Dichiarazioni di Cesare Luporini, L. Lombardo Radice ed Enzo Paci
«L’Unità», 6 giugno 1971

CESARE LUPORINI
«Lo sapevamo al lavoro, ancora fino a poche settimene orsono, nonostante la tarda età, ed era un lavoro che ci teneva sempre in attesa. Anche questo faceva parte della sua grandezza. Possiamo adoperare tale parola senza esitazione, nello sgomento per l’improvvisa scomparsa.
È la scomparsa di un punto di riferimento, a cui si guardava; di una straordinaria, acuta capacità di intervento che sapeva comunque tenerci in tensione e faceva parte di noi da decenni. Di noi più anziani: ma era lo stesso per tanti giovani. Perchè credo che il primo elemento della grandezza di Lukács sia il carattere di militante rivoluzionario, marxista, carattere che per più di cinquanta anni, in momenti e modi anche drammatici, ha improntato tutta la sua opera, così come la sua presenza.
Oggi questa presenza entra di colpo in un’altra dimensione, che non è però semplicemente quella della storia, cioè del passato da interpretare. Ma è quella di un pensiero che si è compiuto perchè si è interrotto e che, sul terreno della filosofia, della politica, della critica, continua e continuerà a lungo a riproporsi. Ma al di là di questo vi è un nodo decisivo che sta al centro della vita di Lukács. È l’intreccio certo difficile, ma essenziale, tra l’essere militante rivoluzionario e l’essere produttore di conoscenza, ricercatore di verità. Questo è il significato profondo e organico del suo lavoro, che non è lecito mettere tra parentesi. È anche il problema che egli ci impone, mentre ci mostra, nello stesso tempo, che esso non è mai chiuso e risolto definitivamente».
L. LOMBARDO RADICE
In questo momento di commozione, non penso tanto al grande patrimonio che la cultura europea e mondiale tutta eredita dal marxista Lukács, quanto all’insegnamento etico politico che il compagno Lukács ha lasciato come tacito testamento ai militanti comunisti, in particolare agli intellettuali comunisti. Disciplina di lotta e autonomia di pensiero: questi sono stati i due poli della dura dialettica che ha stretto nella sua morsa la lunga, fedele e libera milizia comunista di György Lukács. Egli era una voce della ragione, della critica, del coraggio intellettuale che si levava dentro il comunismo e per il comunismo. Criticare il movimento restando parte di esso: questo ci sembra l’insegnamento del comunista Lukács a tutti gli intellettuali comunisti, anzi, a tutti i compagni, intellettuali e no.
ENZO PACI
La morte di György Lukács, stranamente, ci trova impreparati. Forse pensavamo che, anche questa volta, sarebbe stato più forte della sua malattia. Ma la pace è scesa su di lui. Quante ne ha dovute vedere! E sempre ha pensato, anche quando le cose andavano molto male, che il socialismo avrebbe finito per vincere.
Per i miei studi devo a Lukács l’approfondimento del tema dell’alienazione. Lukács non pensava a un rapporto Husserl-Marx, ma i suoi discepoli scrivono oggi che in gran parte la differenza con noi è solo di linguaggio. Così hanno preparato un numero di Aut Aut che, oltre a un saggio di Lukács Sull’ontologia conterrà un dialogo, proprio un dialogo fra personaggi fenomenologi e marxisti. Dobbiamo il dialogo alla viva intelligenza di Mihaly Vajda.
Ricordo un vivace e lungo dibattito con Lukács, tenuto alla Casa della Cultura il 26 maggio 1966. Lukács difendevaa Thomas Mann contro Kafka. Sapeva del miei studi su Mann e non capiva perché difendevo Kafka. Per lui Mann era una soluzione positiva della vita e Kafka una via senza uscita. Mi piacerebbe dirgli che aveva ragione ma che penso anche ad una vittoria sul mostro kafkiano.
La grande, laboriosa vita di György Lukács ha attraversato, nell’arco dei suoi ottantasei anni, la cultura e le guerre di classe del nostro secolo, e ha finito per rappresentare per tutti – amici e avversari – un punto di riferimento ineliminabile nell’ininterrotto confronto del pensiero con la drammaticità della storia. Anche il suo termine ha qualcosa di emblematico: rifiutando, come aveva sempre fatto, di rinchiudessi nel già compiuto, di autogiustlficare le proprie conquiste e i propri errori, il vecchio filosofo non ha voluto porre la parola fine alla sua opera, e ha concluso la serie ormai sterminata delle sue pubblicazioni con una monumentale Estetica che però si presentava solo come la premessa a uno studio ancora più ampio che – era ovvio – non sarebbe mai stato compiuto, e con gli studi di ontologia e di etica marxista che, anch’essi, apparivano piuttosto come prolegomeni all’immenso lavoro che resterà ancora da fare… Come se quella totalità del mondo e del pensiero, che tutta la riflessione della sua vita aveva cercato di abbracciare e ricomporre, fosse appunto l’obiettivo coscientemente utopico da lasciare in eredità al posteri, quasi una ripresa «all’infinito» dell’antico sogno enciclopedistico degli illuministi.
Vi è in questo atteggiamento consapevole la chiave di tutta la sua visione del mondo, così legata alla grande tradizione classica tedesca, a Goethe e a Hegel, ai dati totalizzanti di una grande cultura prima della crisi. Ma vi è anche la coscienza, non utopica ma virilmente pessimista, della infinita complessità del processo storico di cui egli si è trovato ad essere testimone e interprete non certo marginale, e insieme appunto protagonista: insomma, della fase di transizione come carattere distintivo della nostra epoca, che esige quindi da tutti coraggio e pazienza, l’eroismo delle rotture e quello dei silenzi, la lotta quotidiana e la visione del futuro da costruire. Non per nulla, proprio gli ultimi anni di Lukács sono stati – insieme all’attività filosofica cui abbiamo accennato – tra i più fecondi di interventi politici diretti, tutt’altro che «olimpici» e distaccati, ma sempre nel vivo della problematica dei paesi socialisti, dello scontro mondiale tra imperialismo capitalismo e socialismo, di quello che egli chiamava il «rinascimento del marxismo».
Ciò che stupiva in quelle celebri interviste, talora di altissimo livello teorico pur nella limpida e piana forma discorsiva, era il continuo e strettissimo legame tra il gesto politico, la presa di posizione e la polemica senza riguardi per nessuno, e l’elaborazione dei principi generali. L’un aspetto dava la mano all’altro: politico in quanto teorico al livelli più alti del pensiero contemporaneo, teorico in quanto politico militante, Lukács era sempre al suo posto di lotta, scelto clnquant’anni prima quando aveva aderito alla Repubblica ungherese del Consigli ed era stato commissario del popolo all’struzione nel governo di Béla Kun. Tra questi interventi – oltre la ben nota intervista all’Unità del 1966 sul rapporto tra democratizzazione e riforma economica nei paesi socialisti (che annunciava il rientro del filosofo tra le file del comunisti ungheresi dopo il dramma del 1956) e a Kortárs (il contemporaneo) sul marxismo e la coesistenza – credo vada dato un posto di grande rilievo alla prefazione all’edizione italiana di Storia e coscienza di classe, che è del 1967. In quello scritto, che rappresenta in un certo senso la sua ultima autobiografia ideale, e non a caso è imperniato su quella delle sue opere che, dopo aver espresso la svolta culturale e politica decisiva della sua vita, era stata negli anni successivi oggetto di aspre polemiche, di scomuniche e anche di ardue ma generose autocritiche, in quello scritto Lukács non guardava tanto al passato, al suo passato di «grande intellettuale» arrivato al marxismo, alla lotta di classe e alla milizia rivoluzionaria, quanto al presente e al futuro. La sua critica al dogmatismo, serrata, coraggiosa, talora purtroppo persino profetica nei suoi accenti pessimistici, andava al di là delle questioni teoriche e di principio, si sostanziava di una analisi del tutto persuasiva dello scontro ideale in corso nel mondo e dell’emergere di nuove spinte rivoluzionarie, di nuove e feconde ipotesi nell’ambito del marxismo, e in un certo senso anche di un rinnovato bisogno di sviluppo critico e teorico. Il vecchio Lukács che ripercorreva il proprio «dramma faustiano» tra Hegel e Marx, era dunque ancora il giovane Lukács che si misurava coi giovani d’oggi non dall’alto di una saggezza goethiana (o persino crociana, come ha detto con involontario umorismo provinciale qualche recensore italiano), ma dalla sua collocazione nella milizia rivoluzionaria attuale.