaterais [o ’efeito de distanciamento’], tornou-se o maior dramaturgo realista de sua época”.44

Mas esta idéia de que técnicas de vanguarda podem servir ao realismo era insuficiente, precisamente na medida em que não passava de uma solução de compromisso. Um esboço de resposta orgánica viria à luz somente em 1969, no belo ensaio que Lukács, dois anos antes da sua morte, dedicou aos primeiros romances de Alexander Soljenitsin, O primeiro círculo e O pavilhão dos cancerosos.45 Com um esforço teórico digno do maior respeito (Lukács atingira os 84 anos e estava empenhado, ao mesmo tempo, em resolver os complexos problemas teóricos surgidos quando da redação de sua grande obra da velhice, a Ontologia do ser social),46 o filósofo húngaro esboça, na primeira parte desse ensaio, as bases para uma reformulação de sua teoria da literatura contemporânea.

Esse ensaio de 1969 assinala, antes de mais nada, um retorno ao método histórico-sistemático que, como vimos, está na base da poética do realismo elaborada pelo Lukács da maturidade. Em vez de ver na narrativa realista de nosso tempo uma simples continuação formal das velhas tradições do século XIX (ainda que “atualizadas” pelo emprego de técnicas de vanguarda), Lukács indica o modo pelo qual os novos pressupostos sociais e ideológicos do capitalismo tardio conduziram a uma modificação formal da estrutura romanesca, cujo centro não mais seria, como no romance tradicional, a figuração de uma “totalidade de objetos” — segundo a formulação hegeliana recolhida por Lukács —,47 mas a de uma “totalidade de reações”. Lukács observa que “a inovação reside no fato de que a unidade de lugar torna-se o fundamento imediato da composição”, graças à criação de uma especie de “teatro social” que agrupa homens diversos e os obriga a definições que eles não tomariam normalmente em sua vida cotidiana. E o filósofo húngaro continua: “Esse ’teatro’ aparece, portanto, como o desencadeador efetivo e imediato de problemas ideológicos existentes por toda parte em estado latente, mas dos quais só se toma consciência, em sua totalidade contraditória, precisamente neste lugar. […] Desapareceu a necessidade de uma fábula épica homogénea. […] Porém, malgrado a ausência de fábula homogénea, e mesmo em conseqüência dessa ausência, reina uma excepcional intensidade de emoção épica, uma dramática interna. […] Relações épicas coerentes podem nascer de cenas particulares de natureza dramática, mas desprovidas aparentemente de laços internos entre si. E essas relações podem igualmente se ordenar numa totalidade de reações a um vasto complexo de problemas de natureza épica”.48

Lukács não viveu o suficiente para extrair todas as conseqüências desta sua nova formulação, o que teria implicado certamente a reavaliação de boa parte dos seus juízos sobre a literatura do século XX. De qualquer modo, tal reavaliação ocorreu efetivamente em alguns casos concretos, mesmo diante de autores que Lukács já avaliara anteriormente de modo positivo. Neste sentido, dois exemplos são particularmente significativos. Um autor como Thomas Mann, por exemplo, não mais lhe aparece — pelo menos a partir de A montanha mágica — como um continuador da narrativa tradicional, mas, ao contrário, como iniciador da nova forma do romance centrada na “totalidade de reações”; Lukács não hesita mesmo em chamá-lo de “inovador formal”.49 Também o Poema pedagógico do soviético Antón Makarenko deixa de ser visto como precursor da “epopéia socialista” (numa época em que Lukács ainda enxergava “elementos de comunismo” na URSS dos anos 1920)50 e passa a ser tratado como um romance, mas também construido tendo como eixo a “totalidade de reações”. Por outro lado, muitas productes literárias até então condenadas como vanguardistas aparecem agora como exemplos realistas da nova forma romanesca (o caso mais vistoso, mencionado pelo proprio Lukács, é o do romance O homem sem qualidades de Robert Musil)51. E, além disso, a descoberta desse novo tipo de figuração romanesca permite a Lukács explicar de modo mais adequado alguns autores que ele antes considerava como híbridos (ou seja, como realistas clássicos que empregavam técnicas de vanguarda); é o caso, sobretudo, de Heinrich Böll. Esse texto tardío de Lukács, apesar de seu caráter mais indicativo do que sistemático, abre um vasto campo para novas pesquisas e, antes de mais nada, para uma reavaliação das próprias posições lukacsianas diante da literatura de nosso tempo. Não posso fazer aqui mais do que chamar a atenção para a sua importância.

As análises de Proust e de Kafka que empreenderei em seguida orientam-se em duas direções convergentes: por um lado, visam a avaliar estes autores à luz do método histórico-sistemático elaborado por Lukács, mas abandonado por ele em Realismo crítico hoje; e, por outro, como conseqüência, tentam dar uma forma relativamente sistemática às indicações fornecidas pelo filósofo em seus últimos anos de vida, não só em referência direta a produção destes dois autores, mas também no que diz respeito aos problemas histórico-sistemáticos da literatura do século XX como um todo. Muitas de minhas formulações — e, em particular, a que considera Kafka um precursor novelístico da nova forma de romance centrada na “totalidade de reações” e não mais na “totalidade dos objetos” — não se encontram nos textos de Lukács, nem mesmo depois do que eu considero como suas últimas “autocríticas” no campo literário.52 Mas estou convencido de que, em última instância, minha pesquisa pode ser considerada “ortodoxamente” lukacsiana, se considerarmos o conceito de “ortodoxia” precisamente no sentido que o próprio Lukács lhe atribuiu, ou seja, no sentido da fidelidade ao método e não necessariamente às afirmações particulares concretas de um autor.53 Creio que esse fato — o desafio de tentar compreender à luz de Lukács dois autores que o próprio Lukács não compreendeu adequadamente — justifica, pelo menos subjetivamente, que eu acrescente um novo título à já ciclópica bibliografia sobre Proust e Kafka.

1 J. Rivière, “Marcel Proust et la tradition classique” [1920], in Vários autores, Les critiques de notre temps et Proust, Paris, Garnier, 1971, p. 25-31.

2Theodor W. Adorno, “Anotações sobre Kafka”, in Id., Prismas. Crítica cultural e sociedade, São Paulo, Ática, 2001, p. 239.

3W. Benjamin, “Franz Kafka. A propósito do décimo aniversario de sua morte”, in Id., Obras escolhidas, São Paulo, Brasiliense, vol. 1, 1985, p. 152.

4G. Lukács, Estetica, Turim, Einaudi, 1970, 2 vols., p. 745-747 e 749. A edição alemã original é de 1963.

5G. Lukács, La distruzione della ragione, Turim, Einaudi, 1959 (ed. alemã original, 1953), p. 24; Id., Realismo crítico hoje, Brasília, Coordenada, 1969, p. 63. Neste segundo livro, partindo de uma citação de Benjamin, Lukács chega mesmo a dizer que Proust radicalizou ainda mais o subjetivismo irracionalista de Bergson: “Mas, enquanto em Bergson, sob a abstração filosófica, existe a aparência — enganadora — de uma totalidade cósmica, em Proust, ao contrário […], esta concepção do tempo é levada às suas extremas conseqüências, de modo que não resta nenhum vestígio de objetividade”.

6Stephen Spender, “Lukács: o homem sem idade”, in Cadernos brasileiros, ano VII, n° 1, 1965, p. 77-78. Trata-se da tradução para o português de “With Lukács in Budapest”, publicada em Encounter, dezembro de 1964.

7G. Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 133. No prefácio a este livro, datado de abril de 1957, Lukács diz que comegou a redigilo no “outono de 1955”. Cabe lembrar que também Bertolt Brecht expressou um juízo negativo sobre Kafka. Embora tenha apontado corretamente a figuração antecipadora do “Estado-formigueiro” na obra kafkiana, Brecht afirma — em conversa com Walter Benjamin, em 1934 — que “ele [Kafka] não encontrou solução e não despertou do seu pesadelo”, que era “um espírito impreciso, quimérico” e que, portanto, devia “ser deixado de lado” (cf. W Benjamin, “Entretiens avec Brecht”, in Id., Essais sur Bertolt Brecht, Paris, Maspero, 1969, p. 132 e 135).

8G. Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 73.

9Lukács voltaria a utilizar amplamente as teses de Benjamin, formuladas em Origem do drama barroco alemão (São Paulo, Brasiliense, 1984 [ed. original, 1928], p. 181 e ss.), no belo capítulo sobre “Alegoria e símbolo” da sua Estetica, cit., vol. 2, p. 1473-1516. Cabe observar, porém, que Kafka não é jamais citado nesse capítulo seminal, embora boa parte do mesmo trate da arte contemporânea. Pode-se ainda lembrar que Kafka tampouco aparece na obra que Lukács dedicou à história da literatura alemã (Breve storia della letteratura tedesca, Turim, Einaudi, 1956 [ed. original, 1945]), uma ausência que não pôde ser explicada pelo fato de Kafka não ser alemão, já que Lukács trata amplamente neste livro de um conterráneo de Kafka, o poeta tcheco — mas, como Kafka, de expressão alemã — Rainer Maria Rilke. Isso parece indicar que Lukács ainda não havia tomado conhecimento da obra de Kafka em 1945. Ao que eu saiba, a primeira menção do filósofo húngaro ao narrador tcheco aparece em La distruzione della ragione (cit., p. 792), no “epílogo” datado de Janeiro de 1953; neste epílogo — ainda que afirme não estar tratando do “valor estético” das obras, mas analisando-as apenas como “índice das correntes sociais” —, Lukács se permite o seguinte despropósito: “Hoje, as manifestações literárias paralelas à economia da apologética direta [do capitalismo] e à filosofia semântica são os representantes do desespero niilista, os Kafka ou os Camus”.

10Para tais juízos, cf. “Kafka na obra do último Lukács”, infra, Apêndices, 2, p. 215-219.

11 Cf., por exemplo, a “Introdução” que escrevi para a edição brasileira de Realismo crítico hoje, cit., p. 7-20.

12Também não concordo com a posição dos que subestimam a importância da categoria do realismo na análise das obras de arte, em particular daquela de Kafka. Uma posição deste tipo aparece em Michael Löwy, Franz Kafka: rêveur insoumis, Paris, Stock, 2004, onde há um capítulo intitulado ironicamente “Digression anecdotique: Kafka était-il réaliste?” (p. 149-159). Trata-se certamente de uma anedota (que Löwy repete) a atribuição a Lukács, quando esteve preso num castelo romeno após o esmagamento da rebelião húngara de 1956, da afirmação de que ele agora estaria convencido de que “Kafka era um realista”. É evidente que a questão do realismo em Kafka (e na arte em geral) não se esgota em anedotas deste tipo.

13Cf., em particular, G. Lukács, Scritti politici giovanili 1919-1928, Bari, Laterza, 1972, p. 3-174; là.,”Kommunismus1920-1921, Pádua, Marsilio, 1972; Id., História e consciência de classe [1923], São Paulo, Martins Fontes, 2004; Id., Lenin. Unità e coerenza del suo pensiero [1924], Turim, Einaudi, 1970. Para um balanço autocrítico deste período, cf. Id., “Prefácio” [1967] a História e consciência de classe, cit., p. 1-50.

14Trata-se do informe que Lukács apresentou, em 1928, a um congresso do clandestino PC húngaro, no quai antecipava idéias que, embora condenadas na época por seu partido e pela Internacional Comunista, seriam mais tarde retomadas por esta última na estratégia da “frente popular” (cf. G. Lukács, “Teses de Blum”, in Temas de ciências humanas, São Paulo, n° 7, 1980, p. 19-30).

15G. Lukács, Le roman historique [1936-1937], Paris, Payot, 1965; e Id., Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica [1938], Turim, Einaudi, 1960. Os principais ensaios de Lukács sobre o realismo do século XIX estão reunidos em Saggi sul realismo [1934-1943], Turim, Einaudi, 1950, mas também em Goethe et son époque [1934-1940], Paris, Nagel, 1949, e em Realisti tedeschi del XIX secolo [1935-1940], Milão, Feltrinelli, 1963.

16Entre os muitos textos que buscam mostrar as divergências entre a obra lukacsiana e o stalinismo, cf. sobretudo Nicolas Tertulian, “G. Lukács e o stalinismo”, in Praxis, Belo Horizonte, n° 2, setembro de 1994, p. 71-108.

17Não é aqui o local para tratar do assunto, mas me parece indiscutível que Gramsci foi além de Lukács na compreensão das novas tarefas teórico-políticas que se colocavam ao marxismo em conseqüência deste refluxo da onda revolucionária no Ocidente e da involução “estatolátrica” que o pensador italiano apontou na URSS staliniana. É nesse contexto que se inscreve a renovaçâo gramsciana da teoria marxista de Estado e revolução, uma renovação que inutilmente procuraríamos na obra de Lukács. Sobre isso, cf., entre outros, C. N. Coutinho, Gramsci. Um estudo sobre seu pensamento político, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, 2003, sobretudo p. 119-164.

18Cf. G. Lukács, in O espírito europeu, Encontros Internacionais de Genebra [1946], Lisboa, Europa-América, 1962, p. 178. O texto desta conferência foi depois publicado com o título “A visão do mundo aristocrática e democrática” (cf., por exemplo, Lukács Gyòrgy, “Arisztrokratikus es Demokratikus Világnezet”, in Id., A polgári filozófia válsága, Budapeste, Hungária, s.d. [mas 1947], p. 107-128). Nesse Encontró, Lukács discute, entre outros, com Julien Benda, Georges Bernanos, Stephen Spender, Karl Jaspers e Maurice Merleau-Ponty.

19Também aqui Gramsci viu mais longe do que Lukács: em seus apontamentos carcerários, o revolucionario italiano previu — já no inicio dos anos 1930 — que o “americanismo” seria um novo modo de ser do capitalismo, dotado de uma expansividade e de uma capacidade de universalização bem maiores do que aquelas do fascismo (cf. A. Gramsci, Cadernos do carcere, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, vol. 4, 2001, p. 217-321). Trata-se de uma previsão que o mundo resultante da Segunda Guerra só fez confirmar.

20G. Lukács, L’uomo e la democrazia, Roma, Lucarini, 1987. Embora escrito em 1968, este pequeño livro — por imposição do PC húngaro, ao qual Lukács (depois de ter sido dele expulso logo após os eventos húngaros de 1956) retornara um ano antes — só foi publicado cerca de quinze anos depois da morte do filósofo, com o título Demokratisierung heute und morgen [Democratização hoje e amanhã], Budapeste, 1985.

21Cf., por exemplo, “En casa con György Lukács” [1968], in Id., Testamento político y otros escritos sobre politica y filosofia, Buenos Aires, Herramienta, 2003, p. 121. Os impasses e aporias que esta identificação entre socialismo e “socialismo realmente existente” (ainda que considerado “o pior socialismo”) provocou no pensamento político e mesmo teórico de Lukács, inclusive em seus escritos posteriores a 1956, foram quase sempre convincentemente analisados pelo seu ex-discípulo István Mészáros, Para além do capital, São Paulo-Campinas, Boitempo-Editora da Unicamp, 2002, sobretudo p. 469-514.

22G. Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 97.

23Ibid., p. 102-103.

24Ainda que com unilateralismo oposto, este caráter relativamente justificado do pessimismo foi visto e analisado pelos integrantes da Escola de Frankfurt em sua fase “clássica” (Horkheimer, Adorno, Benjamin, Marcuse, etc.). O problema é que alguns deles, sobretudo os dois primeiros, terminaram por transformar este pessimismo relativamente justificado num imobilismo resignado diante do que chamavam de “mundo administrado”. Em outras palavras: não souberam seguir a recomendação de Gramsci no sentido de articular “pessimismo da inteligência” com “otimismo da vontade”.

25Cf. G. Lukács, La distruzione della ragione, cit., mas também Id., Existencialismo ou marxismo? [1948], São Paulo, Ciências Humanas, 1979.

26É esta, precisamente, a lição lukacsiana. Cf., por exemplo, G. Lukács, Introdução a uma estética marxista. Sobre a categoria da particularidade, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, 1970 [ed. italiana original, 1957]; e Id., Estetica, cit., vol. 2, sobretudo p. 984-1052.

27Embora criticasse duramente o esquematismo vigente em boa parte da literatura soviética, Lukács continuou a crer até o fim na possibilidade de um “realismo socialista”, cujas maiores expressões seriam, segundo ele, Gorki, Cholokhov e Makarenko (cf. Realismo critíco hoje, cit., p. 135-200).

28Sobre a importância atribuida pelo filósofo húngaro ao “Movimento dos Partidarios da Paz”, cf. G. Lukács, La distruzione della ragione, cit., p. 772 e ss.; e Id., Realismo crítico hoje, cit., p. 27-31. Para a permanência de ilusões sobre uma aliança entre “democracias” ocidentais e socialismo soviético, cf. — entre muitos outros textos e entrevistas do inicio dos anos 1960 — G. Lukács, “Problemi della coesistenza culturale” [1964], in Id., Marxismo e politica culturale, Turim, Einaudi, 1968, p. 163-186.

29Não se deve esquecer, por exemplo, a clara adesão dos principais futuristas italianos ao fascismo, as simpatias de alguns expressionistas alemães e de Ezra Pound pelo nazismo ou os vínculos entre o surrealista Salvador Dalí e o franquismo. No Brasil, os modernistas Menotti del Picchia e Plinio Salgado estiveram entre os criadores do integralismo, a versão tupiniquim do fascismo. Mas são pelo menos tão expressivos quanto estes os casos em que vanguardistas no terreno da arte aderiram a posições progressistas e mesmo revolucionárias no terreno da política: basta evocar aqui os casos de Maiakovski, dos surrealistas franceses, do primeiro Brecht ou de Pablo Picasso. E, também neste caso, cabe lembrar os brasileiros Mário e Oswald de Andrade.

30G. Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 30.

31Cf. G. Lukács, Solschenitzyn, Neuwied e Berlim, Luchterhand, 1970, p. 27. Este pequeño livro conheceu uma imediata edição francesa (Soljénitsine, París, Gallimard, 1970).

32Cf. “Lukács a Coutinho”, 26 de fevereiro de 1968, infra, p. 211.

33G. Lukács, Le román historique, cit., p. 106.

34Ibid., p. 96-189.

35“Quanto mais as opiniões do autor permanecerem ocultas, tanto melhor para a obra de arte. O realismo a que me refiro deve se manifestar a despeito das opiniões dos autores. Permita-me dar um exemplo, o de Balzac, que eu considero um grande mestre do realismo, maior do que todos os Zolas passados, presentes e futuros […]. Balzac era politicamente legitimista; suas simpatias estão com a classe [a aristocracia] destinada à extinção […]. Que Balzac tenha sido obrigado a ir de encontró às suas próprias simpatias de classe e a seus preconceitos políticos; que ele tenha visto e necessidade do colapso dos aristocratas com os quais simpatizava e os tenha descrito como gente que não merecia um destino melhor; que ele tenha visto os verdadeiros homens do futuro no único lugar em que, naquela época, eles podiam ser vistos — eis o que considero uma das maiores vitórias do realismo e uma das maiores realizações do velho Balzac” (Engels a M. Harkness, abril de 1888, in K. Marx e F. Engels, Sobre el arte, Buenos Aires, Estudio, 1967, p. 41-42).

36G. Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 33-75.

37Uma análise desse tipo, a meu ver, poderia confirmar a natureza alegórica e, como tal, anti-realista de alguns significativos autores de vanguarda, como, por exemplo, Beckett, Camus e o Joyce do Ulisses e do Finnegans Wake. No caso de Joyce, valeria um outro discurso para seu primeiro período, em particular para Dublinenses e O retrato do artista quando jovem.

38Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 36. É certo que Lukács insiste em que seu interesse volta-se para a visão imanente à obra; mas o desdobramento da sua argumentação, como se pode facilmente comprovar (cf. p. 37, 44, 45, etc.), não confirma essa cautela metodológica.

39Lukács parece ter percebido isso em 1963, quando faz um paralelo entre Kafka e Swift. Cf. “Kafka na obra do último Lukács”, infra, Apêndices, 2, p. 218.

40Cf., em particular, L. Goldmann, Sociologia do romance, Rio de Janeiro, Paz e Terra, 1967, p. 7-28.

41Lukács, Estetica, cit., vol. 1, p. 579. O grifo é meu.

42G. Lukács, Marxismo e teoria da literatura, Rio de Janeiro, Civilizacao Brasileira, 1968, p. 5.

43Cf. G. Lukács, Realism in Our Time, Nova York, Harper Torshbook, 1971, p. 83-89, que reproduz Id., The Meaning of Contemporary Realism, Londres, Merlin, 1963. Estas páginas estão ausentes ñas edições italiana (Il significato attuale del realismo critico, Turim, Einaudi, 1957) e alemã (Wider den missverstandenen Realismuis [Contra o realismo mal compreendido], Hamburgo, Claassen, 1958), bem como na edição francesa (La signification présente du réalisme critique, Paris, Gallimard, 1960) que serviu de base para a edição brasileira que venho citando.

44Cf., respectivamente, G. Lukács, Breve storia della letteratura tedesca, cit., p. 212; e Id., Realism in Our Time, cit., p. 89.

45Cf. G. Lukács, “Solshenitzyns Romane”, in Id., Solschenitzyn, cit., p. 31-85.

46Alguns desses problemas — que levaram Lukács, em 1969, a abandonar o manuscrito já concluido e a empreender a redação de um novo texto — são historiados por Alberto Scarponi e Nicolas Tertulian em seus prefácios às edições italianas do primeiro e do segundo manuscritos (cf., respectivamente, G. Lukács, Per l’ontologia dell’essere sociale, Roma, Riuniti, 1976, vol. 1, p. VII-XV; e Id., Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, Milão, Guerrini, 1990, p. IX-XXVII). É particularmente interessante o fato de que Lukács tenha chegado a pensar em escrever “O Capital do presente”, projeto que abandonou por causa da idade. Mas foi precisamente a descoberta, ainda que parcial e fragmentaria, das formas tardías do capitalismo monopolista (que, a partir da segunda metade dos anos 1960, ele designa repetidas vezes com o termo “capitalismo manipulatório”) que permitiu a Lukács empreender as “revisões” de sua concepção geral do marxismo (com a compreensão da necessidade de fundá-lo numa ontologia do ser social, em contraste com o irracionalismo e o epistemologismo neopositivista) e — o que aqui nos interessa mais de perto — de sua visão da literatura do século XX. Contudo, mesmo neste periodo derradeiro, permanecem limites na concepção lukacsiana do marxismo, como tentei mostrar sumariamente em C. N. Coutinho, “Lukács, a ontologia e a política”, in Id., Marxismo e política, São Paulo, Cortez, 1996, p. 143-160; e em L. Konder e C. N. Coutinho, “Presença de Lukács no Brasil”, in M. O. Pinassi e S. Lessa (orgs.), Lukács e a atualidade do marxismo, São Paulo, Boitempo, 2002, p. 157-183.

47G. W. F. Hegel, Estética, Lisboa, Guimarães, vol. VII: Poesia, 1964, p. 182 e ss. Quanto à apropriação crítica deste conceito hegeliano por parte de Lukács, cf. não só a segunda parte de Le roman historique, cit., mas também os ensaios “Rapport sur le roman” e “Le roman”, escritos também nos anos 1930, recolhidos em G. Lukács, Écrits de Moscou, Paris, Editions Sociales, 1974, p. 63-78 e 79-140.

48 G. Lukács, Solschenitzyn, cit., p. 34-35.

49Ibid.

50G. Lukács, “Makarenko, Il poema pedagogico” [1951], in Id., La letteratura sovietica, Roma, Riuniti, 1955, p. 169-233.

51G. Lukács, Solschenitzyn, cit., p. 36.

52Lukács, por exemplo, ainda que concorde com a importância do elemento novelístico na obra de Kafka, mencionando explícitamente A metamorfose, é contrário à avaliação positiva de O processo, que ele não considera uma novela. Cf. “Lukács a Coutinho”, 26 de fevereiro de 1968, infra, p. 211-212.

53G. Lukács, História e consciência de classe, cit., p. 64.

Lukács e i decadenti

di Nicola Chiaromonte

«Tempo Presente»  II, n. 8 – agosto 1957

Dopo l’onorevole parte da lui presa alla rivolta ungherese, il 25 novembre scorso Georg Lukács  era stato onorato d’arresto insieme con Imre Nagy, con la vedova Raik e con gli altri che si erano rifugiati presso l’ambasciata iugo­slava, e deportato con loro in Romania. Il 10 aprile, per grazia speciale, egli ha fatto ritorno a Budapest. Senza onore. Evidentemente, il teorico del realismo socialista ha giudicato più realistico continuare a proprio agio le speculazioni di filosofia letteraria che rimanere solidale con gli sconfitti.

Il numero di luglio-agosto di Nuovi argo­menti ci offre la primizia dei pensieri cui si è affaticato Lukács in questi mesi. Si tratta delle «Basi ideologiche dell’avanguardia». Il tratto più notevole dello scritto è che in esso, ormai, il realismo socialista non ha più che una parte di comparsa: esce di scena appena en­trato (alla prima pagina) e, per il resto, la questione è di difendere il realismo borghese contro l’avanguardia decadente. Il realismo bor­ghese è epico e dinamico mentre l’avanguardia è statica: il realismo borghese radica i perso­naggi «nei ranporti concretamente storici, uma­ni, sociali della loro esistenza», mentre l’avan­guardia rappresenta «l’individuo eternamente, essenzialmente solitario, svincolato da tutti i rapporti umani e a maggior ragione da tutti i rapporti sociali»: il realismo borghese rappresenta la possibilità concreta, l’avanguardia la possibilità astratta; il realismo borghese attinge al tipico, l’avanguardia cerca rifugio nell’allegoria. Il realismo borghese infine, secondo Lukács, s’incarna ai tempi nostri (come si sape­va) principalmente in Thomas Mann e subor­dinatamente anche in Sciolokhov e in Moravia; l’avanguardia invece in Beckett, in Joyce, in Kafka, in Musil, in Gottfried Benn, in Hei­degger e, risalendo per li rami, in Hofmannsthal.

Nel seguire il laborioso, e non poco ambiguo, discorso di Lukács, non si può non cominciare coll’osservare che, per legittima che possa esse­re in astratto, o da un diverso punto di vista, nell’argomento del marxista ungherese la di­stinzione fra realismo e avanguardia regge assai male, sia in diritto che in fatto. In diritto, per­ché la latitanza dell’imperativo realista-socialista («non immediatamente applicabile», dice Lukács con cauto eufemismo) priva non solo il censore di ogni base per insegnare all’artista il vero senso della «realtà», ma anche l’artista della bussola che dovrebbe guidarlo a fare arte «dinamica», «sociale» e progressiva. In fatto, perché gli esempi addotti da Lukács sono spes­so altrettanto rozzi che discutibili, e il suo ra­gionare grossolano e tentennante.

Per opporre il «dinamico» Mann allo «sta­tico» Joyce, Lukács non trova di meglio che contrastare i celebri monologhi interiori dell’Ulysses con quello del risveglio di Goethe in Lotte a Weimar: in Joyce, il monologo inte­riore sarebbe fine a se stesso e rivelerebbe «una dinamica permanente ma senza mèta», ossia una concezione dell’uomo come essere informe; in Mann, per contro, il libero gioco delle asso­ciazioni è veramente solo pura tecnica, che vie­ne utilizzata per scoprire e mettere in luce qualcosa che va molto al di là dell’immedia­tezza di quello» e «rappresenta i trapassi di­namici».

A parte ogni giudizio sul valore rispettivo delle due opere, qui Lukács dimentica semplicemente che Lotte a Weimar è di una ventina d’anni posteriore a Ulysses. Il che rende poco mirabile il fatto che l’invenzione di Joyce sia usata da Mann come «pura tecnica». E se non ci fosse questo, rimarrebbe pur sempre che Leopold Bloom è un personaggio plasmato dalla fantasia di Joyce mentre il Goethe di Mann si appoggia alla struttura del Goethe storico, le cui componenti intellettuali e morali l’artista poteva interpretare, ma non aveva da crearle, e nelle quali non è davvero meraviglia che si ritrovassero, già date, una gerarchia di valori e una «storia». Dire che il Bloom di Joyce è avulso dalla storia mentre il Goethe di Mann rivela «le tendenze più profonde di sviluppo della sua personalità… in vista del passato, del presente e dell’avvenire» è una scoperta da rinviare per competenza ai medici di Molière. Se invece di Goethe, Lukács avesse preso ad esempio, fra i personaggi di Mann, Tonio Krö­ger, vi avrebbe trovato non poca staticità, non poco egocentrismo, e anche non poca indiffe­renza ai «trapassi dinamici».

Naturalmente, il problema di quella che Ortega y Gasset chiamò la «disumanizzazione dell’arte» esiste, ed è serio; è anche vero che l’arte di Joyce ne è un esempio eminente. Ma il problema è intellettuale: di accordo col mon­do nella verità. Non si riduce certo al contra­sto fra Joyce e Mann, e nemmeno a quello fra «realismo» e «avanguardia». Anzi, messo in questi termini, esso scompare, perché è molto (troppo) facile scoprire in questi due scrittori il fondo «decadente» che, se non li accomuna, certo non permette di opporli l’uno all’altro con tanta assolutezza; ed è egualmente facile vede­re quel che c’è di rigorosamente «realistico» nell’avanguardia (?) di un Kafka o di un Musil e, per converso, di «avanguardistico» in un Moravia, scrittore il cui mondo è molto dub­bio che sia «dinamico» ed esprima una gerar­chia di valori. Molto facile è, ad esempio, a proposito della frase di Kafka a Max Brod: «Oh, molla speranza, infinita speranza – ma non per noi», citata da Lukács come prova della disperazione «statica» dell’autore del Processo, ritorcere che, anzi, essa è squisita­mente realistica e «concreta». L’artista moder­no è assai più filosofo, e assai più cosciente dei limiti «storici» della sua condizione, che non voglia concedergli il professor Lukács.

Ancora più facile sarebbe mostrare (nel suo linguaggio) quanto di «decadente», di «avanguardistico», di «astorico» si riveli dal modo di argomentare del professor Lukács medesimo. Se Joyce appiattisce la coscienza dell’indi­viduo e ne fa un continuum amorfo, non meno amorfo (quanto ai valori della cultura) è il risultato degli «amalgami» di scrittori, epo­che e tendenze diversissime di cui si compiace il celebre marxista. Mettere nello stesso sacco dell’elemento «storico-sociale» Achille e Wer­ther, Edipo e Tom Jones, Antigone e Anna Karenina, Don Chisciotte e Vautrin, come perso­naggi «realistici», significa obliterare tutto quello che hanno di specifico, e specificamente umano, queste creazioni culturali: non tener al­cun conto di quel che ciascuno di essi signifi­ca, onde farli servire da materiale cementizio a sostegno di una tesi astratta e astorica. Per scrivere una frase come: «Dall’Achille di Ome­ro all’Adrian Leverkühn del Doktor Faustus di Mann, fino a Grigorij Melvekon del Placido Don di Sciolokhov, il gioco vivente delle con­traddizioni di volta in volta centrali è il prin­cipio in ultima istanza determinante dell’essenza…» eccetera, non ci vuole soltanto un’insigne pedanteria: bisogna anche essere infetti da quella particolare specie di «avanguardismo» che non teme gli accostamenti cervellotici e le formule arbitrarie. E che dire della speciosis­sima sforzatura per cui Lukács pretende di da­re come esempio della preferenza borghese (e avanguardistica) per la «pura possibilità» con­tro la «possibilità concreta» un passo in cui Faulkner descrive individui che, nel calore dì una disputa, «facevano di un’irrealtà una pos­sibilità, poi una probabilità, poi un fatto irre­futabile, come fanno appunto gli uomini quan­do lasciano che i loro desideri diventino pa­role»?

In sostanza, per quanto cerchi di evitare quel che v’è di più grossolano nella formula del realismo socialista, l’argomento di Lukács si ridu­ce pur sempre a predicare all’artista l’obbligo «morale» di adottare l’estetica «realista» e di mantenersi nella tradizione, ossia di esprimere sentimenti «positivi» e di reprimere i senti­menti «negativi»: l’obbligo, insomma, di esse­re insincero, giacche altrimenti la predica non avrebbe senso. Ma a noi la verità, comunque detta, importa più del realismo.

L’uso che, da buon marxista, Lukács ha fatto in passato e continua a fare in quest’articolo dell’argomento ad hominem, ci suggerisce di terminare queste note con un’immagine ad hominem: l’immagine di Georg Lukács, tornato a Budapest per grazia speciale, e lì occupato a considerare il pericolo grave d’informità e d’indifferentismo morale che si nasconde nell’arte d’avanguardia. Ebbene, se si dovesse immaginare il «flusso di coscienza» del professor Lukács a Budapest mentre scriveva il suo saggio, si dovrebbe necessariamente immaginare una coscienza nella quale Thomas Mann e Kadar, le sottigliezze su Kafka e le ombre di centinaia di impiccati, il ricordo di un momento di rivolta e l’acquiescenza muta di oggi, le preoccupazioni accademiche e l’immagine dei colleghi imprigionati, si susseguono in una giustapposizione statica «senza mèta né direzione». Qualcosa di molto simile al monologo di Leopold Bloom. Ma molto meno animato ed animoso.

Grand Hotel «Abisso»

di György Lukács

[Grand Hotel „Abgrund”Világosság, no.8/9, 1977, p.572-79; trad. it. in La responsabilità sociale del filosofo, a c. di V. Franco, Pacini Fazzi, Lucca 1989]

Si ringrazia Toni Infranca per aver messo a disposizione questo testo.


Hans de Bruijn - Hotel Abgrund

Hans de Bruijn – Hotel Abgrund


Infine, nei periodi in cui la lotta di classe si avvicina al momento decisivo, il processo di dissolvimento in seno alla classe dominante, in seno a tutta la vecchia società, assume un carattere così violento, così aspro, che una piccola parte della classe dominante si stacca da essa per unirsi alla classe rivoluzionaria, a quella classe che ha l’avvenire nelle sue mani. Perciò, come già un tempo una parte della nobiltà passò alla borghesia, così ora una parte della borghesia passa al proletariato, e segnatamente una parte degli ideologi borghesi che sono giunti a comprendere teoricamente il movimento storico nel suo insieme.

K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito Comunista.

Hell wogt der saal vom spiel der seidnen suppen.
Doch eine berg ihr fieber unterm mehlle
Und sah umwirbelt von den tollen gruppen
Dass nicht mehr viel am aschermittwoch fehle.

Sie schleicht hinaus zum öden park, zum flachen
Gestade. winkt noch kurz dem mummenschanze
Und beugt sich frostelns übers eis. ein krachen
Dann stumme kälte, fern der ruf zum tanze.

Keins von der artigen rittern oder damen
Ward sie gewahr bedeckt mit tang und kieseln.
Doch als im frühling sie zum garten kamen
Erhob sich oft vom teich ein dumpfes rieseln.

Die leichte schar aus scherzendem jahrundert
Vernahm wohl dass es drunten seltsam raune.
Nur hat sie sich nicht sehr darob gewundert
Sie hielt es einfach für der wellen laune.

S. George, Die Maske1

L’accostamento di queste due citazioni sorprenderà sicuramente la maggior parte dei lettori. In effetti, esse possono andare insieme solo in quanto sono entrambe espressione chiara e pregnante dei due poli del movimento di dissoluzione ideologica di una classe dominante in un periodo di crisi rivoluzionaria. L’intellighenzia, cioè quello strato della società che a causa della divisione sociale del lavoro fa della produzione e della propaganda ideologica un’occupazione di vita, il fondamento materiale e spirituale della propria esistenza, reagisce con straordinaria prontezza e sensibilità a tutte le svolte che si compiono nella realtà materiale della società. Ma proprio perché fa della produzione della ideologia la sua massima occupazione, all’interno della società di classe essa reagisce sempre con una falsa coscienza; e tanto più è falsa quanto più è sviluppata la divisione sociale del lavoro, quanto più è avanzata la dissoluzione materiale della classe dominante. La divisione sociale del lavoro comporta necessariamente che gli ideologi si ricolleghino sempre alle ideologie immediatamente precedenti o contemporanee, che la loro critica del presente si compia nella forma di una critica delle ideologie presenti e passate. E nella maggior parte dei casi non è una faccenda semplicemente formale. Il produttore borghese di ideologie, proprio in ragione delle necessità materiali della sua situazione sociale, è vissuto nell’illusione che le trasformazioni sociali siano nella loro essenza trasformazioni ideologiche e che, in ultima analisi, vengano da queste provocate. Da questa illusione deriva anche la sua credenza del ruolo guida, a livello sociale, dello strato a cui appartiene. Dalla contraddizione tra questa illusione e la situazione materiale del suo sorgere e della sua esistenza deriva una delle cause più importanti delle oscillazioni di questa intellighenzia. Reagendo ai rapidi alti e bassi dello sviluppo economico, della lotta tra le classi decisive della società – la borghesia e il proletariato – con straordinaria rapidità e violenza, e tuttavia con più o meno falsa coscienza, essa da un lato rispecchia l’oscillazione della piccola borghesia tra rivoluzione e controrivoluzione e le dà una forma ideologica, dall’altro però, nella sua produzione ideologica esprime – almeno in parte – la propria situazione specifica nella lotta di classe. La sua reazione immediata ai nuovi mutamenti, alle nuove tendenze, che la fa sempre andare avanti rispetto alla media della sua classe, le dà l’illusione di aver prodotto essa stessa tali tendenze. E come se si considerasse il termometro causa del freddo e del caldo o il barometro causa del buono e del cattivo tempo.

Questa situazione generale dei produttori di ideologia si inasprisce fortemente nel periodo di decadenza della loro classe. Sul piano economico, la decadenza è dovuta al fatto che i rapporti di produzione, e quindi anche l’intera sovrastruttura, sono divenuti le catene delle forze produttive che su di essi si erano sviluppate, al fatto che l’economia della classe sinora dominante è stata battuta da quella della classe che rappresenta il futuro. Sul piano ideologico, e specialmente nei produttori di ideologia, questa situazione si rispecchia nel fatto che essi sono costretti a riflettere profondamente sull’ideologia della classe rivoluzionaria, ad assumere elementi di quest’ultima nella propria e quindi a ricostruirla come se fossero loro a realizzare l’aspirazione progressiva della società. Quanto più è avanzato il processo di decadimento di una classe, tanto meno essa è disposta a sostenere e spesso a difendere la propria ideologia originaria, un tempo rivoluzionaria. La classe non crede più nel carattere progressivo dei suoi fondamenti economici e perciò crollano anche le sue precedenti categorie ideologiche fondamentali. E ovvio che essa continui a difendere fino all’ultimo sangue la sua vecchia economia, il suo antico metodo di sfruttamento. Ma la difesa più brutale e cinica dello sfruttamento può compiersi solo nella forma demagogica dell’occultamento, del mascheramento delle sue forme mediante qualcosa di completamente opposto. I produttori di ideologia, che rispecchiano sul piano ideologico questo processo spontaneo, dal punto di vista soggettivo spesso in maniera del tutto onesta, rendono anche – spesso involontariamente – i più grandi servizi al mantenimento di forme sclerotizzate di sfruttamento e di dominio. Mutuando gli elementi della critica della società dall’ideologia della classe rivoluzionaria, diventano da un lato strumento della demagogia della classe dominante e dall’altro ricadono anch’essi nell’illusione generale, tipica della piccola borghesia, di stare non in mezzo alle classi decisive, bensì al di sopra di tutte le classi sociali.

Questo processo di decadenza produce necessariamente un’ideologia pessimistica, disperante. La disperazione è, infatti, in questi ideologi particolarmente forte e si sviluppa talvolta addirittura prima che ne emergano in tutta la loro chiarezza e ampiezza le cause economiche. Essa spinge la parte più onesta di loro a tentare di staccarsi dall’ideologia della classe di origine. E però il loro essere sociale rende questo processo di separazione assai complicato, ineguale e contraddittorio. Il partire dall’ideologia, l’arrestarsi ai problemi ideologici, rende straordinariamente difficile proprio per degli ideologi una cosa in sé molto semplice: la chiara individuazione del punto essenziale della lotta di classe, della divisione fra le classi, della rivoluzione e della controrivoluzione: la questione dello sfruttamento. E fin quando non si sarà trovato questo punto archimedico, essi sono per forza soggetti a una continua oscillazione. Se per ideologi quali Bernard Shaw e Upton Sinclair, che avevano sempre fatto professione di fede socialista e che per un certo tempo si erano anche mossi decisamente nell’ambito del pensiero socialista, fu possibile essere impressionati il primo dal «socialismo» di Mussolini e di Hitler, il secondo da quello di Roosvelt, diventa chiaro come l’oscillazione, lo zig-zag tra rivoluzione e controrivoluzione, dovesse essere molto più impetuosa e ampia in ideologici meno coscienti, in quelli che si sono occupati ancora meno dei problemi economici del presente e che più si sono arrestati alla mera ideologia. E quanto più profonda diventa la crisi del sistema capitalistico, quanto più fortemente emerge la barbarie delle forme fasciste di mantenimento dello sfruttamento capitalistico, tanto maggiore deve divenire la disperazione di quegli ideologi che non vogliono prestarsi a diventare sicofanti di un sistema fascista e che però non riescono a decidersi a compiere il salto vitale2 dalla parte della classe rivoluzionaria.

Salto vitale e disperazione totale sono evidentemente poli estremi che, proprio per questo, si verificano relativamente di rado nella realtà. Tra di essi vi è il movimento degli intellettuali nelle forme più diverse della disgregazione, dell’autocritica, del restare saldamente aggrappati alle svuotate ideologie del passato della loro classe (la democrazia borghese), dell’autostordimento e dell’autoinganno mediante immagini mitiche, ecc. L’approfondirsi della crisi generale del capitalismo, la crescente energia della lotta di classe proletaria e quindi la maggiore diffusione dell’ideologia rivoluzionaria mediante soprattutto l’esempio luminoso dell’emergente società senza classi in Unione sovietica, agiscono con forza crescente all’interno di questo sviluppo ineguale nella direzione di avvicinare gli elementi migliori dell’intellighenzia alla lotta di classe rivoluzionaria del proletariato, di farne un suo alleato. Significherebbe tuttavia disconoscere la situazione sociale oggettiva degli ideologi pensare che questo processo di disgregazione dell’ideologia borghese avvicini spontaneamente, «da sé», automaticamente, l’intellighenzia al proletariato in lotta. No, questo sviluppo è molto ineguale, vi sono molte svolte e molte stazioni intermedie sulla strada che va dal distacco della borghesia al proletariato. E queste stazioni intermedie sono disposte in maniera tale da trattenere una parte dell’intellighenzia – in stato di disperazione cronica, sull’orlo dell’abisso –, da indurla ad arrestarsi; in maniera tale, cioè, che una parte di essa – nello stato di disperazione cronica, sull’orlo dell’abisso – si stabilisce qui e non vuole più procedere oltre.

Per meglio dire: ha il gesto di chi prosegue in maniera radicale, la presunzione – spesso sincera – di procedere in maniera radicale. Ma nei fatti gira continuamente su se stessa, nello stato di disperazione cronica sull’orlo dell’abisso.

Posizione e allestimento dell’Hotel

Si tratta qui della letteratura degli ideologi per gli ideologi. Quindi di una letteratura la cui influenza sulle masse è a-priori piuttosto improbabile e che si rivolge direttamente all’élite dell’intellighenzia. Questo suo carattere specifico non deve però indurci a minimizzare aprioristicamente la sua efficacia. E innanzitutto perché in certi casi è possibile che questi libri abbiano un effetto di massa. (Si pensi solo alla Montagna incantata di Thomas Mann, la cui tiratura in Germania ha superato il milione). In secondo luogo, essi possono avere un’influenza indiretta relativamente vasta e le idee che vi sono espresse, mediante la volgarizzazione su giornali, riviste, ecc., possono essere adattate e rese accessibili alla grande massa della piccola borghesia. Questa letteratura per l’élite intellettuale borghese è dunque parte di quei dispositivi di sicurezza ideologici che, si potrebbe dire, funzionano automaticamente e che la società borghese produce ininterrottamente. È evidente che la parte del leone dell’autodifesa ideologica della borghesia viene da essa prodotta coscientemente: la diffamazione del proletariato rivoluzionario e della sua teoria, il materialismo dialettico, le varie forme dell’apologetica dell’economia e dell’ideologia capitalistiche, la falsificazione delle conseguenze ideologiche delle scienze naturali in religione e dell’intera storia in leggende storiche reazionarie, ecc. vengono compiute da manovali ideologici più o meno ben pagati, a servizio della borghesia. È comunque chiaro che questi dispositivi di sicurezza, specialmente in periodi di crisi, non sono sufficienti ad impedire alla piccola borghesia e all’intellighenzia di staccarsi dal capitalismo. Si rendono perciò necessari metodi più raffinati, più mediati e complicati che la società capitalistica produce spontaneamente in virtù della sua divisione sociale del lavoro e che la borghesia sfrutta più o meno abilmente per il proprio scopo. In questo sfruttamento un appoggio diretto ed esplicito da parte della borghesia non è affatto necessario, anzi è talvolta persino dannoso. Non si tratta perciò di fare degli intellettuali dei seguaci troppo entusiasti dell’ordine sociale borghese, dei fanatici ammiratori della cultura attuale. Al contrario. Questa letteratura corrisponde in tutto agli scopi della borghesia quando, per suo tramite, a uno strato dell’intellighenzia, che in seguito agli effetti della crisi economica e culturale è divenuto un nemico e un denigratore della società attuale, viene impedito di tirare tutte le conseguenze pratiche di questa posizione. Questa parte degli intellettuali può dunque tranquillamente occupare un posto nell’opposizione radicale alla società e alla cultura.

Quando questa opposizione non è diretta al superamento dello sfruttamento, quando tutta la sua linea ideologica mira ad «approfondire» la critica e l’analisi della crisi culturale in maniera tale che in questa «profondità» scompaia completamente un fenomeno così «superficiale» come lo sfruttamento economico, allora una tale opposizione può essere molto ben accetta alla borghesia. E in certi casi lo è tanto più, perché maggiormente efficace, quanto più è radicale la linea che persegue.

Questa situazione non muta per il fatto che tali oppositori devono talvolta sopportare delle persecuzioni. È ben noto dalle grandi lotte di classe, quale importante ruolo svolgano nella conservazione del sistema capitalistico le manovre diversive delle opposizioni apparenti. Si pensi solo alla socialdemocrazia. Hitler o Dollfuss possono anche sciogliere l’organizzazione socialdemocratica e rinchiudere i suoi funzionari nei campi di concentramento, la socialdemocrazia resta pur sempre, in Germania o in Austria, il principale sostegno sociale della borghesia, proprio perché, col suo atteggiamento di opposizione solo apparente, ha frenato le masse lavoratrici nella loro lotta di classe realmente rivoluzionaria contro il sistema fascista; da qui la particolare pericolosità della «sinistra» socialdemocratica e delle sue frasi «rivoluzionarie». Ciò non significa che la letteratura che qui stiamo caratterizzando debba essere usata come parallelo meccanico della socialdemocrazia. I suoi esponenti migliori – solo con questi vale la pena di confrontarsi – sono critici e detrattori sinceramente convinti della cultura attuale e non corrotti impostori come i capi socialfascisti. Non si deve tuttavia dimenticare che nell’epoca imperialistica i confini tra l’opposizione ideologica più onesta sul terreno della borghesia e la corruzione diretta o indiretta ad opera del capitalismo sono talvolta molto fluidi e si presentano sotto varie forme intermedie difficilmente definibili. L’emergenza di un largo strato di intellettuali parassitari, la penetrazione del capitalismo in tutti i campi dell’industria dei mezzi di consumo e quindi, contemporaneamente, in tutti i campi della produzione materiale della cultura ha trasformato radicalmente la situazione materiale dei movimenti di opposizione borghesi. Mentre, nei periodi precedenti, gli ideologi di opposizione dovevano superare un lungo periodo di gavetta prima di riuscire a imporsi oppure a capitolare di fronte agli orientamenti dominanti o ad arrivare con questi a un compromesso, nell’epoca imperialistica molte correnti di opposizione vengono invece fin dall’inizio finanziate dal capitalismo, ricevono un anticipo materiale sulla loro validità futura, e talvolta può persino essere vantaggioso per un imprenditore capitalista finanziare le correnti di opposizione in letteratura o nell’arte, anche quando è molto probabile che la loro efficacia non vada al di là di una ristretta cerchia di intellettuali. Non si tratta del fatto che con ciò per le correnti di opposizione, in specie nell’ambito della letteratura e dell’arte, viene creato uno spazio di partecipazione più ampio e apparentemente più libero che nei periodi precedenti. Non vi è tuttavia dubbio che, proprio per questo, la libertà diviene più apparente che mai. Il che non va inteso, almeno in moltissimi casi, nel senso della corruzione diretta. La corruzione più raffinata e non intenzionale, la riduzione delle opposizioni ideologiche a parte costitutiva dell’intero sistema parassitario, nasce proprio da questa illusione di disporre di uno spazio più ampio di attività libera, dall’illusione, materialmente e moralmente certa, di poter esercitare una critica radicale e appassionata della situazione esistente. La corruzione raffinata e non intenzionale consiste proprio in questo, che la tendenza naturale dell’intellighenzia, dei produttori di ideologia, a limitare «aristocraticamente» la loro critica del presente all’ambito della mera ideologia riceve un sostegno invisibile, ma all’occorrenza assai brutale e tangibile. Il limite che in quest’ambito è invisibile e che separa il lecito dall’illecito, ciò che è sopportabile per la borghesia da ciò che non lo è, l’opposizione – oggettivamente – apparente dai veri rivoluzionari, diventa in questo modo il limite della tolleranza materiale da parte della borghesia, un problema di esistenza materiale di questo strato di intellettuali. E l’esperienza nel campo delle misure di repressione ideologica dei movimenti di opposizione dimostra che tali meccanismi materialmente consolidati di autocensura sono talvolta più raffinati e affidabili di una repressione diretta e brutale dell’espressione delle opinioni. Specialmente quando, all’interno di questi limiti invisibili, sono consentiti senza nessuna rappresaglia il radicalismo più rumoroso, la critica più ingrata della situazione esistente, il convincimento rivoluzionario più appassionato. Questo limite invisibile si allarga o si restringe a seconda del livello della lotta di classe. Ma è certo anche che questo movimento non procede meccanicamente in una direzione rettilinea. Nello sviluppo della borghesia vi sono periodi in cui la sua esistenza viene messa in pericolo, perciò il suo punto di vista è: «chi non è contro di me è con me», altri, come l’attuale fascismo in Germania, in cui questa parola d’ordine suona al contrario: «chi non è con me è contro di me». Tra questi due estremi, vi sono ovviamente numerosissimi e molteplici passaggi. E naturalmente è anche possibile, nonostante le rappresaglie, installare queste stazioni ideologiche di passaggio, queste organizzazioni di intercettazione. E oggi è anche possibile arredarle comodamente sia materialmente che spiritualmente. L’elemento decisivo e comune a questi stadi intermedi è proprio il limite invisibile che abbiamo sottolineato, e che in nessun caso può essere valicato, entro cui è tuttavia concesso il radicalismo più rumoroso e audace.

È questa la situazione sociale del Grand Hotel «Abisso». I problemi del capitalismo in dissoluzione diventano sempre più chiaramente insolubili. Strati sempre più vasti della parte migliore dell’intellighenzia non possono più nascondere a se stessi quest’incubo dell’insolubilità di quei problemi la cui soluzione è il loro specifico motivo di vita e le risposte ai quali costituiscono il fondamento materiale e spirituale della loro esistenza. Proprio la parte migliore e più seria di loro è giunta sino all’abisso della visione dell’insolubilità di questi problemi. All’abisso da cui scorge una doppia prospettiva: da una parte, l’irrimediabile vicolo cieco intellettuale, l’autosuperamento della propria esistenza intellettuale, la caduta nell’abisso della disperazione; dall’altra, il salto vitale nel campo del proletariato rivoluzionario, verso un futuro luminoso. Per gli ideologi questa scelta è in ogni caso straordinariamente difficile. Eppure, proprio loro, più di ogni altro strato sociale, dovrebbero trasformarsi spiritualmente in misura sempre maggiore, per essere in grado di compiere questo salto. Dovrebbero liberarsi di quell’illusione che è stata il prodotto necessario della loro situazione di classe e la base di tutta la loro Weltanschauung ed esistenza spirituale: l’illusione della priorità dell’ideologia rispetto all’elemento materiale, all’economico; dovrebbero abbandonare l’«aristocratica» altezza del modo in cui sinora hanno posto e risolto i problemi e imparare a vedere come il modo «brutale», «ordinario», «grossolano» di porre i problemi economici nella vita quotidiana costituisca l’unico punto fermo a partire dal quale i problemi finora considerati insolubili possono trovare una soluzione.

Il Grand Hotel «Abisso» è stato – involontariamente – creato per facilitare questo salto. Abbiamo già parlato dei comforts, certamente relativi, che può offrire ai suoi oppositori ideologici la borghesia parassitaria dell’epoca imperialistica. Ma il carattere relativo di questi comforts materiali, la loro modestia e incertezza rispetto a quelli che essa offre ai suoi manovali ideologici diretti sono elementi di comfort spirituale. Essi rafforzano l’illusione di indipendenza dalla borghesia e soprattutto di essere al di sopra delle classi, l’illusione del proprio eroismo, della propria abnegazione, di aver già rotto con la borghesia e la sua cultura, mentre si è ancora con tutti e due i piedi sul suo terreno! Il comfort spirituale dell’Hotel si concentra allora sulla stabilizzazione di questa illusione. In esso si vive nella più dissoluta libertà spirituale: tutto è permesso, niente si sottrae alla critica. Per ogni tipo di critica radicale – sempre all’interno dei limiti invisibili – viene creato uno spazio specifico. Se uno vuole fondare una setta per la soluzione ideologica brevettata di tutti i problemi culturali, gli sono messi a disposizione i relativi spazi per le riunioni. Se c’è un tipo «solitario» che, incompreso da tutti, cerca da solo la sua strada, riceve la sua stanza riservata ben arredata, in cui può vivere circondato da tutta la cultura del presente, sia egli «nel deserto» o nella «cella di un convento». Il Grand Hotel «Abisso» è accuratamente arredato per tutti i gusti e per tutte le tendenze. È lecita ogni forma di ubriacatura intellettuale, ma nel contempo anche ogni forma di ascetismo e di autoflagellazione, e non solo ciò è permesso, ma vi sono bar splendidamente attrezzati per i primi e attrezzature da ginnastica di eccellente produzione e camere di tortura per il bisogno dei secondi. Ci si preoccupa non solo della solitudine, ma anche della socievolezza di ogni tipo. Ognuno può essere testimone non visto dell’attività di tutti gli altri, ognuno può avere la soddisfazione di essere l’unica persona ragionevole, in una torre di Babele della follia generale. La danza macabra delle ideologie che si svolge in questo Hotel tutti i giorni e tutte le sere diventa, per i suoi abitanti, una piacevole ed eccitante jazz band, in cui trovano ristoro dopo una giornata faticosa. È un miracolo se molti intellettuali alla fine di una strada faticosa e disperata, per venire a capo dei problemi della società borghese, dal punto di vista borghese irrisolvibili, giunti sull’orlo di questo abisso, si stabiliscono in questo Hotel piuttosto che spogliarsi delle vesti splendenti e osare il salto vitale al di là dell’abisso? È un miracolo se questo Hotel, così splendidamente arredato per le cime più elevate dell’intellighenzia, trova i suoi imitatori meno brillanti e più provinciali specialmente nell’intellighenzia e nella borghesia? Nell’attuale società borghese vi sono una serie di passaggi, che vanno dalla jazz band finemente orchestrata della danza macabra delle ideologie fino alle orchestre e ai grammofoni dei veri bar, dove – completamente ignorati dai piccoli borghesi attuali – si suona e si beve alla danza macabra delle ideologie borghesi.

Il Grand Hotel «Abisso» non chiede ai suoi ospiti nessuna legittimazione, se non quella dei livelli spirituali. Ma proprio in questa libertà totale agisce al massimo il limite invisibile. Per l’intellighenzia borghese, il livello spirituale consiste proprio nel considerare i problemi ideologici in maniera puramente ideologica, nel restare avvinti nel circolo incantato dell’ideologia. Queste stazioni intermedie sulla strada dal passato al futuro per l’intellighenzia ci sono sempre state, sin da quando il proletariato è entrato nella lotta di classe come forza autonoma e la questione del superamento dello sfruttamento è diventata la parola d’ordine di battaglia della lotta delle «due nazioni». Marx ha riconosciuto chiaramente questa ideologia al suo nascere e l’ha aspramente criticata nei giovani hegeliani radicali. E la sua critica costituisce la base di qualsiasi altra critica di queste stazioni intermedie e del loro significato politico sociale. Scrive Marx: «Poiché questi giovani hegeliani considerano le rappresentazioni, i pensieri, i concetti, e in genere i prodotti della coscienza da loro fatta autonoma, come le vere catene degli uomini (…), s’intende facilmente che i giovani hegeliani devono combattere soltanto contro queste illusioni della coscienza. Poiché secondo la loro fantasia le relazioni fra gli uomini, ogni loro fare e agire, i loro vincoli e i loro impedimenti sono prodotti della loro coscienza, i giovani hegeliani coerentemente chiedono agli uomini, come postulato morale, di sostituire alla loro coscienza attuale la coscienza umana, critica o egoistica, e di sbarazzarsi così dei loro impedimenti. Questa richiesta, di modificare la coscienza, conduce all’altra richiesta, d’interpretare diversamente ciò che esiste, ossia di riconoscerlo mediante una diversa interpretazione (il corsivo è mio, G.L.). Nonostante le loro frasi che, secondo loro, «scuotono il mondo» gli ideologi giovani-hegeliani sono i più grandi conservatori. I più giovani tra loro hanno trovato l’espressione giusta per la loro attività, affermando di combattere soltanto contro delle frasi. Dimenticano soltanto che a queste frasi essi stessi non oppongono altro che frasi, e che non combattono il mondo realmente esistente quando combattono soltanto le frasi di questo mondo (…). A nessuno di questi filosofi è venuto in mente di ricercare il nesso esistente tra la filosofia tedesca e la realtà tedesca, il nesso tra la loro critica e il loro proprio ambiente materiale»3.

Questo singolare riconoscimento dell’esistente mediante una critica della coscienza e un salto radicale al rivoluzionamento della coscienza ha assunto già nei giovani radicali, in Bruno Bauer e Stirner, la forma di voler superare la teoria del proletariato rivoluzionario quanto a radicalità nella riflessione su tutti i problemi. Con l’inasprirsi della lotta di classe, questa tendenza si manifesta in forme sempre nuove. La discrepanza della situazione sociale della piccola borghesia comporta necessariamente che quelle ideologie che l’allontanano dal proletariato rivoluzionario si muovano verso l’estremo opposto. Mentre il piccolo bottegaio di fronte alla perdita della sua bottega trema e di fronte al socialismo si spaventa perché con esso vengono socializzate anche le donne, il piccolo borghese, divenuto furente, deve essere ideologicamente guidato «al di là del socialismo». Gli si deve dimostrare quanto sia inconseguente, dogmatico e meschino il socialismo del movimento operaio, come uno «spirito libero» debba cercare e trovare qualcosa di molto più radicale, se vuole che i problemi siano risolti «realmente» e non in maniera compromissoria come nel socialismo. È questo il motivo per cui il radicalismo è straordinariamente adatto alla critica ideologica. Dunque, da un lato non vi è qui alcun limite alla progettazione utopica; dall’altro, il rovesciamento così progettato è incomparabilmente «più profondo» della rivoluzione proletaria, giacché non vengono rivoluzionati solo i fenomeni economici «superficiali» della vita (o meglio, questi non lo sono), ma anche l’uomo, l’anima, lo spirito, la concezione del mondo. E siccome il rivoluzionamento economico «superficiale» viene considerato indifferente, può partecipare a questo «rivoluzionarismo radicale» qualsiasi parassita redditiero, senza dover temere che la rivoluzione, «la giusta rivoluzione», metta in pericolo il godimento della sua rendita.

Questo «andare al fondo delle cose in maniera radicale» si esprime ideologicamente nella trasformazione della dialettica oggettiva in sofistica soggettiva, in un relativismo radicale. Dice Lenin: «La differenza tra il soggettivismo (scetticismo, sofistica, ecc.) e la dialettica consiste nel fatto che nella dialettica (oggettiva) anche la differenza tra relativo e assoluto è relativa. Per la dialettica oggettiva anche nel relativo è contenuto l’assoluto. Per il soggettivismo e la sofistica, il relativo è solo relativo ed esclude l’assoluto»4. L’esclusione radicale di qualsiasi assoluto dal pensiero non è solo un grandioso gesto rivoluzionario, che agli occhi degli abitanti dell’Hotel e dei loro ammiratori si lascia molto indietro la teoria «dogmatica» del proletariato come qualcosa di piccolo borghese. Essa crea anche quell’atmosfera dello stare eternamente in sospeso, di timidezza di fronte a qualsiasi decisione derivante dall’«onestà intellettuale», dalla scrupolosità scientifica, dalla profondità etica, che rende così piacevole la vita nell’Hotel «Abisso», perché si è riusciti felicemente a stravolgere la propria incapacità di scegliere tra le classi in lotta in superiorità rispetto alle piccole lotte di ogni giorno. E il fatto che con ciò si sia compiuta una scelta – quanto più inconsapevole tanto meglio – e che la scelta sia caduta sul partito degli oppressori e degli sfruttatori, giustifica proprio il valore che questo Hotel e i suoi abitanti hanno per la borghesia in determinati periodi.

Ma, nonostante tutto, il valore di questo relativismo per la conservazione dell’ordine borghese e della sua ideologia non si è ancora esaurito. Lo stare in sospeso della scepsi radicale può essere mantenuto in maniera conseguente solo in periodi molto particolari e solo eccezionalmente. L’assoluto cacciato dalla porta rientra dalla finestra. Si tratta però di un altro assoluto. Si allontana dal pensiero l’assoluto della realtà oggettiva e ciò che si introduce di soppiatto è il finto assoluto del mito religioso. Se è scientificamente indimostrabile se è la terra a girare intorno al sole o il sole intorno alla terra, stanno per il momento allo stesso livello di indimostrabili «ipotesi di lavoro» la storia della creazione di Mosè e la teoria di Kant e Laplace. Si può tuttavia affermare subito che, delle due ipotesi, quella mosaica è superiore quanto ai valori umani, morali, metafisici. Ed è in particolare chiaro che le «esperienze» religiose dei profeti o dei santi sono «fatti» esattamente come quelle dei fisici o dei chimici durante i loro esperimenti. Poiché in entrambi i casi viene «posto fra parentesi», in maniera scettica e relativistica, il contenuto di verità, il riferimento alla realtà oggettiva, è possibile indagare in maniera imparziale queste esperienze religiose e il loro contenuto «umano generale» o eticamente esemplare, senza fondarlo ulteriormente in una concezione relativistica (William James, Scheler, ecc.). Nasce così a poco a poco, in maniera «scrupolosamente scientifica», una nuova religione per i dotti. Per coloro che sono già divenuti inaccessibili per il pesante e costante stordimento religioso della chiesa. È perciò lo stesso se viene creata una nuova religione settaria oppure si predica una forma di ateismo religioso, poiché in entrambi i casi questa nuova religiosità ha la stessa funzione sociale della vecchia, si rivolge solo a quegli strati che non possono più essere da loro conquistati. «Un prete cattolico che violenti fanciulle (…) è molto meno pericoloso per la democrazia di uno senza abiti sacri, di uno senza religione grossolana, un prete ideale e democratico che predica la creazione di un nuovo Dio. Poiché smascherare il primo prete è facile, non è difficile condannarlo e scacciarlo, ma il secondo non si lascia scacciare così semplicemente, è mille volte più difficile smascherarlo e nessun piccolo borghese fragile e incostante si dichiarerà disposto a condannarlo»5.

Questo slittamento del relativismo scettico nella mistica reazionaria acquista sempre più significato col progredire del processo di decadenza della borghesia. Tale processo ha il suo riflesso ideologico nella crescente disgregazione dell’ideologia borghese del progresso. Nel periodo di ascesa della borghesia, l’idea di progresso fu criticata – talvolta in maniera molto spiritosa – solamente dagli ideologi delle classi feudali e semifeudali in declino e spodestate. L’intellighenzia che si è staccata dalla borghesia, posta tra questa e il proletariato, da un lato ha lottato contro la limitata uniformità e il limitato ottimismo di questa idea di progresso, dall’altro ha tentato di superare quest’ultima in radicalismo. (Che questo radicalismo non porta necessariamente all’idea materialistica di progresso, che, anzi, all’opposto, può trasformarsi in posizione reazionaria, lo dimostra l’esempio della critica di Marx a Bruno Bauer).

Nella crisi generale del capitalismo anche questo problema acquista tratti nuovi. Già col parassitismo imperialistico l’ideologia del progresso ha perso la sua forza attrattiva anche all’interno della borghesia. Fra gli intellettuali la generale incredulità riguardo al progresso è cresciuta in maniera incredibilmente rapida; e, nel contempo, è cresciuta, parallelamente, la tendenza sempre più accentuata a civettare con le ideologie reazionarie. La crisi generale del capitalismo fa emergere questo complesso di problemi dal ristretto circolo dell’intellighenzia e lo pone al centro dell’arena della lotta di classe. La piccola borghesia, minacciata e scossa nei suoi fondamenti materiali dalla crisi generale, passa in uno sconvolgente lasso di tempo a un anticapitalismo spontaneo e confuso. Nasce su questo terreno, spontaneamente, un’ideologia reazionaria nella forma e nel contenuto, che tuttavia ha come elemento specifico la possibilità di sbarazzarsi in ogni momento del suo contenuto reazionario e trasformarsi in rivoluzionaria. La tendenza a questo cambiamento viene accelerata, oggettivamente, dalla crisi generale, che diventa sempre più profonda, del sistema capitalistico; soggettivamente, dall’influsso crescente del partito comunista. La borghesia deve impiegare ogni mezzo per mantenere questo movimento su un terreno reazionario e impedire la chiarificazione della confusione spontanea. Non possiamo qui analizzare, nemmeno per cenni, l’intero sistema di questi sviamenti e inganni dal socialfascismo al fascismo aperto. Ma è chiaro che in questa situazione la compenetrazione di relativismo e misticismo all’interno dell’Hotel «Abisso» deve diventare sempre più forte e che lo scetticismo relativistico dell’élite intellettuale deve trasformarsi sempre più velocemente in una mitologia religiosa mascherata da radical-rivoluzionaria. E proprio all’interno di una tale crisi, che mina sempre più le vecchie autorità, e in cui le masse, anche quelle piccolo-borghesi, sono desiderose di un nuovo orientamento e di una guida per trovare una via d’uscita dalla loro situazione divenuta insopportabile, devono accrescersi il valore ed il significato che l’Hotel «Abisso» ha per la borghesia. Dunque, finché la lotta oscilla così spesso, finché la crisi del sistema diviene chiara alle masse, è per la borghesia una questione vitale tenere lontano dalla lotta aperta contro il sistema quello strato che essa non riesce a conquistare alla difesa dichiarata del suo sistema. Solo il fascismo appena giunto al potere si immagina di non usare più tali appoggi. Esso tenta con tutti i mezzi dell’ubriacatura demagogica della folla di indurre la suggestione dell’avvento di una nuova epoca, che non ha niente a che vedere con la vecchia «borghesia liberale». Finché i fascisti credono che questa suggestione regge, l’intellighenzia disgregata viene scacciata o repressa e il Grand Hotel «Abisso» demolito. Ma la necessità sociale della sua esistenza non scompare. Nell’emigrazione sono già sorte filiali e dependences del vecchio Hotel, sia pure arredate materialmente in maniera meno splendida. Ma non appena diverranno pubbliche la diminuzione e la dissoluzione della sua base sociale, anche il fascismo dominante sarà costretto a erigere un nuovo Hotel «Abisso» – sia pure con un’altra facciata e con una diversa disposizione interna – o almeno a non impedirne più la costruzione.

Il progredire della crisi economica e culturale, l’inasprimento della lotta di classe, il crescente influsso del partito comunista, la crescente forza attrattiva della costruzione socialista e della rivoluzione culturale nell’Unione sovietica devono perciò necessariamente agire sull’ideologia borghese sempre più in dissoluzione. Il miscuglio eclettico delle ideologie reazionarie dell’epoca imperialistica, che il fascismo dominante «sintetizza» in teoria e prassi della barbarie, non può in nessun modo soddisfare l’onesta intellighenzia svegliatasi solo a metà strada. Essa deve cercare un nuovo orientamento, si deve muovere tra borghesia e proletariato, e quanto più questo movimento diventa forte, tanto più grande deve divenire il bisogno di portarlo a un punto di arresto, di evitare che si avvicini al proletariato rivoluzionario. E, proprio in questo periodo di controrivoluzione fascista, il fatto che l’orizzonte spirituale sia limitato alla mera ideologia e la Weltanschauung sia coerentemente idealistica acquista un accresciuto significato di classe. La demagogia sociale del fascismo, il «socialismo tedesco» è perciò possibile solo sul fondamento ideologico di un’accentuata supremazia dell’ideologia rispetto alla base materiale. Uno smascheramento e una distruzione reali dell’ideologia fascista sono possibili solo sulla base del contrasto materialmente elaborato tra parole e fatti. Ma ogni ideologia che impedisce il risveglio delle masse per quest’unico punto di vista, che corrisponde ai loro interessi reali, va ad appoggiare – volente o nolente – la demagogia sociale, distoglie le masse da una sua reale comprensione. Poiché il relativismo sofista del periodo imperialistico è sorto sul terreno di tutte quelle tendenze ideologiche (agnosticismo, irrazionalismo, «filosofia della vita», mito, sostituto più moderno della religione, ecc.) che il fascismo ha riunito ecletticamente in una sua filosofia della barbarie; poiché questo relativismo sofista ha resistito proprio contro queste tendenze, in tutti i suoi gesti ipercritici e iperradicali, nella confusione ideologica più totale, allora esso non può condurre una reale lotta ideologica contro il fascismo. Su questo terreno ideologico, il Grand Hotel «Abisso» deve necessariamente risorgere sempre di nuovo, spontaneamente, non importa se nell’emigrazione o nell’illegalità della Germania di Hitler, oppure magari tollerata in forme nuove dal fascismo. Diventa sempre più forte la necessità di una rottura radicale con questo allestimento ideologico della vita interiore, la necessità di distruggere questo allestimento e di compiere il salto vitale della salvazione. Essa è avvertita in maniera sempre più forte dagli elementi migliori dell’intellighenzia tedesca. Il radicamento nel capitalismo di una parte considerevole dell’élite intellettuale è dunque così forte che il Grand Hotel «Abisso» non può essere in realtà distrutto nemmeno dal fascismo.

La danza macabra delle ideologie

Di tutto ciò che diciamo in genere non va bene niente!
Robert Musil

Il grande romanzo di Robert Musil, ancora incompiuto6, costituisce un paradigma dell’ideologia dell’élite intellettuale tedesca che abbiamo sinora analizzato in generale, e cioè di quella parte di questa intellighenzia che non intende – almeno consapevolmente – fare concessioni alla generale fascistizzazione della vita spirituale in Germania. Nella sua carriera di scrittore non si manifesta alcuna concessione al gusto del grande pubblico, alle tendenze di moda dominanti. Egli è sempre stato un convinto scrittore per l’élite, per gli stendhaliani «happy few».

Schernisce di continuo, nel modo culturale e letterario che gli è proprio – e che conosceremo subito più da vicino –, la maggior parte delle tendenze dominanti fra gli intellettuali e nella letteratura moderna. Egli si è sempre contrapposto ai suoi contemporanei anche sul piano stilistico: non ha partecipato né della confusione impressionistica, né dell’affettazione espressionistica della prosa tedesca, scrive in uno stile quasi scientificamente trasparente, chiaro, semplice ed equilibrato di chi ha dimestichezza coi classici, nonostante la grande plasticità delle sue figure e delle sue descrizioni. E anche per questo che col suo ultimo romanzo è però divenuto una celebrità «esoterica» per gli iniziati, per l’avanguardia spirituale dell’intellighenzia di sinistra degli anni precedenti alla presa del potere da parte di Hitler.

La scientificità del suo stile non è qualcosa di esteriore. Musil si differenzia dalla maggior parte dei suoi contemporanei e dei suoi compagni di classe per il fatto che nel periodo dell’imperialismo e della fascistizzazione egli non partecipa del disprezzo crescente della filosofia della vita per l’intelletto. Egli si rifiuta di accettare l’indimostrabile, vuole sempre avere il terreno solido sotto i piedi; è un razionalista. La particolarità della tematica letteraria e quindi del metodo creativo di Musil consiste invece nel fatto che, con questa Weltanschauung e con questo metodo, si avvicina ai problemi spirituali dell’odierna élite intellettuale. Coi metodi di una scienza esatta, così come egli la intende, vuole verificare quale intima coerenza e quale contenuto di verità contengono questi problemi spirituali. Egli è dunque uno sperimentatore precisissimo, un ingegnere che razionalizza le più raffinate emozioni dell’élite intellettuale contemporanea. Niente si sottrae alla sua critica acuta, non vi è niente che egli consideri così sacro e indimostrabile da non sottoporlo all’analisi più esatta.

Tuttavia, questo radicalismo intellettuale, che non si arresta di fronte a nulla, si arresta proprio di fronte alle questioni fondamentali. E cioè, Musil accetta questo suo oggetto di indagine acriticamente, come un fatto. Non gli viene nemmeno in mente di domandarsi in generale su quale terreno reale possano sorgere queste emozioni spirituali che egli analizza. Esse vanno, secondo lui, assunte come già date nei singoli individui viventi, come fatti da analizzare. Non che in questo modo ricada in un empirismo volgare. Egli confronta esattamente tali fatti gli uni con gli altri, fa emergere con acutezza l’elemento comune, il tipico, anche nei fenomeni apparentemente distanti gli uni dagli altri. Non gli sfugge mai, come vedremo, che i fenomeni spirituali sono legati al mondo economico-sociale, che tra l’atteggiamento spirituale e le azioni sociali di un uomo esistono relazioni contraddittorie, paradossali e tuttavia tipiche. Ma tutto questo si svolge per lui nell’ambito dello spirito. Ciò che egli persegue non è dunque l’indagine della genesi reale di tali fenomeni, né la loro derivazione reale dalle loro cause effettive, bensì una esattezza immanente e una fondatezza delle emozioni spirituali. Egli cerca l’«autenticità» delle esperienze spirituali della vita interiore dell’uomo nel nostro tempo, distrugge con la critica più acuta tutto ciò in cui nasconde un’intima contraddizione, una menzogna consapevole o inconsapevole, un autoinganno più o meno consapevole, ecc. Questa critica è però puramente immanente. Essa vuole fondare esattamente questi stessi contenuti e queste stesse forme della vita spirituale, vuole trovare in questa vita spirituale un fondamento solido per i medesimi, o molto simili, sentimenti, esperienze, pensieri, azioni. Egli dice del suo eroe, in chiusura della parte sinora pubblicata: «Ulrich sapeva di non avere infatti un’idea chiara. Non intendeva né una vita di sperimentatore né una vita “alla luce della scienza”, bensì una “ricerca del sentimento” simile alla ricerca della verità, solo che non si trattava della verità». E proprio in questo senso, in un «dialogo sacro» con sua sorella, il protagonista dice a proposito dello scopo delle sue ricerche, della sua vita: «Mi addottrino sulle vie della vita santa (…) Non c’è niente da ridere. Non sono religioso; considero la strada della santità chiedendomi se non la si potrebbe percorrere anche in automobile».

Musil difende dunque qui una particolare nuance dell’ateismo religioso. I contenuti immediati delle vecchie religioni per lui, come per la maggior parte dei migliori esponenti del suo ceto, non sono più seriamente presi in considerazione. Per contro, egli, come la maggioranza di questo ceto, ha un’esperienza molto viva di come la vita interiore dell’uomo odierno (che Musil in maniera ingenuamente inconsapevole identifica per lo più con l’intellettuale) sia divenuta inconsistente, disgregata, insincera e di come la morale delle vecchie religioni abbia dato ad essa una grande stabilità. Si tratta dunque della solita nostalgia romantica per la religione dell’intellettuale disgregato. È una reazione spontanea e immediata, non ulteriormente analizzata, di questo ceto alla decadenza ideologica nel periodo di declino del capitalismo, che qui si manifesta in maniera ovviamente immediata e spontanea nell’ambito ideologico e specialmente in quello morale. I fenomeni conseguenti al declino del capitalismo vengono vissuti in modo molto violento, le sue cause restano ignote e quindi la reazione spontanea è una fuga nell’ideologia precapitalistica. Considerato socialmente, questo fenomeno è analogo all’assalto ai grandi magazzini da parte dei piccoli commercianti. E nonostante la differenza del livello culturale dell’argomentazione, il contenuto sociale, il livello dell’indagine delle cause sociali della condizione della propria classe, disgregata dal capitalismo, restano gli stessi. Certo, in Musil il caso è qualcosa di diverso che nella maggior parte dei suoi contemporanei e compagni di classe, i quali, di fronte alla dissoluzione dell’ideologia borghese nella crisi generale del capitalismo, si rifugiano a precipizio nelle vecchie religioni o nei nuovi miti del generale movimento di fascistizzazione. La fuga è tuttavia presente anche in Musil. Solo che egli – da intellettuale soggettivamente onesto – non vuole abbandonare il terreno traballante dell’ideologia senza trovare col suo metodo di misuratore ingegneristico delle più sottili disposizioni dell’anima un terreno solido, un ponte che resista a tutte le prove circa tali materiali e tali carichi. Il protagonista, che diventa sempre più identico a lui, studia perciò accuratamente tanto le vecchie esperienze «religiose» dei santi e dei profeti, quanto quelle dei contemporanei che accettano ciecamente il mistico-religioso. Anch’egli, come costoro, dalle prescrizioni morali religiose crea norme morali per la critica del presente. Perciò sospira scettico: «È un gran peccato che gli studiosi di scienze esatte non abbiano delle visioni!». Fin qui, finché tale questione resta non chiarita e finché la «vita santa» non è costruita in maniera tanto solida da poterla percorrere in automobile, Musil ed il suo eroe restano sospesi in un posizione tutta relativistica e radicalmente scettica.

Questa scepsi di Musil è però una scepsi satirica e battagliera. Egli disprezza profondamente gli intellettuali moderni che, molto alla leggera e senza provarne la resistenza, costruiscono un ponte fra la religione e i bisogni degli uomini moderni, che per la dissolutezza dei sentimenti o persino per scopi egoistici, ingannevoli o autoingannevoli, praticano la confusione impura e inesatta fra religione e scienza, fra religione e bisogni umani odierni. Il suo odio più profondo – e qui si manifesta la personale onestà del suo sentimento inconsapevolmente anticapitalistico – si concentra su quei tipi che si servono di questa confusione fra sentimento e pensiero per fare l’apologia del sistema vigente, per operare la «sintesi» tra affari e anima, tra capitalismo e religione. Nel suo romanzo Musil raffigura questo tipo – mutuando tratti facilmente riconoscibili da Walter Rathenau per descriverne il mondo di idee e il destino esteriore – come un «commerciante principesco» che vuole intrecciare in un’unità armonica «affari e idealismo», «idee e potere», «anima ed economia». Musil vede molto chiaramente che la base di una tale sintesi nella Weltanschauung è l’esatta separazione nella vita. Egli dice di Arnheim (così egli chiama la figura di Rathenau nel suo romanzo): «Quando in uno dei suoi uffici direttoriali esaminava un bilancio preventivo si sarebbe vergognato di ragionare altrimenti che da mercante e da tecnico; ma appena il denaro della ditta non era più in gioco si sarebbe vergognato di non ragionare nel modo opposto e di non proclamare che l’uomo deve essere reso idoneo a elevarsi per una strada diversa da quella ingannevole della metodicità, della regola, dell’unità di misura e simili, i cui risultati sono affatto esteriori e in ultima analisi senza importanza. Non v’è dubbio che quell’altra strada si chiama religione; egli aveva scritto libri sull’argomento».

Questa religione è allora per Arnheim-Rathenau un eccellente mezzo per ottenere personalmente fama mondiale di scrittore, per brillare come uomo di fama internazionale in alcuni salotti europei e, nel contempo, usare la gloria di queste relazioni per una grandiosa diplomazia commerciale. L’acuto occhio satirico di Musil, che qui chiarisce il nesso fra irrazionalismo imperial-fascista e commercio nel capitalismo monopolistisco, mostra tuttavia subito come egli si limiti alla mera ideologia non appena abbandona il campo delle pure e giuste osservazioni. Infatti, la sua satira non si rivolge al parassita dall’anima bella del capitalismo monopolistico reazionario in dissoluzione, bensì alla mancanza di «onestà intellettuale» di Arnheim; non odia in lui lo sfruttatore, l’apologeta del capitalismo, disprezza semplicemente la sua confusione di pensiero e sentimento, la bassezza dei suoi principi morali. Ma, nonostante tutto, qui si raggiunge una satira talvolta brillante. Musil dà diversi primi piani di questo suo personaggio. Lo rappresenta, fra l’altro, in una conversazione col suo dio e lo fa esprimere in questi termini sull’organizzazione migliore del mondo: «“Il capitalismo, come organizzazione dell’egoismo secondo il grado della capacità di procurarsi denaro è l’ordinamento più grandioso e tuttavia più umano che noi abbiamo saputo elaborare in Tuo onore; la condotta umana non porta in sé una misura più esatta”. E Arnheim avrebbe suggerito al Signore di organizzare il Regno millenario secondo i criteri commerciali e di affidare la sua amministrazione a un grande uomo di affari che avesse naturalmente anche cultura filosofica ed educazione mondana». La satira di Musil su questo tipo risulta perciò – nonostante i limiti a cui abbiamo accennato – sottile, ben riuscita e vivace, in quanto non solo descrive la separazione esatta fra commercio e anima nella vita e il predominio dell’anima nel pensiero, ma al tempo stesso dimostra sempre di nuovo come nei sentimenti, nelle azioni e nei sublimi pensieri di Arnheim, dietro il mantello metafisico con cui è coperto, riaffiori sempre il calcolo capitalistico. Così egli fa dire ad Arnheim, dopo una grande tragedia d’amore: «Un uomo cosciente delle proprie responsabilità quando fa dono della sua anima può sacrificare soltanto gli interessi e giammai il capitale».

Queste due figure, le cui continue schermaglie costituiscono una parte importante del romanzo musiliano, sono inserite in un’azione la cui invenzione dimostra le non indifferenti qualità satiriche di Musil. Il romanzo è ambientato negli anni immediatamente precedenti alla guerra e descrive i maggiori esponenti intellettuali dell’alta società austriaca. Tratta di una grande «Azione patriottica» che, ideata da un aristocratico austriaco, viene realizzata dall’alta burocrazia e dall’intellighenzia. L’Azione consiste nel dover preparare una grande festa nazionale per il settantesimo giubileo dell’ascesa al trono dell’imperatore Francesco Giuseppe I. Tutti sono entusiasti di questa «grande festa». Si tratta solo di trovare un’idea concreta, un contenuto concreto per questa azione. Davanti a noi si agitano vorticosamente tutti i tipi dell’élite culturale austriaca, ciascuno avanza proposte «straordinariamente spirituali» o «particolarmente profonde» e tutte vengono discusse a fondo e con partecipazione, al massimo livello della spiritualità moderna, e tutte le volte si conclude che non si possono ancora prender decisioni definitive, che è necessario nominare un comitato apposito che elabori una proposta definitiva, che è necessaria una preparazione particolare. Tutti dicono che l’«idea centrale» della grande azione deve nascere subito, ma nessuno sa dire quale debba essere questa idea. Tutti dicono che qualcosa deve accadere subito, ma nessuno è in grado di dire che cosa.

La forza satirica di questa azione principale si esprime innanzitutto nel fatto che Musil è capace di far esibire tutti i circoli della più alta spiritualità, dal clero all’alta burocrazia, ai letterati e ai professori universitari, nel fatto che in ogni discussione essi mettono in azione l’intera flotta delle loro ideologie, che vengono eseguiti tornei spirituali al livello più alto su tutte le questioni che interessano gli intellettuali e che da tutto questo non viene mai fuori niente. Già il contrasto tra il grande sfoggio culturale e la ridicolaggine aulico-burocratica dell’occasione produce forti effetti satirici. Effetto che è vieppiù accresciuto dal contrasto fra la serietà degli sforzi spirituali e la totale improduttività dei loro risultati. L’«impotenza dello spirito», su cui Max Scheler nel dopoguerra ha scritto cose che hanno avuto molta influenza, l’impotenza dello spirito intellettuale borghese di fronte ai problemi più semplici della realtà pratica forse in nessun altro romanzo moderno è stata rappresentata con tanta efficacia. Musil sembra stare al di sopra di tutti i suoi personaggi. Egli è capace di esprimere, nel modo intellettualmente e culturalmente più elevato, ogni sfumatura ideologica dell’odierna intellighenzia borghese, in maniera tale che non solo viene espressa adeguatamente la tendenza ideologica in questione, ma viene anche chiarita in chiave satirica la sua dialettica immanente: vengono così chiaramente in luce tanto le sue contraddizioni interne, quanto le contraddizioni rispetto alla realtà. Intorno all’«Azione patriottica», ugualmente ridicola all’esterno e all’interno, si svolge una vera e propria danza macabra delle moderne ideologie borghesi. Ciascuna sfumatura ideologica insegue se stessa e quella avversaria in un girotondo fra il serio e l’ironico verso la morte e scopre impietosamente la nullaggine, l’assenza di contenuti e l’intima insincerità propria e degli avversari.

La grottesca ridicolezza di questa danza macabra viene ancor più accresciuta dal fatto che i partecipanti fanno convergere nell’azione tutti i loro interessi privati e di affari. Il «commerciante principesco» Arnheim tiene nei saloni le conferenze più brillanti sul regno dell’anima al fine di acquistare per la sua ditta, con l’aiuto e dietro il paravento dell’Azione, i giacimenti di petrolio galiziani e ottenere certe ordinazioni dal ministero della guerra. Un dotto generale del Ministero della guerra partecipa in maniera tanto assidua quanto goffa a tutte le discussioni, si sforza di capire i diversi orientamenti culturali, però si serve dell’Azione anche per ottenere finanziamenti per il Ministero della guerra e incrementare l’artiglieria. E l’aristocratico conservatore, che aveva avuto l’idea dell’azione, la usa d’altro lato per rovesciare, attraverso intrighi di corte, il ministro degli interni a lui antipatico. Intorno a questi intrighi maggiori, se ne svolgono molti altri amorosi e carrieristici. Il grande rogo delle ideologie serve praticamente a cuocere minestre private.

La satira sociale e di critica ideologica di Musil sarebbe dunque interessante, coraggiosa e bella. Ma quel limite invisibile, di cui abbiamo parlato dettagliatamente, riaffiora di continuo e spezza proprio le punte decisive di ogni slancio satirico. Tale limite non è il risultato di un compromesso, bensì il limite proprio della sua concezione del mondo. Egli ironizza acutamente sull’Austria del periodo prebellico e la sua satira si estende a tutte le questioni attuali dell’intellighenzia tedesca nel periodo di fascistizzazione. Ma questa ironia è lo spirito di uno che sta dentro alla cosa fino in fondo, di un uomo il cui orizzonte non va più in là di quello di coloro su cui ironizza. Egli schernisce, ad esempio, il dilettantismo politico del suo aristocratico per quel che riguarda la questione nazionale austriaca. Quando però, come autore, a queste fantasie dilettantesche vuole contrapporre lo stato di cose reale, vengono fuori i luoghi comuni degli editoriali dei giornali liberali, solo formulati ironicamente e autoironicamente travestiti. E così in tutte le altre questioni. È, ad esempio, molto spiritoso che Musil faccia fare a un’isterica dilettante d’arte la proposta di celebrare l’anno del giubileo come l’anno di Nietzsche. Ma alcune pagine prima o dopo affiorano idee e metodi nietzschiani, con o senza riferimento esplicito a Nietzsche, su cui Musil non ironizza affatto, ma anzi considera come una seria applicazione della condotta di vita etica da lui cercata.

Il fatto che l’autore resti impigliato dentro i limiti invisibili rende discorde l’intera opera. E, in particolare, il personaggio principale. Questi (Ulrich) deve essere l’oppositore intellettuale onesto di questo cabaret delle ideologie, il suo onesto cercare un fondamento solido deve rappresentare il contrasto dal quale vengono ironicamente illuminate la nullità, la stupidaggine e la disonestà degli altri. Ma che cosa Ulrich contrappone praticamente alla farsa dell’«Azione patriottica?» Innanzitutto, egli si trova a partecipare all’Azione per varie disavventure personali; diviene segretario dell’aristocratico da cui era partita l’iniziativa e quindi segretario di tutta l’azione. Naturalmente, egli stesso non prende troppo sul serio questo suo ruolo. Raccoglie tutti gli incartamenti e le proposte che arrivano e riferisce al suo conte nella forma ironica: «Pare che il mondo intero s’attende da noi miglioramenti e riforme e una metà incomincia con le parole: “Bisogna abolire…” mentre l’altra metà proclama: “Bisogna instaurare…” Ho qui esortazioni che vanno da “basta con l’influsso di Roma” fino a “è giunta l’ora dell’orticoltura!” Lei che cosa sceglierebbe?» Ma questo sabotaggio ironico, questa partecipazione con riserva canzonatoria non significa affatto che le convinzioni più serie di Ulrich siano a un livello di conoscenza delle connessioni reali più elevato rispetto a quello di coloro che egli irride e sui quali ironizza. Si scopre, infatti, che egli pensa e presenta con riserva ironica anche le sue convinzioni più serie e che ne fa continuamente scherno. E tuttavia questo scherno è amaramente impotente. Musil, infatti, da vero artista, una volta voluto e creato un personaggio, fa venir fuori tutto ciò che vi sta dentro e solo questo ed è costretto a dare una certa direzione alla linea di sviluppo del pensiero del suo eroe, nonostante la continua autoironia e la riserva ironica. E questa direzione è molto significativa non solo per il personaggio, ma anche per lo stesso Musil, in quanto in esso si esprimono chiaramente i limiti del suo pensiero, il restare all’interno dell’orizzonte del mondo che irride.

In un’importante conversazione privata fra i massimi rappresentanti dell’Azione, Ulrich avanza la seguente proposta: «…porre mano a un inventario generale dello spirito! Dobbiamo fare suppergiù quello che sarebbe necessario se il 1918 fosse l’anno del Giudizio Universale e bisognasse farla finita con lo spirito antico e dare vita a uno spirito più alto. Istituisca in nome di Sua Maestà un segretariato terreno dell’esattezza e dell’anima; tutti gli altri problemi prima di questo sono insolubili o sono soltanto problemi apparenti!» E più avanti, in uno dei «dialoghi sacri» con sua sorella, l’unica persona che egli ami e prenda sul serio, spiega questa proposta nei termini seguenti: «che cosa si dovrebbe fare? Una volta, in casa di nostra cugina, io suggerii al conte Leinsdorf di istituire un Segretariato mondiale dell’esattezza e dell’anima affinché anche coloro che non vanno in chiesa sappiano che cosa devono fare. Naturalmente lo dissi soltanto per scherzo, perché già da gran tempo abbiamo creato la scienza per il bisogno di verità, ma se si volesse pretendere qualcosa di simile per quel che rimane scoperto, bisognerebbe oggi quasi vergognarsi di una pazzia. Eppure tutto ciò che noi due abbiamo detto finora, ci condurrebbe a quel Segretariato!» In una successiva conversazione fra le stesse personalità dell’Azione, egli ritorna ancora su questa proposta: «Lei nota, dice al suo conte, che il mondo non ricorda oggi quello che voleva ieri, che le sue disposizioni d’animo cambiano senza un motivo convincente, che è in perpetua agitazione, che non giunge mai a un risultato; e che se ci si figurasse raccolto in un solo cervello quel che accade nei cervelli degli uomini, ne risulterebbe innegabilmente una serie di manifestazioni deteriori che si potrebbero definire di imbecillità».

Vediamo dunque che si tratta del percorrere in automobile la strada santa. Ulrich ironizza continuamente sulla morale odierna in favore di una morale più elevata, di una «fantastica esattezza». Ciò che vi contrappone è, però, semplicemente questa «esattezza fantastica». Musil dice delle sue intenzioni: «La morale per lui non era né costrizione né saggezza, bensì l’infinito complesso delle possibilità di vivere. Egli credeva a un potere d’accrescimento della morale… Egli credeva nella morale senza credere in una morale definita. Di solito s’intende per essa una specie di regolamento di polizia che serve a mantenersi in ordine la vita; e poiché la vita non obbedisce neppure a tali regole, esse appaiono quasi impossibili a seguirsi, e, pur in questo modo meschino, acquistano l’apparenza di un ideale. Ma non è lecito mettere la morale su questo piano. La morale è fantasia… E in secondo luogo: la fantasia non è arbitrio. Se abbandonata all’arbitrio, la fantasia si vendica». Ulrich vuole dunque porre ordine nella confusione ideologica del periodo di decadenza del capitalismo mediante questo «segretariato terreno dell’esattezza e dell’anima», attraverso la morale, e questa sua intuizione non è solo una sua convinzione profonda e onesta, ma anche – nonostante tutta l’autoironia – quella del suo autore.

Dove porta questa strada? Abbiamo visto che Musil incalza la confusa stupidaggine delle ideologie intellettuali borghesi con l’ironia più amara. E, in particolare, un nemico dichiarato del disprezzo dell’intelletto e dell’esattezza, della dissoluzione dei sentimenti, dell’irrazionalismo mistico, della canonizzazione della razza, in una parola di tutte quelle correnti ideologiche che più tardi sono confluite nel fascismo. A giudicare dalle sue intenzioni, egli è dunque tutto tranne che un reazionario o un oscurantista. E, in quanto intellettuale di livello culturale superiore, egli disprezza altrettanto gli insignificanti residui dell’ideologia liberal-borghese. Ma, poiché egli cerca la sua strada in questo groviglio e ha come bussola solo la sua «fantastica esattezza», deve necessariamente approdare nelle vicinanze del misticismo religioso. Che poi questo misticismo sia ateo non cambia nulla nella realtà dei fatti. Abbiamo già sentito che il famoso segretariato terreno ha il compito di sostituire, per gli uomini divenuti irreligiosi, i comandamenti della chiesa, la soggezione dei loro atti a quest’ultima. L’aristocratico conservatore e religioso di cui è segretario non si lascia ingannare dai paradossi ironici di Ulrich. E con la perfetta coscienza di classe di un convinto reazionario gli dice: «Del resto ho sempre saputo che lei, in fondo in fondo, non è affatto un cattivo cattolico!» E Ulrich ribatte: «Pessimo! Io non credo che Dio sia venuto, bensì che debba ancora venire. Ma solo se gli si renderà il cammino più breve di quanto sia stato finora!». E in una conversazione con sua sorella egli fa la seguente confessione: «Mi hai chiesto che cosa credo. Credo che anche se mi si dimostra mille volte che, per i motivi in vigore, una cosa è buona oppure è bella, io sono e rimango indifferente, e l’unico segno sul quale regolerò il mio giudizio è: se la sua presenza mi abbassa o mi innalza… Ma anch’io non posso dimostrare nulla. E anzi sono convinto che un uomo che cede a questo, è perduto. Si smarrisce nel crepuscolo. Nella nebbia e nella puerilità. In una noia indistinta. Se tu togli dalla nostra vita l’univoco, non resta che uno stagno di carpe senza carpione… Dunque io non credo! Non credo, prima di tutto, all’inibizione del male mediante il bene, che rappresenta il miscuglio della nostra civiltà e mi fa schifo! Dunque io credo e non credo! Ma forse credo che fra un po’ di tempo gli uomini saranno parte molto intelligenti e parte dei mistici. Forse avverrà che anche ai nostri giorni la morale si divida in queste due componenti. Potrei anche dire: in matematica e mistica. In miglioramento pratico e avventura ignota!».

Dove porta allora questa strada? Abbiamo visto che essa ideologicamente porta a una relazione ironica, da buon vicinato, con la reazione colta, spiritualmente altolocata. I reazionari intelligenti capiscono molto bene che la nuance matematica dell’ateismo religioso di Musil, della creazione di Dio come massima occupazione per gli intellettuali è un ottimo apparecchio di sicurezza per il sistema esistente. Nonostante tutti i suoi paradossi ironici, questo Ulrich (e il suo autore) resta un supporto della società. Il ruolo conservatore del suo iperradicalismo intellettuale viene alla luce con chiarezza ancora maggiore se diamo un breve sguardo anche al suo modo di agire. Abbiamo già visto il suo ruolo di segretario dell’«Azione patriottica». Contemporaneamente, egli ha delle banali avventure con donne, movimentate solo da ironiche osservazioni. Il disprezzo per la morale vigente lo induce a protestare un paio di volte.

Il disprezzo per la morale gli rende talvolta attraente il delitto e colui che lo commette. Gli viene così l’idea di salvare l’omicida di una prostituta condannato a morte. Ma anche questa azione, la cui insensatezza non ha bisogno di commento, si dissolve nell’ironico e diventa per lui persino scomoda e spiacevole, quando viene spinta oltre il dovuto da un’isterica ammiratrice. Allo stesso modo, insieme con la sorella egli si trastulla con l’idea della vendetta contro l’odiato e filisteo cognato. Quando però sua sorella prende sul serio la vendetta e falsifica il testamento del padre in maniera che il cognato venga estromesso, anche questa azione nella sua mente si dissolve in riflessioni ironiche e autoironiche.

Dunque, non accade nulla. Nemmeno nell’ambito ristretto della vita privata. Quando uno stupido amico di gioventù in una conversazione gli rimprovera che tutta la sua filosofia sfocia in pratica in quella del «tirare a campare» della vecchia Austria, va molto vicino alla verità. Il misticismo scettico di Ulrich (e di Musil) conduce persino a una sanzione teorica del non fare nulla. Il suo radicalismo intellettuale si concentra spesso nella formula della «abolizione della realtà», cioè sull’esigenza di forgiare e vivere la realtà come fa la poesia; in altre parole, sul principio della rigida e inconciliabile contrapposizione fra interpretazione e trasformazione della realtà, in un rifiuto radicale del tentativo di trasformazione come un’attività vuota e solo apparentemente importante. (Negli esempi pratici del mondo che egli fa vi è naturalmente il giudizio di Musil). L’iperradicalismo di Ulrich opera nella maniera più peculiare e significativa proprio in questo rifiuto di qualsiasi prassi. Non solo nella disgregazione e dissoluzione ironiche della vuota attività degli uomini, dell’insensatezza del loro fare e del loro impulso, ma anche in linea di principio. «Perché una persona buona, dice Ulrich, non migliora affatto il mondo, né influisce in alcun modo su di esso; se ne allontana soltanto!». E dopo una lunga conversazione ironico-mistica con sua sorella sul «Regno millenario», fra i due si svolge il seguente dialogo: «Viviamo in un tempo in cui la morale è in crisi o in dissoluzione. Ma dobbiamo mantenerci puri, in vista di un mondo che può ancora venire! — Credi che questo influisca sul suo avvento o non avvento?, interrogò Agathe. — No, non lo credo purtroppo. Tutt’al più credo questo: se gli uomini che vedono e intendono non agiscono rettamente, quel mondo non verrà certo e la decadenza non si potrà arginare! — Che cosa t’importa se fra cinquecento anni le cose saranno cambiate o no? — Ulrich esitò. “Io faccio il mio dovere, capisci? Come un soldato, direi”».

Dove porta dunque questa strada? La risposta non è tanto difficile, crediamo: diritti in una bella camera del Grand Hotel «Abisso». L’intero dispiegamento di energia intellettuale, morale e poetica di Musil in questo romanzo – che rappresenta la sintesi degli sforzi ideali e letterari di tutta la sua vita – serve semplicemente a mantenere gli intellettuali, disperati per la crisi culturale e all’inizio della loro dissoluzione da parte della cultura capitalistica, in una disperazione narcisistica e autocompiaciuta, a insegnar loro a stabilirsi sull’orlo dell’abisso e a guardare dall’alto i compagni di classe che non sono capaci di innalzarsi all’altezza di questo pessimismo ironico-quietistico, che non si accontentano di contribuire col loro «restar puri» all’avvento del «Regno millenario», al quale neppure loro credono.

E un destino tragicomico di Musil che egli, che odia tanto la dissolutezza dei sentimenti dell’intellighenzia disgregata, che durante tutta la sua attività di scrittore si è rifiutato tenacemente di offrire passatempi intellettuali a degli sfaccendati, offra invece oggettivamente nient’altro che divertimento a dei parassiti. Egli considera la danza macabra delle ideologie moderne da lui rappresentata in un modo amaramente serio e amaramente tragico. Non costituisce un suo difetto personale il fatto che ciò che egli ha descritto come una grande «tragedia comica» del presente sia oggettivamente diventata una Jazz-Band intellettuale del Grand Hotel «Abisso». Infatti, all’interno dei limiti invisibili del suo modo di porre i problemi, Musil sta al livello più alto che sia possibile raggiungere alla sua classe, sia per la capacità artistica e intellettuale di dominare la materia che per l’onestà e sincerità delle sue convinzioni personali. Il carattere relativamente così elevato della sua produzione fa della sua opera un esempio interessante della situazione spirituale di una determinata parte dell’élite dell’intellighenzia tedesca. E d’altro canto, proprio questa elevatezza della sua opera dà la misura della profondità della crisi culturale della borghesia odierna, della profondità del livello che ha raggiunto il generale processo di decadenza della sua classe. Non è pertanto difficile mostrare questo processo di decadenza nella produzione media degli scrittori contemporanei; esso è molto evidente. Ma qui, dove tutti i dettagli sono realmente elaborati sia sul piano intellettuale che su quello artistico, emerge con chiarezza impressionante a che cosa ha già condotto tale processo di decadenza. Non parliamo della disperazione, né dell’autodissoluzione delle ideologie. La letteratura borghese già da tempo ha prodotto opere la cui tendenza fondamentale è stata la distruzione di tutti i possibili punti di vista e le prese di posizione della classe dominante. Bouvard et Pécuchet e La tentation de Saint Antoine di Flaubert, Wildente di Ibsen valgano qui da esempi particolarmente pregnanti di tali tendenze alla disperazione. Ma Flaubert e Ibsen erano realmente e sinceramente in una situazione di disperazione verso la loro classe, hanno realmente e sinceramente odiato la loro classe e la sua ideologia, hanno realmente e sinceramente cercato una via d’uscita da essa; la loro disperazione è dunque profonda e commovente poiché sta alla fine di uno sforzo disperato quanto vano di staccarsi dalla classe odiata e di elevarsi al di sopra del suo orizzonte. La tendenza parassitaria, che – come ha dimostrato Lenin – è la tendenza fondamentale generale dell’epoca imperialistica, nel nostro caso consiste nel fatto che da un lato la dissoluzione oggettiva dell’ideologia della classe è divenuta molto più violenta, per cui per ogni possibilità oggettiva ne è stata data una maggiore di superare i limiti ristretti dell’orizzonte borghese. Ma, dall’altro lato, il parassitismo si manifesta proprio nel fatto che l’autocritica della dissoluzione, la non credenza nell’ideologia della propria classe, il rifiuto e il disprezzo delle sue forme sociali perdono in veemenza e pathos, nel fatto che tale tendenza si adegua con compiaciuta ironia al sistema che disprezza ed escogita un’ideologia che consenta loro, nonostante tutto il disprezzo per la propria classe, la pacifica tolleranza del permanere del suo dominio e del disfacimento che esso comporta. Ci si salva la coscienza intellettuale e morale con una critica ironica radicale, ma ci si arresta a questa ironia. Nei primi anni del dopoguerra Thomas Mann ha scritto qualcosa di simile a un romanzo ideologico-parassitario, sia pure non del livello intellettuale di quello di Musil, La montagna incantata. Anche qui le varie ideologie borghesi si dissolvono reciprocamente in un nulla. Ma Thomas Mann è ancora un ideologo consapevole della borghesia: alla generale e totale dissoluzione intellettuale egli contrappone il semplice e laconico «comportamento» di un semplice cittadino e fa guarire moralmente i suoi personaggi, distrutti in interminabili e sterili discussioni, nei «bagni ferruginosi» della guerra mondiale. In Musil il processo di dissoluzione si trova a uno stadio molto più avanzato. Davanti ai suoi occhi non vi è più niente di borghese che abbia un valore positivo, ma proprio da questa disperazione generale egli trae i suoi argomenti scettico-mistici sull’esistente tanto disprezzato. Per il mondo borghese che egli vede, e il modo in cui lo vede, esiste ancora solo il problema: con quale ideologia critica o ribelle ci si adatta praticamente all’esistente; e dunque solo il dilemma se questo adattamento debba avvenire nella forma filistea o patologica, in quale mistura di autoinganno consapevole o inconsapevole. L’onestà personale e di scrittore di Musil è fuori discussione, la sua opera non è però altro che una sofistica dominata con strumenti notevoli: «Di tutto ciò che diciamo in genere non va bene niente».

1 Chiara ondeggiata la sala per il gioco delle bambole di seta/Però una nasconde la sua febbre sotto la farina/E ha visto circondata dai gruppi scatenati/che non mancava più tanto alle Ceneri./Lei esce di soppiatto verso lo spoglio parco, verso la piatta/Riva; fa ancora brevi cenni con la mano verso la festa in maschera/E si inchina infreddolita sul ghiaccio, uno scricchiolio/La raffredda muta, lontano il richiamo alla danza. Nessuno dei cortesi cavalieri o delle dame/La scorgeva coperta dalle alghe e alla ghiaia/Però quando in primavera si dirigevano verso il giardino/si alzava spesso dallo stagno un cupo mormorio. La leggera schiera del secolo scherzoso/Ben percepiva laggiù questo strano bisbigliare/Solo non se ne meravigliava/Lo considerava semplicemente un rumore delle onde. (Stefan George, La maschera).

2 In italiano nel testo.

3 K. Marx, F. Engels, Opere, cit., V, p. 16.

4 Lenin, La questione della dialettica, XIII, p. 376 [Cfr. Lenin, Quaderni filosofici, a cura di I. Ambrogio, Ed. Riuniti, Roma 1971, p. 363].

5 Lenin a Gorki, 14 novembre 1913.

6 I primi due volumi del romanzo sono apparsi nel 1930 e nel 1933 presso l’editore Rohwolt di Berlino [Le citazioni nel testo sono tratte dalla traduzione it. di Anita Rho, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1962].

Georg Lukács e il patto col diavolo

di George Steiner

[Georg Lukacs and His Devil’s Pact, «The Kenyon Review» Vol. 22, No. 1 (Winter, 1960), pp. 1-18, trad. it. Ruggero Bianchi, in G. Steiner, Linguaggio e Silenzio, Rizzoli, Milano 1972, pp. 327-342]

Nel ventesimo secolo non è facile per un uomo onesto fare il critico letterario. Vi sono tante cose più urgenti da fare. La critica è un’aggiunta. Giacché l’arte del critico consiste nel sottoporre le opere di letteratura proprio all’attenzione di quei lettori che forse hanno meno bisogno di un tale aiuto: forse che un uomo legge critiche di poesia o teatro o narrativa se non possiede già per conto suo una cultura letteraria di notevole livello? Su l’un lato e l’altro, per giunta, vi sono due tentatori. A destra, la Storia Letteraria, con la sua aria solida e le sue credenziali accademiche. Alla sinistra, la Recensione, non proprio un’arte, ma piuttosto una tecnica devota alla teoria poco plausibile che ogni giorno dell’anno viene pubblicato qualcosa che vale la pena di leggere. Anche la critica migliore può soccombere all’una o all’altra di queste tentazioni. Ansioso di raggiungere la rispettabilità intellettuale, la posizione salda dello studioso, il critico può diventare, come Sainte-Beuve, quasi uno storico della letteratura. O può cedere alle pretese del nuovo e dell’immediato: una parte significativa delle dichiarazioni critiche di Henry James non è sopravvissuta ai luoghi comuni di cui esse erano molto prodighe. Le buone recensioni sono ancor più effimere dei brutti libri.

Ma vi è ancora un’altra ragione importante per cui è difficile a una mente seria, nata in questo secolo tormentato e periglioso, dedicare il grosso delle proprie energie alla critica letteraria. La nostra è, in maniera preminente, l’epoca delle scienze naturali. Il novanta per cento di tutti gli scienziati vive oggi. Il ritmo delle conquiste in campo scientifico, il ritrarsi dell’orizzonte davanti allo spirito che indaga, non è più assolutamente confrontabile con quello del passato. Ogni giorno si scoprono nuove Americhe, sicché la tempra della nostra epoca è permeata di valori scientifici. Questi estendono la propria influenza e il proprio fascino molto al di là dei confini della scienza intesa in senso classico. La storia e l’economia sostengono di essere, in qualche misura fondamentale, delle scienze; e così pure la logica e la sociologia. Lo storico dell’arte affina strumenti e tecniche che considera scientifici. Il compositore di musica dodecafonica collega i suoi esercizi austeri a quelli della matematica. Durrell ha scritto nella prefazione all’Alexandria Quartet che il suo tentativo è quello di tradurre nel linguaggio e nello stile della sua narrativa la prospettiva della relatività. Vede la città di Alessandria in quattro dimensioni.

Tale ubiquità della scienza ha recato con sé nuove modestie e ambizioni nuove. Diffidando del semplice istinto, la scienza esige una mitologia di rigore e di prova. Come splendido compenso, offre il miraggio della certezza, della conoscenza sicura, del possesso intellettuale salvaguardato dal dubbio. Lo scienziato grandissimo rifiuterà tale prospettiva; persevererà nel dubbio anche nel cuore della scoperta. Ma la speranza della verità oggettiva e dimostrabile è sempre presente e ha attirato a sé le menti più vigorose dei nostri tempi.

Nella critica letteraria non vi sono terre promesse di fatti stabiliti, né utopie di certezza. Per la sua stessa natura, la critica è personale. Non è suscettibile di dimostrazione né di prova coerente. Non dispone di strumenti più esatti della barba di Housman che si rizzava quando la grande linea di poesia gli saettava nella mente. In tutta la storia, i critici hanno cercato di dimostrare che il loro métier era una scienza in fin dei conti, che aveva canoni oggettivi e strumenti per pervenire alle verità assolute. Coleridge imbrigliò il proprio genio intensamente personale e spesso instabile al giogo di un sistema metafisico. In un celebre manifesto, Taine proclamò che lo studio della letteratura non era meno esatto di quello delle scienze naturali. I. A. Richards ha sottoscritto la speranza che vi sia un’oggettiva base psicologica all’atto del giudizio estetico. Il suo discepolo più eminente, W. Empson, ha applicato alle arti della critica letteraria le modalità e i gesti della matematica.

Resta però il fatto: il critico letterario è un uomo singolo che giudica un dato testo secondo l’attuale disposizione del proprio spirito, secondo il proprio umore o l’edificio delle proprie convinzioni. Può darsi che il suo giudizio abbia un valore maggiore del vostro o del mio soltanto perché si basa su una gamma più vasta di conoscenze o perché è presentato con chiarezza più convincente. Non lo si può dimostrare in maniera scientifica, né può pretendere di essere durevole. I venti del gusto e della moda sono incostanti e ogni generazione di critici ricomincia da capo a giudicare. Le opinioni sui meriti di un’opera d’arte sono, per giunta, inconfutabili. Balzac riteneva che la Radcliffe fosse grande come Stendhal. Nietzsche, una delle menti più acute che mai si siano occupate di musica, finì per sostenere che Bizet era un compositore più genuino di Wagner. Possiamo essere profondamente convinti che tali opinioni sono ingiuste ed erronee. Ma non possiamo rifiutarle come uno scienziato può rifiutare una teoria falsa. E chissà che una qualche epoca futura non concordi con giudizi che oggi sembrano insostenibili? La storia del gusto è un po’ come una spirale. Le idee che in un primo momento vengono considerate oltraggiose o di avanguardia diventano le credenze reazionarie e consacrate della generazione successiva.

Il critico moderno si trova dunque doppiamente in pericolo. La critica ha intorno a sé qualcosa di un’epoca più agiata. È difficile, su basi morali, resistere alle fiere sollecitazioni dei problemi economici, sociali e politici. Se vi è la minaccia di una qualche forma di barbarie e di autodistruzione politica, lo scrivere saggi sulle belles-lettres pare un’occupazione piuttosto marginale. Il secondo dilemma è di natura intellettuale. Per eminente che sia, il critico non può partecipare all’avventura principale della mente contemporanea: l’acquisizione della conoscenza positiva, il dominio del fatto scientifico o l’esplorazione della verità dimostrabile. E se è onesto con se stesso, il critico letterario sa che i suoi giudizi non hanno una validità duratura, che domani possono essere capovolti. Una cosa soltanto può conferire alla sua opera un po’ di durevolezza: il vigore o la bellezza del suo stile. Grazie allo stile, la critica può a sua volta diventare letteratura.

I maestri della critica contemporanea hanno cercato di risolvere questi dilemmi in modi differenti. T. S. Eliot, Ezra Pound e Thomas Mann, per esempio, hanno fatto della critica un’appendice alla creazione. I loro scritti critici sono commentari alle proprie opere poetiche; specchi che l’intelletto presenta alla fantasia creativa. In D. H. Lawrence, la critica è autodifesa: pur discutendo apparentemente di altri scrittori, di fatto Lawrence stava difendendo il proprio concetto dell’arte del romanzo. Leavis ha accettato la sfida a testa bassa. Ha posto le sue energie critiche al servizio di un’appassionata visione morale. È tutto intento a stabilire standard di maturità e di ordine in letteratura perché la società nel suo complesso possa procedere in una maniera più matura e ordinata.

Ma nessuno ha offerto ai dilemmi morali e intellettuali che assediano la critica letteraria una soluzione più radicale di quella di Georg Lukács. Nelle sue opere si concretizzano due convinzioni. La prima, che la critica letteraria non è un lusso, che non è quello che il più sottile critico americano ha definito «un discorso per dilettanti». Ma che, al contrario, è una forza militante e fondamentale per la formazione della vita degli uomini. In secondo luogo, Lukács afferma che l’opera del critico non è né soggettiva né incerta. La critica è una scienza con un proprio rigore e una propria precisione. La verità del giudizio si può verificare. Georg Lukács è, naturalmente, marxista. Anzi, è l’unico grande talento critico che sia emerso dal grigio servaggio del mondo marxista.

II

In un saggio che risale al 1948, Lukács tracciò un’analogia significativa. Disse che la fisica newtoniana aveva dato alla coscienza settecentesca il suo principale impulso liberatore, insegnando alla mente a vivere la grande avventura della ragione. Secondo Lukács, tale ruolo dovrebbe essere svolto ai giorni nostri dall’economia politica. È attorno all’economia politica, in senso marxista, che dovremmo ordinare la nostra comprensione delle vicende umane. Lukács stesso giunse alla letteratura attraverso l’economia, così come si può dire che Aristotile si accostò al dramma tramite un’indagine sistematica in campo morale.

Il materialismo dialettico sostiene che la letteratura, come tutte le altre forme d’arte, è una «sovrastruttura ideologica», un edificio dello spirito costruito sulle fondamenta del fatto economico, sociale e politico. Nello stile e nel contenuto l’opera d’arte riflette esattamente la sua base storica e materiale. L’Iliade non era meno condizionata dall’ambiente sociale (un’aristocrazia feudale frantumata in piccoli regni rivali) di quanto non lo fossero i romanzi di Dickens, che riflettono con tale vigore l’economia della produzione in serie e la crescita di un nuovo pubblico di massa. Pertanto, sostiene il marxista, il progresso dell’arte è sottoposto alle leggi della necessità storica. Non possiamo concepire Robinson Crusoe prima della nascita dell’ideale mercantile. Nel declino del romanzo francese dopo Stendhal osserviamo l’immagine di un più vasto declino della borghesia francese.

Ma dove c’è legge c’è scienza. E quindi il critico marxista nutre la convinzione di essere impegnato non in cose opinabili ma in determinazioni di realtà oggettiva. Senza tale convinzione, Lukács non avrebbe potuto dedicarsi alla letteratura. Raggiunse la maturità intellettuale in mezzo alla ferocia caotica della guerra e della rivoluzione nell’Europa centrale. Giunse al marxismo per la strada tortuosa della metafisica hegeliana. Nei suoi primi scritti vi sono due note dominanti: la ricerca di una chiave per comprendere l’apparente tumulto della storia e il tentativo dell’intellettuale di giustificare la propria scelta della vita contemplativa. Come Simone Weil, cui egli spesso mi fa pensare, Lukács ha l’anima di un calvinista. Si può immaginare come abbia dovuto lottare per disciplinare in se stesso l’inclinazione naturale alla letteratura e all’aspetto estetico delle cose. Il marxismo gli offrì la possibilità fondamentale di restare critico letterario senza aver l’impressione di aver dedicato le proprie energie a uno scopo piuttosto frivolo e impreciso. Nel 1918 Lukács aderì al partito comunista ungherese. Durante il primo breve periodo di governo comunista a Budapest, prestò servizio come commissario politico e culturale con la quinta Armata Rossa. Dopo la caduta di Béla Kun, Lukács andò in esilio. Rimase a Berlino fino al 1933 e quindi si rifugiò a Mosca. Là rimase e lavorò per dodici anni, facendo ritorno in Ungheria soltanto nel 1945.

È questo un fatto di ovvia importanza. Il tedesco è la lingua principale di Lukács, ma l’uso che ne fa è diventato fragile e sgradevole. Il suo è lo stile dell’esilio; ha perso i caratteri della parlata viva. Più essenzialmente: tutto il tono di Lukács, il tenore fervido e a volte angusto della sua visione, riflette il fatto dell’esilio. Da Mosca, circondato da una piccola cerchia di compagni d’esilio, Lukács osservò l’estendersi della crisi sull’Europa occidentale. I suoi scritti sulla letteratura francese e tedesca divennero una difesa appassionata contro le menzogne e la barbarie del periodo nazista. E ciò spiega un grosso paradosso nella produzione di Lukács. Pur essendo comunista per convinzione, materialista dialettico in virtù del suo metodo critico, egli ha tenuto lo sguardo decisamente fisso al passato. Thomas Mann vide nelle opere di Lukács un senso eminente della tradizione. Nonostante le pressioni dei suoi ospiti russi, Lukács prestava soltanto un’attenzione distratta alle conquiste celebrate del «realismo sovietico». Insisteva invece sulla grande tradizione della poesia e della narrativa europea del Settecento e dell’Ottocento, su Goethe e su Balzac, su Walter Scott e Flaubert, su Stendhal e Heine. Quando scrive di letteratura russa, Lukács tratta di Puškin o di Tolstoj, non dei poetastri dell’epoca staliniana. La prospettiva critica è rigorosamente marxista, ma la scelta dei temi è «centroeuropea» e conservatrice.

In mezzo all’apparente trionfo del fascismo, Lukács mantenne una serenità appassionata. Si sforzò di scoprire la tragica pecca, il seme di caos, da cui era scaturita la follia di Hitler. Una delle sue opere, un libro in se stesso stridulo e spesso mendace, s’intitola La distruzione della ragione (1955). È il tentativo filosofico di risolvere il mistero drammatizzato da Thomas Mann nel Dottor Faustus. Come si scatenò l’ondata di tenebre sull’anima tedesca? Lukács fa risalire le origini del disastro all’irrazionalismo di Schelling. Ma al tempo stesso insisteva sull’integrità e la forza vitale dei valori umani. Essendo comunista, Lukács non dubitava che il socialismo avrebbe finito per prevalere. Considerava suo compito particolare quello di organizzare in vista del momento della liberazione le risorse spirituali presenti nella letteratura e nella filosofia europee. Quando le poesie di Heine tornarono a essere lette in Germania, era disponibile un saggio di Lukács che tracciava un ponte tra il futuro e il mondo semidimenticato del liberalismo cui Heine era appartenuto.

Lukács dunque ha offerto una soluzione al duplice dilemma del critico moderno. In quanto marxista, scorge nella letteratura l’azione delle forze economiche, sociali e politiche. Tale azione si basa su certe leggi di necessità storica. Per Lukács la critica è una scienza ancor prima di essere un’arte. La sua preferenza per Balzac su Flaubert non dipende dal consenso o dal gusto personale. È una determinazione oggettiva cui si è pervenuti tramite un’analisi del fatto materiale. In secondo luogo, Lukács ha conferito al suo stile un’intensa immediatezza. Affonda le proprie radici nelle battaglie e nelle circostanze sociali del tempo. I suoi scritti sulla letteratura, come quelli su Tolstoj, sono strumenti di combattimento. Comprendendo la dialettica del Faust di Goethe, dice Lukács, si è meglio attrezzati a leggere gli enigmi sanguinosi del presente. La caduta della Francia nel 1940 è scritta a grossi caratteri nella Comédie humaine. Gli argomenti di Lukács hanno a che fare con problemi fondamentali della nostra vita. Le sue critiche non sono una semplice eco alla letteratura. Anche quando è settario e polemico, un libro di Lukács ha sempre una curiosa nobiltà. Possiede quella che Matthew Arnold chiamò «alta serietà».

III

Ma, in pratica, quali sono i grossi risultati di Lukács come critico e storico delle idee?

Ironicamente, una delle sue opere più influenti risale a un periodo in cui il suo comunismo era venato di eresia. Storia e coscienza di classe (1923) è un caso quasi leggendario. È un livre maudit, un libro dato alle fiamme, di cui sono rimaste relativamente poche copie1. Si trova in esso un’analisi fondamentale della «reificazione» dell’uomo (Verdinglichung), della degradazione della persona umana a oggetto statistico tramite i processi industriali e politici. L’opera fu condannata dal partito e ritirata dall’autore. Ma ha portato a una tenace vita sotterranea e taluni scrittori, come Sartre e Thomas Mann, l’hanno sempre considerata il capolavoro di Lukács.

A mio parere, tuttavia, la sua preminenza si trova altrove: nei saggi e nelle monografie da lui scritte durante gli anni Trenta e Quaranta, che cominciarono a uscire in una sfilza di volumi imponenti dopo la fine della guerra. L’essenza di Lukács si trova nello studio di Goethe e i suoi tempi (1947), nei saggi sul Realismo russo nella letteratura mondiale (1949), nel volume intitolato Realisti tedeschi dell’Ottocento (1951), nel libro su Balzac, Stendhal e Zola (1952) e nella grande opera su Il romanzo storico (1955). A ciò bisognerebbe aggiungere alcuni volumi massicci di carattere più squisitamente filosofico, quali Contributi a una storia dell’estetica (1954), e quello che è forse il magnum opus di Lukács, lo studio di Hegel (di cui apparve il primo volume nel 1948).

È impossibile dare una descrizione breve e tuttavia accurata di una gamma così vasta di materiale. Ma vi sono alcuni motivi che emergono come classici arricchimenti della comprensione che noi abbiamo della letteratura.

Vi è l’analisi lukacsiana del declino del romanzo francese. Lukács è il più grande studioso vivente di Balzac e vede nella Comédie humaine il massimo monumento del realismo. La sua interpretazione di Les illusions perdues è un esempio perfetto del modo in cui la visione dello storico vien fatta pesare sulla struttura di un’opera d’arte. È questa visione a indurre direttamente Lukács a una condanna di Flaubert. Tra Balzac e Flaubert vi è la sconfitta del 1848. Lo splendore delle speranze liberali era sbiadito e la Francia si stava dirigendo verso la tragedia della Comune. Balzac guarda il mondo con l’ardore primitivo della conquista. Flaubert guarda il mondo come attraverso una lente, con disprezzo. In Madame Bovary il bagliore e l’artificio delle parole sono diventati fini a se stessi. Quando Balzac descrive un cappello, lo fa perché un uomo lo porta. La descrizione del berretto di Charles Bovary, dal canto opposto, è un pezzo di virtuosismo tecnico; sfoggia la padronanza che Flaubert ha del vocabolario dei sarti francesi. Ma la cosa è morta. E dietro questo contrasto nell’arte del romanzo, Lukács scorge la trasformazione della società attraverso il capitalismo maturo. In una società preindustriale, o in una società in cui l’industrialismo rimane su piccola scala, il rapporto dell’uomo con gli oggetti fisici che lo circondano ha un’immediatezza naturale. Questa viene distrutta dalla produzione in massa. L’arredamento della nostra vita è il frutto di processi troppo complessi e impersonali perché qualcuno li possa dominare. Isolato dalla realtà fisica, respinto dalla trasandatezza disumana del mondo delle fabbriche, lo scrittore cerca rifugio nella satira o nelle visioni romantiche del passato. Tutte e due le ritirate sono esemplificate in Flaubert: Bouvard et Pécuchet è un’enciclopedia del disprezzo, mentre Salammbô può essere considerato il sogno a occhi aperti di un antiquario un po’ sadico.

Da tale dilemma scaturì quella che Lukács definisce l’illusione del naturalismo, la convinzione che l’artista possa ricatturare un senso di realtà con la semplice forza dell’accumulazione. Mentre il realista seleziona, il naturalista enumera. Come l’insegnante di Hard Times di Dickens, esige fatti e ancora fatti. Zola aveva una fame inesauribile di particolari circostanziati, una passione per gli orari e gli inventari (viene in mente il catalogo dei formaggi in Le ventre de Paris). Provava piacere a infondere la vita in una citazione della Borsa valori. Ma la sua teoria del romanzo, sostiene Lukács, era radicalmente falsa. Porta alla morte della fantasia e al reportage.

Lukács non scende a compromessi con la propria visione critica. Esalta Balzac, realista e animato da princìpi clericali; e condanna Zola, progressista in senso politico e precursore del «realismo socialista».

Ancor più autoritario e originale è il trattamento che Lukács fa del romanzo storico. È questo un genere letterario la cui critica occidentale ha dedicato soltanto un’attenzione superficiale. È difficile focalizzare bene la sfera del romanzo storico. A volte, la sua testa è nelle stelle mitologiche, ma più sovente il grosso si può trovare nella buona terra della letteratura commerciale. Il concetto stesso evoca alla mente improbabili amorosi che inseguono giovinette terrificate eppure vestite vaporosamente attraverso copertine di libri riccamente decorate. Solo rarissimamente, quando interviene uno scrittore come Robert Graves, comprendiamo che il romanzo storico ha virtù ben precise e una nobile tradizione. È a queste che Lukács si rivolge in uno studio importante, Il romanzo storico.

Tale forma nacque da una crisi della sensibilità europea. La rivoluzione francese e l’epoca napoleonica avevano diffuso nella coscienza della gente comune un senso dello storico. Mentre Federico il Grande aveva chiesto che le guerre fossero condotte in maniera tale da non disturbare il corso normale degli eventi, le armate di Napoleone marciarono su e giù per l’Europa riplasmando il mondo lungo la strada. La storia non era più qualcosa che riguardava archivi e principi; era diventata la struttura della vita quotidiana. A tale mutamento i romanzi di Waverley reagirono in maniera profetica e diretta. Anche qui, Lukács si muove su un terreno fresco. Noi non prendiamo Walter Scott con assoluta serietà. Con ogni probabilità, commettiamo un’ingiustizia. Se ci teniamo a sapere che artista attento fosse Scott e quale penetrante senso storico sia all’opera in Quentin Durward o The Heart of Midlothian, la cosa migliore è leggere un libro scritto a Mosca da un critico ungherese.

Lukács prosegue esplorando l’evoluzione della narrativa storica nell’arte di Manzoni, Puškin e Victor Hugo. La sua lettura di Thackeray è particolarmente suggestiva. Egli sostiene che gli elementi archeologici in Henry Esmond e The Virginians esprimono la critica di Thackeray alle condizioni sociali e politiche dei suoi tempi. Togliendo la parrucca al Settecento, il romanziere satireggia la falsità delle convenzioni vittoriane (ciò che i marxisti chiamano zeitgenössische Apologetik). Personalmente ritengo che Lukács interpreti male Thackeray. Ma si tratta di un errore fruttuoso, come lo sono spesso gli errori della buona critica, e conduce a un’idea originalissima. Lukács nota che il discorso arcaico, per abilmente maneggiato che sia, di fatto non avvicina il passato alla nostra fantasia. I maestri classici del romanzo storico scrivono narrativa e dialogo nel linguaggio dei propri tempi. Creano l’illusione del presente storico tramite la forza della fantasia realizzata e perché essi stessi sperimentano il rapporto tra la storia passata e il proprio tempo come un rapporto di continuità viva. Il romanzo storico vacilla quando questo senso di continuità non è più prevalente, quando lo scrittore sente che le forze della storia trascendono la sua comprensione razionale. Egli allora si rivolge a un passato sempre più remoto o esotico per protestare contro la vita contemporanea. Invece del romanzo storico, troviamo laboriosa archeologia. Si confronti la poetica della storia implicita in La certosa di Parma con l’artificio erudito di Salammbô. Tra artefici meno abili di Flaubert questo senso dell’artificio è rafforzato dall’uso arcaico del linguaggio. Il romanziere si sforza di rendere autentica la propria visione del passato scrivendo i dialoghi in quella che suppone sia stata la sintassi e lo stile del periodo in questione. È, questo, un debole artificio. Forse che Shakespeare avrebbe fatto meglio a far parlare Riccardo II in inglese chauceriano?

Ora, come osserva Lukács, questo declino del concetto classico del romanzo storico coincide esattamente con il passaggio dal realismo al naturalismo. In entrambi i casi, la visione dell’artista perde la propria spontaneità: in un certo modo, egli è estraneo al proprio materiale. Ne consegue che i problemi di tecnica diventano predominanti a spese della sostanza. L’immagine di Glasgow in Rob Roy è storicamente percettiva, ma scaturisce in maniera più significativa dai conflitti sociali e personali della narrazione. Non è un pezzo di restauro antiquario. Ma questo è proprio ciò che è l’immagine di Cartagine in Salammbô. Flaubert ha costruito un sontuoso guscio vuoto attorno a un’azione autonoma. Come osservò Sainte-Beuve, è difficile conciliare le motivazioni psicologiche dei personaggi con l’ambiente storico presentato. Walter Scott credeva nello spiegarsi razionale e progressivo della storia inglese. Vedeva negli avvenimenti dei propri tempi una conseguenza naturale di energie liberate nel corso del Seicento e del Settecento. Flaubert, al contrario, si volse all’antica Cartagine o ad Alessandria perché trovava insopportabile la propria epoca. Non essendo in sintonia con il presente – vide nella Comune un tardo spasimo del Medioevo – non riuscì a raggiungere una comprensione fantastica del passato.

Si concordi o no con questa analisi, la sua originalità e la sua ampiezza di riferimenti sono evidenti. Essa illustra l’esercizio essenziale di Lukács: lo studio attento del testo letterario alla luce di problemi politici o filosofici di vasta portata. Lo scrittore o l’opera singola sono il punto di partenza. Di qui la discussione di Lukács si muove all’esterno attraverso un terreno complesso. Ma il tema o l’idea centrale sono tenuti continuamente di vista. Infine, la dialettica si fa serrata, ordinandone gli esempi e le convinzioni.

Analogamente, il saggio sulla corrispondenza tra Goethe e Schiller verte soprattutto sulla discussa questione della natura delle forme letterarie. La discussione dell’Hyperion di Hölderlin dà il via a uno studio del ruolo cruciale e tuttavia ambiguo svolto dall’ideale ellenico nella storia dello spirito tedesco. Nelle sue numerose considerazioni su Thomas Mann, Lukács s’interessa di quello che considera il paradosso dell’artista borghese in un secolo marxista. Lukács sostiene che Mann decise di star fuori dalla corrente della storia, pur rendendosi conto del carattere tragico della propria scelta. Il saggio su Gottfried Keller è un tentativo di chiarire il difficilissimo problema dell’arresto dello sviluppo della letteratura tedesca dopo la morte di Goethe. In tutti questi esempi, non è possibile separare il singolo giudizio critico dal più ampio contesto filosofico e sociale.

Essendo la sua discussione così serrata e fitta, è difficile offrire citazioni significative dalle opere di Lukács. Forse un breve passo tratto da un saggio su Kleist può comunicarne il tono dominante:

Il concetto di passione di Kleist porta il dramma vicino all’arte del racconto. Una singolarità intensificata è presentata in una maniera che ne sottolinea la unicità accidentale. Nel racconto ciò è assolutamente legittimo. Questo è infatti un genere letterario concepito appositamente per rendere reale il ruolo immenso della coincidenza e della contingenza nella vita umana. Ma se l’azione rappresentata resta al livello di coincidenza… e se riceve la dignità di dramma tragico senza prova alcuna della sua obiettiva necessità, si avrà inevitabilmente un effetto di contraddizione e di dissonanza. I drammi di Kleist, di conseguenza, non indicano la strada maestra del dramma moderno. Tale strada va da Shakespeare, attraverso gli esperimenti di Goethe e di Schiller, al Boris Godunov di Puškin. A causa del declino ideologico della borghesia, essa non ebbe un seguito adeguato. I drammi di Kleist rappresentano una strada laterale irrazionale. La passione individuale isolata distrugge il rapporto organico tra il fato della persona individuale e la necessità sociale e storica. Con la dissoluzione di tale rapporto, le basi poetiche e filosofiche del genuino conflitto drammatico sono a loro volta distrutte. La base del dramma si fa esile e angusta, esclusivamente privata e personale… Le passioni kleistiane rappresentano senza dubbio una società borghese. La loro dialettica interna riflette conflitti tipici di individui che sono diventati «monadi senza finestre» in un ambiente borghese.

Il riferimento a Leibniz è tipico. La qualità della mente di Lukács è filosofica, nel senso tecnico della parola. La letteratura concentra e concretizza quei misteri di significato che costituiscono l’interesse principale del filosofo. Sotto questo aspetto, Lukács appartiene a una tradizione notevole. La Poetica è critica filosofica (il dramma visto come il modello teorico dell’azione spirituale); come lo sono gli scritti critici di Coleridge, Schiller e Croce. Se l’andatura è pesante, è perché la materia in discussione è insistentemente completa. Come altri critici filosofi, Lukács affronta problemi che hanno tormentato l’indagine dai tempi di Platone. Quali sono le distinzioni fondamentali tra epica e dramma? Che cos’è la «realtà» in un’opera d’arte, l’antico enigma dell’ombra che pesa di più della sostanza? Qual è il rapporto tra la fantasia poetica e la percezione comune? Lukács solleva il problema del personaggio «tipico». Perché certi personaggi letterari – Falstaff, Faust, Emma Bovary – possiedono una carica di vita maggiore di quella di una moltitudine di altre creature fantastiche e anzi della maggior parte degli esseri viventi? È perché sono archetipi in cui i caratteri universali convergono e ricevono una forma memorabile?

Le indagini di Lukács attingono a un campo straordinario di documentazione. Egli dà l’impressione di possedere tutta la letteratura europea moderna e tutta la letteratura russa. Questo consente una rara combinazione di robusta esattezza filosofica e di ampiezza di visione. Per contrasto, Leavis, che non è meno moralista né lettore meno attento di Lukács, è cautamente provinciale. In fatto di universalità, l’equivalente di Lukács sarebbe Edmund Wilson.

Ma la medaglia ha un suo rovescio. La critica di Lukács ha la sua parte di cecità e di ingiustizia. A volte scrive con oscurità astiosa quasi ad affermare che lo studio della letteratura non dovrebbe essere un piacere ma una disciplina e una scienza, difficile da accostare come le altre scienze. Questo l’ha reso insensibile ai grandi musicisti del linguaggio. Lukács manca di orecchio; non possiede quel diapason interiore che consente a Ezra Pound di scegliere senza sbagliare l’istante di gloria di un lungo poema o di un romanzo dimenticato. Nell’omissione di Rilke da parte di Lukács vi è un’oscura protesta contro la meraviglia del linguaggio del poeta. In un certo senso, scrive troppo mirabilmente. Anche se lo negherebbe, inoltre, Lukács tende davvero all’errore fondamentale della critica vittoriana: il contenuto narrativo, la qualità della favola, influenza la sua valutazione. La sua incapacità di includere Proust, ad esempio, getta il dubbio su tutta la visione che Lukács ha del romanzo francese. Ma la trama della Recherche du temps perdu, il fasto e le perversità che Proust descrive, offendono ovviamente il moralismo austero di Lukács. Il marxismo ha un credo puritano.

Come tutti i critici, anch’egli ha le sue avversioni particolari. Lukács detesta Nietzsche ed è insensibile al genio di Dostoevskij. Ma essendo un marxista coerente, fa della cecità una virtù e attribuisce alle sue condanne un valore oggettivo e sistematico. Leavis si trova evidentemente a disagio con le opere di Melville. T. S. Eliot ha condotto una lunga e sottile polemica con la poetica di Milton. Ma in essa le cortesie fondamentali vengono rispettate. Le argomentazioni di Lukács sono ad hominem. Infuriato dalla visione del mondo di Nietzsche e Kierkegaard, egli ne consegna le persone e le fatiche all’inferno spirituale del prefascismo. Questa, naturalmente, è un’interpretazione erronea e grottesca dei fatti.

Di recente, questi difetti di visione si sono fatti più drastici. La distruzione della ragione e i saggi di estetica apparsi da allora, ne sono guastati. Senza dubbio, vi è un problema di età. Lukács aveva settant’anni nel 1955 e i suoi odii si sono irrigiditi. Vi è in parte il fatto che Lukács è ossessionato dalla rovina della civiltà della Germania e dell’Europa occidentale. Va a caccia dei colpevoli da consegnare al Giudizio Finale della storia. Ma vi è soprattutto, a parer mio, un intenso dramma personale. All’inizio della sua brillante carriera, Lukács strinse un patto con il demone della necessità storica. Il diavolo gli promise il segreto della verità oggettiva. Gli diede il potere di impartire benedizioni o pronunciare condanne in nome della rivoluzione e delle «leggi della storia». Ma dal ritorno di Lukács dall’esilio, il diavolo è rimasto in agguato nei dintorni, chiedendo il proprio onorario. Nell’ottobre del 1956, ha picchiato con forza alla porta.

IV

Accenniamo qui a fatti di natura personale. La parte svolta da Lukács nell’insurrezione ungherese e il monachismo successivo della sua vita personale hanno un ovvio interesse storico. Ma contengono un elemento di agonia privata cui un estraneo difficilmente può accedere. Un uomo che perde la propria religione perde le proprie convinzioni. Un comunista per cui la storia si mette a fare salti mortali corre il rischio di perdere la ragione. Forse, è peggio così. Quanti non l’hanno provato, tuttavia, difficilmente possono capire che cosa significhi un simile crollo di valori. Inoltre, nel caso di Lukács, i moventi dell’azione sono oscuri.

Accettò il posto di ministro della Cultura nel governo di Nagy. Non, ritengo, per essere tra le guide di un movimento antisovietico, bensì piuttosto per conservare il carattere marxista della vita intellettuale ungherese e proteggerne l’eredità fondamentale contro le forze rinascenti della destra agrario-cattolica. Più essenzialmente, forse, perché un Lukács non può aderire a un solo lato della storia anche quando questa assume forme assurde. Non può essere uno spettatore. Ma il 3 novembre, un giorno prima che l’Armata Rossa riconquistasse Budapest, Lukács si dimise. Perché? Aveva deciso che un marxista non deve opporsi alla volontà dell’Unione Sovietica in cui s’incarna, nel meglio e nel peggio, il futuro del materialismo dialettico? Fu convinto a ritirarsi da una causa persa da amici che temevano per la sua vita? Non sappiamo.

Dopo un periodo di esilio in Romania, Lukács ottenne il permesso di tornare in patria. Ma non gli fu più consentito di insegnare e la sua opera passata divenne oggetto di attacchi e di scherni sempre più feroci. Tali attacchi in realtà sono anteriori all’insurrezione di ottobre. L’Ungheria aveva la sua versione in miniatura di Ždanov, un omuncolo feroce di nome Joseph Revai. Dapprima allievo di Lukács, ma poi geloso della celebrità del maestro, Revai pubblicò un opuscolo sulla Letteratura e democrazia popolare nel 1954. In esso redasse un atto d’accusa stalinista di tutto il lavoro di Lukács. Accusò Lukács di aver costantemente trascurato la letteratura sovietica contemporanea. Lo accusò di essere pericolosamente antiquato nella sua concentrazione su Goethe e Balzac. Persino un romanzo mediocre di un comunista, sostiene Revai, è infinitamente preferibile a un grande romanzo di un reazionario o di un premarxista. Lukács pone gli ideali letterari «formalistici» al di sopra degli interessi di classe e di partito. Il suo stile è inaccessibile al lettore proletario.

Dopo ottobre, tali accuse si fecero meno stridule. I pubblicisti ungheresi e tedesco orientali tirarono fuori di nuovo le vecchie accuse di eresia rivolte ai primi scritti di Lukács. Rievocarono la sua ammirazione giovanile per Stefan George e scorsero tracce di «idealismo borghese» nelle sue opere mature. Il vecchio tuttavia non fu toccato e per uno di quei giudizi strani, kafkiani, ammessi a volte dai regimi comunisti, gli fu persino consentito di pubblicare un volumetto di saggi presso una casa editrice della Germania Occidentale (Wider den missverstandenen Realismus, Amburgo, 1958).

Può darsi che la relativa immunità di Lukács sia dovuta all’interesse che gli intellettuali socialisti al di fuori della cortina di ferro hanno avuto per il suo caso. Ma certamente il problema più importante è questo: come considerò Lukács stesso le sue convinzioni e i suoi risultati alla luce della tragedia di ottobre? Fu attirato dal grande limbo della delusione? I suoi dei finirono per abbandonarlo?

Questioni del genere non possono essere spinte molto lontano senza cadere nella futilità: esse coinvolgono quel luogo intimo di illusione vitale che conserva la coscienza religiosa o rivoluzionaria. Il giudizio espresso da Lukács sulla rivoluzione ungherese si trova in una prefazione da lui scritta nell’aprile del 1957: «Avvenimenti importanti si sono verificati in Ungheria e altrove, costringendoci a rimeditare molti problemi connessi con l’opera di tutta la vita di Stalin. La reazione a quest’ultimo, sia nel mondo borghese che nei paesi socialisti, sta assumendo la veste di una revisione degli insegnamenti di Marx e di Lenin. E ciò costituisce certamente la minaccia principale al marxismo-leninismo». Queste parole sembrano eludere disperatamente il punto. Ma teniamo bene in mente una cosa soltanto: per uomini come Koestler o Malraux, il comunismo fu un espediente temporaneo di passione. Il comunismo di Lukács è la fibra stessa della sua intelligenza. La sua interpretazione della crisi dell’ottobre 1956, qualunque possa essere, sarà stata ottenuta entro la cornice di una visione dialettica della storia. L’uomo che ha perso la vista continua a vedere quanto gli sta intorno in forma di immagini ricordate. Per sopravvivere intellettualmente, Lukács deve aver elaborato un compromesso interiore di qualche genere: simili spedizioni punitive nella propria coscienza sono tipiche della condizione marxista. Il suo commento sulla minaccia del revisionismo ci indica la strada. Se lo interpreto in maniera corretta, Lukács sta dicendo che l’episodio ungherese è un’estensione finale, una reductio ad absurdum della politica stalinista. Ma tale politica era una falsa partenza dalla dottrina marxista-leninista e la violenza con cui venne attuata ne prova soltanto il fallimento. La giusta reazione al disastro ungherese non implica pertanto un abbandono dei princìpi primi marxisti. Al contrario, bisogna tornare a tali princìpi nella loro formulazione genuina. O, come si esprimerebbe uno dei capi dell’insurrezione: «Opponiamoci all’Armata Rossa in nome del Soviet dei lavoratori di Leningrado del 1917». Vi è forse, in questa idea, l’antico, ingannevole sogno del comunismo separato dall’oscurantismo e dalle ambizioni particolari della dominazione russa.

Lukács si è sempre ritenuto responsabile verso la storia. Ciò gli ha consentito di produrre un corpo di opere critiche e filosofiche che esprimono intensamente lo spirito crudele e serio dell’epoca. Che noi ne condividiamo o no le convinzioni, non c’è dubbio che egli ha conferito alla Musa minore della critica una notevole dignità. Gli ultimi anni di solitudine e di pericolo ricorrente non fanno che sottolineare quanto ho osservato all’inizio: nel Novecento non è facile per una persona onesta fare il critico letterario. Ma, del resto, non lo è stato mai.

1 Storia e coscienza di classe è ora reperibile in francese. Viene inoltre ristampato anche nell’edizione tedesco-occidentale delle opere complete di Lukács, insieme con altri saggi giovanili che sono tra i suoi migliori prodotti in campo filosofico e fanno di lui un autentico predecessore di Walter Benjamin. Le autorità culturali dell’Est permettono queste pubblicazioni occidentali di libri marxisti eretici ma prestigiosi: è questo un tocco caratteristico di politica «bizantina».

La lotta fra progresso e reazione nella cultura d’oggi

di György Lukács

[A haladas és reakció harca a mai kulturabán, in «Társadalmi Szemle», giugno-luglio 1956; G.L., La lotta fra progresso e reazione nella cultura d’oggi, trad. it. Giorgio Dolfini, Feltrinelli, Milano 1957,  ora in G.L., Marxismo politica culturale, Einaudi, Torino 1968].


I.

Quando parliamo di un problema che divide tutta un’epoca in due campi opposti, dobbiamo chiederci qual è, nella teoria e nella prassi, il principio che agisce qui, vale a dire la forza che stabilisce questa scissione in due campi.

Sembra evidente, anche a prima vista, che ci troviamo di fronte a due mondi: quello del capitalismo e quello del socialismo. Una contrapposizione, questa, indubbiamente giusta, in quanto rispecchia la contraddizione fondamentale della nostra epoca. Tuttavia il problema che si pone è questo: se si possa trasporre una tal contraddizione su un piano concreto direttamente e senza alcuna mediazione. Continua a leggere