È morto a Budapest Lukács maestro del pensiero marxista

«Corriere dell’Informazione-Corriere della sera», 5-6 giugno 1971


Aveva 86 anni. La sua lunga ricerca come storico e teorico. Dopo la rivolta del 1956 era stato posto al bando. Parziale autocritica

Vienna, 5 giugno.

Il filosofo ungherese György Lukács, di cui è stata annunciata ieri sera la morte a Budapest, aveva 86 anni. Era considerato uno dei più importanti rappresentanti della filosofia ed estetica marxiste contemporanee.

Nato a Budapest il 13 aprile 1885, Lukács studiò ad Heidelberg, Parigi e Berlino. Aderì al partito comunista nel 1918 e fu vice-commissario del popolo per l’istruzione pubblica durante il regime comunista ungherese nel 1919. In seguito a ciò nel 1920 gli era stato tolto il titolo di dottore.

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È morto Lukács il marxista inquieto

di C.S.

«Corriere della sera», 5 giugno 1971


Fu ministro dell’Istruzione nel governo ungherese di Nagy ma poi accettò una parziale ritrattazione pur di tornare in patria. Ortodossia e revisione. L’eco della sua opera in Italia

Budapest, 4 giugno.

L’agenzia ungherese MTI annuncia la morte, avvenuta oggi a Budapest, del filosofo marxista ungherese György Lukács. Aveva 86 anni.

«Il marxismo ortodosso — scriveva Lukács nel 1923 in Storia e coscienza di classe — non significa una accettazione acritica dei risultati della ricerca marxiana, non implica un atto di fede in questa o in quella tesi di Marx e neppure l’esegesi di un libro sacro. Per ciò che concerne il marxismo l’ortodossia si riferisce esclusivamente al metodo». A questo postulato Lukács si attenne sempre, ma, moderno Sisifo, vide sempre ricacciate le idee che tentava di spingere col rigore di una coscienza intrepida. Come critico letterario, infatti, combatté sempre contro il decadentismo ed il naturalismo, ma queste involuzioni gli riapparvero sempre sotto vari camuffamenti. E come marxista militante combatté sempre il dogmatismo ed il settarismo della burocrazia del partito, ma vide sempre risorgere anche questi due mostri.

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Lukács, un eretico senza rogo

di Federico Argentieri e Antonino Infranca

«Corriere della sera» 30 maggio 2021


Il pensatore ungherese scomparve 50 anni fa: fu sempre comunista, pur con atteggiamenti critici. Isolato ma non perseguitato, anche dopo avere partecipato alla rivoluzione del ’56, oggi viene svalutato dalla destra di Orbán

Fino a qualche decennio fa, György Lukács – di cui il 5 giugno ricorre il cinquantennale della morte – era considerato uno dei maggiori filosofi del Novecento, poi il crollo del socialismo realizzato e il generale disinteresse verso il marxismo gli hanno fatto perdere immeritatamente l’importanza che aveva raggiunto. Rispetto ad altri autori, però, Lukács vanta una particolarità: era un pensatore di grande livello prima ancora di diventare marxista. Nato il 13 aprile 1885 in una famiglia dell’alta borghesia ebraica di Budapest il padre József, direttore del Banco Anglo-Ungherese, era uno degli uomini più ricchi del Paese – il giovane Lukács sentiva il vuoto di valori etici della classe sociale a cui apparteneva e se ne sentiva estraneo, andando, quindi, alla ricerca di alternative. Da questa consapevolezza nascono molte riflessioni di Lukács che troveranno sbocco nella sua adesione al marxismo. E che manifestano già una maturità teorica straordinaria. Le sue riflessioni giovanili furono indirizzate verso l’arte, nella speranza di un’emancipazione della società civile ungherese dalle forme culturali e spirituali feudali che ancora vi dominavano.

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La figura di Lukács  esaltata da tutta la stampa ungherese

di Arturo Barioli

«L’Unità», 7 giugno 1971

Omaggio del Partito e del popolo alla memoria del gronde pensatore

L’organo del Comitato centrale del POSU ricorda il coraggio del militante, la sua capacità critica e autocritica, la sua piena dedizione al socialismo


BUDAPEST, 6 giugno

È diffìcile dare oggi, al­l’indomani della sua morte, la misura della gravità della perdita che la scomparsa di György Lukács rappresen­ta per la cultura e la vita ungherese e per il pensiero marxista internazionale. Co­sì scrivono oggi gli organi di partito e tutti i giornali ungheresi in una commossa rievocazione della figura del grande filosofo marxista. La biografia, che assume un carattere ufficiale, fa seguito ad un comunicato congiunto del Comitato centrale del Partito Operaio Socialista Ungherese e della Accademia delle scienze in cui si annuncia che i funerali di Lu­kács avranno luogo giovedì 10 alle ore 12 e che la salma sarà inumata nel «pantheon» del movimento operaio al cimitero Kerepesi.

Di Lukács i giornali un­gheresi, la radio, la televi­sione illustrano ampiamente l’opera filosofica ed estetica, la sua lunga appassionata e feconda partecipazione alla battaglia culturale dai pri­mi anni del novecento fino ad oggi. Ma soprattutto met­tono in rilievo il suo rigore di pensatore marxista, la sua onestà intellettuale, la sua coerenza, il suo pronfondo attaccamento alla causa del movimento operaio in­ternazionale di cui è stato fino alla fine un membro attivo ed impegnato. Scrivo­no i giornali che il lutto per la sua morte ha colpito non solo gli intellettuali ma milioni di uomini semplici, che forse non hanno capito tutto la profondità della sua opera filosofica ed estetica, poiché Lukács poneva anche il lavoro scientifico più astratto al servizio della vita umana e di una società migliore.

Lukács aveva scelto la vi­ta del militante comunista piena di sacrifici e di soffe­renze. Tutta la sua vita, dal primo incontro con l’opera di Marx nei primi anni del novecento alla sua attività di commissario nella Repub­blica dei consigli alla appas­sionata difesa della Rivolu­zione d’Ottobre alla implaca­bile lotta contro l’ideologia fascista ed imperialista al suo insegnamento nell’Ungheria popolare dopo il ’45 fu dedicata alla ricerca e al­la costruzione di un modello di politica culturale demo­cratica socialista, a trovare una armonizzazione tra ri­voluzione sociale e cultura­le.

Una vita esemplarmente coerente, il cui esempio è valso quanto le sue opere ad educare generazioni e gene­razioni di marxisti e di com­battenti della classe operaia. Il suo rigore scientifico e la passione con la quale si gettava nella lotta hanno fatto si che nessuno, neppu­re chi gli era avversario, riuscisse a sottrarsi all’in­fluenza del suo pensiero. An­che i suoi nemici, scrivono i giornali, hanno dovuto ri­conoscere la forza intellet­tuale e la coerenza con le quali ha difeso i principi del marxismo. Aveva il co­raggio dello studioso, affer­ma il Nepszabadsag ricor­dando una intervista con­cessa da Lukács al giornale nel 1967; in essa Lukács ave­va detto tra l’altro: «Riten­go mio dovere esprimere con precisione e con fermezza le mie idee anche se queste suscitano discussioni. Anzi è bene se le suscitano».

Il giornale ricorda che Lu­kács non mancò di avere contrasti anche nell’ambito del movimento comunista, ma che sempre ebbe il co­raggio di assumersi le pro­prie responsabilità, di criti­care anche se stesso e su­perare i propri errori.

E la radio ungherese ha detto che come iscritto al POSU Lukács ha criticato sempre e decisamente tutto quello che riteneva sbaglia­to, partendo tuttavia dalla opinione che anche il socia­lismo meno buono valesse più del migliore capitalismo.

Grande, incalcolabile è la perdita subita dalla cultura e dal popolo ungherese, dal pensiero marxista di tutto il mondo; ma l’Ungheria di oggi, concludono i giornali, saprà raccogliere l’eredità di Lukács, delle sue opere e della sua più che cinquan­tennaria milizia comunista.

Nel travaglio per costruire una nuova società

di Bruno Schacherl

«L’Unità», 6 giugno 1971

Ecco. Questa è l’immagine di Lukács che vorremmo pre­servare, al di là delle infinite e anche contraddittorie vicen­de del suo pensiero. Certo, si scontava in queste vicende tutto il dramma del grande intellettuale del nostro secolo: l’ambiguità insita nella sua stessa collocazione al centro della crisi dei valori borghesi e nel travaglio per la costru­zione di una società nuova, la scissione di un mondo irri­mediabilmente diviso e aliena­to, la storicità delle singole conquiste ma anche dei tragi­ci errori, l’impossibilità dun­que di ricostituire, se non a prezzo di una fuga nell’utopia o di una serie di concessioni alla staticità e dunque all’antistoricità dei «modelli», quella «totalità» dell’uomo e del reale che proprio nel giovane Lukács, teorico dell’alienazio­ne capitalistica e della crisi dei valori morali e culturali borghesi, aveva trovato una delle espressioni più alte.

Al centro di tutti i processi culturali europei degli anni dieci e venti, coinvolto più tardi nella tragedia dello stalinismo a cui diede un contributo teorico (e tale è senza dubbio il suo intervento nella polemica iniziale sul «reali­smo socialista») ma insieme oppose una costante resisten­za critica, il filosofo unghere­se dovrà essere certamente di­scusso in tutti gli aspetti del suo pensiero. Ma chi vorrà far­lo, dovrà tener conto del me­todo che egli è stesso ci ha in­segnato, e che è il suo più vero contributo al marxismo del no­stro secolo: il metodo della critica storica concreta, che spiega gli errori non per giu­stificarli, ma per batterli e andare avanti. Gli anni diran­no, e forse hanno già comin­ciato a dire (su poche perso­nalità del nostro tempo la let­teratura critica è più vasta e ininterrotta), quanto di Lu­kács sia caduco. Personalmente penso, ad esempio, che tutta una serie di sue posizioni let­terarie (la critica alle avan­guardie, il sogno balzacchiano e manniano, la polemica con Brecht, ecc.) sia storicamente superata, anche se ha marcato di sé intere generazioni di cri­tici. E tuttavia, sento profondamente la necessità che i conti con queste posizioni non vengano mai considerati chiu­si una volta per tutte.

Una presenza ininterrotta dentro la mischia

È del resto questo un altro aspetto e non dei meno signi­ficativi della presenza inin­terrotta di Lukacs in tutta la cultura mondiale, fino all’ultimo giorno della sua vita operosa. Il rispetto a cui la sua figura ha costretto anche ne­gli anni più duri amici e av­versari, non è il rispetto per un «maestro» indiscusso o l’equivoco che può andare a chi si tiene al di sopra della mischia: è la necessità di fare i conti con posizioni anche av­versate ma nelle quali si av­verte l’espressione di necessi­tà oggettive, di bisogni reali di un’epoca. Più che le sue risposte, contano dunque le sue domande, sempre nuove e sempre vere, avanzate nel cor­so di tutto questo secolo a quelli che ne erano i protagonisti storici. A queste, do­vremo saper dare anche noi – come movimento operaio e come intellettuali d’avanguar­dia – delle risposte che siano all’altezza dei tempi «grandi e terribili» che viviamo. E per poterla dare, dovremo tornare, con pazienza e umil­tà, su tutta la sua sterminata opera, discutere ancora e sem­pre con la grande voce che si e spenta.

Mi sia perdonato, a conclu­sione, il ricordo personale: ri­guarda l’unico incontro che ho avuto cinque anni fa – in occasione della citata intervista a l’Unità – col vecchio filoso­fo nella sua bella casa sul Danubio, in una sera di lu­glio. Quella conversazione che pareva passare da un tema all’altro, come un lento os­sessivo seppure lucidissimo monologo, e che invece all’im­provviso si ricomponeva nel suo ordine logico esemplare e rivelava l’immenso retroter­ra di meditazione, di sofferenza, di lotta da cui era scatu­rita. La discussione durò varie ore. È continuata, in me, da lontano, quella voce, per molti anni. Quella voce che ora è taciuta, risuona oggi come uno dei segni più alti dei nostro tempo.

Un punto di riferimento per la cultura moderna

Dichiarazioni di Cesare Luporini, L. Lombardo Radice ed Enzo Paci

«L’Unità», 6 giugno 1971

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CESARE LUPORINI

«Lo sapevamo al lavoro, ancora fino a poche settimene orsono, nonostante la tar­da età, ed era un lavoro che ci teneva sempre in attesa. Anche questo faceva parte della sua grandezza. Possia­mo adoperare tale parola sen­za esitazione, nello sgomento per l’improvvisa scomparsa.

È la scomparsa di un punto di riferimento, a cui si guardava; di una straordina­ria, acuta capacità di inter­vento che sapeva comunque tenerci in tensione e faceva parte di noi da decenni. Di noi più anziani: ma era lo stesso per tanti giovani. Perchè credo che il primo elemento della grandezza di Lukács sia il carattere di militante rivo­luzionario, marxista, caratte­re che per più di cinquanta anni, in momenti e modi an­che drammatici, ha impron­tato tutta la sua opera, così come la sua presenza.

Oggi questa presenza en­tra di colpo in un’altra dimen­sione, che non è però sempli­cemente quella della storia, cioè del passato da interpre­tare. Ma è quella di un pen­siero che si è compiuto per­chè si è interrotto e che, sul terreno della filosofia, della politica, della critica, conti­nua e continuerà a lungo a riproporsi. Ma al di là di que­sto vi è un nodo decisivo che sta al centro della vita di Lu­kács. È l’intreccio certo dif­ficile, ma essenziale, tra l’es­sere militante rivoluzionario e l’essere produttore di cono­scenza, ricercatore di verità. Questo è il significato profon­do e organico del suo lavoro, che non è lecito mettere tra parentesi. È anche il pro­blema che egli ci impone, men­tre ci mostra, nello stesso tem­po, che esso non è mai chiuso e risolto definitivamente».


L. LOMBARDO RADICE

In questo momento di com­mozione, non penso tanto al grande patrimonio che la cul­tura europea e mondiale tut­ta eredita dal marxista Lu­kács, quanto all’insegnamento etico politico che il compagno Lukács ha lasciato come ta­cito testamento ai militanti comunisti, in particolare agli intellettuali comunisti. Disci­plina di lotta e autonomia di pensiero: questi sono stati i due poli della dura dialettica che ha stretto nella sua mor­sa la lunga, fedele e libera milizia comunista di György Lukács. Egli era una voce del­la ragione, della critica, del coraggio intellettuale che si le­vava dentro il comunismo e per il comunismo. Criticare il movimento restando parte di esso: questo ci sembra l’in­segnamento del comunista Lukács a tutti gli intellettua­li comunisti, anzi, a tutti i compagni, intellettuali e no.


ENZO PACI

La morte di György Lukács, stranamente, ci trova impre­parati. Forse pensavamo che, anche questa volta, sarebbe stato più forte della sua ma­lattia. Ma la pace è scesa su di lui. Quante ne ha dovute vedere! E sempre ha pensato, anche quando le cose andava­no molto male, che il sociali­smo avrebbe finito per vin­cere.

Per i miei studi devo a Lukács l’approfondimento del te­ma dell’alienazione. Lukács non pensava a un rapporto Husserl-Marx, ma i suoi di­scepoli scrivono oggi che in gran parte la differenza con noi è solo di linguaggio. Così hanno preparato un numero di Aut Aut che, oltre a un saggio di Lukács Sull’ontologia conterrà un dialogo, proprio un dialogo fra personaggi fenomenologi e marxisti. Dob­biamo il dialogo alla viva in­telligenza di Mihaly Vajda.

Ricordo un vivace e lungo dibattito con Lukács, tenuto alla Casa della Cultura il 26 maggio 1966. Lukács difendevaa Thomas Mann contro Kaf­ka. Sapeva del miei studi su Mann e non capiva perché di­fendevo Kafka. Per lui Mann era una soluzione positiva della vita e Kafka una via senza uscita. Mi piacerebbe dirgli che aveva ragione ma che penso anche ad una vit­toria sul mostro kafkiano.

La grande, laboriosa vita di György Lukács ha attraversa­to, nell’arco dei suoi ottantasei anni, la cultura e le guerre di classe del nostro secolo, e ha finito per rappresentare per tutti – amici e avversari – un punto di riferimento ineli­minabile nell’ininterrotto con­fronto del pensiero con la drammaticità della storia. Anche il suo termine ha qual­cosa di emblematico: rifiutan­do, come aveva sempre fatto, di rinchiudessi nel già com­piuto, di autogiustlficare le proprie conquiste e i propri errori, il vecchio filosofo non ha voluto porre la parola fine alla sua opera, e ha conclu­so la serie ormai sterminata delle sue pubblicazioni con una monumentale Estetica che però si presentava solo come la premessa a uno stu­dio ancora più ampio che – era ovvio – non sarebbe mai stato compiuto, e con gli stu­di di ontologia e di etica marxista che, anch’essi, appariva­no piuttosto come prolegomeni all’immenso lavoro che re­sterà ancora da fare… Come se quella totalità del mondo e del pensiero, che tutta la riflessione della sua vita ave­va cercato di abbracciare e ri­comporre, fosse appunto l’obiettivo coscientemente uto­pico da lasciare in eredità al posteri, quasi una ripresa «all’infinito» dell’antico sogno enciclopedistico degli illumi­nisti.

Vi è in questo atteggiamento consapevole la chiave di tutta la sua visione del mondo, così legata alla grande tradizione classica tedesca, a Goethe e a Hegel, ai dati totalizzanti di una grande cultura prima del­la crisi. Ma vi è anche la co­scienza, non utopica ma viril­mente pessimista, della infini­ta complessità del processo storico di cui egli si è tro­vato ad essere testimone e in­terprete non certo marginale, e insieme appunto protagoni­sta: insomma, della fase di transizione come carattere distintivo della nostra epoca, che esige quindi da tutti co­raggio e pazienza, l’eroismo delle rotture e quello dei si­lenzi, la lotta quotidiana e la visione del futuro da costrui­re. Non per nulla, proprio gli ultimi anni di Lukács sono stati – insieme all’attività fi­losofica cui abbiamo accenna­to – tra i più fecondi di inter­venti politici diretti, tutt’altro che «olimpici» e distacca­ti, ma sempre nel vivo della problematica dei paesi socia­listi, dello scontro mondiale tra imperialismo capitalismo e socialismo, di quello che egli chiamava il «rinascimento del marxismo».

Ciò che stupiva in quelle ce­lebri interviste, talora di al­tissimo livello teorico pur nella limpida e piana forma discorsiva, era il continuo e strettissimo legame tra il ge­sto politico, la presa di posizione e la polemica senza ri­guardi per nessuno, e l’elabo­razione dei principi generali. L’un aspetto dava la mano al­l’altro: politico in quanto teo­rico al livelli più alti del pensiero contemporaneo, teorico in quanto politico militante, Lukács era sempre al suo posto di lotta, scelto clnquant’anni prima quando aveva ade­rito alla Repubblica ungherese del Consigli ed era stato commissario del popolo all’struzione nel governo di Béla Kun. Tra questi interventi – oltre la ben nota intervista all’Unità del 1966 sul rapporto tra democratizzazione e ri­forma economica nei paesi so­cialisti (che annunciava il rientro del filosofo tra le file del comunisti ungheresi dopo il dramma del 1956) e a Kortárs (il contemporaneo) sul marxismo e la coesistenza – credo vada dato un posto di grande rilievo alla prefazione all’edizione italiana di Storia e coscienza di classe, che è del 1967. In quello scritto, che rappresenta in un certo senso la sua ultima autobiografia ideale, e non a caso è imper­niato su quella delle sue ope­re che, dopo aver espresso la svolta culturale e politica decisiva della sua vita, era stata negli anni successivi og­getto di aspre polemiche, di scomuniche e anche di ardue ma generose autocritiche, in quello scritto Lukács non guardava tanto al passato, al suo passato di «grande intel­lettuale» arrivato al marxi­smo, alla lotta di classe e alla milizia rivoluzionaria, quanto al presente e al futuro. La sua critica al dogmatismo, serrata, coraggiosa, talora pur­troppo persino profetica nei suoi accenti pessimistici, an­dava al di là delle questioni teoriche e di principio, si so­stanziava di una analisi del tutto persuasiva dello scontro ideale in corso nel mondo e dell’emergere di nuove spinte rivoluzionarie, di nuove e fe­conde ipotesi nell’ambito del marxismo, e in un certo sen­so anche di un rinnovato bi­sogno di sviluppo critico e teorico. Il vecchio Lukács che ripercorreva il proprio «dram­ma faustiano» tra Hegel e Marx, era dunque ancora il giovane Lukács che si misura­va coi giovani d’oggi non dal­l’alto di una saggezza goethiana (o persino crociana, come ha detto con involontario umo­rismo provinciale qualche re­censore italiano), ma dalla sua collocazione nella milizia rivoluzionaria attuale.

L’omaggio di Luigi Longo al filosofo e al comunista

di Luigi Longo

«L’Unità», 6 giugno 1971

In un messaggio a Kadar

Il Segretario generate del PCI, compagno Luigi Longo, ha inviato al compagno Janos Kadar, primo Segretario del Partito operaio socialista ungherese, il seguente telegramma:

 «A nome del Partito comunista italiano e certo di interpretare anche i sentimenti della cultura del nostro Paese, esprimo a voi, ai comunisti e a tutto il popolo ungherese, la sentita partecipazione al dolore per la scomparsa del compagno György Lukács. Egli è stato per tutti noi, con la sua ininterrotta e travagliata ricerca, un permanente punto di riferimento della vitalità creativa del marxismo, un esempio insigne di intellettuale comunista, di militante e dirigente rivoluzionario sin dai tempi della Repubblica dei Consigli di Bela Kun.

È grande merito del vostro partito e della sua linea politico-culturale, aperta al confronto e ad una costante ricerca sui problemi nuovi dello sviluppo del socialismo, che dall’Ungheria socialists, anche dopo gli eventi drammatici del 1956, la voce e l’insegnamento del compagno György Lukács abbiano continuato a recare un alto e libero contribute alia ricerca e allo studio dei marxisti di tutto il mondo.

Fraternamente,

Luigi Longo

A casa di Lukács

di Giuseppe Boffa

«L’Unità», 9 giugno 1971

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Ricordo del grande filosofo ungherese

Una conversazione che era una miniera d’idee – Fervore di progetti per nuove opere anche a tarda età – Attento ad ogni sviluppo del movimento operaio e rivoluzionario nel mondo – La problematica della democrazia socialista


La casa di Lukács a Budapest era, per chi si recava in questi anni nella capitale ungherese in cerca di fatti e di idee, una meta cara ed ambita, piuttosto che obbligata. Lo era, cre­do, in particolare per noi comunisti italiani, in cui Lukács coglieva quel sentimento di rispetto e di amicizia, che Longo ha espresso con calore nel suo messaggio a Kadar subito do­po la morte del filosofo. Ma non solo per noi, ovviamente.

Capitava non di rado che venisse lui in persona ad aprire la porta, quando ci si arrampicava sino a quel quinto piano del tranquillo palazzo della Budapest asburgica, all’inizio del lungofiume Belgrad, dove egli viveva ormai ritirato, e si suonava all’uscio, dove una semplice targhet­ta annunciava «prof. György Lukács». Dalla soglia ci trovavamo quasi senza transizione introdotti nel suo piccolo studio, la cui porta, che si affacciava direttamente sull’in­gresso, era in genere spalancata., Un’ampia finestra si schiudeva al­lora davanti a noi, sul Danubio, su alcune chiatte che vi erano anco­rate e sul declivio verde del mon­te Gellert, ripido sull’altra sponda del fiume.

Le responsabilità del protagonista

Ma non vi era il tempo di sostare in contemplazione del panorama flu­viale, né delle scaffalature che rico­privano le pareti, perché già si era seduti accanto alla scrivania, sovraf­follata di carte e di libri, e impe­gnati a riflettere sulla prima doman­da che Lukács, rincantucciato nella sua rigida poltroncina, ci aveva po­sto. Che era sempre una domanda precisa, calzante, tale da non potersi accontentare di una risposta generi­ca e capace quindi di avviare di col­po una conversazione che si sarebbe poi prolungata senza intoppi, non importa quante ore saremmo rimasti con lui.

A ottantanni passati Lukács par­lava con la foga fluente di chi sa che il tempo incalza e sente di ave­re ancora molte cose da dire, senza poter perdere minuti preziosi. Né questo valeva solo per ciò che ci diceva di persona. Minuto, asciutto, sereno, conservava una grande vita­lità fisica oltre che intellettuale. Ed era, a quell’età, che magari l’inter­locutore avvertiva relativamente, tutto un fervore di progetti di nuo­ve opere, che avrebbe scritto o che stava scrivendo o che addirittura si apprestava a pubblicare: opere an­che ponderose. Sono persuaso che le sue carte private siano una mi­niera di idee. La semplice conver­sazione già lo era.

Pur nel suo tranquillo rifugio del lungofiume Belgrad, Lukács era at­tento e informato di ogni sviluppo del movimento operaio e rivoluzio­nario nel mondo, perché se ne sen­tiva profondamente partecipe. URSS, Cina, Cecoslovacchia, politica del Partito comunista italiano, movimen­to giovanile nei paesi dell’Occidente capitalistico, storia di ieri e proble­mi del presente, lo scontro delle idee e i conflitti tra le forze sociali erano tutti temi, sui quali la sua men­te, rimasta tanto sorprendentemente lucida e attiva, continuava a riflet­tere.

Rivoluzione e democrazia sociali­sta erano, d’altronde, i problemi su cui si concentrava il suo pensiero politico. Credo che fossero anche i più congeniali a sintetizzare la sua posizione, non soddisfatta di formule o soluzioni già codificate, ma impe­gnata in una continua ricerca e in un continuo esercizio critico. Era la posizione – è bene ricordarlo in queste giornate di rievocazioni non sempre disinteressate – di chi del­la lotta per il socialismo e il comu­nismo si sente protagonista: qualcosa di ben più profondo quindi che una semplice adesione. Il che implicava anche precise responsabilità.

Esemplare era la sua stessa collo­cazione nell’Ungheria di oggi. Sap­piamo quanto travagliato sia stato l’attivo contributo di questo grande pensatore marxista al movimento operaio e comunista ungherese e alle sue lotte di frazione, da quante polemiche esso sia stato accompa­gnato. Conosciamo anche il suo ruolo negli avvenimenti del ‘56, quando egli credette in un rinnovamento an­tistalinista e agìi convinto di operare in tale direzione. Egli non ha mai condiviso quella che è poi stata la interpretazione ufficiale dei fatti, pur essendo stato portato dalla riflessio­ne ad una certa autocritica. Si era invece persuaso di dover appoggiare lo sforzo intrapreso sotto la direzione di Kadar, per cui egli nutriva personalmente molta stima.

Il che non vuol dire che egli soste­nesse tutti gli indirizzi della presen­te politica ungherese: ne apprezzava però l’orientamento fondamentale e si astenne volontariamente dal com­piere atti pubblici, che pure avrebbe­ro corrisposto al suo pensiero, pur di non intralciare una politica che giudicava nell’insieme positiva per il suo paese e per il movimento comunista. Kadar e la direzione del suo partito seppero d’altra parte fare in modo che egli, pur nel suo isolamento, potesse continuare a svolgere la sua opera di studioso e a farla conoscere: atteggiamento il loro, che non solo è stato proficuo per la cultura e per la politica ungherese, ma che nel suo stesso equi­librio sembra indice dell’originale ir­ripetibilità dell’esperienza ungherese di questi anni.

Non era quella di Lukács solo una scelta tattica pur sapendo egli apprez­zare a fondo le qualità tattiche di un dirigente politico e di un partito. Piuttosto Lukács era persuaso che le società socialiste, anche così come si erano storicamente formate, con tutti i loro limiti strutturali, rappre­sentassero una positiva conquista della classe operaia, delle sue rivo­luzioni e quindi delle forze più avan­zate dell’umanità. Credo che a que­sto proposito egli non abbia mai la­sciato dubbi nei suoi interlocutori, ivi compresi coloro che proprio su questo punto erano meno disposti ad ascoltarlo. Se era convinto della validità complessiva di questa esperienza storica, cui egli aveva personalmente contribuito attraverso tan­te vicende, era però non meno luci­do nel giudicare le storture dello stalinismo, i limiti delle stesse risposte, abbozzate nel periodo post-stali­niano dal XX congresso in poi, i problemi quindi che alle società socia­liste incombono nel presente. Si trat­tasse del progresso dell’economia o della vita culturale, egli era convin­to – e non si stancava di dimostrar­lo – che la vera loro soluzione, quella di cui le società socialiste hanno bisogno per le loro intrinse­che leggi di sviluppo, come per la loro capacità di attrazione ideale, era appunto l’affermazione della democrazia socialista.

Attenzione critica

Attento al carattere concreto di ognuna delle esperienze di sociali­smo, egli non era portato a sposar­ne acriticamente nessuna, né a re­spingerne alcuna con una condanna aprioristica. Questo valeva per la Jugoslavia, per la Cina, per l’URSS kruscioviana. Valeva per lo stesso «nuovo corso» cecoslovacco, di cui egli aveva pur colto gli aspetti positivi, riponendo in essi una fidu­ciosa speranza. Ma nello stesso tem­po non vi era nulla in Lukács del­l’intellettuale che ritiene possibile giudicare dal «di fuori». Egli era stato e restava immerso in quelle esperienze, rifiutando di separarse­ne. Il suo pensiero era quindi sti­molo fecondo non solo per chi si raggruppava attorno a lui, ma per chiunque intendesse agire sul terreno della lotta per  il socialismo.

È questo il Lukács che sento ne­cessario rievocare oggi. Altri con ben maggiore autorità hanno parlato e parleranno del pensatore marxista, dell’uomo di cultura. Solo ritengo che il suo ritratto non sarebbe com­pleto senza questo accenno alla sua posizione politica degli ultimi anni, che tanta parte del suo impegno prendeva e che egli offriva con cal­ma fermezza al visitatore amico.

La scomparsa di Lukács

di Franco Ottolenghi

«L’Unità», 5 giugno 1971

Lukacs morte

Una morte che viene a concludere un’aspra e gloriosa vicenda

L’influenza di Simmel e di Weber negli anni di Heidelberg – Una contrad­dittoria attivazione politica – Commissario all’istruzione della Repubblica di Bela Kun – A Vienna e a Mosca – Il travaglio del ‘56 e gli ultimi interventi


Una morte che percuote, quella di György Lukács. Per­ché è anche la conclusione di una aspra, gloriosa vicen­da del marxismo europeo. Lukács era nato a Budapest il 13 aprile 1885. A Budapest e a Berlino aveva compiuto gli studi universitari. Nel 1912 si era stabilito a Heidelberg. Simmel e l’amico Max Weber, il grande sociologo borghese, gli forniscono, a cavallo del primo decennio del secolo, le «lenti metodologiche», come dirà lui stesso, attraverso cui legge Marx. Il sindacalismo e Sorel e, durante la guerra, la conoscenza delle opere di Ro­sa Luxemburg sono gli ele­menti di una prima, e certo contraddittoria, attivazione po­litica.

Nel fuoco dei grandi e ter­ribili eventi rivoluzionari che dopo la guerra e sulla spinta dell’ottobre sconvolgono l’Eu­ropa, si brucia l’anticapitali­smo romantico. Lukács si iscri­ve al partito comunista, di­venta commissario per l’istru­zione della Repubblica dei Consigli di Bela Kun. La sconfitta della rivoluzione unghere­se lo vede emigrare a Vien­na dove resterà fino al 1929.

Il periodo della emigrazio­ne viennese è certo uno dei più drammatici. La Terza In­ternazionale, dopo io scacco dei movimenti rivoluzionari, è scossa da un dibattito di linea che ha tra i suoi protagonisti il collettivo di redazione della rivista «Kommunismus» di cui Lukács è parte importante. Vengono qui elaborati alcuni temi, che costituiscono i mo­menti teorici portanti di Storia e coscienza di classe del­lo stesso Lukács e di Marxi­smo e filosofia di Korsch, am­bedue risalenti al 1923.

Nel 1930 Lukács si trasferi­sce a Mosca, come collabora­tore dell’istituto «Marx-En­gels». Poi a Berlino, dove si occupa principalmente dell’at­tività di partito fra gli intel­lettuali. Dopo l’avvento del nazismo al potere, è nuova­mente a Mosca, dove insegna all’istituto filosofico dell’Acca­demia delle scienze. Torna a Budapest nel 1945; è nominato ordinario di estetica e filo­sofia all’università.

Ma la sua «via al marxi­smo», per citare il titolo di un suo celebre scritto autobio­grafico, è ancora lontana dal­l’essere conclusa. Il grande in­tellettuale europeo, che con tanta fatica e passione perse­gue una rigorosa collocazione di classe è sconvolto dal drammatico 1956, e costretto a verificare dolorosamente quanto ancora la riflessione marxista e la pratica politica possano essere reciprocamen­te impenetrabili. Ministro della istruzione del gabinetto Nagy, Lukács è costretto a lasciare l’Ungheria; quando torna ri­prende silenziosamente il suo posto e la sua attività.

Rientrerà nel partito, irri­ducibilmente teso nella sua battaglia antidogmatica a co­struire quella «scienza mar­xista universale», sono paro­le sue, che «può dare alla mia vita un contenuto indistruttibile». Difficile, tanto più se pensiamo alla sua ul­tima monumentale fatica, Estetica e, ancorpiù, al pro­getto di una Ontologia, una scienza dell’essere, più volte ripreso negli ultimi tempi, dif­ficile – dicevamo – non co­gliere in queste parole un ac­cento del prediletto Hegel. Davvero, per il marxista Lukács, la grande controversia sul rapporto Hegel-Marx non aveva ragione di essere, in­discutibile essendo per lui la continuità di dimensione filo­sofica tra l’universo del pri­mo e quello del secondo. In questo, singolarmente vicino agli amici-nemici della scuola di Francoforte, o addirittura alle grezze schematizzazioni del «materialismo dialettico».

Ma non è certo questo il mo­mento, non è certo questa la sede per avviare un simile discorso. Per molti di noi, Lu­kács è stato colui che, recu­perando il terreno della cul­tura a un’indagine sociologica e a una sia pur sommaria ve­rifica politica, ne ha svelata la «cattiva coscienza» (si pensi a La distruzione della ragione, al Giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, alla battaglia per il realismo, dai saggi su Goethe e Mann fino a Solgenintizin). Per molti di noi, certo, egli è stato una «via al marxismo».

Che l’orizzonte della sua ope­razione teorico-politica fosse poi ancora quello determinato dalle strutture del pensiero classico tedesco, e quindi di una deviazione culturale an­cora organicamente imparen­tata con la borghesia che ne era stata la originaria ma­trice sociale, determina degli scarti nel suo essere marxi­sta e apre, per noi, la pos­sibilità di un discorso critico. Si tenga però conto del fatto che egli fu uno di quegli «uo­mini storici» il cui compito è «di conoscere l’universale, di capire che il mondo si incam­mina necessariamente verso una nuova tappa, di proporsi ciò come fine, e di amettere in esso la loro energia». E di questo Hegel, certo, Lukács ne sarebbe compiaciuto.

Lukács

di Nicola Abbagnano

«La Stampa» 06 giugno 1971

IL FILOSOFO DELL’EST

György Lukács è stato il più hegeliano dei filosofi marxisti. Da un lato, ha sempre combattuto tutte le forme dell’idealismo, ritenendole espressioni della società capitalistica, tentativi di questa società di mistificare la realtà naturale e storica per giustificarla sub specie aeternitatis; e ha incluso, tra quelle forme, dottrine disparate, compreso l’esistenzialismo, e manifestazioni diverse della letteratura e dell’arte moderna e contemporanea. Ma dall’altro lato, il realismo di cui si è sempre fatto sostenitore non ha nulla che fare col realismo positivistico, quale era stato difeso da Engels ed è tuttora la base di quel «materialismo dialettico» che è la filosofia ufficiale dei paesi comunisti: secondo il quale, la realtà naturale e storica è un mondo assolutamente oggettivo, dominato da una ferrea necessità, da leggi immutabili, che l’uomo può solo passivamente rispecchiare nella sua conoscenza e seguire nella sua prassi. Questo realismo ingenuo è stato sempre estraneo all’opera di Lukács, nonostante le sue esplicite affermazioni in proposito (spesso suggeritegli dagli eventi politici in cui si è trovato coinvolto) e le citazioni di Engels, Lenin, Stalin, di cui i suoi scritti sono costellati. I due concetti fondamentali sui quali ha imperniato la sua filosofia, la sua estetica e la sua critica letteraria, sono quelli di coscienza e di dialettica; e sono entrambi di derivazione hegeliana. Per coscienza, egli ha inteso prevalentemente la «coscienza di classe»: ed era stato Hegel a chiarire per la prima volta questo concetto nella sua Filosofia del diritto (1821). Hegel aveva insistito sulla necessità razionale della divisione della società in classi e sulla necessità che l’individuo assumesse coscienza della classe cui appartiene perché, senza tale coscienza, l’individuo non sarebbe veramente reale, cioè ente sociale, e la classe non sarebbe tale. Lukács, nella raccolta di saggi pubblicata nel 1923 e intitolata Storia e coscienza di classe (che è stata la sua opera più diffusa e discussa) vede nella coscienza di classe il Soggetto unico della storia, la sola forza che fa la storia. Ma la coscienza di classe, egli dice, è solo quella del proletariato: la borghesia non può averla, perché averla equivarrebbe a riconoscere la necessità inevitabile della propria soppressione prospettata dal conflitto fra le classi e dall’abolizione delle classi cui questo conflitto metterà capo. Per il proletariato, invece, la coscienza di classe costituisce o costituirà la possibilità reale o storica della sua propria trasformazione in una società senza classi.

Da questo punto di vista, le strutture economico-sociali, nelle quali Marx ed il marxismo scorgevano la vera molla della storia, passavano in secondo piano: si spiega quindi la reazione negativa che l’opera di Lukács provocò tra i marxisti ortodossi. E, da quel momento, Lukács stesso preferì insistere sull’altro cardine della sua filosofia: il concetto di dialettica. Nell’opera Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica (1948) egli scorgeva nella dialettica hegeliana la forma suprema della filosofia borghese in generale, quindi anche «l’anello intermedio a cui poteva direttamente riannodarsi la formazione del materialismo dialettico». Hegel, secondo Lukács, ci ha dato un quadro impressionante della nascente industria capitalistica, della divisione del lavoro, dello sviluppo della tecnica e della solidarietà che si stabilisce tra gli individui che lavorano, ci ha dato pure una visione profetica dell’alienazione fatale che è propria dell’uomo nella società capitalistica e delle contraddizioni in cui questa si dibatte. Non ci ha dato, invece, il modo di risolvere tali contraddizioni perché la società capitalistica, ai tempi di Hegel, non era abbastanza matura; e questo compito è stato assunto da Marx. Marx ha così superato l’idealismo morale (che fu proprio dell’illuminismo), mostrando che la soluzione delle contraddizioni sociali è affidata alle possibilità reali offerte all’uomo dalle strutture economiche; ma è rimasto, secondo Lukács, nell’ambito dell’idealismo dialettico, che vede concretarsi e realizzarsi, mediante tali possibilità, l’opera della ragione. E alla difesa della ragione nel senso hegeliano, Lukács dedicava l’altra sua opera, La distruzione della ragione (1954), nella quale è criticata e rigettata ogni forma dell’irrazionalismo, ritenuta come la roccaforte del peggiore capitalismo borghese.

Quando Lukács, ormai al di fuori delle vicende politiche e giunto alla sua tarda maturità, si è potuto dedicare ad un’opera che compendiasse la sua eredità filosofica, ha posto mano alla composizione di una monumentale Estetica, di cui è uscito nel 1963 il primo volume. E qui veramente egli si dimostra il continuatore di quello spirito romantico di cui la figura di Hegel era stata la massima incarnazione. L’arte, dichiara ora Lukács, è la sola via aperta all’uomo per la sua liberazione definitiva dalla contraddizione e dall’alienazione inerenti alla società capitalistica. Lukács insiste ancora energicamente sull’oggettività del mondo reale, sulla sua esistenza indipendente dall’uomo. Ancora afferma che ogni attività umana, la scienza come l’arte, è un rispecchiamento della realtà oggettiva. Ma questo rispecchiamento è tutt’altro che passività. L’oggetto risucchiato è in realtà il prodotto di un’azione reciproca tra la società e la natura, ed è quindi costituito essenzialmente dal rapporto con l’uomo, dalla reazione umana all’oggetto naturale. «Solo la teoria hegeliano marxiana della autocreazione dell’uomo attraverso il proprio lavoro — ha scritto Lukács — ha messo in luce il principio che l’uomo crea se stesso». Poiché questa autocreazione e più libera nell’arte, è solo attraverso l’arte che l’uomo potrà raggiungere la propria liberazione definitiva dalle strettoie della natura e della società. Questa è stata, a quanto si sa, l’ultima parola di Lukács. Dal punto di vista del marxismo, Lukács ha avuto il torto di sottovalutare la funzione condizionante che le strutture economiche esercitano nello sviluppo storico della società e nella formazione della personalità umana: una funzione che, almeno in un certo grado o in certe forme, nessuno oggi può ragionevolmente contestare. E così, è stato troppo hegeliano. Ma dall’altro lato ha messo in luce, nella stessa filosofia di Hegel, le analisi sociali che vi si trovano e che a Hegel erano state ispirate da una conoscenza approfondita dei fondatori dell’economia classica. Le oscillazioni degli atteggiamenti politici di Lukács, le polemiche violente e spesso ingiuste, che egli ha condotto contro molti aspetti della filosofia moderna e contemporanea, non devono impedire di scorgere nella sua opera una delle manifestazioni salienti del pensiero contemporaneo. Considerata al livello dei suoi concetti-chiave, la sua dottrina mostra la coerenza sostanziale della sua ispirazione e dei suoi sviluppi. Dopo la sua morte, essa sarà sottratta alla polemica politica contingente; ma rimarrà ancora, come quella di ogni autentico filosofo, una via d’accesso a ricerche feconde.