György Lukács nel ’56

di Miklós Vásárhelyi e Antonino Infranca

Intervista apparsi in Il Ponte, n. 4-5, luglio-ottobre 1987. Tutte le note sono di Antonino Infranca, ora in  Lukács chi? a cura di L. La Porta, Bordeaux, Roma 2021.


Miklós Vásárhelyi è stato un conoscente stretto di György Lukács, e anche amico, durante un periodo molto travagliato della vita del filosofo ungherese. Gli fu molto vicino soprattutto durante i tragici giorni dell’ottobre-novembre 1956 e la successiva deportazione in Romania. In questa rievocazione, sotto forma di intervista, Miklós Vásárhelyi ricorda quei giorni, e anche l’intero periodo di amicizia con Lukács. Li ha accomunati la stessa fede nel socialismo, anche se questa fede fu interpretata in modi e forme diverse, perché diverse erano le esperienze dei due. Il vecchio filosofo, formatosi alla dura scuola della lotta clandestina e dell’esistenza nella Mosca degli anni Trenta, vedeva le cose sotto una luce parzialmente diversa. Il colloquio con Vásárhelyi, condotto da questi in un italiano pressoché perfetto, può aiutare a comprendere la partecipazione di Lukács a quegli avvenimenti. Non è soltanto un quadro storico, finora inesistente nella letteratura lukacsiana, ma anche un ritratto morale, di cui la naturale parzialità della testimonianza non sminuisce, al contrario, accresce e ravviva le tinte. Quello che si ha di fronte non è più il freddo e analitico intellettuale, dedito alla politica, ma piuttosto una persona viva e umana, che non solo nella lotta politica, ma anche nella vita quotidiana, continuò a farsi guidare da princìpi etici saldissimi, ispirati alla propria fede ideologica. Si tratta di un uomo che ha saputo vivere il proprio pensiero.

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Lukács e lo stalinismo. Parla Timor Szabó dell’Università di Szeged

di Stefano Petrucciani

«il manifesto», 20 luglio 1991


La società ungherese, come tutte quelle dell’Est, vive un processo di trasformazione tumultuoso e radicale. Come si ridefinisce, in questo contesto, il rapporto con una figura come quella di Lukács, che tanto peso ha avuto nella cultura ungherese ed europea del ’900?

«Per discutere questo punto – risponde Tibor Szabó, incontrato a Roma, all’Accademia di Ungheria – bisogna tener presente quella che io chiamo la doppia svolta che ha segnato lo sviluppo ungherese nell’ultimo periodo. La prima svolta, nell’88, andava nella direzione di un socialismo riformato: allora Lukács poteva funzionare come un punto di riferimento importante. Proprio nell’88 fu pubblicato per la prima volta in Ungheria il libro sulla democrazia, che Lukács aveva scritto 20 prima: come filosofo che si era sempre battuto per la riforma del socialismo, offriva uno sfondo utile ai comunisti critici che si muovevano in quella direzione. A partire dall’autunno ’89 le cose sono cambiate profondamente: vi è stata una seconda svolta, e le forze che si battevano per un socialismo riformato sono state sostanzialmente emarginate, hanno perso la loro base di consenso. Oggi perciò è forte la tendenza a considerare Lukács nient’altro che un ideologo del marxismo, appartenente quindi a una fase tramontata della storia ungherese». Continua a leggere

György Lukács nel ‘56

di Miklós VásárhelyiAntonino Infranca

Intervista con Miklós Vásárhelyi a cura di Antonino Infranca

«Il Ponte», n.4-5, luglio-ottobre 1987

Si ringrazia vivamente Antonino Infranca per averci concesso di pubblicare questa intervista.


Miklós Vásárhelyi è stato un conoscente stretto di György Lukács, e anche amico, durante un periodo molto travagliato della vita del filosofo ungherese. Gli fu molto vicino soprattutto durante i tragici giorni dell’ottobre-novembre 1956 e la successiva deportazione in Romania. In questa rievocazione, sotto forma di intervista, Miklós Vásárhelyi ricorda quei giorni, e anche l’intero periodo di amicizia con Lukács. Li ha accomunati la stessa fede nel socialismo, anche se questa fede fu interpretata in modi e forme diverse, perché diverse erano le esperienze dei due. Il vecchio filosofo, formatosi alla dura scuola della lotta clandestina e dell’esistenza nella Mosca degli anni trenta, vedeva le cose sotto una luce parzialmente diversa. Il colloquio con Vásárhelyi, condotto da questi in un italiano pressoché perfetto, può aiutare a comprendere la partecipazione di Lukács a quegli avvenimenti. Non è soltanto un quadro storico, finora inesistente nella letteratura lukacsiana, ma anche un ritratto morale, di cui la naturale parzialità della testimonianza non sminuisce, al contrario, accresce e ravviva le tinte. Quello che si ha di fronte non è più il freddo e analitico intellettuale, dedito alla politica, ma piuttosto una persona viva e umana, che non solo nella lotta politica, ma anche nella vita quotidiana, continuò a farsi guidare da principi etici saldissimi, ispirati alla propria fede ideologica. Si tratta di un uomo che ha saputo vivere il proprio pensiero. Continua a leggere

Georg Lukács e il patto col diavolo

di George Steiner

[Georg Lukacs and His Devil’s Pact, «The Kenyon Review» Vol. 22, No. 1 (Winter, 1960), pp. 1-18, trad. it. Ruggero Bianchi, in G. Steiner, Linguaggio e Silenzio, Rizzoli, Milano 1972, pp. 327-342]

Nel ventesimo secolo non è facile per un uomo onesto fare il critico letterario. Vi sono tante cose più urgenti da fare. La critica è un’aggiunta. Giacché l’arte del critico consiste nel sottoporre le opere di letteratura proprio all’attenzione di quei lettori che forse hanno meno bisogno di un tale aiuto: forse che un uomo legge critiche di poesia o teatro o narrativa se non possiede già per conto suo una cultura letteraria di notevole livello? Su l’un lato e l’altro, per giunta, vi sono due tentatori. A destra, la Storia Letteraria, con la sua aria solida e le sue credenziali accademiche. Alla sinistra, la Recensione, non proprio un’arte, ma piuttosto una tecnica devota alla teoria poco plausibile che ogni giorno dell’anno viene pubblicato qualcosa che vale la pena di leggere. Anche la critica migliore può soccombere all’una o all’altra di queste tentazioni. Ansioso di raggiungere la rispettabilità intellettuale, la posizione salda dello studioso, il critico può diventare, come Sainte-Beuve, quasi uno storico della letteratura. O può cedere alle pretese del nuovo e dell’immediato: una parte significativa delle dichiarazioni critiche di Henry James non è sopravvissuta ai luoghi comuni di cui esse erano molto prodighe. Le buone recensioni sono ancor più effimere dei brutti libri.

Ma vi è ancora un’altra ragione importante per cui è difficile a una mente seria, nata in questo secolo tormentato e periglioso, dedicare il grosso delle proprie energie alla critica letteraria. La nostra è, in maniera preminente, l’epoca delle scienze naturali. Il novanta per cento di tutti gli scienziati vive oggi. Il ritmo delle conquiste in campo scientifico, il ritrarsi dell’orizzonte davanti allo spirito che indaga, non è più assolutamente confrontabile con quello del passato. Ogni giorno si scoprono nuove Americhe, sicché la tempra della nostra epoca è permeata di valori scientifici. Questi estendono la propria influenza e il proprio fascino molto al di là dei confini della scienza intesa in senso classico. La storia e l’economia sostengono di essere, in qualche misura fondamentale, delle scienze; e così pure la logica e la sociologia. Lo storico dell’arte affina strumenti e tecniche che considera scientifici. Il compositore di musica dodecafonica collega i suoi esercizi austeri a quelli della matematica. Durrell ha scritto nella prefazione all’Alexandria Quartet che il suo tentativo è quello di tradurre nel linguaggio e nello stile della sua narrativa la prospettiva della relatività. Vede la città di Alessandria in quattro dimensioni.

Tale ubiquità della scienza ha recato con sé nuove modestie e ambizioni nuove. Diffidando del semplice istinto, la scienza esige una mitologia di rigore e di prova. Come splendido compenso, offre il miraggio della certezza, della conoscenza sicura, del possesso intellettuale salvaguardato dal dubbio. Lo scienziato grandissimo rifiuterà tale prospettiva; persevererà nel dubbio anche nel cuore della scoperta. Ma la speranza della verità oggettiva e dimostrabile è sempre presente e ha attirato a sé le menti più vigorose dei nostri tempi.

Nella critica letteraria non vi sono terre promesse di fatti stabiliti, né utopie di certezza. Per la sua stessa natura, la critica è personale. Non è suscettibile di dimostrazione né di prova coerente. Non dispone di strumenti più esatti della barba di Housman che si rizzava quando la grande linea di poesia gli saettava nella mente. In tutta la storia, i critici hanno cercato di dimostrare che il loro métier era una scienza in fin dei conti, che aveva canoni oggettivi e strumenti per pervenire alle verità assolute. Coleridge imbrigliò il proprio genio intensamente personale e spesso instabile al giogo di un sistema metafisico. In un celebre manifesto, Taine proclamò che lo studio della letteratura non era meno esatto di quello delle scienze naturali. I. A. Richards ha sottoscritto la speranza che vi sia un’oggettiva base psicologica all’atto del giudizio estetico. Il suo discepolo più eminente, W. Empson, ha applicato alle arti della critica letteraria le modalità e i gesti della matematica.

Resta però il fatto: il critico letterario è un uomo singolo che giudica un dato testo secondo l’attuale disposizione del proprio spirito, secondo il proprio umore o l’edificio delle proprie convinzioni. Può darsi che il suo giudizio abbia un valore maggiore del vostro o del mio soltanto perché si basa su una gamma più vasta di conoscenze o perché è presentato con chiarezza più convincente. Non lo si può dimostrare in maniera scientifica, né può pretendere di essere durevole. I venti del gusto e della moda sono incostanti e ogni generazione di critici ricomincia da capo a giudicare. Le opinioni sui meriti di un’opera d’arte sono, per giunta, inconfutabili. Balzac riteneva che la Radcliffe fosse grande come Stendhal. Nietzsche, una delle menti più acute che mai si siano occupate di musica, finì per sostenere che Bizet era un compositore più genuino di Wagner. Possiamo essere profondamente convinti che tali opinioni sono ingiuste ed erronee. Ma non possiamo rifiutarle come uno scienziato può rifiutare una teoria falsa. E chissà che una qualche epoca futura non concordi con giudizi che oggi sembrano insostenibili? La storia del gusto è un po’ come una spirale. Le idee che in un primo momento vengono considerate oltraggiose o di avanguardia diventano le credenze reazionarie e consacrate della generazione successiva.

Il critico moderno si trova dunque doppiamente in pericolo. La critica ha intorno a sé qualcosa di un’epoca più agiata. È difficile, su basi morali, resistere alle fiere sollecitazioni dei problemi economici, sociali e politici. Se vi è la minaccia di una qualche forma di barbarie e di autodistruzione politica, lo scrivere saggi sulle belles-lettres pare un’occupazione piuttosto marginale. Il secondo dilemma è di natura intellettuale. Per eminente che sia, il critico non può partecipare all’avventura principale della mente contemporanea: l’acquisizione della conoscenza positiva, il dominio del fatto scientifico o l’esplorazione della verità dimostrabile. E se è onesto con se stesso, il critico letterario sa che i suoi giudizi non hanno una validità duratura, che domani possono essere capovolti. Una cosa soltanto può conferire alla sua opera un po’ di durevolezza: il vigore o la bellezza del suo stile. Grazie allo stile, la critica può a sua volta diventare letteratura.

I maestri della critica contemporanea hanno cercato di risolvere questi dilemmi in modi differenti. T. S. Eliot, Ezra Pound e Thomas Mann, per esempio, hanno fatto della critica un’appendice alla creazione. I loro scritti critici sono commentari alle proprie opere poetiche; specchi che l’intelletto presenta alla fantasia creativa. In D. H. Lawrence, la critica è autodifesa: pur discutendo apparentemente di altri scrittori, di fatto Lawrence stava difendendo il proprio concetto dell’arte del romanzo. Leavis ha accettato la sfida a testa bassa. Ha posto le sue energie critiche al servizio di un’appassionata visione morale. È tutto intento a stabilire standard di maturità e di ordine in letteratura perché la società nel suo complesso possa procedere in una maniera più matura e ordinata.

Ma nessuno ha offerto ai dilemmi morali e intellettuali che assediano la critica letteraria una soluzione più radicale di quella di Georg Lukács. Nelle sue opere si concretizzano due convinzioni. La prima, che la critica letteraria non è un lusso, che non è quello che il più sottile critico americano ha definito «un discorso per dilettanti». Ma che, al contrario, è una forza militante e fondamentale per la formazione della vita degli uomini. In secondo luogo, Lukács afferma che l’opera del critico non è né soggettiva né incerta. La critica è una scienza con un proprio rigore e una propria precisione. La verità del giudizio si può verificare. Georg Lukács è, naturalmente, marxista. Anzi, è l’unico grande talento critico che sia emerso dal grigio servaggio del mondo marxista.

II

In un saggio che risale al 1948, Lukács tracciò un’analogia significativa. Disse che la fisica newtoniana aveva dato alla coscienza settecentesca il suo principale impulso liberatore, insegnando alla mente a vivere la grande avventura della ragione. Secondo Lukács, tale ruolo dovrebbe essere svolto ai giorni nostri dall’economia politica. È attorno all’economia politica, in senso marxista, che dovremmo ordinare la nostra comprensione delle vicende umane. Lukács stesso giunse alla letteratura attraverso l’economia, così come si può dire che Aristotile si accostò al dramma tramite un’indagine sistematica in campo morale.

Il materialismo dialettico sostiene che la letteratura, come tutte le altre forme d’arte, è una «sovrastruttura ideologica», un edificio dello spirito costruito sulle fondamenta del fatto economico, sociale e politico. Nello stile e nel contenuto l’opera d’arte riflette esattamente la sua base storica e materiale. L’Iliade non era meno condizionata dall’ambiente sociale (un’aristocrazia feudale frantumata in piccoli regni rivali) di quanto non lo fossero i romanzi di Dickens, che riflettono con tale vigore l’economia della produzione in serie e la crescita di un nuovo pubblico di massa. Pertanto, sostiene il marxista, il progresso dell’arte è sottoposto alle leggi della necessità storica. Non possiamo concepire Robinson Crusoe prima della nascita dell’ideale mercantile. Nel declino del romanzo francese dopo Stendhal osserviamo l’immagine di un più vasto declino della borghesia francese.

Ma dove c’è legge c’è scienza. E quindi il critico marxista nutre la convinzione di essere impegnato non in cose opinabili ma in determinazioni di realtà oggettiva. Senza tale convinzione, Lukács non avrebbe potuto dedicarsi alla letteratura. Raggiunse la maturità intellettuale in mezzo alla ferocia caotica della guerra e della rivoluzione nell’Europa centrale. Giunse al marxismo per la strada tortuosa della metafisica hegeliana. Nei suoi primi scritti vi sono due note dominanti: la ricerca di una chiave per comprendere l’apparente tumulto della storia e il tentativo dell’intellettuale di giustificare la propria scelta della vita contemplativa. Come Simone Weil, cui egli spesso mi fa pensare, Lukács ha l’anima di un calvinista. Si può immaginare come abbia dovuto lottare per disciplinare in se stesso l’inclinazione naturale alla letteratura e all’aspetto estetico delle cose. Il marxismo gli offrì la possibilità fondamentale di restare critico letterario senza aver l’impressione di aver dedicato le proprie energie a uno scopo piuttosto frivolo e impreciso. Nel 1918 Lukács aderì al partito comunista ungherese. Durante il primo breve periodo di governo comunista a Budapest, prestò servizio come commissario politico e culturale con la quinta Armata Rossa. Dopo la caduta di Béla Kun, Lukács andò in esilio. Rimase a Berlino fino al 1933 e quindi si rifugiò a Mosca. Là rimase e lavorò per dodici anni, facendo ritorno in Ungheria soltanto nel 1945.

È questo un fatto di ovvia importanza. Il tedesco è la lingua principale di Lukács, ma l’uso che ne fa è diventato fragile e sgradevole. Il suo è lo stile dell’esilio; ha perso i caratteri della parlata viva. Più essenzialmente: tutto il tono di Lukács, il tenore fervido e a volte angusto della sua visione, riflette il fatto dell’esilio. Da Mosca, circondato da una piccola cerchia di compagni d’esilio, Lukács osservò l’estendersi della crisi sull’Europa occidentale. I suoi scritti sulla letteratura francese e tedesca divennero una difesa appassionata contro le menzogne e la barbarie del periodo nazista. E ciò spiega un grosso paradosso nella produzione di Lukács. Pur essendo comunista per convinzione, materialista dialettico in virtù del suo metodo critico, egli ha tenuto lo sguardo decisamente fisso al passato. Thomas Mann vide nelle opere di Lukács un senso eminente della tradizione. Nonostante le pressioni dei suoi ospiti russi, Lukács prestava soltanto un’attenzione distratta alle conquiste celebrate del «realismo sovietico». Insisteva invece sulla grande tradizione della poesia e della narrativa europea del Settecento e dell’Ottocento, su Goethe e su Balzac, su Walter Scott e Flaubert, su Stendhal e Heine. Quando scrive di letteratura russa, Lukács tratta di Puškin o di Tolstoj, non dei poetastri dell’epoca staliniana. La prospettiva critica è rigorosamente marxista, ma la scelta dei temi è «centroeuropea» e conservatrice.

In mezzo all’apparente trionfo del fascismo, Lukács mantenne una serenità appassionata. Si sforzò di scoprire la tragica pecca, il seme di caos, da cui era scaturita la follia di Hitler. Una delle sue opere, un libro in se stesso stridulo e spesso mendace, s’intitola La distruzione della ragione (1955). È il tentativo filosofico di risolvere il mistero drammatizzato da Thomas Mann nel Dottor Faustus. Come si scatenò l’ondata di tenebre sull’anima tedesca? Lukács fa risalire le origini del disastro all’irrazionalismo di Schelling. Ma al tempo stesso insisteva sull’integrità e la forza vitale dei valori umani. Essendo comunista, Lukács non dubitava che il socialismo avrebbe finito per prevalere. Considerava suo compito particolare quello di organizzare in vista del momento della liberazione le risorse spirituali presenti nella letteratura e nella filosofia europee. Quando le poesie di Heine tornarono a essere lette in Germania, era disponibile un saggio di Lukács che tracciava un ponte tra il futuro e il mondo semidimenticato del liberalismo cui Heine era appartenuto.

Lukács dunque ha offerto una soluzione al duplice dilemma del critico moderno. In quanto marxista, scorge nella letteratura l’azione delle forze economiche, sociali e politiche. Tale azione si basa su certe leggi di necessità storica. Per Lukács la critica è una scienza ancor prima di essere un’arte. La sua preferenza per Balzac su Flaubert non dipende dal consenso o dal gusto personale. È una determinazione oggettiva cui si è pervenuti tramite un’analisi del fatto materiale. In secondo luogo, Lukács ha conferito al suo stile un’intensa immediatezza. Affonda le proprie radici nelle battaglie e nelle circostanze sociali del tempo. I suoi scritti sulla letteratura, come quelli su Tolstoj, sono strumenti di combattimento. Comprendendo la dialettica del Faust di Goethe, dice Lukács, si è meglio attrezzati a leggere gli enigmi sanguinosi del presente. La caduta della Francia nel 1940 è scritta a grossi caratteri nella Comédie humaine. Gli argomenti di Lukács hanno a che fare con problemi fondamentali della nostra vita. Le sue critiche non sono una semplice eco alla letteratura. Anche quando è settario e polemico, un libro di Lukács ha sempre una curiosa nobiltà. Possiede quella che Matthew Arnold chiamò «alta serietà».

III

Ma, in pratica, quali sono i grossi risultati di Lukács come critico e storico delle idee?

Ironicamente, una delle sue opere più influenti risale a un periodo in cui il suo comunismo era venato di eresia. Storia e coscienza di classe (1923) è un caso quasi leggendario. È un livre maudit, un libro dato alle fiamme, di cui sono rimaste relativamente poche copie1. Si trova in esso un’analisi fondamentale della «reificazione» dell’uomo (Verdinglichung), della degradazione della persona umana a oggetto statistico tramite i processi industriali e politici. L’opera fu condannata dal partito e ritirata dall’autore. Ma ha portato a una tenace vita sotterranea e taluni scrittori, come Sartre e Thomas Mann, l’hanno sempre considerata il capolavoro di Lukács.

A mio parere, tuttavia, la sua preminenza si trova altrove: nei saggi e nelle monografie da lui scritte durante gli anni Trenta e Quaranta, che cominciarono a uscire in una sfilza di volumi imponenti dopo la fine della guerra. L’essenza di Lukács si trova nello studio di Goethe e i suoi tempi (1947), nei saggi sul Realismo russo nella letteratura mondiale (1949), nel volume intitolato Realisti tedeschi dell’Ottocento (1951), nel libro su Balzac, Stendhal e Zola (1952) e nella grande opera su Il romanzo storico (1955). A ciò bisognerebbe aggiungere alcuni volumi massicci di carattere più squisitamente filosofico, quali Contributi a una storia dell’estetica (1954), e quello che è forse il magnum opus di Lukács, lo studio di Hegel (di cui apparve il primo volume nel 1948).

È impossibile dare una descrizione breve e tuttavia accurata di una gamma così vasta di materiale. Ma vi sono alcuni motivi che emergono come classici arricchimenti della comprensione che noi abbiamo della letteratura.

Vi è l’analisi lukacsiana del declino del romanzo francese. Lukács è il più grande studioso vivente di Balzac e vede nella Comédie humaine il massimo monumento del realismo. La sua interpretazione di Les illusions perdues è un esempio perfetto del modo in cui la visione dello storico vien fatta pesare sulla struttura di un’opera d’arte. È questa visione a indurre direttamente Lukács a una condanna di Flaubert. Tra Balzac e Flaubert vi è la sconfitta del 1848. Lo splendore delle speranze liberali era sbiadito e la Francia si stava dirigendo verso la tragedia della Comune. Balzac guarda il mondo con l’ardore primitivo della conquista. Flaubert guarda il mondo come attraverso una lente, con disprezzo. In Madame Bovary il bagliore e l’artificio delle parole sono diventati fini a se stessi. Quando Balzac descrive un cappello, lo fa perché un uomo lo porta. La descrizione del berretto di Charles Bovary, dal canto opposto, è un pezzo di virtuosismo tecnico; sfoggia la padronanza che Flaubert ha del vocabolario dei sarti francesi. Ma la cosa è morta. E dietro questo contrasto nell’arte del romanzo, Lukács scorge la trasformazione della società attraverso il capitalismo maturo. In una società preindustriale, o in una società in cui l’industrialismo rimane su piccola scala, il rapporto dell’uomo con gli oggetti fisici che lo circondano ha un’immediatezza naturale. Questa viene distrutta dalla produzione in massa. L’arredamento della nostra vita è il frutto di processi troppo complessi e impersonali perché qualcuno li possa dominare. Isolato dalla realtà fisica, respinto dalla trasandatezza disumana del mondo delle fabbriche, lo scrittore cerca rifugio nella satira o nelle visioni romantiche del passato. Tutte e due le ritirate sono esemplificate in Flaubert: Bouvard et Pécuchet è un’enciclopedia del disprezzo, mentre Salammbô può essere considerato il sogno a occhi aperti di un antiquario un po’ sadico.

Da tale dilemma scaturì quella che Lukács definisce l’illusione del naturalismo, la convinzione che l’artista possa ricatturare un senso di realtà con la semplice forza dell’accumulazione. Mentre il realista seleziona, il naturalista enumera. Come l’insegnante di Hard Times di Dickens, esige fatti e ancora fatti. Zola aveva una fame inesauribile di particolari circostanziati, una passione per gli orari e gli inventari (viene in mente il catalogo dei formaggi in Le ventre de Paris). Provava piacere a infondere la vita in una citazione della Borsa valori. Ma la sua teoria del romanzo, sostiene Lukács, era radicalmente falsa. Porta alla morte della fantasia e al reportage.

Lukács non scende a compromessi con la propria visione critica. Esalta Balzac, realista e animato da princìpi clericali; e condanna Zola, progressista in senso politico e precursore del «realismo socialista».

Ancor più autoritario e originale è il trattamento che Lukács fa del romanzo storico. È questo un genere letterario la cui critica occidentale ha dedicato soltanto un’attenzione superficiale. È difficile focalizzare bene la sfera del romanzo storico. A volte, la sua testa è nelle stelle mitologiche, ma più sovente il grosso si può trovare nella buona terra della letteratura commerciale. Il concetto stesso evoca alla mente improbabili amorosi che inseguono giovinette terrificate eppure vestite vaporosamente attraverso copertine di libri riccamente decorate. Solo rarissimamente, quando interviene uno scrittore come Robert Graves, comprendiamo che il romanzo storico ha virtù ben precise e una nobile tradizione. È a queste che Lukács si rivolge in uno studio importante, Il romanzo storico.

Tale forma nacque da una crisi della sensibilità europea. La rivoluzione francese e l’epoca napoleonica avevano diffuso nella coscienza della gente comune un senso dello storico. Mentre Federico il Grande aveva chiesto che le guerre fossero condotte in maniera tale da non disturbare il corso normale degli eventi, le armate di Napoleone marciarono su e giù per l’Europa riplasmando il mondo lungo la strada. La storia non era più qualcosa che riguardava archivi e principi; era diventata la struttura della vita quotidiana. A tale mutamento i romanzi di Waverley reagirono in maniera profetica e diretta. Anche qui, Lukács si muove su un terreno fresco. Noi non prendiamo Walter Scott con assoluta serietà. Con ogni probabilità, commettiamo un’ingiustizia. Se ci teniamo a sapere che artista attento fosse Scott e quale penetrante senso storico sia all’opera in Quentin Durward o The Heart of Midlothian, la cosa migliore è leggere un libro scritto a Mosca da un critico ungherese.

Lukács prosegue esplorando l’evoluzione della narrativa storica nell’arte di Manzoni, Puškin e Victor Hugo. La sua lettura di Thackeray è particolarmente suggestiva. Egli sostiene che gli elementi archeologici in Henry Esmond e The Virginians esprimono la critica di Thackeray alle condizioni sociali e politiche dei suoi tempi. Togliendo la parrucca al Settecento, il romanziere satireggia la falsità delle convenzioni vittoriane (ciò che i marxisti chiamano zeitgenössische Apologetik). Personalmente ritengo che Lukács interpreti male Thackeray. Ma si tratta di un errore fruttuoso, come lo sono spesso gli errori della buona critica, e conduce a un’idea originalissima. Lukács nota che il discorso arcaico, per abilmente maneggiato che sia, di fatto non avvicina il passato alla nostra fantasia. I maestri classici del romanzo storico scrivono narrativa e dialogo nel linguaggio dei propri tempi. Creano l’illusione del presente storico tramite la forza della fantasia realizzata e perché essi stessi sperimentano il rapporto tra la storia passata e il proprio tempo come un rapporto di continuità viva. Il romanzo storico vacilla quando questo senso di continuità non è più prevalente, quando lo scrittore sente che le forze della storia trascendono la sua comprensione razionale. Egli allora si rivolge a un passato sempre più remoto o esotico per protestare contro la vita contemporanea. Invece del romanzo storico, troviamo laboriosa archeologia. Si confronti la poetica della storia implicita in La certosa di Parma con l’artificio erudito di Salammbô. Tra artefici meno abili di Flaubert questo senso dell’artificio è rafforzato dall’uso arcaico del linguaggio. Il romanziere si sforza di rendere autentica la propria visione del passato scrivendo i dialoghi in quella che suppone sia stata la sintassi e lo stile del periodo in questione. È, questo, un debole artificio. Forse che Shakespeare avrebbe fatto meglio a far parlare Riccardo II in inglese chauceriano?

Ora, come osserva Lukács, questo declino del concetto classico del romanzo storico coincide esattamente con il passaggio dal realismo al naturalismo. In entrambi i casi, la visione dell’artista perde la propria spontaneità: in un certo modo, egli è estraneo al proprio materiale. Ne consegue che i problemi di tecnica diventano predominanti a spese della sostanza. L’immagine di Glasgow in Rob Roy è storicamente percettiva, ma scaturisce in maniera più significativa dai conflitti sociali e personali della narrazione. Non è un pezzo di restauro antiquario. Ma questo è proprio ciò che è l’immagine di Cartagine in Salammbô. Flaubert ha costruito un sontuoso guscio vuoto attorno a un’azione autonoma. Come osservò Sainte-Beuve, è difficile conciliare le motivazioni psicologiche dei personaggi con l’ambiente storico presentato. Walter Scott credeva nello spiegarsi razionale e progressivo della storia inglese. Vedeva negli avvenimenti dei propri tempi una conseguenza naturale di energie liberate nel corso del Seicento e del Settecento. Flaubert, al contrario, si volse all’antica Cartagine o ad Alessandria perché trovava insopportabile la propria epoca. Non essendo in sintonia con il presente – vide nella Comune un tardo spasimo del Medioevo – non riuscì a raggiungere una comprensione fantastica del passato.

Si concordi o no con questa analisi, la sua originalità e la sua ampiezza di riferimenti sono evidenti. Essa illustra l’esercizio essenziale di Lukács: lo studio attento del testo letterario alla luce di problemi politici o filosofici di vasta portata. Lo scrittore o l’opera singola sono il punto di partenza. Di qui la discussione di Lukács si muove all’esterno attraverso un terreno complesso. Ma il tema o l’idea centrale sono tenuti continuamente di vista. Infine, la dialettica si fa serrata, ordinandone gli esempi e le convinzioni.

Analogamente, il saggio sulla corrispondenza tra Goethe e Schiller verte soprattutto sulla discussa questione della natura delle forme letterarie. La discussione dell’Hyperion di Hölderlin dà il via a uno studio del ruolo cruciale e tuttavia ambiguo svolto dall’ideale ellenico nella storia dello spirito tedesco. Nelle sue numerose considerazioni su Thomas Mann, Lukács s’interessa di quello che considera il paradosso dell’artista borghese in un secolo marxista. Lukács sostiene che Mann decise di star fuori dalla corrente della storia, pur rendendosi conto del carattere tragico della propria scelta. Il saggio su Gottfried Keller è un tentativo di chiarire il difficilissimo problema dell’arresto dello sviluppo della letteratura tedesca dopo la morte di Goethe. In tutti questi esempi, non è possibile separare il singolo giudizio critico dal più ampio contesto filosofico e sociale.

Essendo la sua discussione così serrata e fitta, è difficile offrire citazioni significative dalle opere di Lukács. Forse un breve passo tratto da un saggio su Kleist può comunicarne il tono dominante:

Il concetto di passione di Kleist porta il dramma vicino all’arte del racconto. Una singolarità intensificata è presentata in una maniera che ne sottolinea la unicità accidentale. Nel racconto ciò è assolutamente legittimo. Questo è infatti un genere letterario concepito appositamente per rendere reale il ruolo immenso della coincidenza e della contingenza nella vita umana. Ma se l’azione rappresentata resta al livello di coincidenza… e se riceve la dignità di dramma tragico senza prova alcuna della sua obiettiva necessità, si avrà inevitabilmente un effetto di contraddizione e di dissonanza. I drammi di Kleist, di conseguenza, non indicano la strada maestra del dramma moderno. Tale strada va da Shakespeare, attraverso gli esperimenti di Goethe e di Schiller, al Boris Godunov di Puškin. A causa del declino ideologico della borghesia, essa non ebbe un seguito adeguato. I drammi di Kleist rappresentano una strada laterale irrazionale. La passione individuale isolata distrugge il rapporto organico tra il fato della persona individuale e la necessità sociale e storica. Con la dissoluzione di tale rapporto, le basi poetiche e filosofiche del genuino conflitto drammatico sono a loro volta distrutte. La base del dramma si fa esile e angusta, esclusivamente privata e personale… Le passioni kleistiane rappresentano senza dubbio una società borghese. La loro dialettica interna riflette conflitti tipici di individui che sono diventati «monadi senza finestre» in un ambiente borghese.

Il riferimento a Leibniz è tipico. La qualità della mente di Lukács è filosofica, nel senso tecnico della parola. La letteratura concentra e concretizza quei misteri di significato che costituiscono l’interesse principale del filosofo. Sotto questo aspetto, Lukács appartiene a una tradizione notevole. La Poetica è critica filosofica (il dramma visto come il modello teorico dell’azione spirituale); come lo sono gli scritti critici di Coleridge, Schiller e Croce. Se l’andatura è pesante, è perché la materia in discussione è insistentemente completa. Come altri critici filosofi, Lukács affronta problemi che hanno tormentato l’indagine dai tempi di Platone. Quali sono le distinzioni fondamentali tra epica e dramma? Che cos’è la «realtà» in un’opera d’arte, l’antico enigma dell’ombra che pesa di più della sostanza? Qual è il rapporto tra la fantasia poetica e la percezione comune? Lukács solleva il problema del personaggio «tipico». Perché certi personaggi letterari – Falstaff, Faust, Emma Bovary – possiedono una carica di vita maggiore di quella di una moltitudine di altre creature fantastiche e anzi della maggior parte degli esseri viventi? È perché sono archetipi in cui i caratteri universali convergono e ricevono una forma memorabile?

Le indagini di Lukács attingono a un campo straordinario di documentazione. Egli dà l’impressione di possedere tutta la letteratura europea moderna e tutta la letteratura russa. Questo consente una rara combinazione di robusta esattezza filosofica e di ampiezza di visione. Per contrasto, Leavis, che non è meno moralista né lettore meno attento di Lukács, è cautamente provinciale. In fatto di universalità, l’equivalente di Lukács sarebbe Edmund Wilson.

Ma la medaglia ha un suo rovescio. La critica di Lukács ha la sua parte di cecità e di ingiustizia. A volte scrive con oscurità astiosa quasi ad affermare che lo studio della letteratura non dovrebbe essere un piacere ma una disciplina e una scienza, difficile da accostare come le altre scienze. Questo l’ha reso insensibile ai grandi musicisti del linguaggio. Lukács manca di orecchio; non possiede quel diapason interiore che consente a Ezra Pound di scegliere senza sbagliare l’istante di gloria di un lungo poema o di un romanzo dimenticato. Nell’omissione di Rilke da parte di Lukács vi è un’oscura protesta contro la meraviglia del linguaggio del poeta. In un certo senso, scrive troppo mirabilmente. Anche se lo negherebbe, inoltre, Lukács tende davvero all’errore fondamentale della critica vittoriana: il contenuto narrativo, la qualità della favola, influenza la sua valutazione. La sua incapacità di includere Proust, ad esempio, getta il dubbio su tutta la visione che Lukács ha del romanzo francese. Ma la trama della Recherche du temps perdu, il fasto e le perversità che Proust descrive, offendono ovviamente il moralismo austero di Lukács. Il marxismo ha un credo puritano.

Come tutti i critici, anch’egli ha le sue avversioni particolari. Lukács detesta Nietzsche ed è insensibile al genio di Dostoevskij. Ma essendo un marxista coerente, fa della cecità una virtù e attribuisce alle sue condanne un valore oggettivo e sistematico. Leavis si trova evidentemente a disagio con le opere di Melville. T. S. Eliot ha condotto una lunga e sottile polemica con la poetica di Milton. Ma in essa le cortesie fondamentali vengono rispettate. Le argomentazioni di Lukács sono ad hominem. Infuriato dalla visione del mondo di Nietzsche e Kierkegaard, egli ne consegna le persone e le fatiche all’inferno spirituale del prefascismo. Questa, naturalmente, è un’interpretazione erronea e grottesca dei fatti.

Di recente, questi difetti di visione si sono fatti più drastici. La distruzione della ragione e i saggi di estetica apparsi da allora, ne sono guastati. Senza dubbio, vi è un problema di età. Lukács aveva settant’anni nel 1955 e i suoi odii si sono irrigiditi. Vi è in parte il fatto che Lukács è ossessionato dalla rovina della civiltà della Germania e dell’Europa occidentale. Va a caccia dei colpevoli da consegnare al Giudizio Finale della storia. Ma vi è soprattutto, a parer mio, un intenso dramma personale. All’inizio della sua brillante carriera, Lukács strinse un patto con il demone della necessità storica. Il diavolo gli promise il segreto della verità oggettiva. Gli diede il potere di impartire benedizioni o pronunciare condanne in nome della rivoluzione e delle «leggi della storia». Ma dal ritorno di Lukács dall’esilio, il diavolo è rimasto in agguato nei dintorni, chiedendo il proprio onorario. Nell’ottobre del 1956, ha picchiato con forza alla porta.

IV

Accenniamo qui a fatti di natura personale. La parte svolta da Lukács nell’insurrezione ungherese e il monachismo successivo della sua vita personale hanno un ovvio interesse storico. Ma contengono un elemento di agonia privata cui un estraneo difficilmente può accedere. Un uomo che perde la propria religione perde le proprie convinzioni. Un comunista per cui la storia si mette a fare salti mortali corre il rischio di perdere la ragione. Forse, è peggio così. Quanti non l’hanno provato, tuttavia, difficilmente possono capire che cosa significhi un simile crollo di valori. Inoltre, nel caso di Lukács, i moventi dell’azione sono oscuri.

Accettò il posto di ministro della Cultura nel governo di Nagy. Non, ritengo, per essere tra le guide di un movimento antisovietico, bensì piuttosto per conservare il carattere marxista della vita intellettuale ungherese e proteggerne l’eredità fondamentale contro le forze rinascenti della destra agrario-cattolica. Più essenzialmente, forse, perché un Lukács non può aderire a un solo lato della storia anche quando questa assume forme assurde. Non può essere uno spettatore. Ma il 3 novembre, un giorno prima che l’Armata Rossa riconquistasse Budapest, Lukács si dimise. Perché? Aveva deciso che un marxista non deve opporsi alla volontà dell’Unione Sovietica in cui s’incarna, nel meglio e nel peggio, il futuro del materialismo dialettico? Fu convinto a ritirarsi da una causa persa da amici che temevano per la sua vita? Non sappiamo.

Dopo un periodo di esilio in Romania, Lukács ottenne il permesso di tornare in patria. Ma non gli fu più consentito di insegnare e la sua opera passata divenne oggetto di attacchi e di scherni sempre più feroci. Tali attacchi in realtà sono anteriori all’insurrezione di ottobre. L’Ungheria aveva la sua versione in miniatura di Ždanov, un omuncolo feroce di nome Joseph Revai. Dapprima allievo di Lukács, ma poi geloso della celebrità del maestro, Revai pubblicò un opuscolo sulla Letteratura e democrazia popolare nel 1954. In esso redasse un atto d’accusa stalinista di tutto il lavoro di Lukács. Accusò Lukács di aver costantemente trascurato la letteratura sovietica contemporanea. Lo accusò di essere pericolosamente antiquato nella sua concentrazione su Goethe e Balzac. Persino un romanzo mediocre di un comunista, sostiene Revai, è infinitamente preferibile a un grande romanzo di un reazionario o di un premarxista. Lukács pone gli ideali letterari «formalistici» al di sopra degli interessi di classe e di partito. Il suo stile è inaccessibile al lettore proletario.

Dopo ottobre, tali accuse si fecero meno stridule. I pubblicisti ungheresi e tedesco orientali tirarono fuori di nuovo le vecchie accuse di eresia rivolte ai primi scritti di Lukács. Rievocarono la sua ammirazione giovanile per Stefan George e scorsero tracce di «idealismo borghese» nelle sue opere mature. Il vecchio tuttavia non fu toccato e per uno di quei giudizi strani, kafkiani, ammessi a volte dai regimi comunisti, gli fu persino consentito di pubblicare un volumetto di saggi presso una casa editrice della Germania Occidentale (Wider den missverstandenen Realismus, Amburgo, 1958).

Può darsi che la relativa immunità di Lukács sia dovuta all’interesse che gli intellettuali socialisti al di fuori della cortina di ferro hanno avuto per il suo caso. Ma certamente il problema più importante è questo: come considerò Lukács stesso le sue convinzioni e i suoi risultati alla luce della tragedia di ottobre? Fu attirato dal grande limbo della delusione? I suoi dei finirono per abbandonarlo?

Questioni del genere non possono essere spinte molto lontano senza cadere nella futilità: esse coinvolgono quel luogo intimo di illusione vitale che conserva la coscienza religiosa o rivoluzionaria. Il giudizio espresso da Lukács sulla rivoluzione ungherese si trova in una prefazione da lui scritta nell’aprile del 1957: «Avvenimenti importanti si sono verificati in Ungheria e altrove, costringendoci a rimeditare molti problemi connessi con l’opera di tutta la vita di Stalin. La reazione a quest’ultimo, sia nel mondo borghese che nei paesi socialisti, sta assumendo la veste di una revisione degli insegnamenti di Marx e di Lenin. E ciò costituisce certamente la minaccia principale al marxismo-leninismo». Queste parole sembrano eludere disperatamente il punto. Ma teniamo bene in mente una cosa soltanto: per uomini come Koestler o Malraux, il comunismo fu un espediente temporaneo di passione. Il comunismo di Lukács è la fibra stessa della sua intelligenza. La sua interpretazione della crisi dell’ottobre 1956, qualunque possa essere, sarà stata ottenuta entro la cornice di una visione dialettica della storia. L’uomo che ha perso la vista continua a vedere quanto gli sta intorno in forma di immagini ricordate. Per sopravvivere intellettualmente, Lukács deve aver elaborato un compromesso interiore di qualche genere: simili spedizioni punitive nella propria coscienza sono tipiche della condizione marxista. Il suo commento sulla minaccia del revisionismo ci indica la strada. Se lo interpreto in maniera corretta, Lukács sta dicendo che l’episodio ungherese è un’estensione finale, una reductio ad absurdum della politica stalinista. Ma tale politica era una falsa partenza dalla dottrina marxista-leninista e la violenza con cui venne attuata ne prova soltanto il fallimento. La giusta reazione al disastro ungherese non implica pertanto un abbandono dei princìpi primi marxisti. Al contrario, bisogna tornare a tali princìpi nella loro formulazione genuina. O, come si esprimerebbe uno dei capi dell’insurrezione: «Opponiamoci all’Armata Rossa in nome del Soviet dei lavoratori di Leningrado del 1917». Vi è forse, in questa idea, l’antico, ingannevole sogno del comunismo separato dall’oscurantismo e dalle ambizioni particolari della dominazione russa.

Lukács si è sempre ritenuto responsabile verso la storia. Ciò gli ha consentito di produrre un corpo di opere critiche e filosofiche che esprimono intensamente lo spirito crudele e serio dell’epoca. Che noi ne condividiamo o no le convinzioni, non c’è dubbio che egli ha conferito alla Musa minore della critica una notevole dignità. Gli ultimi anni di solitudine e di pericolo ricorrente non fanno che sottolineare quanto ho osservato all’inizio: nel Novecento non è facile per una persona onesta fare il critico letterario. Ma, del resto, non lo è stato mai.

1 Storia e coscienza di classe è ora reperibile in francese. Viene inoltre ristampato anche nell’edizione tedesco-occidentale delle opere complete di Lukács, insieme con altri saggi giovanili che sono tra i suoi migliori prodotti in campo filosofico e fanno di lui un autentico predecessore di Walter Benjamin. Le autorità culturali dell’Est permettono queste pubblicazioni occidentali di libri marxisti eretici ma prestigiosi: è questo un tocco caratteristico di politica «bizantina».

Il dibattito intorno a Lukács e le sue conseguenze

di István Mészáros

da La rivolta degli intellettuali in Ungheria, Einaudi, Torino 1958.

(Cap. 1)

Il 1948 in Ungheria fu chiamato, per iniziativa di Rákosi, “l’anno del cambiamento”, perché in quel tempo si era riusciti a eliminare dalla vita politica i vari partiti, e con essi l’opposizione al di fuori del partito comunista ungherese. Da quel momento i dirigenti stalinisti del partito iniziarono una lotta senza pietà contro l’opposizione interna, inferendole gravi colpi in tutti i campi. La prima mossa di questa lotta sul piano politico fu, nell’estate e nell’autunno del ’49, il processo Rajk, preceduto e anche seguito (data la sua lunghezza) dal dibattito su Lukács, che ne era il corrispondente ideologico-culturale. Fin dall’autunno cominciarono gli attacchi dei settari contro l’indirizzo di Lukács; poi, nel luglio del 1949 (quasi contemporaneamente alle accuse contro Rajk), con uno scritto di László Rudas rimaneggiato per ben quattro volte da Rákosi e da Révai e pubblicato nella “Rivista Sociale” – l’organo ideologico del partito –, questo attacco diveniva la linea ufficiale del partito, e si poneva al centro della vita culturale.

Naturalmente non era la prima volta che il settarismo staliniano ingaggiava una dura lotta contro i principi culturali di Lukács. Già negli anni dell’emigrazione nell’Unione Sovietica i vari Fadeev avevano ripetutamente preso di mira la rivista “Literaturnyj Kritik”, redatta sotto la sua direzione spirituale, che combatteva per il principio del realismo contro le idilliche menzogne chiamate “romanticismo rivoluzionario”, e nel 1941 avevano messo Lukács nella prigione della polizia politica russa, l’NKVD (GPU). Lo salvò solo il fatto che gli intellettuali tedeschi e austriaci – è molto significativo che non siano stati i settari emigrati ungheresi – intervennero in suo favore presso il coltissimo Dimitrov, che riusci, dopo aver penato alcuni mesi, a farlo scarcerare.

Nel 1949 parve che gli avvenimenti di Russia si ripetessero: Lukács fu bollato come “cosmopolita” – anzi da alcuni perfino come “servitore dell’imperialismo” – e gli alti funzionari del partito proibirono la pubblicazione delle sue opere sia in Ungheria che all’estero. Due suoi libri aspettavano di esser pubblicati in Polonia, in Cecoslovacchia e in Francia, ma l’intervento del partito comunista ungherese riuscì a interrompere le trattative editoriali, per cui nessuno dei libri fu stampato; e se questo non ci stupisce in una Cecoslovacchia e in una Polonia rette da stalinisti, ci meraviglia in Francia, dove Aragon avrebbe potuto facilmente mantenere la promessa fatta a Lukács nel 1948 circa la pubblicazione delle sue opere. Al contrario, egli diede severe disposizioni in materia, che non furono cambiate nemmeno durante il periodo di distensione seguito alla morte di Stalin. Solo nella Germania Orientale non si obbedì agli ordini del partito ungherese, e fu per non rinunciare al grande successo che otteneva anche nella Germania di Bonn il loro più popolare scrittore dopo Bertolt Brecht, per cui anche successivamente si pubblicarono tutti i suoi libri.

Oltre alla proibizione della pubblicazione delle sue opere, si ebbero altri elementi che dimostrarono come Lukács si trovasse in una situazione quanto mai pericolosa: furono organizzati contro di lui “grandi raduni”, nei quali si esigeva che egli “tirasse le somme”, e gli furono indirizzati ammonimenti personali. Ma il peggio non accadde. L’eco del dibattito su Lukács fu così grande in Occidente – e non soltanto tra gli intellettuali borghesi, ma anche tra quelli comunisti, molti dei quali si erano anche dimessi – che i capi ungheresi pensarono fosse meglio non mettere in prigione un filosofo di fama internazionale, benché fosse stato pubblicato nell’Unione Sovietica un articolo di Fadeev pieno di minacce.

Ai dirigenti del partito, assai occupati col processo Rajk che aveva un’importanza politica molto maggiore, parve inopportuno suscitare la reazione degli intellettuali con l’arresto di Lukács, dato che era facile comunque radiarlo dalla vita culturale ungherese. Così non si ebbe fortunatamente a ripetere la condanna che Lukács aveva avuto in Russia nel 1941; con un’autocritica formale – che anche Révai più tardi definì tale – e con l’appoggio di tutti gli strati dell’intellighenzia occidentale, egli riuscì a salvarsi dall’arresto.

È facile capire perché lo stalinismo si accanisse in tal modo contro l’opposizione in seno al partito, per la difesa di una sua supposta “unità”: detenendo essi già i pieni poteri, per i dirigenti del partito l’opposizione interna significava – e significa – il pericolo più grande, perché si ispirava ai principi veri del socialismo contro dei dirigenti inumani che li avevano accettati solo a parole ma li rinnegavano nella pratica.

Perché lo stalinismo ungherese doveva combattere la politica letteraria di Lukács? Révai si espresse in questo modo a tale proposito: «In Occidente si è cercato di immischiarsi in questo dibattito letterario e ideologico, e si va dicendo che l’“esecuzione” del compagno Lukács avviene per rompere completamente le relazioni tra la letteratura ungherese e quella occidentale, che la “liquidazione” del compagno Lukács serve a far tacere l’ultimo rappresentante dell’“alto livello” letterario ecc. ecc. Non vale la pena di discutere con la stupidità grossolana dei portavoce degli imperialisti». Ma la vera ragione, sempre secondo Révai, era invece questa: «ed in ultima istanza l’inasprimento della lotta delle classi nella nostra patria e nell’arena internazionale, e in relazione con questo l’aumento della vigilanza politica e ideologica – questi i motivi che suscitarono il dibattito contro certe opinioni del compagno Lukács che obiettivamente giovavano non a noi, alla classe operaia, al partito, ma ai vacillanti, a quelli che la politica del partito accettano di malavoglia, insomma al nemico». «La sua attività letteraria esprimeva una corrente determinata che non può essere considerata altro, dal punto di vista politico e ideologico, che una corrente di destra».

Non stupisce che Révai dovesse lottare contro una “corrente di destra”, perché tutto è a destra dell’estrema sinistra del settarismo. Ma guardiamo più da vicino le citazioni riportate: è chiaro che l’«intrusione occidentale” non ha nulla a che vedere con la “vera spiegazione”, dato che è ormai noto a tutti che gli stalinisti proprio con la parola d’ordine dell’“inasprimento della lotta di classe” ruppero ovunque i ponti con la cultura occidentale, definendola un “cosmopolitismo pericoloso”. Rileggendo con obiettività il dibattito Lukács si vede che non si trattava solamente della “ricerca dei nascondigli culturali del nemico” e di un “aumento della vigilanza”, ma della rottura delle relazioni culturali con l’Occidente – dove il nemico si celava – e dell’annullamento dell’“alto livello” perché quest’ultimo avrebbe significato una “inavvicinabilità aristocratica” e un “ostacolo allo sviluppo della giovane arte socialista”. «Quando il partito intensificava sempre più la lotta contro i capitalisti – scrisse Révai – quando l’anno del cambiamento era già da tempo trascorso, allora, nella primavera del 1949, Lukács si volse verso destra e cominciò a lottare non per il realismo socialista, ma in sostanza contro di esso, contro indirizzi letterari di tal genere e contro i loro portavoce, i quali – bene o male – rappresentavano lo sviluppo verso il “realismo socialista”». Era vero infatti che Lukács, onde salvare un realismo ad alto livello letterario, combatteva contro le cosiddette “direzioni in sviluppo verso il realismo socialista”. Era per questo che Révai doveva opporsi all’esigenza del “livello”, messo da lui tra virgolette ironiche, e al problema, in stretta interdipendenza con esso, delle relazioni con la cultura occidentale. Perché quando non si potevano assolutamente pubblicare Hemingway e Sinclair Lewis, Faulkner ecc., e quando la lettura di Kafka in una qualsiasi lingua contava come una colpa grave, si voleva far credere al pubblico ungherese che la “vera cultura occidentale di oggi” era rappresentata dalla collezione di frasi vuote e irreali di André Stil e, per la pittura, dal Fougeron, invece che da Picasso. Non era ben chiaro che con questo sistema si volevano rompere le relazioni con la cultura occidentale? Non fu certo per merito dei dirigenti del partito se questo non riuscì.

Caratterizzando scherzosamente il dibattito, Lukács raccontò l’aneddoto dei lampioni a gas di Bonn. A Bonn dunque, un tempo, gli studenti avvinazzati avevano l’abitudine di rompere a colpi di ciottoli le lampade dei lampioni a gas, dandosela poi a gambe. Ma lo studente, colpevole o no, che venisse trovato dai carabinieri, doveva pagare tutte le lampadine. Quindi – diceva Lukács – io mi devo pagare tutti i lampioni di Bonn. Il partito, dal 1945 al ’49, era concorde con la valutazione del problema della democrazia popolare data da Lukács nel 1947: «Il principio della democrazia popolare – soprattutto da noi ma anche in altri paesi – si trova all’inizio della sua realizzazione e anche se tradurrà in atto i suoi scopi non ha intenzione di liquidare il sistema di produzione capitalistico e non può quindi pensare alla creazione di una società senza classi». Ma col dibattito Lukács i dirigenti del partito pensavano di fare del filosofo il loro capro espiatorio, facendogli pagare tutte le lampade a gas che erano state rotte in prevalenza da loro.

Nel suo giudizio sulla democrazia popolare, quindi, Lukács non rappresentava una posizione particolarmente di “destra”, poiché tale giudizio era accettato da tutti nel periodo che precedette l’“anno del cambiamento”. La questione della democrazia popolare non fu dunque altro che un pretesto per portare la discussione estetica davanti al tribunale del partito, impedendole di diventare una “faccenda per specialisti”. Ma nello stesso tempo se ne profittò per dimostrare a Stalin che era compiuta quell’autocritica del concetto di democrazia popolare che egli esigeva a quel tempo. Il fine ultimo però restava sempre quello d’eliminare in modo totale i principi di politica culturale rappresentati da Lukács per poter far trionfare l’“estetica” dello ždanovismo.

Fino al 1948 i dirigenti del partito usarono la tattica di evitare i problemi delicati e tacere le loro intenzioni per attirare certi gruppi, o almeno per tentare di neutralizzarli. Questa linea tattico-politica permise che l’attività di Lukács in quel periodo assumesse un carattere quasi ufficiale, identificandosi con la politica culturale del partito. Si aveva bisogno dell’attività di György Lukács, in quel momento, per poter attirare quella parte dell’intellighenzia ungherese che simpatizzava col comunismo. Perciò gli permisero una libertà di azione di cui non si poteva prevedere la durata, e Lukács, non conoscendo i veri piani dei dirigenti del partito, sacrificò la possibilità di lunghi anni di lavoro scientifico per partecipare intensamente alle discussioni di politica letteraria del giorno.

In nessuna lingua straniera sono stati ancora pubblicati i libri tanto discussi e criticati nel corso del dibattito: Letteratura e democrazia e Per una nuova cultura ungherese, contenenti saggi e articoli, scritti, per la maggior parte, in quel periodo, e nei quali vengono espressi nel modo più chiaro i principi di politica della cultura dell’autore, principi in stridente contrasto con lo ždanovismo. In Ungheria, fino al 1948, l’anno della fine della coalizione, diverse tendenze letterarie, artistiche e filosofiche potevano ancora esprimere liberamente le loro opinioni, per cui era possibile guadagnare nuovi elementi al marxismo soltanto attraverso discussioni e analisi. Lo ždanovismo ne sarebbe stato incapace a priori, e infatti quando si è installato al potere non riesce che ad alienare tutti gli uomini ragionevoli a un “marxismo” di tal genere. Lo ždanovismo misura le sue “argomentazioni” sul metro degli ortodossi, che, essendo tali, non hanno bisogno d’esser convinti; per quel che riguarda invece le opinioni di qualsiasi altro indirizzo, non vale la pena di occuparsene, perché – come si espresse Révai – sono «stupidità grossolane dei portavoce degli imperialisti». È facile quindi immaginare che risultati possa avere l’“opera di convinzione” dello ždanovismo, quando si pensi che esso tende più a soggiogare che non a persuadere con argomentazioni convincenti, e che per esso contano più dei ciechi fedeli che non degli uomini dalle solide opinioni. E questa caratteristica dello ždanovismo non risulta da una qualsiasi debolezza personale, che potrebbe esser facilmente corretta dai suoi rappresentanti più colti e di maggior talento, bensì dall’apologetica che gli è propria e che è essenzialmente falsa. Ne è un esempio chiarissimo Révai stesso: egli è incomparabilmente più colto di tutti i creatori e gli apostoli russi dello ždanovismo messi insieme; non per nulla si nutrì della logica hegeliana, più tardi così radicalmente rinnegata. (A Lukács, per esempio, dopo la pubblicazione di Geschichte und Klassenbewusstsein non rimproverava altro che il non saper risolvere i problemi in modo abbastanza hegeliano). Quando però si trattò di divulgare il “realismo socialista”, dimenticò per il primo il gusto artistico che gli derivava dall’esser cresciuto alla scuola delle grandi opere della cultura europea, e, a un cenno del maresciallo Vorošilov dichiarò grande artista nazionale il preferito di quest’ultimo, il mediocrissimo Zsigmond Kisfaludy Stróbl, mentre nelle conversazioni private ne parlava con il massimo disprezzo. Non è quindi accaduto che il talento di Révai correggesse questa tendenza di “cultura” anticulturale; anzi è stato lo ždanovismo a modificare a suo piacimento l’indubbio talento di Révai, che oltre ad essere un settario aveva anche la smania del potere e che, con un cinismo che non conosce limiti, fece tacere ogni rimorso. Ed è proprio questo cinismo sconfinato che costituisce la base dello ždanovismo; esso vuol far credere che ciò che è bianco è nero, ciò che è cattivo è buono, che l’inumanità sia la forma più alta – purché socialista – dell’umanesimo, e che la crisi più profonda sia invece un momento di fioritura mai vista. Questo ždanovismo, nella cultura, non era che il corrispondente dello stalinismo in politica. Oggi, per esempio, in Ungheria i maggiori dirigenti fanno discorsi di questo genere: «Bisogna respingere la calunnia secondo la quale tutto il popolo avrebbe partecipato alla controrivoluzione. Con i delitti commessi in ottobre da briganti, assassini e ladri, la classe operaia ungherese non ha nulla a che fare. I traditori infiltratisi nell’esercito e nella polizia, i Maléter, i Király, i Kopácsi, si preoccuparono perché le armi non cadessero nelle mani degli operai dell’industria. La classe operaia voleva sì combattere, ma non contro il potere popolare, bensì contro le forze della controrivoluzione. La stragrande maggioranza del popolo lavoratore si mantenne salda e incrollabile a fianco del potere popolare». Bisogna riuscire a ipnotizzare la gente per poter dire che la rivoluzione di ottobre è stata fatta da banditi, assassini, ladri o traditori e che la «stragrande maggioranza del popolo lavoratore si mantenne salda e incrollabile» a fianco del sedicente “potere popolare” di Kádár (ovviamente fu per questo che si misero in movimento migliaia di carri armati russi nelle strade di Budapest il 15 marzo, giorno della festa nazionale ungherese), ma non si può pretendere di essere creduti. È comunque chiaro che lo ždanovismo è oggi più vivo che mai, con qualunque nome sia stato ribattezzato. Non è quindi inutile dilungarsi su questo fenomeno.

Al tempo del dibattito Lukács, si rimproverava tra l’altro all’accusato di aver “calunniato Lenin”, confondendo il suo principio della letteratura di partito con la dottrina di Engels sulla “poesia a tesi” (secondo la quale tutte le correnti e le opere hanno una tendenza politica). Lenin dunque così si espresse sul principio della partiticità: «Il lavoro letterario deve diventar parte del lavoro universale del proletariato, “ruota e vite” dell’unica grande macchina socialdemocratica che è mossa dall’avanguardia consapevole di tutta la classe operaia. Il lavoro letterario deve diventare parte creativa del grande lavoro organizzato, pianificato e unitario del partito socialdemocratico». Lukács invece paragonava l’attività degli scrittori nel partito all’attività del partigiano, facendone risaltare il contrasto con la disciplina diretta, per tutti obbligatoria, incondizionata, quasi meccanica, dell’armata, e con i suoi movimenti controllati. Questo paragone tendeva a sottolineare l’indipendenza relativa dello scrittore nei riguardi della rigidità, o almeno dell’interpretazione rigida della formula di Lenin. Lo ždanovismo esige al contrario che lo scrittore abbandoni incondizionatamente tutti i suoi diritti, la sua indipendenza di giudizio, i suoi pensieri e le sue convinzioni per accettare e glorificare qualsiasi forma di menzogna. Ma il principio estremamente idealista-soggettivo del Fichte che dice «se i fatti vanno contro le mie opinioni, tanto peggio per i fatti», principio rinnovato nel supposto materialismo dello stalinismo, per il quale se la realtà è piena di gravi contraddizioni e non corrisponde alle rosee direttive del partito, “tanto peggio per la realtà”, non può essere accettato dagli scrittori che in nome di una disciplina di partito. Sarebbe minacciata d’annientamento l’arte stessa, dato che essa non dovrebbe solo staccarsi dalla realtà, sua indispensabile matrice, ma dovrebbe addirittura “riflettere” nelle sue opere il contrario della realtà, finendo così in un vicolo cieco sia dal punto di vista artistico che morale. Il fatto che questo processo non sia affatto riuscito a imporsi sulla parte migliore dell’arte ungherese, e che anche la media vi si sia sottomessa solo transitoriamente, fu dovuto all’impossibilità di far presa sugli scrittori e sugli artisti con il principio della cieca disciplina di partito. Nel periodo in cui si svolse il dibattito Lukács, tuttavia, lo ždanovismo provò – con successo temporaneo e limitato – a farsi strada in questa direzione.

Lo stalinismo culturale dice ipocritamente: “riflettete la realtà”, ma nello stesso tempo pensa, ed esprime anche, col massimo cinismo: “ma riflettetela in modo che possa piacere anche a me”, quindi proprio tutto il contrario di ciò che vedete. Racconta una fiaba orientale di un tiranno, che, cieco e zoppo dalla parte destra, ordina un ritratto “bello e reale” con la minaccia della pena capitale qualora non riuscisse come egli lo intende. Dopo che alcuni pittori sono già stati uccisi, uno finalmente, più furbo degli altri, esegue il ritratto del tiranno, rappresentandolo a cavallo, visto di profilo da sinistra. L’insegnamento della fiaba è trasparente. Lo ždanovismo, in più, dà anche la ricetta per la rappresentazione di profilo, cercando di dare una forma piacevole a questo suo immorale insegnamento, e chiama la menzogna consapevole “romanticismo rivoluzionario” e quest’ultimo “essenza del realismo socialista”. Ricordo con che giusto orgoglio Lukács diceva, nel corso di conversazioni private, che non si riuscì nemmeno a fargli scrivere l’espressione “romanticismo rivoluzionario”, che egli riteneva assolutamente ascientifica, e tanto meno a fargliela accettare come concetto valido. Fin dall’inizio egli era profondamente ostile a questa parola d’ordine, ma soltanto nell’ultimo periodo poté opporsi ad essa pubblicamente. Il romanticismo rivoluzionario serviva e serve al “realismo socialista” per eliminare dall’arte proprio il realismo, in quanto “obiettivismo borghese e tendenza a veder nero”. Il “realismo socialista” improntato al romanticismo rivoluzionario è quindi una forma particolare di realismo che con questo nulla ha in comune. La vasta propaganda per questo “romanticismo rivoluzionario” e per il “realismo socialista” cominciò in Ungheria proprio col dibattito Lukács.

Un altro problema fondamentale del dibattito fu quello della “superiorità assoluta” dell’arte socialista, mille volte ribadita dal catechismo dello ždanovismo. Quando sorse il dubbio se fosse possibile chiamare arte il tentativo di inculcare la menzogna, di nascondere le contraddizioni della realtà, di sostituire ad essa le immagini irreali di uno “splendido futuro”, lo ždanovismo risolse il problema dichiarando: questo realismo socialista non soltanto è arte, ma l’arte più grande di tutti i tempi, dato che è l’arte della società superiore. Non è nemmeno paragonabile all’arte del capitalismo, e non lo si può mettere sullo stesso piano di questa, proprio perché gode delle conquiste del romanticismo rivoluzionario.

Lukács rispose a simili “argomenti” col paragone del coniglio e dell’elefante: il coniglio che salta in cima alla montagna può illudersi nella sua vanità di esser più grande dell’elefante che sta in pianura, ma naturalmente in realtà non lo è. Per appoggiare teoricamente questo paragone Lukács si riferiva al principio della “ineguaglianza di sviluppo” di Marx, secondo il quale «… non è affatto necessario che tutte le fioriture economiche e sociali determinino una fioritura letteraria, artistica, filosofica ecc.; non è affatto necessario che una società economicamente superiore ad un’altra abbia necessariamente una letteratura, un’arte, una filosofia superiori». Si può facilmente immaginare come in Ungheria il richiamo al principio deill’ineguaglianza di sviluppo dovesse essere considerato un’eresia, in un tempo in cui tutti i prodotti dell’arte sovietica, anche i più scadenti, dovevano essere esaltati, e servire da modello alle opere d’arte ungheresi, poiché, secondo la linea ufficiale del partito, la misura del vero patriottismo era il grado di amore verso l’Unione Sovietica. È ovvio che in tali circostanze il paragone del coniglio proposto da Lukács era uno dei più grandi ostacoli a quella “politica culturale” che si era prefissa lo scopo di far trionfare ovunque il servilismo.

Si rimproverò a Lukács di non essersi occupato della letteratura sovietica, superiore a tutte; e l’autocritica che egli fece in merito fu definita insufficiente, perché «… essa non giunge in profondità, non è abbastanza conseguente». E questo naturalmente era vero. Lukács cercò di parare i colpi dell’accusa dicendo che le sue conoscenze in materia di letteratura sovietica erano troppo limitate. Révai però rifiutò queste spiegazioni «perché Lukács, vivendo nell’Unione Sovietica negli anni ’30, partecipò alle discussioni che si svolsero laggiù ed espresse le sue opinioni su importanti problemi della letteratura sovietica. Non si tratta piuttosto del fatto che il suo silenzio in Ungheria negli anni seguiti al ’40 è in stretta relazione col suo intervento nei problemi della letteratura sovietica a Mosca negli anni seguiti al ’30? Noi pensiamo che si tratti di questo, e non dei difetti nella preparazione scientifica di Lukács. Il dibattito che si svolge oggi intorno alla teoria letteraria del compagno Lukács è in sostanza la continuazione dello stesso dibattito che fu diretto contro di lui negli anni ’30 nell’Unione Sovietica». Révai aveva completamente ragione per quel che riguardava quest’ultimo fatto, come del resto quando esprimeva il suo dubbio a proposito della “profondità dell’autocritica”. Il problema è solo quello di come si debba giudicare questo dibattito, iniziato da tanto tempo, e di come si debba interpretare il rifiuto dell’“autocritica conseguente”. Ma il dirigente settario e infallibile non pensa neanche per un momento di poter sbagliare, e che in una discussione anche l’altra parte in causa possa aver ragione. Egli non ricerca dietro a un atteggiamento le cause che lo hanno determinato, di qualsiasi persona si tratti: egli detta sentenze non sopportando nessun genere di contraddizione e non riflette affatto se incontra una imposizione. Goethe disse una volta con molta saggezza: «se ti batti un libro in testa e senti suonar vuoto, non è detto che sia il libro», ma i settari non sono disposti a imparar nulla da questa metafora. Non ascoltano nemmeno Lukács, chiedendogli le ragioni per cui non si occupa intensamente della letteratura e dell’arte sovietiche, ma semplicemente lo forzano a farlo. E quando egli sceglie per analizzarle le opere di valore del primo periodo della letteratura sovietica, ignorando quasi del tutto i prodotti nati ai tempi e nello spirito dello ždanovismo, non riflettono su ciò, e non cercano le ragioni di questa scelta, perché potrebbero trovarvi insegnamenti loro sgradevoli: si accontentano di condannarla.

Lukács condusse una lotta veramente serrata – purtroppo senza risultato – nell’Unione Sovietica, negli anni seguiti al ’30, contro la pratica letteraria dello ždanovismo e contro la politica culturale dei vari Fadeev, e il dibattito del ’49 non ne era che la continuazione, e vi era sempre implicato Fadeev. Un giorno costui, in stato di ubriachezza “confessò” a Michail Lifšic, amico di Lukács, di saper benissimo quanto fosse immorale la strada che stava seguendo, ma che non era capace di cambiare, perché si sentiva debole ed era quello l’unico modo di farsi valere. (Il giorno seguente, naturalmente, per riparare alla confessione, e per mettersi la coscienza in pace, scrisse un duro attacco contro la tendenza di Lukács, tanto lodata la sera prima). Tuttavia, questo “farsi valere”, se lo fece diventare, come premio per la denuncia e l’arresto di tanti suoi compagni di professione, la figura più in vista della politica culturale, e gli fruttò tutti i riconoscimenti ufficiali possibili, nello stesso tempo trasformò il buon scrittore de La disfatta nel cattivo pubblicista del romanzo giornalistico e superficiale La giovane guardia, scritto con un vuoto pathos retorico che è l’equivalente artistico della degradazione umana. Non è impossibile che anche Révai la pensasse come Fadeev ubriaco, nei momenti di sincerità – se pure aveva tali momenti e se non posava anche con se stesso –: comunque dal periodo del suo eccellente saggio su Kölcsey fino al dibattito Déry, anzi, fino al suo articolo del 7 marzo 1957 scritto in difesa di Rákosi, la via del suo “sviluppo” è molto affine a quella di Fadeev. Ma quale che fosse la sua opinione personale, in pubblico incensava sempre la letteratura e l’arte sovietiche. E Lukács doveva tacere le sue opinioni a questo riguardo. L’indubbia crisi in tutti i campi dell’arte sovietica rifletteva a suo modo, in forma molto indiretta, e cioè nell’enorme abbassamento del livello artistico, la crisi economica e politica della società. Ma i dirigenti politici staliniani non erano disposti ad aprire gli occhi di fronte a questi indizi, come non lo saranno più tardi anche in Ungheria nei confronti degli scrittori ungheresi. Nel dibattito Lukács la parola dell’opposizione fu soffocata senza alcuna pietà e si cercò di costringere i rappresentanti di tutti i campi dell’arte ungherese a fabbricare le loro opere secondo le ricette sovietiche, preparate dai dirigenti del partito, staccandosi completamente dalla realtà magiara. Senza liquidare la tesi sulla ineguaglianza di sviluppo e “il paragone del coniglio e dell’elefante”, propri di quella politica culturale di Lukács, considerata fino al ’48 quasi ufficiale, ovviamente non avrebbero mai raggiunto il loro scopo.

Se ci chiediamo perché il partito ungherese sia divenuto un adepto così entusiasta e zelante dello ždanovismo, la risposta ci è data dal dibattito Lukács: per il suo inguaribile settarismo. E Lukács dovette esser messo in disparte anche perché, fin dal primo momento, combatté contro di esso. Così scrisse Révai contro Lukács – difendendo il settarismo del partito ungherese: «Al compagno Lukács ciò pare “settario” perché egli ritiene settaria la politica comunista di prima del fronte popolare, che aveva come scopo strategico la dittatura del proletariato, ed egli considera giusta la politica dal momento della lotta contro il fascismo, della politica di fronte popolare, dal tempo in cui ci si prefisse come scopo quello della democrazia popolare, dimenticando che non si trattava d’altro che di una deviazione storica alla quale siamo stati forzati dal fascismo; non si trattava del cambiamento di una linea politica interamente ingiusta, settaria, con una giusta politica popolare». Queste righe non sono state scritte da una persona qualunque, ma dal teorico ufficiale del partito comunista ungherese, e quel che è più degno di attenzione è che con esse si voleva contestare l’esistenza del settarismo di partito. E qui non si tratta in primo luogo del problema della parte che ebbe il settarismo del partito comunista tedesco nella vittoria del nazifascismo bensì di qualche cosa di molto più vasto: del concetto cioè che considera il fronte popolare come un transitorio cambiamento tattico causato dalla deviazione storica e non come assoluta necessità dello sviluppo interno storico e sociale. E che cos’è questo se non settarismo allo stato puro? E se così è la “difesa”, si può immaginare che cosa dovesse essere la parte della politica del partito che Révai stesso doveva riconoscere settaria. Révai potè diventare il teorico ufficiale del partito proprio perché aveva principi in perfetta armonia con la prassi settaria del partito. Questa linea politica e questo sfondo ideologico, ambedue fatalmente settari, determinarono l’attività del partito ungherese fin dall’inizio e naturalmente anche negli anni seguiti alla rivoluzione. I suoi dirigenti aspettavano solo il momento in cui l’armata sovietica avrebbe creato una situazione favorevole all’abbandono della “deviazione storica” delle concessioni tattiche di carattere popolare e al ritorno alla via del settarismo, così cara ai loro cuori. E qui appare tutta la profonda differenza che separava Lukács dai rákosisti quando si pronunciavano in modo apparentemente analogo sulla democrazia popolare: Lukács pensava seriamente ciò che diceva, mentre gli altri consideravano le loro promesse, infiorate di detti e proverbi populisti, soltanto come una spiacevole necessità tattica. La stessa cosa avveniva naturalmente anche nel campo della politica culturale: Révai ne parlava assai chiaramente nel 1950, quando non era già più necessario far uso della tattica. Perché, secondo lui, «…proprio la divulgazione e l’analisi seria della letteratura sovietica avrebbe potuto dare, allo sviluppo letterario della nostra democrazia popolare, la prospettiva socialista, in un tempo in cui per ragioni politico-tattiche, non potevamo ancora usare la parola d’ordine del realismo socialista». Non è difficile immaginare, dopo queste parole – quando le ragioni politico-tattiche erano cadute e tutto il potere era nelle loro mani – che genere di politica culturale praticassero i dirigenti del partito in Ungheria, dove l’unica via giusta sarebbe stata quella della democrazia popolare, sia nella vita politico-sociale che in quella artistica.

Il dibattito Lukács ebbe inizio un quarto di secolo fa non soltanto sul piano estetico, ma anche su quello politico, anzi incominciò prima del tempo della lotta contro i Fadeev. Lukács, nel partito ungherese apparteneva all’ala Landler, e fin dal principio fu l’oppositore pili accanito del leader del settarismo, Béla Kún; e già nel 1929, nelle Tesi di Blum (pseudonimo di Lukács) egli proclamava la necessità di una politica di fronte popolare, benché in quel tempo il nazifascismo non rendesse ancora necessaria la “deviazione storica”. Le Tesi di Blum furono naturalmente respinte e condannate dal Komintern dominato dal settarismo, e quando, molto dopo la vittoria del nazifascismo, la politica del fronte popolare divenne la linea ufficiale, a Lukács – sospeso, in seguito alle sue Tesi di Blum, da tutte le attività nella direzione del partito – non fu resa giustizia, ma si nascosero invece le “tesi” per poter mantenere, anche in futuro, le accuse contro di lui. Così, nel corso del dibattito Lukács del 1949, Révai potè molto tranquillamente falsificare il senso delle Tesi di Blum, poiché all’autore era impossibile rispondere con una documentazione. Le tesi furono presentate soltanto nel 1956, a un pubblico ristretto, quando, in seguito alla pressione del movimento intellettuale, furono all’improvviso “ritrovate” nell’Istituto del Movimento Operaio a Budapest. (Il pubblico più vasto non le conosce tuttora).

I rákosisti quindi, nel ’49, con il dibattito Lukács, non vollero ottenere soltanto dei risultati culturali, ma cercarono anche di dar una certa legalità alla loro linea politica interamente settaria, e dissero che le soluzioni nello spirito della democrazia popolare erano un anacronismo, che avevano il significato tattico di una deviazione storica, per poter poi rivestire la loro fatale politica col “pathos eroico” della giustificazione storica, appoggiandosi su questa base teorico-ideologica. Incoraggiamenti in questo senso erano giunti naturalmente, come risulta chiaramente dalla storia delle Tesi di Blum, dall’Unione Sovietica, ma questo non toglie che essi fossero in armonia con lo spirito settario della direzione del partito ungherese. L’intervento di Révai nel dibattito Lukács, scritto nel 1950, servì nello stesso tempo a tesser le lodi degli assassini di Rajk e dei suoi compagni, di quei dirigenti del partito ungherese, che, guidati dal loro settarismo, non indietreggiavano neppure di fronte alla più grande inumanità: ed effettivamente i rajkisti rappresentavano una linea politica molto simile a quella teorica di Lukács.

Lo ždanovismo, con l’aiuto di questo retroscena politico e della violenza, potè così trionfare in Ungheria per un determinato periodo, almeno apparentemente. Esso introduceva nel campo della cultura la disciplina cieca di partito, nella stampa la lode incondizionata e permanente dell’Unione Sovietica, nell’arte il rifiuto di scorgere le contraddizioni della realtà e l’abbellimento di una situazione che andava tempre peggiorando; o almeno pretendeva di ottenere tutto questo. Ma non riuscì a far altro che distruggere i non pochi risultati positivi che la politica culturale di Lukács aveva potuto realizzare negli anni precedenti.

Lukács non aveva mai voluto far credere ciecamente, ma convincere artisti e scrittori, e aveva così spinto i rappresentanti degli indirizzi più diversi a esaminare problemi d’attualità della vita culturale. Zoltán Kodály, per esempio, durante un discorso accademico rivolse un giorno questa domanda a Lukács: «Ma me lo dica sinceramente, qual è poi il marxismo? Quello proclamato da lei o quello che vanno predicando nel partito? Perché se è quest’ultimo io non ne voglio nemmeno sentir parlare». Nel corso del dibattito e anche in seguito pareva che non vi fossero dubbi in proposito: Lukács non avrebbe avuto nulla a che fare con il marxismo, dato che egli sarebbe stato un «cosmopolita», un «revisionista di destra». Lo ždanovismo più settario e limitato usurpò il titolo di «vero marxismo», mentre l’ordine soppiantò la convinzione. Non deve quindi stupire che in Ungheria uomini di grandissimo valore voltassero le spalle, con il massimo disprezzo, a questo tipo di marxismo.

Anche la soluzione settaria del problema delle relazioni con la cultura occidentale produsse enormi danni allo sviluppo culturale ungherese. Perché – anche nel caso che la cultura sovietica fosse stata superiore a ogni altra, come si assicurava – ci voleva un’estrema cecità politica per permettere disposizioni che rompessero radicalmente le relazioni dell’Ungheria con quella cultura cui era legata da tradizioni millenarie, mentre le relazioni con l’arte russa erano sempre state transitorie e casuali. Ma quando il potere supremo dava ordini, «fattori sentimentali così risibili» non contavano più nulla.

I dirigenti del partito risolsero il problema della relazione con la situazione culturale di prima e durante la seconda guerra mondiale con lo stesso “radicalismo” con il quale avevano tagliato i ponti con la cultura occidentale, dimenticando di proposito che nella maggior parte dei casi si trattava di due tappe diverse dello sviluppo delle medesime persone. Ed anche a questo proposito la soluzione di Lukács e quella di Révai stavano in netto contrasto l’una con l’altra. Così Lukács s’accostava a questo serio problema, la cui soluzione era ancora lontana: «… l’inestirpabilità della concezione del mondo della torre d’avorio ha profonde e serie radici sociali. Essa è una protesta contro la fondamentale tendenza antiartistica del capitalismo. Ma questa protesta dell’“arte pura” contro la bruttezza e la mancanza di spiritualità del capitalismo, può volgersi avanti o indietro, può esser progressiva o retrograda secondo quando, contro chi e con quale accento si manifesta. È comprensibile che una parte notevole della letteratura ungherese si sia difesa anche in questo modo nel quarto di secolo della controrivoluzione, e specialmente negli ultimi, terribili anni». Révai, invece, durante il dibattito, così fece tacere Lukács: «Questa “comprensione” verso “l’arte pura” è una deviazione dalla via dell’estetica marxista e rende quasi completamente vani anche gli altri interventi di Lukács contro l’illusione degli scrittori “di essere al di sopra della società”. No, la concezione del mondo della torre d’avorio non è mai stata e non potrà mai essere progressiva! Non bisogna “comprendere” e scusare questa concezione del mondo, ma combatterla!» È noto che la maggior parte dei critici di Lukács gli rimprovera a questo proposito di risolvere troppo categoricamente in alcuni punti il problema della decadenza moderna; ebbene, la posizione di Révai è totalmente opposta, poiché egli definisce la relazione di Lukács come una intollerabile “comprensione” e “giustificazione”. Non v’è alcun dubbio sull’accoglienza che questa “teoria militante” dovette trovare presso gli interessati, cioè presso la parte migliore del mondo della cultura ungherese. Anche se non fu possibile, per lungo tempo, cambiare la situazione, neppure questa “teoria militante” riuscì, nonostante tutti i suoi sforzi, a evitare la possibilità della “resistenza passiva”.

Il dibattito Lukács potè quindi ridurre al silenzio, in questa atmosfera politica, l’opposizione, il che non significava però abolire le contraddizioni, ma inasprirle senza lasciarle sfogare. Qualche anno più tardi, rotto il ghiaccio del silenzio, una volta Rákosi disse a Lukács a proposito degli atteggiamenti critici dell’intellighenzia ungherese (Lukács riferì questa frase davanti al pubblico del Circolo Petöfi): «Che parlino pure, poi romperemo loro la testa». Ai tempi del dibattito Lukács però i dirigenti del partito non conoscevano ancora il significato di questa tattica più astuta, non ne avevano neppure bisogno, ma nella consapevolezza di detenere i pieni poteri usavano invece quest’altra parola d’ordine: «Che osino parlare, romperemo loro la testa!» E naturalmente non poteva andar diversamente all’epoca del processo Rajk.

Il dibattito Lukács aprì la strada allo ždanovismo. Révai da questo momento divenne il padrone assoluto del campo culturale, e va da sé che fece uso del suo potere fino all’estremo limite. Nessuno mai era riuscito, in Ungheria, a nuocere tanto allo sviluppo della cultura quanto Révai per mezzo della sua politica settaria. Egli spazzò via dal suo cammino tutti coloro che osavano manifestare un’opinione contraria alla sua, anche se a bassa voce, fin che fu al potere. Si deve soprattutto a Révai se il periodo che va dal dibattito Lukács al giugno 1953 (data in cui salì al potere Imre Nagy) fu l’epoca più oscura della cultura ungherese.

Di Lukács e di altro

di Antonello Trombadori

«L’Unità», 2 gennaio 1957

Il signor Giovanni Russo, corrispondente romano del Corriere della Sera, ha dato una singolare risposta a Franco Fortini e a tutti coloro che, nelle ultimo due settimane, hanno voluto isolare con particolare risalto dalla tragedia ungherese le personali vicende di Giorgio Lukács. Scrive il signor Russo nel numero di dicembre della rivista Nord e Sud: «Fu Lukács a consigliare Nagy di denunciare il patto di Varsavia e di fare appello all’intervento occidentale». Non sappiamo dove il corrispondente del quotidiano milanese abbia attinto la notizia, né se egli l’abbia coniata di sana pianta nell’intento di calunniare Lukács o nel proposito, non dissimile, di esaltare in lui un tardivo seguace della «scelta della libertà». Se di premeditata calunnia si tratta ai danni del filosofo ungherese, vorremmo tuttavia conoscere che cosa ne pensano Franco Fortini e i suoi più o meno autorevoli imitatori (vedi sull’ultimo numero del Punto anche le lettere dei f.lli Bertelli). Essi saranno di certo, quanto noi, sprovvisti dell’informazione necessaria ma in questi casi più della stessa informazione vale l’ipotesi e l’apprezzamento che se ne deriva. La domanda potrebbe esser questa: è una calunnia o un titolo d’onore qualificare Lukács come promotore di così catastrofiche misure di governo nei giorni della sommossa della disgregazione e del caos?

Uno dei f.lli Bertelli risponde già sua sponte. Egli non fa distinzioni tra Lukács, Nagy e tutti gli altri membri dell’ex governo ungherese che oggi si trovano, a quanto ufficialmente consta, in Transilvania. Sul filo della logica non vi sarebbe, dunque, stato, a suo avviso, un solo momento lungo tutto il corso della tragedia ungherese nel quale le sorti indivisibili della pace e del socialismo abbiano seriamente rischiato d’esser compromesse. Il governo Nagy cedeva alla tracotanza del cardinale. Finalmente un gesto non «settario» verso la gerarchia! Il governo Nagy si lasciava ad ora ad ora sopraffare dagli avventurieri tipo Dudasz? Finalmente un non «settario» riconoscimento delle tradizioni militari della nazione magiara! Il governo Nagy tentennava davanti alle rivendicazioni dei latifondisti sulle terre espropriate? Finalmente una coraggiosa ammissione dei diritti della «produttività»! Il governo Nagy non riusciva a comporre nel quadro della legalità socialista le impetuose e disordinate pressioni delle più contrastanti velleità politiche e ad esso indulgeva con irrealizzabili promesse? Finalmente il libero gioco dei partiti e delle opinioni! Il governo Nagy indicava nell’esercito che un tempo aveva liberato Budapest dai nazisti e dai vilasz il nemico numero uno dell’indipendenza ungherese? Finalmente una critica aperta e leale nei rapporti tra Stati socialisti! Il governo Nagy faceva appello all’intervento occidentale? Finalmente un costruttivo e spregiudicato colloquio col mondo capitalista!

È questa la base di un ragionamento che, come si è detto, ha una sua logica. Questa logica però, se si vuol condurre a fondo e lealmente il dibattito, non deve essere occultata. È la logica di coloro che, per dirla coi comunisti cinesi, «quando l’Ungheria si trovava a fronteggiare la sua crisi, non solo non hanno sollevato la questione di realizzare una dittatura proletaria, ma si sono pronunciati contro i giusti passi compiuti dall’Unione Sovietica per aiutare le forze socialiste in Ungheria. Si sono fatti avanti a chiedere che il governo rivoluzionario operaio e contadino estendesse la democrazia ai controrivoluzionari». È la logica di coloro che, per dirla ancora coi comunisti cinesi, «negano che vi sia una linea di demarcazione tra la dittatura del proletariato e la dittatura della borghesia, tra il sistema socialista e il sistema capitalista, tra il campo socialista e il campo imperialista. Secondo costoro un capitalismo di stato in certi paesi borghesi è già di per se stesso socialismo e perfino la società umana, nel suo complesso, è già maturata nel senso del socialismo». Ed è anche la logica di coloro che, proprio a differenza di quanto comprese Giorgio Lukács fin dal 1919, non hanno mai meditato su una considerazione che dieci anni dopo Bela Kun premetteva a un suo breve saggio sul terrore bianco in Ungheria: «Lo scatenamento della controrivoluzione che ha seguito la rivoluzione proletaria ungherese è una evidente conferma della tesi di Engels, che nel periodo della rivoluzione proletaria tutte le forze della controrivoluzione si raggruppano attorno parola d’ordine della pura democrazia. La socialdemocrazia rappresentò la pura democrazia al tempo della dittatura del proletariato in Ungheria».

Se si ha il coraggio di guardare le cose come stanno e di porre la questione in questi termini, se si ha il coraggio, cioè, di riconoscere che da posizioni simili è inevitabile scivolare fino alla vergognosa (vergognosa in particolare per un uomo di scienza) tesi di Fianco Venturi secondo cui sarebbe finalmente iniziato il periodo dell’accerchiamento socialista dell’URSS (guidato dal Patto Atlantico, dagli azionisti della General Motors e dalla «solidarietà occidentale» – n.d.r.), tutta la nostra contesa con coloro ai quali si è fatto cenno all’inizio può prendere la giusta dimensione, uscire dall’equivoco e svilupparsi sul terreno della chiarezza. Ma perché ciò sia possibile è necessario che tutti i nostri contraddittori accettino fino in fondo le proprie responsabilità. Infatti delle due l’una: o Fortini e i suoi imitatori intendono convenire sul fatto che il governo Nagy fu travolto ad un tempo dalla sua incertezza, dal suo miracolismo democratico e dalla sua pretesa equidistanza dal campo socialista e dal campo imperialista, ammettendo, di conseguenza, che quando quel governo si scisse la ragione fu dalla parte dei Kádár e dei Marosán (la ragione rivoluzionaria) e il torto dalla parte di coloro che optarono per il rifugio nell’ambasciata jugoslava: ovvero Fortini e i suoi imitatori non possono evitare di porsi sul terreno di coloro che se non plaudirono, tollerarono le parole del cardinale quando la radio Budapest, nei giorni in cui si trattava di correggere e di denunciare gli errori compiuti ai danni del socialismo da Rákosi e da Geroe, preferiva lanciare la parola d’ordine della liquidazione del socialismo al cospetto della democratica impotenza di chi, in buona o mala fede, aveva lasciato scatenarsi senza freno le forze mescolate del caos dell’anarchia, della restaurazione e della disperazione popolare.

Alla luce di una delle due scelte non può non essere posta anche la particolare vicenda di Giorgio Lukács. Essa, lo ripetiamo, non deve servire di pretesto a chicchessia: sarebbe infatti grave slealtà tentar di contrabbandare, sotto il velo del disappunto e del dolore che in ogni marxista derivano dal non sapere oggi un uomo come Lukács al fianco del governo ungherese, ben più complesse o inconfessabili operazioni politiche.

Chi oggi rivendica solidarietà per Giorgio Lukács, volendo fare di lui una bandiera della controrivoluzione e della liquidazione del socialismo, dovrebbe più dignitosamente e utilmente ceder la penna ai propagandisti del monopolio, della curia e della socialdemocrazia di destra. Eviterà di barare al gioco.

Chi voglia invece porsi il problema della penosa sorte toccata a Giorgio Lukács dopo la sua uscita dall’ambasciata jugoslava, conservando intatta la speranza di non veder sporcato l’illustre scrittore dalle calunnie del signor Russo e di poterlo rivedere, con rinnovato slancio, a fianco di coloro che in Ungheria portano oggi la duplice croce degli errori di Rákosi e degli errori di Nagy, dovrebbe, come noi abbiamo fatto, giudicare l’operato politico di Lukács nel contesto stesso degli avvenimenti ungheresi, delle loro implicazioni internazionali e delle responsabilità che su ciascuno degli uomini di governo ricaddero fin dal momento delle estreme decisioni di Kádár e dei fondatori del nuovo partito socialista degli operai ungheresi. Anche la condotta di Lukács non deve sfuggire alla severità della critica politica che di qui discende. Rimane tuttavia un quesito: fin dove si spinse in questi giorni confusi e drammatici l’iniziativa di Lukács, fin dove giunsero le sue personali responsabilità? Noi ci rifiutiamo di credere che egli cadde nell’intrigo degli «appelli» calunniosamente attribuitigli dal signor Giovanni Russo. Resta il fatto comunque che da quegli appelli egli non dissentì o non poté apertamente dissentire. Ma anche se così stanno le cose fino a qual punto deve essere spinto il giudizio politico, la critica anche severa verso Lukács, in primo luogo da parte dei suoi compagni, dei comunisti? È quanto vorremmo conoscere da coloro che soli possono fornire l’esatta versione dei fatti: le autorità governative ungheresi, i dirigenti del partito socialista degli operai ungheresi, le autorità sovietiche che diressero l’intervento risolutivo nei giorni in cui l’esistenza stessa dello Stato popolare fu sul punto d’esser travolta.

È solo in base a queste premesse (e solo in base alle informazioni che da nessun altro intendiamo accogliere) che un particolare giudizio sulle conseguenze politiche condivise da Lukács col governo Nagy, potrà essere formulato. Al di fuori delle calunnioso provocazioni, nel quadro sereno ma fermo della critica politica.

È giusto per intanto ricordare a Fortini, ai suoi imitatori, nonché a quei professori e letterati che soltanto sei mesi fa finsero, per paura di compromettersi, di non accorgersi d’un viaggio di Lukács a Roma, a Milano e a Firenze, che qualunque potrà essere il definitivo giudizio dei militanti marxisti sulle responsabilità politiche di Giorgio Lukács, un fatto è certo fin d’ora: che il pensiero del filosofo ungherese nelle questioni dell’arte e della letteratura non potrà mai, per sua stessa natura, diventare sostegno di operazioni revisionistiche del marxismo-leninismo. Accadde anche a Kautsky e a Plechanof di cadere nell’errore politico: ciò non ha mutato il giudizio dei marxisti su quel che di marxista v’è nel loro pensiero. È questa un’affermazione che, al di sopra d’ogni sospetto, possiamo a voce alta proclamare proprio noi comunisti italiani che della tragedia ungherese abbiamo indicato le origini, in primis et ante omnia, negli inammissibili errori commessi ai danni del socialismo da Rákosi, da Geroe e dai loro fallimentari seguaci. Noi che a quei danni intendiamo riparare rinsaldando le fila della direzione operaia, accrescendo la consapevolezza democratica delle masse e percorrendo, in questo spirito, la via della rivoluzione italiana.

Nagy e il filosofo Lukács si trovano nei Carpazi.

di Orfeo Vangelista

«L’Unità», 2 dicembre 1956

Nagy e il filosofo Lukács si trovano nei Carpazi. Si precisano i compiti dei Consigli operai

Il Primo ministro Kádár visita le miniere di Tatabanya – Un’intervista con il segretario dei Sindacati ungheresi


 

A Tatabánya, centro minerario a una sessantina di chilometri dalla Capitale ungherese, il primo ministro János Kádár si è incontrato con i rappresentanti dei consigli operai dei minatori.

Tatabánya è una piccola città interamente velata dalla patina scura del carbone. I volti depli uomini recano le tracce del lavoro in miniera: volti duri, permeati dalla polvere sottile dei pozzi. Dopo i moti delle scorse settimane, a Tatabánya è tornata la calma, ma nelle miniere il lavoro viene ripreso con lentezza: la recente paralisi produttiva ha provocato l’allagamento dei pozzi, alcune gallerie e impianti hanno sofferto dello lunga stasi.

Più difficile che altrove si è dunque rivelata la situazione dei bacini minerari, proprio nel momento in cui la ripresa della produzione industriale è subordinata alle forniture di carbone e di materie prime.

Il primo ministro Kádár ha illustrato ai minatori di Tatabánya gli aspetti critici dell’attuale situazione e le cause che l’hanno determinata, sottolineando la necessità di approfondire l’opera chiarificatrice fra le masse lavoratrici, di svolgere una più intelligente attività educativa e orientatrice.

Dal canto loro, i rappresentanti dei consigli hanno parlato con estrema franchezza, esprimendo l’esigenza di un rinnovamento democratico negli apparati amministrativi mediante la gestione autonoma e diretta dei Consigli operai nelle miniere.

In questa occasione, Kádár ha nuovamente ribadito la funzione di direzione economica spettante ai consigli operai.

Su questi ultimi e i loro problemi, ci ha concesso stamane una breve intervista il presidente del Consiglio centrale dei sindacati ungheresi. Sándor Gáspár. «I Consigli operai – ci ha detto Gáspár – sono organi autonomi di direzione della fabbrica, attraverso i quali si realizza la direzione operaia dell’azienda. Essi sono autorizzati a svolgere tutti i compiti relativi alla vita dell’azienda: sistemi di pagamento, piano economico della fabbrica, ripartizione degli utili in base alla quota fissata dagli organi dello Stato, sfruttamento della «capacità libera» della azienda, cioè della parte estranea al completamento del piano, col relativo acquisto delle materie prime e, naturalmente, vendita indipendente dei prodotti.

«Ciò spiepa le caratteristiche principali dei Consigli: essi non sono organi per la difesa degli interessi dei lavoratori, né organi politici, ma di direzione economica.

«Già sono iniziate – ha proseguito Gáspár – le consultazioni per la creazione di organi superiori in ogni settore industriale, simili alle Camere dell’industria. Successivamente, quando la situazione lo permetterà, potrà essere eletto – non su base territoriale – un Consiglio nazionale dei produttori, avente funzioni analoghe a quelle della Camera bassa del Parlamento. Codesti orientamenti sono già largamente condivisi dagli attuali Consigli operai e anche da una parte dei membri del Consiglio centrale provvisorio di Budapest.

«Naturalmente, ciò non vuol dire che in seno agli stessi Consigli provvisori, soprattutto a quelli sorti affrettatamente e su una base scarsamente o per niente rappresentativa, non esistano tendenze ostili a questo orientamento. L’azione chiarificatrice richiederà sicuramente molto tempo, ma è fin d’ora certo che riuscirà ad affermarsi la corrente sorretta dal crescente appoggio delle masse lavoratrici: quella che si ispira ai principi della direzione economica dell’azienda e non a programmi o punti politici di derivazione antidemocratica».

«Quali sono le relazioni – abbiamo chiesto a Gáspár – tra i Consigli operai e i sindacati?»

Gáspár ci ha ricordato l’azione svolta dai sindacati, all’indomani del 23 ottobre scorso, favorevole alla istituzione dei Consigli operai. Furono i sindacati a farsi promotori, sul piano nazionale, di codesta iniziativa. «Oggi – precisa Gáspár – i sindacati appoggiano i Consigli operai. Nella settimana prossima apriremo un corso di studio per presidenti e membri di Consigli, dove verranno approfondite ricerche ed elaborazioni teoriche strettamente pertinenti all’attività e alle nuove esperienze degli organi aziendali. L’obiettivo è di formare presidenti di Consiglio capaci di dirigere una fabbrica».

«Per quale ragione – domandiamo ancora a Gáspár – l’attuale Consiglio centrale provvisorio di Budapest continua a porre al governo questioni e rivendicazioni di carattere politico?»

«Ho già accennato prima alla esistenza di tendenze diverse in seno ai Consigli – ha risposto Gáspár – Lo stesso fatto si verifica evidentemente in seno al Consiglio di Budapest: da una parte vi sono coloro che desiderano collaborare con noi per la ripresa del lavoro, secondo una giusta interpretazione dei compiti e delle finalità proprie di codesti organi, dall’altra si manifestano ancora insofferenze e resistenze di ordine politico, estranee agli interessi immediati del Paese e delle masse lavoratrici».

«E gli operai che ne pensano?»

«La nostra è una situazione di lotta – risponde francamente Gáspár – Nelle maggiori industrie di Budapest, alla Csepel, alla Muvag, alla Ganz, i consigli operai, negli ultimi giorni, meglio orientati da un più attivo intervento delle maestranze, sono sostanzialmente d’accordo con l’impostazione dei sindacati. Sarebbe tuttavia ingenuo pensare che non esistano larghe zone ancora turbate, sconvolte dai recenti avvenimenti. Una settimana fa, quando vi è stata la minaccia dello sciopero di 48 ore la Csepel già assumeva una posizione contraria alla sospensione del lavoro. Oggi la situazione è ulteriormente migliorata».

Le dichiarazioni di Sándor Gáspár, un ex operaio metalmeccanico di 39 anni, eletto lo scorso anno presidente del Consiglio centrale dei sindacati ungheresi, tracciano un profilo esatto della situazione dei Consigli operai, una situazione in lento sviluppo, nella fase iniziale del rinnovamento democratico.

A Budapest frattanto proseguono i lavori di ricostruzione, soprattutto nei quartieri centrali. Accanto a questi sintomi di distensione, bisogna però segnalare episodi di disordine che riaffiorano di tanto in tanto. Gli elementi più irriducibili della controrivoluzione cercano di riaccendere il [illeggibile] col lancio di manifestini ciclostilati annuncianti nuovi scioperi. Non è difficile creare apprensioni e timori in mezzo a gente così turbata dai tragici moti delle scorse settimane: di ciò approfittano i provocatori ed il cammino verso la quiete e la rinascita diviene più lento e difficile. Stasera la radio ha trasmesso un comunicato del Consiglio operaio di Budapest nel quale si attaccano coloro che diffondono manifestini falsi invitanti a scioperi.

Oggi, intanto, abbiamo appreso che l’ex presidente del Consiglio, accompagnato da alcuni suoi amici, tra cui lo scrittore e filosofo Lukács, si troverebbe in una località ai piedi dei Carpazi, nella Transilvania romena, a Sinaia, una ben nota stazione di riposo. Si crede che l’ex primo ministro e i suoi collaboratori siano sistemati in una o più ville della lussuosa stazione climatica, un tempo preferita dai reali di Romania. Un’altra indiscrezione ci ha oggi confermato l’ubicazione della cittadina romena dove attualmente soggiornano Nagy e il suo gruppo. Un collaboratore dell’ex primo ministro avrebbe telefonato ieri direttamente ai suoi parenti a Budapest per informarli della sua ottima sistemazione, del suo buon umore e del tempo magnifico dei Carpazi.

Lukács si appresterebbe a ritornare in Ungheria

di Sergio Segre

«L’Unità», 29 marzo 1957

Secondo voci che circolano con insistenza a Budapest

L’illustre filosofo avrebbe rotto con il gruppo di Imre Nagy – Funzione positiva del nuovo Circolo Tancsics – Nessun monopolio amministrativo nella vita intellettuale


BUDAPEST, marzo.

Il ritorno in Ungheria di Giorgio Lukács potrebbe av­venire a uuna scadenza rela­tivamente breve. La voce circola con insistenza nei più qualificati ambienti in­tellettuali di Budapest, dove si parla apertamente di una rottura che si sarebbe veri­ficata in Romania fra Lukács e l’ex-premier Imre Nagy. Secondo alcune informazioni da Sinaia, il prof. Lukács sta attualmente scrivendo un saggio sull’etica, dopo aver ricevuto a più riprese da Budapest la vasta bibliogra­fìa occorrentegli.

Ancora l’altro giorno il redattore capo del Magyarorszag, settimanale cul­turale organo del Circolo Tancsics, ci dichiarava che «Lukács gode tuttora della massima stima nel partito e fuori. La sua assenza da Bu­dapest ha commosso tutti gli intellettuali comunisti, i qua­li sperano che non si trat­terrà più a lungo in Roma­nia». Il Circolo Tancsics va lentamente prendendo nella vita intellettuale dell’Unghe­ria, in senso positivo, la fun­zione avuta a suo tempo, in senso inverso, dall’ex-Circolo Petöfi. L’iniziativa della creazione del Tancsics è ve­nuta da un gruppo di vecchi comunisti del 1919, rimasti esclusi da ogni attività im­portante durante la direzione di Rakosi, e ha già ottenuto alcuni risultati rimarchevoli.

Nella sola Budapest, dove l’attività è stata più intensa in queste ultime settimane, il numero degli iscritti è già di 1.200 e le richieste at­tualmente in esame ammon­tano a diverse centinaia. Il settanta per cento dei mem­bri è costituito da vecchi compagni del 1919, e solo il trenta per cento da giovani entrati nel partito dopo il 1945.

Il Circolo si divide in una ventina di sezioni, da quella economica a quella delle ar­ti figurative, e si prefigge di permettere per l’avvenire un intenso contatto fra la dire­zione del partito e tutti gli intellettuali del paese.

Alcune riunioni di caratte­re teorico si sono già tenu­te o sono in programma, fra cui una, il 2 aprile, dedicata ai problemi della politica estera.

Uno degli obiettivi del Circolo è il ricupero, sul pia­no ideologico, di molti degli intellettuali che presero par­te alle attività del Circolo Petöfi e che si trovano an­cora ora in uno stato di di­sorientamento. Alcuni di questi, anche se in numero estremamente ridotto, han­no già aderito ai Tancsics. Va osservato, tuttavia, che per poter entrare in esso bi­sogna avere già militato nel periodo clandestino, o veni­re presentati da due vecchi comunisti. Altri intellettuali, fra cui il commediografo Nemeth [László Németh, ndr], autore del «Gali­leo», hanno accettato, la settimana scorsa, il «Pre­mio Kossuth» conferito dal governo in riconoscimento dei loro meriti artistici.

Per le prossime settimane è anche preannunciato un di­battito sui Consigli operai, un tema, questo, che viene attualmente esaminato atten­tamente in sede teorica alla luce, anche, delle esperienze fatte in proposito in Jugo­slavia e in Polonia.

L’intenzione del Circolo, ci dichiarava ieri il suo presidente, Gyula Hervesi, non è quella di esercitare, per mezzo di facilitazioni amministrative, una sorta di monopolio esclusivistico nel­la vita intellettuale e scientifica dell’Ungheria. Il suo fine è solo quello di riu­nire gli intellettuali co­munisti (iquali operano, poi, nelle differenti accademie e associazioni) e dar loro la possibilità di condurre, sul­la base del marxismo, dibat­titi intellettualmente elevati.

L’articolo di Revai

Alla luce di questa necessità   di   una   chiarificazione ideologica, va anche vista la polemica tuttora viva sullo articolo  recentemente  pubblicato da Jozsef Revai nell’organo centrale del Partito.

Con questo suo scritto Revai, ritornato recentemente a Budapest dall’Unione So­vietica, dove si trovata per curarsi di una grave malat­tia, rimproverava alla dire­zione del Partito operaio socialista di avere assunto sul piano ideologico certe posizioni che potevano appa­rire come un compromesso, e di non condurre pratica­mente la lotta su due fronti, ma solo contro la vecchia di­rezione  di  Rakosi, benché questa, a differenza del grup­po di Imre Nagy, non si sia macchiata di tradimento. L’articolo conteneva, senza dubbio, un gran numero di rilievi ingenui (come l’ac­cusa all’organo centrale del Partito di non aver pubbli­cato, per alcune settimane del mese di novembre, la manchette «Proletari di tut­ti i paesi, unitevi») e sof­friva di una impostazione categorica, compiendo inoltre l’errore tattico, come ri­tengono quasi tutti i compa­gni ungheresi, di svolgere una forte critica verso la di­rezione di Kadar proprio nel momento in cui è più necessaria, attorno ad essa, l’unità di tutti i comunisti.

Discussione ideologica

Fatte queste doverose co­statazioni, è però necessario sottolineare che tutte le il­lazioni tratte in occidente da tale episodio sono assoluta­mente campate in aria. L’ar­ticolo di Revai non vuole affatto aprire la strada a impossibili ritorni, ma si prefigge soltanto l’intenzione, certamente giusta, di recare un contributo o. meglio, di dare inizio ad una discussio­ne di carattere ideologico destinata a rafforzare le file del nuovu Partiti».

Molti compagni intellet­tuali, nel dibattito sviluppatosi sinora sulle colonne del­l’organo del Partito e sul settimanale culturale, hanno rilevalo come elemento nega­tivo dell’articolo la completa mancanza di una posizione autocritica, benché Revai abbia diretto per lunghi an­ni, prima del 1953,. la politica culturale del Partito, non che il fatto che esso continua a mettere in luce quel con­trasto fra la teoria e la pra­tica il quale è stato uno dei motivi di fondo che hanno preparato la situazione in cui sono potuti nascere gli av­venimenti di ottobre.

Perry Anderson intervista Lukács (NLR)

di György Lukács

a cura di Perry Anderson

Lukács on his life and work, «New Left Review» n. 68 luglio-agosto 1971.

trad. it. di gyorgylukacs.wodpress.com

 

I recenti eventi in Europa hanno posto ancora una volta il problema del rapporto tra socialismo e democrazia. Quali sono, secondo lei, le differenze fondamentali tra democrazia borghese e democrazia rivoluzionaria socialista?

La democrazia borghese nasce con la Costituzione francese del 1793, la sua più alta e radicale espressione. Il suo principio costituente è la divisone dell’uomo nel citoyen della vita pubblica e nel bourgeois della vita privata, il primo dotato di diritti politici universali, il secondo espressione di particolari e differenti interessi economici. Questa divisione è fondamentale per la democrazia borghese quale fenomeno storicamente determinato. Il suo riflesso filosofico si riscontra in de Sade. È interessante che scrittori come Adorno si siano occupati di de Sade in quanto riflesso della Costituzione del 1793. L’idea cardine, nell’un caso come nell’altro, è che l’uomo sia un oggetto per l’uomo e l’egoismo razionale sia l’essenza della società umana. Ora, è ovvio che qualunque tentativo di ricreare nel socialismo questa forma storicamente superata di democrazia sia una regressione e un anacronismo. Ciò non significa però che le aspirazioni alla democrazia socialista debbano essere affrontate in ottica amministrativa. Il problema della democrazia socialista è un problema reale che non è stato ancora risolto, poiché essa deve essere materialista e non idealista. Mi permetta di fare un esempio. Un uomo come Guevara fu un rappresentante eroico degli ideali giacobini, le sue idee impregnarono la sua vita e la modellarono completamente. Egli non fu il primo caso nel movimento rivoluzionario. Leviné in Germania o Ottó Korvin qui in Ungheria vissero e agirono alla stessa maniera. Bisogna nutrire un profondo rispetto verso una nobiltà umana di questo tipo. Ma il loro idealismo non è quello del socialismo della vita quotidiana, che deve avere una base materiale e fondarsi sulla costruzione di una nuova economia. Tuttavia devo subito precisare che lo sviluppo economico in sé non produrrà mai il socialismo. La dottrina di Chruščëv, secondo la quale il socialismo avrebbe trionfato su scala mondiale quando gli standard di vita dell’URSS avessero superato quelli degli USA, era completamente sbagliata. Il problema deve essere posto in un modo radicalmente opposto. Si può formularlo così: il socialismo è la prima formazione economica nella storia che non produce spontaneamente il suo corrispondente “uomo economico”. Questo perché è una formazione di transizione, un interludio nel passaggio dal capitalismo al comunismo. Ora, poiché l’economia socialista non produce e riproduce spontaneamente l’uomo ad essa corrispondente, come la società capitalista generò il suo homo oeconomicus, cioè la divisione citoyen/bourgeois del 1793 e di de Sade, la funzione principale della democrazia socialista è l’educazione dei suoi membri al socialismo. Questa funzione non ha precedenti né analoghi nella democrazia borghese. È evidente che ciò che oggi sarebbe necessario è la rinascita dei soviet, il sistema di democrazia socialista che sorge ogni volta che si ha una rivoluzione proletaria: la Comune di Parigi nel 1871, la Rivoluzione russa del 1905 e la stessa Rivoluzione di Ottobre. Ma ciò non si realizza nottetempo. Il problema è che gli operai qui sono indifferenti: inizialmente essi non credono in nulla. Continua a leggere

Lukács, un incontro.

di Demetrio Volcic

da Est. Andata e ritorno nei Paesi ex-comunisti, Mondadori, Milano 1997, pp. 166-68.

Mi piacerebbe descrivere l’incontro con un grande dell’epoca, il filosofo György Lukács, ma il ricordo è molto sfumato. A suo tempo affermò che il peggior regime comunista è migliore del miglior capitalismo. Lukács partecipò nel 1956 al governo rivoluzionario di Nagy, pagò con l’esilio in Romania, ma poi fu lasciato più o meno in pace, essendo già il monumento di se stesso, oltre che del pensiero classico marxista. Mi aveva fissato un breve appuntamento, senza registratori né tantomeno telecamere, credo nel ’70. Aveva superato abbondantemente l’ottantina, sarebbe morto di lì a poco.

Sarebbe stato assai scortese estrapolare dal contesto di un’opera che contava migliaia di pagine fondamentali qualche breve parola d’ordine per chiedergli se la ritenesse ancora valida. Nel mio tedesco più forbito – il filosofo aveva trascorso tre decenni di esilio in paesi tedescofoni – mi ero preparato sui libri le solite domande scolastiche. È vero che il decadimento culturale dipende dal capitalismo, e che cosa c’entra Kafka? Gli chiesi anche della sua grande passione per Thomas Mann. Parlottò un po’ dell’umanesimo dei grandi realisti. Dare un più ampio respiro alla teoria marxista con l’innesto del pensiero borghese, mi parve di capire fosse il suo ultimo sforzo sistemico. Intorno, la corte degli allievi attendeva impaziente la fine del colloquio, ovviamente inutile per la televisione, che si aspettava giudizi politici.
Il gruppo di questi allievi, disperso qualche anno dopo, si occupava di politica in senso lato, ma disdegnava quella quotidiana. Uno dei loro principali problemi riguardava l’ampliamento della sfera della società civile per bilanciare la corazza dell’ufficialità. I regimi di stampo sovietico non potevano essere affrontati a muso duro, si era visto con Nagy e con Dubček, ma forse potevano essere circondati, fagocitati. Bisognava costituire gruppi informali, tanti, diversi, dediti persino alla filatelia o alla collezione di farfalle, scrivere, pubblicare su ogni giornale disponibile, anche sottobanco. Sono tesi che nessuno andrà a spiattellare al primo giornalista forestiero.
Andràs Hegedüs, primo ministro staliniano, cacciato dai revisionisti e rifugiatosi a Mosca, passò il suo esilio nelle biblioteche e tornò a Budapest più revisionista di coloro che lo avevano espulso. Fu tra i più attivi in questo tentativo di allargare gli spazi civili. La sua teoria neoevoluzionista produsse fra l’altro all’Est i primi circoli ecologici, dove si poteva contestare la politica del regime senza correre il pericolo di andare in prigione.
Nella prassi eravamo dunque già molto lontani dalla teorizzata supremazia del peggior socialismo sulla migliore democrazia occidentale.
Avevo visto Lukács pochi mesi prima a un’adunanza importante del partito, e mi sembra fosse la prima volta che il pensatore metteva piede in un’assemblea ufficiale dopo il 1956. Kádár si fece incontro al vegliardo, lo prese sottobraccio, sembravano commossi tutti e due e la sala applaudiva. Anche Lukács aveva esaurito il suo disprezzo per il kadarismo. Fu questo, credo, il messaggio. Del filosofo ricordo la testa sparuta, lo sguardo forse annoiato, comunque lontano, il viavai di gente, tanti libri e il desiderio, suo e mio, di trovarsi il prima possibile in strada.