• About
  • Bibliografia
  • Bibliografia su Lukács
    • in Francese
    • in Inglese
    • in Italiano
    • in Portoghese
    • in Tedesco
  • Biografia
  • Carteggi e Lettere
  • Cronologia
  • I testi
    • Arte e società
    • Dialettica e irrazionalismo
    • Il marxismo e la critica letteraria
      • Lo scrittore e il critico
    • La responsabilità sociale del filosofo
    • Lukács parla. Interviste (1963-1970)
    • L’anima e le forme
      • Lukács giovane
    • Marxismo e politica culturale
    • Ontologia dell’essere sociale
    • Saggi sul realismo
    • Scritti politici giovanili 1919-1928
    • Storia e coscienza di classe
      • Prefazione 1967
    • Teoria del Romanzo
      • Civiltà conchiuse
      • Premessa 1962
    • La distruzione della ragione
  • Interviste
  • Opere di Lukács originali
  • Testimonianze
  • Traduzioni italiane

György Lukács

~ il primo blog in progress dedicato a Lukács

György Lukács

Archivi tag: Nietzsche

Perché la borghesia ha bisogno della disperazione?

30 sabato Ott 2021

Posted by nemo in I testi

≈ 1 Commento

Tag

assurdo, borghesia, disperazione, esistenzialismo, Heidegger, imperialismo, Jaspers, Klages, Nietzsche, Nietzsche e Spengler, socialismo, Spengler


di  György Lukács

Il saggio è del 1948 e fu pubblicato con il titolo originale “Wozu braucht die Bourgeoisie die Verzweiflung?” nel 1951 nella rivista Sinn und Form, n°. 4, pp. 66-69 e, nel 1956, nella raccolta Schicksalswende, Beiträge zu einer neuen deutschen Ideologie, Berlino, Aufbau Verlag, 1956, pp. 151-154.

In italiano in G.L., Dialettica e razionalismo. Saggi 1932-1970, a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2020.


L’ideologia tradizionale, abituale, di difesa della borghesia è l’idealizzazione: sotto una forma ideale e artistica, si devono fare sparire le opposizioni brutali, gli orrori creati dalla società capitalisti­ca. È così che, dopo più di un secolo, tutta la scienza e l’arte sono basate sull’apologia, a partire dalla filosofia accademica. Questo orientamento ha raggiunto la sua forma più grossolana nei film hollywoodiani, ma spesso, la filosofia professorale stessa non è niente altro che un film a happy end, sotto una forma concettuale.

Affianco alla realtà spaventosa degli ultimi decenni, l’idealizzazio­ne pura si è pertanto rivelata troppo debole, inefficace. Almeno nel­le sfere della riflessione dell’intellighenzia borghese; nascondere al loro sguardo i fatti sconvolgenti della vita sociale, cancellarli con i mezzi anche semplici, era divenuto impossibile.

Continua a leggere →

Nel corso di una tavola rotonda – Cesare Cases

26 domenica Set 2021

Posted by nemo in Bibliografia in italiano

≈ Lascia un commento

Tag

Adorno, Bloch, disperazione, intellettuali, irrazionalismo, Mannheim, morale, Nietzsche, PCI, Preve, responsabilità intellettuali, Simmel, Storia e coscienza di classe, Utopia


di Cesare Cases

in Aa.Vv., Filosofia e prassi. Attualità e rilettura critica di György Lukács e Ernst Bloch, a cura di R. Musillami, Diffusioni ’84, Milano 1989 [ora in Lukács chi? a cura di L. La Porta, Bordeaux, Roma 2021].


Mi associo a quello che ha detto Luperini. Mi sembra che abbia fatto una buona disamina di quello che è stato il ruolo di Lukács in Italia, distinguendo correttamente certi periodi, facendo anche vedere quali erano le fonti e le ragioni dell’opposizione di buona parte del gruppo dirigente del Partito comunista italiano e dell’intellighenzia italiana a Lukács.

Continua a leggere →

Il retaggio di questa epoca

22 venerdì Gen 2016

Posted by nemo in I testi, Traduzioni italiane

≈ Lascia un commento

Tag

anticapitalismo romantico, avanguardia, Bloch, Brecht, contraddizioni inattuali, Engels, eredità culturale, espressionismo, formalismo, ideologia, ideologia cristiana, imperialismo, irratio autentica, Joyce, Montaggio dialettico, nazismo, Nietzsche, scrittori borghesi di sinistra, Spengler, Stravinskij, Utopia, VII Congresso internazionale


di György Lukács

da Problemi teorici del marxismo, «Critica marxista», 1976.

Il saggio di cui diamo qui la traduzione italiana non risulta sia stato mai pubblicato altrove. L’originale tedesco (20 cartelle dattiloscritte con correzioni di pugno dell’autore) è stato rintracciato fra le carte di Lukács dopo la sua morte e si trova ora registrato sotto la sigla LAK 11/94, nell’Archivio e Biblioteca Lukács dello Istituto di filosofia dell’Accademia ungherese delle scienze. La stesura del saggio viene fatta risalire ad un periodo che intercorre fra il 1935 ed il 1938. È da supporre, comunque, che sia stato scritto dopo il VII Congresso dell’Internazionale comunista, in un’atmosfera politico-culturale che sollevava, fra l’altro, il problema del rapporto fra il movimento operaio e la cultura borghese. Il significato di questo scritto va dunque oltre la semplice presa di posizione critica verso un libro e un autore, pur importante come Ernst Bloch. Per una breve presentazione critica del testo vedi F. Görgényi, «E. Bloch e i limiti del concetto di utopia», in Világosság, 1975, n. 8-9, pp. 524-525. Ringraziamo András Knopp e i dirigenti dell’Archivio Lukács per averci permesso di pubblicare questo saggio, (n.d.r.).

***

Ernst Bloch, l’autore del libro Erbschaft dieser Zeit (Il retaggio di questa epoca) (Oprecht e Helbing, Zurigo, 1935) che ci accingiamo a recensire, è una delle personalità più interessanti della letteratura teorica tedesca contemporanea. Il suo periodo giovanile cade nell’ultimo decennio antecedente la guerra mondiale, quando nella filosofia tedesca era generale l’aspirazione alla «Weltanschauung», quando procedeva vigorosamente il superamento del neokantismo. (Il primo scritto di Bloch, la sua tesi di laurea, è una critica a Rickert).

La tendenza di fondo di quel processo fu imperialistico-reazionaria. Spengler e Klages, Leopold Ziegler e il conte Keyserling sono i personaggi filosofici, ora celebri, che questo movimento ha prodotto. Bloch, il quale condivideva con i suoi contemporanei molte premesse gnoseologiche, se ne distinse fin dal principio su un punto estremamente importante. Il suo tendere all’idealismo oggettivo, quantunque assai di frequente si convertisse anche in lui in aperto misticismo, non aveva mai un intendimento apologetico. Nei confronti della propria epoca aveva un atteggiamento di opposizione, pur se ancora abbastanza confuso. La guerra imperialistica, poi, e il processo che porta alla guerra sono andati sempre più rafforzando questo atteggiamento di opposizione, hanno spinto Bloch sempre più a sinistra.

Già i saggi da cui nasce il suo primo libro, Geist der Utopie (Spirito di utopia), sono diretti contro la Germania della guerra mondiale. Vero è che Bloch allora criticava la guerra imperialistica della Germania dal punto di vista di un pacifismo largamente mistico, orientato in senso democratico-occidentale. Il secondo libro, Thomas Münzer als Theologe der Revolution (Thomas Münzer teologo della rivoluzione), contiene però ormai un’adesione alla rivoluzione, alla «figura liebknechtiana» di Münzer. Anche questo libro opera con un concetto idealistico-mistico della rivoluzione. Bloch crede che la dottrina economica del marxismo debba essere «approfondita» enucleando gli «eterni» momenti della ribellione umana contro lo sfruttamento e l’oppressione. Il suo Thomas Münzer, perciò, non è un personaggio storico, quale fu descritto da Engels. Al contrario, proprio per la sua «teologia» egli dev’essere indicato a modello delle lotte odierne: l’attuale lotta di liberazione del proletariato, secondo Bloch, dovrebbe pervenire all’altezza e profondità münzeriane del «pensiero utopico», per conseguire un potere realmente vittorioso.

In tal modo Bloch assume nella letteratura teorica tedesca una originale posizione di outsider. Egli combatte da anni lo svolgimento filosofico reazionario della Germania, ma lo combatte a partire da premesse filosofiche che hanno moltissimo in comune con gli orientamenti contro cui muove. Cosicché è finito in una posizione intermedia, abbastanza isolata, fra i due campi avversi.

Ma proprio questa discordia del suo atteggiamento di fondo, non superata dalla sua evoluzione verso sinistra, gli garantisce un’influenza ideologica nell’emigrazione antifascista. Infatti la discordia di fondo della posizione di Bloch è tipica di tutta una corrente nel campo dell’antifascismo borghese di sinistra. Il processo di fascistizzazione della Germania e in particolare la presa del potere da parte di Hitler hanno fatto non solo di Bloch, ma anche di molti altri scrittori borghesi di sinistra degli accaniti nemici del fascismo. Tuttavia questa evoluzione politica verso sinistra in molti di essi non è andata di pari passo con una revisione della base filosofica su cui poggia la loro attuale concezione del mondo, con una critica dell’idealismo e specialmente delle sue specifiche forme di manifestazione imperialistiche. Anche l’avvicinamento al marxismo da parte di Bloch, che ha proceduto molto più avanti rispetto alla gran maggioranza degli antifascisti borghesi di sinistra, non contiene nessuna critica dell’idealismo. Ma appunto per questo egli diviene una presenza affascinante per una grande parte di questa emigrazione. Per costoro Bloch diviene un’incarnazione del «marxismo» ad essi più agevolmente accessibile, più congeniale alla fase di sviluppo ideologico in cui si trovano. Come tale, come marxista e rivoluzionario che, però, possiede la giusta sensibilità per tutte le finezze della coltura, lo celebra Klaus Mann sulla rivista di Amsterdam Die Sammlung, parlando del suo nuovo libro come di «un ardito inventario del nostro patrimonio spirituale»; e altrettanto fa F. Burschell sulla Neue Weltbühne.

Bloch è sul piano politico notevolmente più a sinistra di quegli intellettuali che egli influenza sul piano spirituale. Egli non soltanto è un risoluto antifascista, ma è in più un avversario convinto del sistema capitalistico. Per lui non vi sono dubbi che solamente il proletariato rivoluzionario è la potenza in grado di abbattere Hitler e che il socialismo subentrerà al fascismo.

Quando, dunque, Bloch pone al centro del suo libro la questione del retaggio, egli lo fa a partire da tali convinzioni storico-politiche. Il problema centrale di questo libro, da cui scaturisce poi quello del retaggio, concerne gli alleati della rivoluzione proletaria, la conquista dei piccoli borghesi urbani e dei contadini alla rivoluzione socialista. Già l’aver posto energicamente tale questione onora il pensatore e combattente Bloch. Già questo atto mostra che egli, dopo i suoi primi libri, si è decisamente mosso verso sinistra.

Per rispondere a tale questione Bloch intende scegliere come filo conduttore il marxismo. Il lettore marxista, tuttavia, è subito colpito dal fatto che egli non collega la conquista degli alleati con quella della maggioranza della classe operaia alla rivoluzione proletaria sotto la guida del partito comunista, ma pone invece la prima del tutto indipendentemente dalla seconda. Questa debolezza di metodo, che qui appare in piena luce, nasce da una concezione volgarizzata e stravolta dell’economia marxista, che ha legami assai profondi con l’atteggiamento fondamentale, filosofico-idealistico, di Bloch. La conseguenza è che, laddove il marxismo vede problemi dell’essere materiale, Bloch è capace di osservare soltanto problemi meramente ideologici. A dispetto di questa debolezza fondamentale della sua posizione, su cui torneremo diffusamente, Bloch pone il problema del retaggio con chiarezza e nei suoi termini di principio. Egli guarda al tramonto del capitalismo e insieme a quello della cultura del capitalismo, quindi domanda: che cosa prenderà il proletariato, il costruttore del nuovo mondo, del socialismo, da questo mondo tramontante? Che cosa vi è che valga la pena di prendere? Che cosa diverrà parte integrante della nuova cultura? E considera l’entrare in possesso di questa eredità come una lotta ideologica. Solo più avanti ci fermeremo a criticare il metodo e il contenuto della sua teoria del retaggio. Qui dobbiamo anzitutto sottolineare il merito di Bloch per aver comunque posto la questione nei suoi termini di principio.

«La sassaia aurifera» – Anche nella concretizzazione dei suoi problemi Bloch parte da una piattaforma nettamente antifascista. Per lui, correttamente, il carattere del Terzo Reich è di essere una dittatura aperta e infame del capitale monopolistico. E da questa visione corretta sorgono per lui gli ulteriori problemi. Dopo aver riscontrato una «spinta» anticapitalistica anche fuori del proletariato, il suo sforzo onestamente rivoluzionario e antifascista è diretto a incanalare questa «spinta» anticapitalistica nella corrente della rivoluzione proletaria. Si tratta dunque di lottare per le vittime della propaganda demagogica del fascismo.

Si comprende allora come Bloch parta dalla ideologia di queste vittime traviate. Rincresce però che rimanga fermo all’ideologia. Tanto più rincresce, in quanto non si tratta di uno sbaglio casuale, ma invece della conseguenza necessaria dell’attuale metodo di Bloch. Abbiamo già indicato quale sia il suo rapporto con l’economia politica marxista. La concezione ristretta ed errata dell’economia politica marxista è tanto più pericolosa per Bloch in quanto vi è in essa qualcosa che si avvicina molto alla ideologia dell’anticapitalismo romantico, nella forma oggi assai diffusa. I piccoli borghesi, tormentati dai colpi di una terribile crisi economica, nella loro disperata impotenza vanno sognando di un assetto «senza economia»; molti credono che l’«economia» da cui vengono torturati sia una maligna invenzione di ebrei, liberali e marxisti, ma che per l’appunto debba essere, allora, qualcosa che è possibile abolire. Ora, tentando di dare chiarezza rivoluzionaria alla nostalgia anticapitalistica presente in tali torbide ideologie, Bloch finisce in un vicolo cieco ideologico, giacché egli stesso subisce l’influsso di questa ideologia. Bloch disconosce il nesso fra l’esistenza dell’uomo e la produzione materiale. Perciò non sottolinea nel socialismo il superamento dell’«asservente subordinazione» dell’uomo alla divisione del lavoro, il superamento della divisione sociale del lavoro fra città e campagna, fra lavoro fisico e intellettuale, ma opera invece con un concetto astratto, borghese, dell’«economia», la quale nel socialismo dovrebbe degradare a un’importanza periferica.

In tal modo Bloch non coglie a fondo il complicato nesso dialettico fra la situazione sociale dei «ceti medi» e la loro ideologia romantico-anticapitalistica. In tal modo egli finisce invece per riallacciarsi a questa ultima acriticamente. È vero che tenta, e persino con passione, di darne una critica, ma questa critica, priva di base materiale, non ha alcuna possibilità di essere realmente dialettica. Il suo metodo si riduce, alla fin fine, a una contrapposizione fra i lati «buoni» e quelli «cattivi» di questa ideologia.

È, questo, in generale un tratto caratteristico della mera critica ideologica al fascismo, che non parte dall’analisi realmente concreta della base materiale. E.H. Gast, ad esempio, nella sua recensione del romanzo di Thomas Mann su Giacobbe contrappone il «giusto» e «superiore» mito di Thomas Mann al «falso» e «inferiore» mito dei fascisti, l’irrazionalismo «autentico» di Mann all’«inautentico» e «barbaro» irrazionalismo dei fascisti. (Die Sammlung, 1934, gennaio). Altrettanto fa il filosofo socialdemocratico Herbert Marcuse, il quale mette a contrasto l’«autentica filosofia della vita» di Dilthey e Nietzsche con la falsa filosofia della vita dei fascisti (Zeitschrift für Sozialforschung, III, 2). I punti di vista di Bloch sono molto più profondi che non quelli di Gast o di Marcuse. Costoro vogliono separare completamente il fascismo dal «normale» sviluppo ideologico della borghesia, mentre Bloch intende mettere in luce tanto le connessioni quanto le differenze. Cosicché egli vede quanto c’è di reazionario e controrivoluzionario anche nella fase prefascista dell’imperialismo e al fascismo contrappone non un capitalismo «normale», ma la rivoluzione proletaria. Tuttavia l’erroneità del metodo spinge Bloch molto lontano dall’obiettivo cui mira, la dialettica rivoluzionaria, e conduce anche lui a un eclettico da-un-lato/dall’altro.

Questo restare impaniato di Bloch nell’ideologia dell’anticapitalismo romantico produce in lui una concezione fondamentalmente falsa del marxismo e del retaggio marxista. Dice: «Quando il socialismo scientifico si trasferì in Francia e Inghilterra, nell’illuminismo francese e nell’economia politica inglese, quando il marxismo volgare ebbe dimenticato, qui le guerre dei contadini tedeschi, là il retaggio della filosofia tedesca: i nazisti dilagarono nelle regioni originariamente münzeriane, ora vuote…» (p. 96). È molto probabile che Bloch intenda qui polemizzare contro il revisionismo, contro la liquidazione della dialettica rivoluzionaria, contro il completo abbandono dei contadini, ecc. Nel suo discorso, tuttavia, questo rimprovero rivolto al marxismo volgare trapassa in un rimprovero al marxismo stesso per aver raccolto l’eredità di Smith e Ricardo e dello sviluppo materialistico da Bacone a Feuerbach. A causa di questa falsa concezione Bloch perde ogni possibilità di condurre un’analisi reale delle correnti ideologiche da lui indagate. Può analizzarle soltanto come ideologie e, come tali, può «approfondirle» filosoficamente. Così resta, però, sempre sul terreno delle ideologie che va criticando.

Questo metodo falso non può che produrre nel concreto contenuti falsi. Bloch vede chiaramente come l’ideologia dei piccoli borghesi e dei contadini stia in contraddizione con i loro interessi reali, che dovrebbero renderli alleati della rivoluzione proletaria. Egli vede che queste ideologie sono fuorvianti, che portano i piccoli borghesi e i contadini in un vicolo cieco, e cerca di mettere allo scoperto tali contraddizioni in modo tale da aiutare i traviati a trovare la retta via. A questo scopo costruisce una sua teoria delle «contraddizioni inattuali». Contraddizione «attuale» è per Bloch l’antagonismo fra borghesia e proletariato; e perciò è possibile esprimerlo adeguatamente nel linguaggio del marxismo. L’esistenza dei contadini è invece una contraddizione «inattuale»: questi vivono «fuori» dal mondo del capitalismo e delle sue odierne contraddizioni «attuali». Da questa situazione sorge da un lato la possibilità per i fascisti di conquistare i contadini e i piccoli borghesi con la loro scadente demagogia, dall’altro il compito per il marxismo di assumere nella propria dialettica i problemi specifici che ne risultano, di farsi realmente «totale», di elaborare dialetticamente la contraddizione «inattuale».

Riscontriamo qui tutto un groviglio di false affermazioni. Anzitutto la piccola borghesia urbana e particolarmente il ceto impiegatizio è, anche secondo quanto dice lo stesso Bloch, un prodotto del capitalismo, e perciò dovrebbe, anche secondo la sua teoria, per ragioni di coerenza, essere oggetto della contraddizione «attuale». Ma Bloch, che ha letto sia Marx sia Lenin, dovrebbe sapere e, se non fosse impegolato nei pregiudizi idealistici dell’anticapitalismo romantico, saprebbe che nonostante tutti i residui precapitalistici la specifica situazione odierna delle campagne è prodotto e risultato dello sviluppo capitalistico. Se avesse inteso l’economia marxista in tutta la sua reale estensione e profondità, avrebbe visto che dovunque egli pensa di dover applicare la sua nuova teoria della «contraddizione inattuale», la teoria di Marx e Lenin ha già messo in luce i problemi concreti dello sviluppo capitalistico e della strategia rivoluzionaria del proletariato.

Bloch non vede come ciò che egli definisce «passato inelaborato» sia di continuo riprodotto dal capitalismo. Proprio il fatto che il fascismo sugli istinti ribellistici dei piccoli borghesi e dei contadini innesti una ideologia che è il rinascimento di ogni arretratezza e barbarie dovrebbe ammonire un onesto e convinto antifascista come Bloch alla massima cautela proprio su questo punto. In quanto nemico della bugiarda ebrezza dei fascisti, dovrebbe contrapporre a questa il sobrio pathos della reale conoscenza rivoluzionaria.

Purtroppo, fa il contrario. Nel torbido miscuglio di queste ideologie egli pensa di trovare, con i mezzi della critica ideologica, un contenuto autentico, rivoluzionario, non ancora scoperto dal marxismo. Questo contenuto rivoluzionario sarebbe il fondamento della «contraddizione inattuale», sarebbe quella «irratio autentica» che Bloch contrappone all’irrazionalismo bugiardo delle ideologie imperialistiche e fasciste. Tale concezione è un’eredità del suo periodo precedente. Egli prende le mosse dalla giusta idea secondo cui la rivoluzione proletaria si fa erede di tutte le lotte di classe contro lo sfruttamento e l’oppressione. Tuttavia proprio nella mistica confusione dei vecchi moti insurrezionali egli vede un retaggio attuale ancora non utilizzato dal marxismo, un elemento di sviluppo del marxismo.

Sfugge a Bloch quale sia il modo in cui procede l’elaborazione critica del retaggio, il suo superamento, nel materialismo dialettico. Il problema del superamento è inteso da lui in maniera puramente idealistico-ideologica. Gli sfugge il processo reale della storia nel quale vengono superate realmente contraddizioni reali. Certo, né nella storia reale, nel suo adeguato rispecchiamento nel pensiero, il marxismo-leninismo, questo superamento si verifica in modo lineare e meccanico. Tutto il problema marx-leniniano della liquidazione ad opera della rivoluzione proletaria dei problemi della rivoluzione borghese rimasti insoluti (questione agraria, questione nazionale, ecc.) è un esempio di questa concreta ineguaglianza dello sviluppo. Mentre però i problemi reali della rivoluzione borghese rimasti insoluti vengono realmente superati (superati anche nel senso di conservati) nella strategia della rivoluzione proletaria, questa conservazione superante non riguarda invece le ideologie che li accompagnano. Infatti queste ultime sono inseparabilmente connesse con la situazione economica dei contadini e dei piccoli borghesi, che presenta elementi ambigui e perciò necessariamente reazionari. Tale connessione non può non farsi sentire anche nelle ideologie dei loro più significativi rappresentanti rivoluzionari del passato. Il marxismo-leninismo eredita le reali tradizioni rivoluzionarie di questi vecchi movimenti popolari, le porta a un livello superiore (ed è, questo, un altro importante momento del superamento che Bloch trascura del tutto), ma va totalmente oltre le vecchie forme delle loro ideologie. Bloch, per contro, vede proprio in tali ideologie il momento da conservare. «Mancando però alla propaganda marxista ogni contraltare al mito, ogni trasformazione degli inizi mitici in sogni reali, dionisiaci, in sogni rivoluzionari: per effetto del nazionalsocialismo diviene visibile anche un pezzo di colpa, quella cioè del troppo corrente marxismo volgare» (p. 55). Fin quando egli critica il «settarismo compiaciuto di sé» di molti marxisti prima dell’avvento al potere di Hitler, ha ragione. E tanto maggiore è il suo merito, in quanto egli si è pronunciato con il suo libro prima del VII Congresso internazionale. Fin quando polemizza contro il fatto che molti comunisti hanno misconosciuto che «il fascismo specula anche sui migliori sentimenti delle masse, sul loro senso di giustizia e talvolta persino sulle loro tradizioni rivoluzionarie» (Dimitrov), egli si trova ancora sulla strada giusta. Ma in Bloch, nel corso della battaglia in difesa della propria linea, vanno confondendosi i confini tra il marxismo volgare e il marxismo reale. L’avversario primo di questa sua teoria del retaggio rivoluzionario è infatti Friedrich Engels, il quale in una lettera definisce quella ideologia, di cui Bloch vuol sapere quale sia il contenuto aureo, semplicemente e ruvidamente come «stupidità». Engels così prosegue: «Il basso
livello dello sviluppo economico nel periodo preistorico ha come complemento, ma anche in parte come condizione, e persino come causa, le false rappresentazioni della natura» (Lettera a C. Schmidt del 27 ottobre 1890), e Bloch polemizza assai aspramente contro questa proposizione «troppo illuministica». Egli dice sintetizzando: «Inverosimile che la qualità di tutte le mitologie e occultismi – nel loro lato esorcizzante e dissolvente – sia stata esclusivamente di essere ipostatizzazioni di un’economia indecifrata e non anche un concorrere di una natura indecifrata, ancora indecifrata in se stessa» (p. 137). È chiara, qui, la concezione ristretta che Bloch ha della economia marxista, un aspetto per lui fatale. Giacché misconosce il nesso dialetticamente enunciato da Engels fra lo sviluppo storico dell’economia e quello della conoscenza della natura, le rappresentazioni che gli uomini si fanno della natura acquistano per lui una mistica oggettività apparente. Nella sua visione la natura, che esiste indipendentemente dalla coscienza umana, non viene conosciuta sempre più adeguatamente in concomitanza con il processo di produzione materiale, ma invece proprio le rappresentazioni dei primi e primissimi gradi della conoscenza umana della natura rimanderebbero a connessioni ormai divenute di nuovo irraggiungibili per i gradi superiori (capitalismo). L’idealismo di Bloch qui si tramuta direttamente in fatto reazionario; perfino nell’occultismo egli rintraccia elementi da ereditare, «un segmento di contenuti designati (solo designati) mitologicamente che sono, a dir poco, estranei al segmento meccanico, anzi in parte forse giacciono al di sotto di ogni orizzonte monoblocco» (p. 130).

Tali brani mostrano a sufficienza a quali pericolose conseguenze pervenga Bloch andando fino in fondo con il suo metodo errato. Il che tanto più rincresce in quanto nella sua analisi della cultura contemporanea è rilevabile non soltanto una tendenza antifascista, ma anche un sano istinto plebeo. Proprio a causa della sua ampia e profonda cultura Bloch è lontanissimo da una cieca sopravvalutazione della cultura e civiltà del periodo odierno. Egli si distingue notevolmente, a suo vantaggio, da quegli antifascisti borghesi che, pur combattendo l’ideologia del fascismo, cercano di salvare l’ideologia imperialistica. La condanna blochiana della cultura borghese risale molto addietro rispetto al periodo imperialistico e intende costituirsi come critica dell’ideologia dell’intera epoca della decadenza. Quantunque anche qui si introduca a disturbare il discorso l’anticapitalismo romantico, facendogli dirigere il fuoco principale dell’attacco contro il periodo liberale dello sviluppo borghese, senza una critica abbastanza netta delle controtendenze reazionarie. Il tentativo blochiano di scoprire un nuovo metodo di lotta contro la ideologia del fascismo deve quindi considerarsi fallito. È fatica vana cercare l’«oro» nella ideologia di contadini e piccoli borghesi arretrati. L’«oro» è contenuto per questi ceti negli istinti anticapitalistici che scaturiscono dalla loro condizione sociale scissa, dall’oppressione e lo sfruttamento che esercita su di loro il capitalismo monopolistico. Questo «oro» non è però rintracciabile per la via di Bloch, – tale via conduce soltanto a eternare la loro confusione ideologica, – ma invece su quella della teoria e prassi marxiste-leniniste (come assai persuasivamente mostrano l’andamento delle cose in Urss e gli effetti della tattica del Fronte popolare). Esse, chiarendo le loro esperienze, li aiutano a superare nella pratica, nella lotta per i loro interessi reali, la confusione ideologica.

Montaggio dialettico – Il secondo importante problema posto dal libro di Bloch è quello del retaggio dell’attuale cultura capitalistica. Tale questione è per noi assai interessante perché Bloch fornisce molto materiale concreto sul formalismo nell’arte e tratta di numerosissimi problemi che nell’odierna discussione contro il formalismo sono di grande peso.

Egli vede chiarissimamente lo stato di catastrofico dissolvimento in cui si trova l’attuale cultura capitalistica. «Insegnanti, artisti, scrittori non trovano più nessuna cultura sul terreno del capitale, ad eccezione di quella ironica o stravagante, una cultura che è mancanza di patria, che s’identifica con la mancanza d’oggetto stessa» (p. 305). E ancora più decisamente sulla collocazione dei poeti nell’epoca attuale: «Così, importanti poeti non trovano più nei materiali da impiegarsi subito, ma solo dopo averli spezzati. Il mondo imperante non diffonde più per loro uno splendore rappresentabile, che sia da affabulare, ma solo vuotezza, e dentro scarti mescolabili». Aggiunge poi, alludendo in specie a Joyce, che questa situazione si verifica «perché all’uomo manca qualcosa, la cosa più importante…» (pp. 189-190).

Tale corretto giudizio, confermato da un’ampia analisi dei più significativi scrittori, musicisti e filosofi contemporanei, induce Bloch a considerare il problema stilistico del montaggio come il punto centrale delle attività artistiche e filosofiche attuali. E ovviamente egli pone il problema del retaggio a partire di qui. La questione in sé è certamente legittima. Molto meno lo è la risposta di Bloch. Il quale infatti afferma: «Pure alcunché, come anzitutto il singolare “montaggio” tardoborghese, comporta senza dubbio più che il tramonto» (p. 13). Dobbiamo perciò anzitutto conoscere la concezione blochiana del montaggio. Il concetto di montaggio – e ciò è assai interessante – per Bloch ha una estensione enorme: «Esso va dai collages a Joyce, fino a Brecht e oltre»; persino la filosofia ha attualmente il montaggio come suo principio metodologico fondamentale.

La sua teoria del montaggio prende le mosse dalla concezione, cui abbiamo fatto cenno, del rapporto degli artisti e del loro pubblico con la realtà contemporanea. Il punto basilare è la perdita di connessione. Secondo Bloch il montaggio ha di positivo che non tenta di mascherare la perdita della connessione, come fa ancora la Nuova oggettività, ma invece parte apertamente e consapevolmente dalla sconnessione della realtà per gli intellettuali borghesi dei nostri giorni. «Le parti non concordano più luna con l’altra, sono divenute distaccabili, rimontabili… Nel montaggio tecnico e culturale tuttavia viene disvelata la connessione della superficie vecchia… il montaggio appare sul piano culturale come la forma più alta di intermittenza spettrale sopra la dispersione, anzi in dati casi come forma attuale di inebriamento e irrazionalità… esso non simula una qualche stabilità, con cui s’intenda rendere solido il davanti… Da ruderi che non trovano il coraggio di fosforeggiare, da parte del vecchio mondo che vengono di continuo mutate di funzione solo per usarle nel vecchio mondo» (pp. 162-164).

Il montaggio in tal modo viene fissato concettualmente come tipico prodotto decompositivo dell’ultimo sviluppo ideologico della borghesia. Anzi per Bloch proprio la coerenza con cui tiene fermo alla sconnessione della realtà apparente dà al montaggio preminenza e superiorità rispetto alla Nuova oggettività. «C’è qui un’interruzione e una nuova connessura in un senso che va molto oltre lo scambio di parti tecniche o addirittura il fotomontaggio, eppure questa forma obbedisce ancora come a una vera “opera frammentaria”… esso improvvisa con la connessione scoppiata, trasforma gli elementi divenuti puri, con cui la Oggettività forma rigide facciate, in tentazioni e tentativi entro uno spazio vuoto. Questo spazio vuoto è sorto appunto perché è franata la cultura borghese; e in esso gioca non solo la razionalizzazione di un’altra società, ma più visibilmente una nuova figurazione nascente dalle particole del retaggio culturale divenuto caotico» (p. 156).

Tuttavia, quanto è corretta la messa a nudo che Bloch fa dei fondamenti ideologici del montaggio, tanto sono errate le conseguenze che tira dalle proprie costatazioni. Ma queste conclusioni sbagliate non tolgono valore alla sua analisi. Proprio il nostro dibattito sul formalismo ha mostrato quanto siano pochi gli artisti e i critici in possesso di una certa chiarezza sui presupposti ideologici del formalismo. Ecco perché ha valore durevole la sottolineatura blochiana dell’importanza ideologica che spetta al riflesso del mondo lacerato nella sua connessione e, di conseguenza, alla fine dello «splendore estetico». Coloro i quali, criticando apparentemente il contenuto del formalismo, glorificano però la «maestria» dei suoi rappresentanti, potrebbero imparare dall’analisi di Bloch che il formalismo deve necessariamente distruggere tutti i presupposti di una reale maestria (senza virgolette). Vale a dire la raffigurazione del tipico, il suo sviluppo artistico-organico dalla raffigurazione dell’individuale. Purtroppo l’analisi di Bloch anche in questo ambito resta ferma al piano idealistico. Egli anche qui distingue semplicemente in maniera eclettica il «lato buono» del montaggio dal «lato cattivo» e non si accorge che, laddove l’assenza di connessione viene sostituita da una connessione astratta, questa può essere appunto solo una «sostituzione» e non un reale superamento. E proprio per questo non vede la profonda affinità artistica che intercorre fra il montaggio «marxista» e quello borghese. Il primo argomento apparentemente di gran peso addotto da Bloch a favore della sviluppabilità del montaggio per la cultura socialista è il suo criterio generale dell’eredità. Egli trae questo criterio dal proprio orientamento di opposizione al capitalismo imperialistico, ma lo trae ancora una volta in modo astratto e formale. «Questo è anche qui il criterio delle parti di eredità utilizzabili: esse nel tardocapitalismo, che le forma, non possono non essere tanto imperfette e impedite quanto sospette» (p. 167). Il montaggio è quindi sospetto per l’odierno capitalismo, il quale ne impedisce lo sviluppo. Questo argomento, però, cade quando si approfondisce l’analisi. È tipico, cioè, della cultura borghese nel suo periodo tardo il fatto che nuovi fenomeni artistici o filosofici vengano dapprima sbeffeggiati e derisi, per essere poi considerati, in base a una fortissima sopravvalutazione, parti integranti della cultura capitalistica. Abbiamo qui un caso – interessantissimo e nelle sue cause concrete certamente meritevole di studio – di sviluppo ineguale. Tuttavia da questo fatto in sé non consegue per nulla che tali fenomeni artistici «sospetti» o «impediti» abbiano un significato che realmente indichi il futuro. A nessun marxista verrà in mente di considerare come retaggio in tale senso il poeta Maeterlinck o il filosofo Nietzsche, quantunque essi al loro apparire siano stati respinti dalla borghesia come molto «sospetti». Né Bloch ha argomenti per dimostrare che la borghesia del capitalismo monopolistico abbia combattuto il montaggio nell’arte con maggior energia rispetto a un qualsiasi indirizzo borghese precedente. Al contrario, il corteo trionfale del montaggio è stato assai più rapido e meno impedito che non quello dei precedenti indirizzi artistici. Se poi Bloch vuol discutere il problema del «sospetto» come criterio di ereditabilità, dovrebbe fare attenzione a quanto chiaramente sospetto e odioso sia per la borghesia fascista e in via di fascistizzazione il vero realismo. Naturalmente la borghesia reazionaria protesterà sempre quando un artista userà il metodo del montaggio per esprimere con esso contenuti scomodi o pericolosi. In tal caso, però, è «sospetto» il contenuto e non il metodo. Cosicché Bloch dovrebbe indagare nel concreto rispettivamente che cosa tale contenuto significhi sul piano di classe e artistico, e che cosa la forma espressiva del montaggio abbia da dire a questo contenuto. Ma per Bloch la questione sembra risolta a priori. E in un senso positivo per il montaggio. La sua prova a favore è null’altro che la prassi letteraria di Bert Brecht e quella «filosofica», fondata sul montaggio, di Walter Benjamin. Il secondo esempio è impossibile prenderlo sul serio. Il caso Brecht richiederebbe un’indagine molto accurata. Bloch invece non comincia neppure l’indagine: è tanto profondamente persuaso del puro carattere socialista dei contenuti di Brecht che ne difende persino gli «spregiudicati usi di modelli neomachisti». E quanto al carattere socialrealistico del montaggio brechtiano, non va più in là di una nuda asserzione.

Dietro tali argomenti formalistici e dogmatici c’è ancora una volta la blochiana teoria generale del salvataggio della «irratio autentica». Questa teoria è però ancora più storta e fragile qui, se possibile, di quanto non fosse quand’era applicata alle tradizioni ribellistiche dei piccoli borghesi e dei contadini. Bloch parla del montaggio come della forma «dell’inebriamento e della irrazionalità attuali». Ora, noi abbiamo già discusso la teoria blochiana delle contraddizioni «attuali» e «inattuali», concludendo che è insostenibile. Ma anche secondo l’ottica di questa teoria risulta incoerente attribuire un valore alla «irrazionalità attuale» (grande-borghese). Bloch stesso, infatti, nella prima parte della sua critica ha propugnato la teoria secondo cui questo residuo irrazionale, non-superato e valido, si riferisce soltanto a classi la cui esistenza, a suo giudizio, non è legata al capitalismo, alla lotta di classe fra borghesia e proletariato. Se dunque, come dice la teoria blochiana, la «irratio autentica» discende dalla «inattualità», con quale legittimità egli d’un tratto considera la «irrazionalità attuale» come valore e non come prodotto di decadenza all’interno della assai «attuale» grande borghesia? Quantunque, perciò, la sua teoria debba essere rifiutata come teoria anche in questa sua applicazione, nondimeno tale rifiuto non ci impedisce di riconoscere il valore del molto e ricchissimo lavoro compiuto da Bloch. Egli critica la letteratura, la musica e la filosofia moderne sulla base di una loro conoscenza intima e profonda, e spesso le critica con acutezza distruttiva e spirito abbagliante.

Bloch mostra come, nell’espressionismo, sia nata la forma del montaggio. Un ulteriore sviluppo verso la disintegrazione della forma si ha nel surrealismo. Quindi abbiamo la descrizione estremamente efficace del modo in cui il montaggio surrealistico si presenta in Joyce, che egli giustamente considera, accanto a Green e Proust, come punto culminante di queste tendenze. Sul linguaggio di Joyce dice: «Una bocca senza io è qui all’interno del meccanismo in scorrimento, li in mezzo lo beve, lo balbetta, lo fa sfogare. Il linguaggio si adegua pienamente a questa disintegrazione, è non finito e già formato, perfettamente regolare, ma aperto e confuso. Ciò che vedi nei periodi di stanchezza, nelle pause fra i discorsi o quando uno è sognante o anche distratto, parla, s’ingarbuglia, fa giochi di parole: qui tutto è fuor di misura. Le parole sono divenute disoccupate, licenziate dal loro rapporto di senso, ora il linguaggio va come un verme tagliuzzato, ora si condensa come in un cartone animato, ora sta sospeso e si ficca nell’azione come un soffitto teatrale» (p. 184). Ecco un’eccellente descrizione del linguaggio joyceano, forse la migliore dataci finora. Ma al contempo essa è, proprio per la sua penetranza descrittiva, la critica più distruttiva che sia finora stata scritta sul linguaggio di Joyce. Tale giudizio annientante, infatti, questa volta non è «montato» in un’analisi, ma è contenuto organicamente nella descrizione stessa. Altrettanto interessante, ma anche molto più consapevolmente critica, è l’analisi che Bloch conduce del musicista Stravinskij. Bloch inizia questa analisi con immagini del tutto caratteristiche: «Su una cosa cava si può fischiare bene. Così appunto fa Stravinskij con se stesso e le sue cose. Ha già sperimentato molto. Il vuoto rimbomba su se stesso seducente, si veste anche, indossa roba vecchia, diviene come una maschera e risuona in quella guisa». E dopo questa introduzione ci dà un contributo assai interessante sul nesso fra l’Edipo di Stravinskij e la stabilizzazione relativa. «La musica qui approva… il nastro scorrevole della necessità, nobilita il lavoro a catena senza pause, il destino senza luce… Questa rigidità è il tributo del successivo Stravinskij alla reazione parigina, anzi, alla stabilizzazione capitalistica del mondo, da cui discende anche quel che viene definito l’“oggettivismo” di questa musica». È ancora una volta una strana ironia che proprio qui, dopo questa analisi distruttiva dell’apologetica capitalistica nella musica di Stravinskij, proprio su costui egli applichi il suo criterio del retaggio autentico. Quanto nel caso concreto sia privo di valore il suo criterio, è dimostrato appunto dalla descrizione riassuntiva dell’effetto provocato da Stravinskij: «Sebbene alla Nuova oggettività abbia aggiunto la musica-macchina, insomma l’inumanità musicale, Stravinskij appare alla borghesia non meno sospetto che up to date; il “fascista” fa l’effetto di un “bolscevico della cultura”» (pp. 173-177).

Le medesime contraddizioni fra splendide descrizioni e analisi, da un lato, e false conclusioni, dall’altro, le ritroviamo quando Bloch si occupa della filosofia contemporanea. Vero è che di fronte a determinati fenomeni assume un atteggiamento inequivoco di rifiuto e che spesso conforta tale rifiuto con azzeccatissime irrisioni. Così definisce Klages un «deciso filosofo da fine-settimana»; sulla filosofia di questi dice in modo liquidatorio: «Un fiume cosmico deposita sulle rive frutti di letture» (p. 243). Con altrettanta pertinenza e arguzia a proposito di Spengler: «Lo storico Spengler è, non un profeta rivolto indietro, ma un antiquario rivolto in avanti» (p. 234). Tuttavia è nel medesimo tempo molto caratteristico che Bloch sia in Klages sia in Spengler critichi non le basi gnoseologiche, l’agnosticismo e la mistica, ma soltanto le conseguenze grottesche che, derivando da tali basi, vengono alla luce nella loro stravolta e apologetica «immagine del mondo». Questo non casuale difetto di critica nei confronti dell’idealismo indebolisce talvolta anche l’asprezza della sua critica verso l’essenza reazionaria di questi scrittori. In tali casi la critica si ferma alla battuta spiritosa e arguta, invece di svelare realmente l’elemento pericoloso delle tendenze reazionarie. Particolarmente chiara emerge tale debolezza quando la sua presa di posizione non è di netto rifiuto. In Nietzsche, per esempio, Bloch vuol salvare come retaggio il «lato buono» del principio dionisiaco. A tale scopo nel «dionisiaco» egli scopre un tratto plebeo: «…tuttavia “Dionisio” è appunto per la “morale da schiavi” un dio non ignoto, ma invece lieto, anzitutto un dio esplosivo. Saturnali si chiamavano le feste degli antichi schiavi, e la vite di Gesù, per quanto la Chiesa l’abbia completamente svigorita, nella cristianissima guerra dei contadini ha mostrato meno morale da schiavi di quel che piaccia ai signori» (p. 270). Bloch sa bene che tali vedute non hanno nulla a che vedere con Nietzsche. Il fine di Nietzsche è un fine «privato, camuffato in maniera aristocratico-reazionaria, un’utopia romantica, senza contatto con la storia, e per nulla con la classe oggi decisiva; ma la storia si prende da sé il suo contatto, l’astuzia della ragione è grande» (ibidem).

Qui la debolezza idealistica della concezione della storia in Bloch risulta straordinariamente chiara. In primo luogo, infatti, vuol dire sottovalutare fortemente il significato reazionario della filosofia di Nietzsche negarle il «contatto con la storia». Essa invece ha contatti addirittura saldissimi, ma per l’appunto puramente ed esplicitamente reazionari. In secondo luogo, non ci si può immaginare nulla di più antistorico di questa blochiana «astuzia della ragione» nella storia. Persino se Bloch avesse dimostrato un significato rivoluzionario dei Saturnali per le insurrezioni degli schiavi romani (cosa che egli non fa), dove sarebbe la loro relazione reale con il Dioniso «rivoluzionario»? E con le guerre dei contadini?! La prevenzione idealistica di Bloch, che nell’ideologia cristiana dei contadini insorti nel XVI secolo gli fa vedere, non un riflesso della debolezza e arretratezza del loro movimento, ma un valore attuale, da restaurare, per il moderno movimento operaio, lo conduce qui in una brutta confusione. Egli collega del tutto arbitrariamente l’un mito all’altro nell’intento di pervenire a una connessione storica generale. Cosicché perde ogni terreno reale, storico, sotto i piedi, soggiace in questo punto pienamente a quel «metodo» arbitrario, idealistico-mistico, divenuto predominante nella filosofia reazionaria in specie a partire da Nietzsche. Invece di aprire la strada a un nuovo retaggio per il marxismo, egli si pone nel quadro di quelle pseudofilosofie reazionarie la cui vuotezza e arbitrarietà in altri luoghi del suo libro combatte vivamente, la cui indole reazionaria egli, antifascista convinto, altrimenti respinge con passione. Tuttavia la contraddizione da noi individuata in Bloch opera anche in questi casi. Egli descrive, per esempio, con grande penetrazione, e non senza un certo rispetto e una certa simpatia, lo sviluppo della moderna Fenomenologia, la scuola di Husserl. Quando però analizza l’ultimo galoppino di questa scuola, Martin Heidegger, il suo istinto rivoluzionario lo costringe a descrivere in un modo distruttivamente ironico l’apologetismo formalmente complicato, ma assai scarso nel contenuto, di questa celebrità della Germania fascista. «La morte eterna rende alla fine il concreto assetto sociale “dell’uomo” così indifferente, che esso può anche restare capitalistico. L’affermazione della morte come destino assoluto e dell’unico “verso dove” è per la controrivoluzione di oggi quel che in passato era per essa la consolazione di un aldilà migliore» (pp. 220-221). Tale critica dei singoli rappresentanti della cultura borghese è l’aspetto più valido del libro di Bloch. Ed essa sta in stridente contrasto con la sua concezione generale del retaggio. A Bloch accade il contrario di ciò che accadde a quel mago del vecchio Testamento il quale era andato per maledire gli ebrei, ma le cui maledizioni furono mutate in benedizioni da Jahveh. Bloch vuol salvare il «contenuto in oro» della cultura borghese disintegrantesi. Siccome però in questa spedizione di salvataggio egli va con un reale dispendio di sapere e di intelligenza, distrugge strada facendo con critiche spietate tutto quel che vorrebbe salvare. Quando, dunque, dal mucchio di rovine, che egli stesso davanti agli occhi del lettore ha ulteriormente demolito, cerca di levar fuori un retaggio positivo, appare non organico, non convincente. Ed è appunto un suo merito che le sue stesse conclusioni appaiano tanto poco persuasive, che queste siano invalidate dalle sue stesse esposizioni. Tale contraddittorio autosopprimersi del suo metodo tramite l’applicazione al materiale concreto dà al lettore una speranza: che questo metodo idealistico-mistico non sia l’ultima fase dello sviluppo di Bloch, che la sua onesta e coraggiosa collaborazione alla lotta contro il fascismo lo aiuti a superare la odierna brusca contraddizione fra la sua chiara presa di posizione politica contro il fascismo e le sue concessioni filosofiche alle correnti idealistiche reazionarie.

(traduzione di Alberto Scarponi)

Sulla responsabilità degli intellettuali

04 mercoledì Nov 2015

Posted by nemo in I testi

≈ 1 Commento

Tag

agnositicismo, Bergson, economia politica, esistenzialismo, fascismo, feticizzazione, Heidegger, Hitler, imperialismo, Lewis, Nietzsche, Ortega y Gasset, responsabilità intellettuali, rivoluzione, Simmel, Spengler, Toynbee, Unione Sovietica, Weber, Zeig


di György Lukács

[Von der Verantwortung der Intellektuellen (1948), Pubblicato in Schicksalswende cit.; Traduzione di Fausto Codino, in G.L., Marxismo e politica culturale, Einaudi, Torino 1968).


Durante la seconda guerra mondiale molti hanno sperato che distruggendo il regime hitleriano si sarebbe anche sradicata l’ideologia fascista. Ma quanto si è visto dalla fine della guerra in poi nella Germania occidentale indica che la reazione anglosassone ha addirittura salvato e favorito le basi economiche e politiche di una rinascita del fascismo hitleriano. Le conseguenze si sentono anche nel campo ideologico. Perciò l’ideologia dell’hitlerismo rappresenta ancora oggi un problema attuale e non meramente storico.
Se ripensiamo al sorgere del fascismo, vediamo quali gravi responsabilità portino gli intellettuali per la formazione dell’ideologia fascista. Qui, purtroppo, le eccezioni lodevoli sono pochissime.
Vorrei pregare i cosiddetti uomini pratici di non sottovalutare le questioni ideologiche. Faccio solo un esempio. Sappiamo benissimo come la politica hitleriana abbia portato con ferrea necessità agli orrori di Auschwitz e Maidanek. Ma non si deve neppure ignorare che uno dei fattori che permisero questi orrori fu la sistematica demolizione del principio dell’uguaglianza di tutti gli uomini. Sarebbe stato molto più difficile mettere in atto la bestialità organizzata del fascismo contro milioni di persone se Hitler non fosse riuscito a far radicare nelle più larghe masse tedesche la convinzione che chi non era «di razza pura» non era «propriamente» un uomo.
Questo è solo un esempio fra tanti. Deve soltanto dimostrare che un’ideologia reazionaria innocente non può esistere. La generazione più anziana ricorderà molto bene certe critiche «elette», accademiche, saggistiche, della «volgare» credenza nell’uguaglianza degli uomini; e critiche analoghe del progresso, della ragione, della democrazia ecc. La maggioranza degli intellettuali ha preso parte, in modo attivo o recettivo, a questo movimento. In un primo tempo si pubblicavano su questi temi soltanto libri esoterici, saggi ingegnosi, ma poi da essi si ricavarono articoli di giornale, opuscoli, conversazioni radiofoniche che già si rivolgevano a un pubblico di decine di migliaia di persone. Infine Hitler riprese da questi discorsi da salotto e da caffè, da queste lezioni universitarie e saggi, tutto il contenuto reazionario che poteva servire alla sua demagogia di piazza. In Hitler non si trova una parola che non fosse stata già detta «ad alto livello» da Nietzsche o da Bergson, da Spengler o da Ortega y Gasset. La cosiddetta opposizione individuale è irrilevante dal punto di vista storico. Che significa una debole mezza protesta di Spengler o di George contro un incendio mondiale che si è contribuito a far divampare con la propria sigaretta?
È dunque una necessità assoluta, e un grande compito per gl’intellettuali progressisti, smascherare tutta questa ideologia anche nei suoi rappresentanti più «eletti»: mostrare come da queste premesse è scaturita per necessità storica l’ideologia fascista, mostrare che una linea retta porta da Nietzsche, attraverso Simmel, Spengler, Heidegger ecc. fino a Hitler; e che d’altra parte uomini come Bergson e Pareto, i pragmatisti e i semantici, Berdjaev e Ortega hanno creato un’atmosfera da cui la fascistizzazione dell’ideologia poté trarre ricco alimento. Non è merito loro se finora il fascismo non è nato in Francia, in Inghilterra o negli Stati Uniti.
Dobbiamo dunque mettere in luce – anche ideologicamente – la funzione dominante che la Germania ha avuto finora nello sviluppo dell’ideologia reazionaria, ma la lotta decisiva contro l’ideologia imperialistica tedesca non deve mai servire a giustificare gl’irrazionalisti, i nemici del progresso, gli aristocratici dell’ideologia di altri paesi.
Oggi però sarebbe sbagliato e pericoloso limitarsi a questa lotta. Saremmo di vedute corte se credessimo che la nuova reazione che ora si sviluppa segua nel campo ideologico assolutamente la stessa strada della vecchia reazione, che operi precisamente con gli stessi mezzi culturali.
Naturalmente nel nostro periodo, nel periodo dell’imperialismo, la sostanza generale di ogni reazione è la stessa: le pretese egemoniche del capitale monopolistico, il conseguente continuo pericolo di dittature fasciste e di guerre mondiali; naturalmente dittature e guerre opprimeranno e distruggeranno con brutalità almeno uguale che sotto Hitler.
Ma da ciò non deriva affatto che il nuovo fascismo cercherà d’imporsi, in particolare nel campo ideologico, con metodi esattamente copiati da quelli di Hitler. Anzi, la situazione odierna presenta già aspetti ideologici pressoché opposti. L’aggressione di ieri venne da imperialismi che si consideravano sacrificati nella ripartizione del mondo. Oggi l’aggressione è minacciata da un potente imperialismo che vuole completare la sua mezza dominazione mondiale. Esso ha al suo seguito imperialismi che sentono vacillanti e minacciati i loro imperi, che appoggiano gli Usa nella speranza – oggettivamente vana – di poter conservare, ampliare e consolidare i loro possedimenti.
D’altra parte gli aspetti generali dell’imperialismo restano immutati: anche oggi le sue mire sono in contrasto con gl’interessi delle sue stesse masse e con gl’interessi dei popoli che difendono la loro libertà. E questo contrasto, la necessità, che si pone per gl’imperialisti aggressivi, di opprimere i popoli all’interno e all’estero, e in pari tempo di mobilitare demagogicamente le proprie masse popolari per la nuova ripartizione del mondo, per la nuova guerra mondiale, dimostra che la politica interna ed estera fascista, i cui contorni oggi appaiono già chiari, deve seguire un corso obbligato.
Con tutta probabilità questa nuova fase di sviluppo dell’imperialismo non si chiamerà fascismo. E dietro la nuova nomenclatura si cela un nuovo problema ideologico: l’imperialismo «affamato» dei tedeschi generava un cinismo nichilistico che rompeva apertamente con tutte le tradizioni dell’umanità. Le tendenze fasciste che oggi crescono negli Usa lavorano col metodo di un’ipocrisia nichilistica: distruggono l’autodeterminazione interna ed esterna dei popoli in nome della democrazia; esercitano l’oppressione e lo sfruttamento delle masse in nome dell’umanità e della civiltà.
Un altro esempio. Per Hitler fu necessario costruire una propria teoria razziale, sulle basi gettate da Gobineau e Chamberlain, per mobilitare demagogicamente le masse nella liquidazione della democrazia e del progresso, dell’umanesimo e della civiltà. Gl’imperialisti degli Usa hanno il compito più facile: basta che rendano universale e sistematica la vecchia prassi da loro seguita nei confronti dei negri. E siccome finora questa prassi si è potuta «conciliare» con l’ideologia che fa degli Usa i paladini della democrazia e dell’umanesimo, non si vede perché qui non debba sorgere una simile ideologia del nichilismo ipocrita che possa riuscire a dominare con mezzi demagogici. Che questa universalizzazione e sistemazione compia rapidi progressi, può vederlo chiunque segue le sorti dei migliori intellettuali progressisti degli Usa, come Gerhart Eisler o Howard Fast. Come questi metodi stiano diventando generali da molto tempo, lo ha dimostrato da lunga data uno scrittore moderato come Sinclair Lewis in Elmer Gantry.
Qui naturalmente abbiamo di fronte soltanto la forma astrattamente pura del nuovo fascismo. Il suo sviluppo reale segue talvolta vie più complicate, specialmente in Francia e in Inghilterra, dove la situazione interna della reazione imperialistica è molto più difficile. Ma, per tornare ai problemi ideologici, si consideri soltanto l’esistenzialismo e si vedrà facilmente che il tentativo di mettere in armonia il nichilismo aperto dell’Heidegger prefascista con i problemi di oggi fa piegare il cinismo verso l’ipocrisia.
Oppure si prenda il Toynbee. Il suo libro rappresenta il più grande successo della filosofia della storia dopo Spengler. Toynbee studia la crescita e il declino di tutte le civiltà e arriva a concludere che né il dominio delle forze naturali né quello delle circostanze sociali sono in grado d’influenzare questo processo; egli vuole altresì dimostrare che tutti i tentativi d’influenzare il corso dello sviluppo con l’uso della violenza – cioè tutte le rivoluzioni sarebbero condannati a priori al fallimento. Ventuno civiltà sono già scomparse. Una sola, quella europea occidentale, è cresciuta fino ad oggi perché al suo inizio Gesù ha trovato questa nuova via non violenta del rinnovamento. E oggi? Toynbee riassume i suoi sei volumi finora pubblicati col dire che Dio – poiché la sua natura è costante come quella degli uomini – non ci rifiuterà una nuova salvezza purché noi lo preghiamo con sufficiente umiltà.
Il meglio che a mio giudizio il più fanatico fautore della guerra atomica negli Usa possa augurarsi è che gl’intellettuali progressisti si limitino a chiedere questa grazia, mentre lui può organizzare indisturbato la guerra atomica.
Senza dubbio questa tendenza fatalistica e passiva di Toynbee indica che ci troviamo appena nella fase iniziale dello sviluppo ideologico del nuovo fascismo. (Si pensi al fatalismo di Spengler in contrapposto all’attivismo nichilistico e cinico di Hitler). Ma ciò rende maggiori, non minori, i compiti e le responsabilità degli intellettuali: è ancora tempo di dare una svolta allo sviluppo ideologico dei principali popoli civili o almeno di tentare di arrestare il corso reazionario ora avviato.
Ma per riuscirvi occorre soprattutto chiarezza nel campo ideologico. Che significa qui chiarezza? Non che si esprimano i pensieri in forma chiara, stilisticamente perfetta (questa dote è largamente presente negli intellettuali), ma che si sappia con chiarezza questo: dove stiamo, dove porta lo sviluppo, che cosa possiamo fare per influenzare il suo corso?
Sotto questo aspetto gl’intellettuali del periodo imperialistico si trovano in una posizione molto sfavorevole. Poiché essi non possono mai, oggettivamente, trovarsi ugualmente a loro agio in tutti i settori della scienza, ogni epoca porta al centro degli interessi determinate scienze, determinati rami del sapere, determinati autori considerati classici. Così nel XVIII secolo la fisica newtoniana ebbe una grande funzione progressiva nella liberazione degli intellettuali francesi dagli antichi pregiudizi teologici e dall’ideologia monarchico-assolutistica che quei pregiudizi mediavano; nella Francia di allora essa stimolava la preparazione ideologica della grande rivoluzione.
Oggi sarebbe necessario e urgente che questo posto nella vita intellettuale fosse occupato dall’economia politica, dall’economia intesa in senso marxiano come scienza delle «forme d’esistenza, delle determinazioni d’esistenza» primarie degli uomini; come scienza delle relazioni reali tra gli uomini, delle leggi e delle tendenze di sviluppo di queste relazioni. Ma nella realtà troviamo proprio tendenze opposte. La filosofia, la psicologia, la storiografia ecc. del periodo imperialistico cercano tutte di deprezzare le conoscenze economiche, di diffamarle dichiarandole «superficiali», «inessenziali», indegne di una visione del mondo più «profonda».
Qual è la conseguenza? Gli intellettuali, non riuscendo a scorgere le basi oggettive della loro stessa esistenza sociale, diventano sempre più vittime della feticizzazione dei problemi sociali e, attraverso questa, vittime indifese dì qualsiasi demagogia sociale.
Sarebbe facile citare esempi. Ne ricordo solo alcuni fra i più essenziali. In primo luogo la feticizzazione della democrazia. Cioè, non ci si chiede mai: democrazia per chi e con esclusione di chi? Non ci si chiede mai quale sia il vero contenuto sociale di una democrazia concreta, e non ponendosi queste domande si offre uno dei più solidi appoggi al neofascismo che ora si prepara. C’è poi la feticizzazione del desiderio di pace dei popoli, espressa per lo più in forma di pacifismo astratto, nel quale il desiderio di pace non solo è degradato al livello della passività, ma diventa addirittura la parola d’ordine dell’amnistia per i criminali di guerra fascisti e facilita quindi la preparazione di una nuova guerra. C’è ancora una feticizzazione della nazione. Dietro questa facciata scompaiono le differenze fra i legittimi interessi vitali nazionali di un popolo e le tendenze aggressive dello sciovinismo imperialista. Ci si può ben ricordare come questa feticizzazione avesse i suoi effetti immediati nella demagogia nazionale di Hitler. Anche oggi essa è operante nella sua forma diretta, ma questa feticizzazione è anche sfruttata in un modo indiretto e non meno pericoloso, specialmente negli Usa: è l’ideologia di un cosiddetto sopranazionalismo, di un governo mondiale sopranazionale. Come la forma diretta hitleriana mirava a una pax germanica per il mondo, così la forma indiretta tende a una pax americana. Entrambe le forme, se fossero attuate, comporterebbero la distruzione di ogni autodeterminazione nazionale, di ogni progresso sociale.
C’è infine la feticizzazione della cultura. A partire da Gobineau, Nietzsche e Spengler è venuto di gran moda negare l’unitarietà della cultura del genere umano. Quando, dopo la liberazione dal nazismo, partecipai per la prima volta a un convegno internazionale, alle Rencontres internationales di Ginevra del 1946, in quell’occasione Denis de Rougemont e altri parlarono della difesa della cultura europea sostenendo idee fondate su una netta separazione fra la cultura europea occidentale e quella russa. Difendere la cultura europea occidentale significava dunque respingere quella russa (come pensa anche Toynbee). Che oggettivamente questa teoria è affatto priva di valore, che l’attuale cultura europea occidentale è profondamente impregnata d’influssi ideologici russi, e per lo più proprio nelle sue creazioni più alte, lo rivela l’occhiata più superficiale alla situazione odierna della cultura. Senza Lev Tolstoj come ci si potrebbe immaginare, per fare pochi nomi, la letteratura da Shaw a Roger Martin du Gard, da Romain Rolland a Thomas Mann? Queste teorie sfruttano demagogicamente la circostanza che a un contatto immediato, alla prima impressione, la cultura russa (e a maggior ragione quella sovietica) appare estranea agli intellettuali dell’Europa occidentale. Ma ogni conoscitore della letteratura deve confermare che in Francia è stato molto più difficile accogliere Shakespeare che Tolstoj. Eppure il signor de Rougemont e i suoi amici non erigono una muraglia cinese fra la cultura della Francia e quella dell’Inghilterra.
Ma è anche più importante vedere con chiarezza il significato sociale di quelle teorie. Lo sviluppo culturale russo – culminante nella cultura sovietica – incarna oggi il futuro derivante dalla nostra cultura, come fece la cultura inglese del XVIII secolo per la Francia e l’anno 1793 per tutti i progressisti europei. La feticizzazione della cultura serve qui a mascherare la protesta di ciò che è in declino contro ciò che anticipa il futuro, e precisamente nella propria cultura. I Rougemont e i Toynbee, con le loro teorie, vogliono stendere un cordon sanitaire intorno alla Russia, intorno all’Unione Sovietica, e rendono in tal modo – deliberatamente o no, non importa – un servigio alla preparazione ideologica della guerra.
Sembra che io mi sia allontanato dall’argomento dell’economia. In realtà ho parlato sempre ed esclusivamente di economia. Che vuol dire infatti feticizzazione? Vuol dire che qualche fenomeno storico è avulso dal suo reale terreno sociale e storico, che il suo concetto astratto (e di solito soltanto qualche elemento di questo concetto astratto) è trasformato in feticcio, acquista un’esistenza presunta autonoma, diventa un’entità a sé. La grande conquista della vera economia sta appunto nel dissolvere questa feticizzazione, nel mostrare in concreto che cosa significhi questo o quel fenomeno storico nel processo complessivo dello sviluppo, quale sia il suo passato e quale il suo futuro.
La borghesia reazionaria sa quindi benissimo perché cerca di diffamare la vera economia per mezzo dei suoi ideologi, così come la reazione ecclesiastica del XVI-XVIII secolo sapeva bene perché si batteva contro la nuova fisica. Oggi un interesse vitale della borghesia imperialistica è di distruggere la capacità di orientamento storico-sociale degli intellettuali. Se oggi numerosi intellettuali non possono essere già trasformati in assoluti sostenitori della reazione imperialistica, devono almeno errare impotenti, senza capacità di orientamento, in un mondo incompreso.
Confessiamolo con vergogna: questa manovra della borghesia reazionaria è riuscita in gran parte; essa ha sviato un buon numero dei migliori intellettuali. Moltissimi buoni rappresentanti della cultura odierna – collaboratori inconsapevoli di questo intento della reazione imperialistica – hanno addirittura creato una filosofia tendente a dimostrare che sarebbe filosoficamente impossibile possedere un orientamento sociale. Questa linea va dall’agnosticismo sociale di Max Weber all’esistenzialismo.
Ma non è questa una condizione indegna degli intellettuali? Forse essi hanno acquistato le loro capacità, il loro sapere, la loro cultura spirituale e morale solo perché in una svolta storica, quando si decide del destino del genere umano, quando la libertà e l’oppressione barbarica si gettano nella battaglia decisiva, essi debbano chiedere come Pilato: che cosa è la verità? E non è indegno di loro il presentare come una particolare profondità filosofica questo non sapere, questo non voler sapere?
Noi abbiamo acquistato il nostro sapere, abbiamo sviluppato la nostra cultura spirituale per capire il mondo meglio di quanto lo capisca l’uomo medio. Ma nella realtà assistiamo al contrario. Arnold Zweig descrive molto bene un intellettuale onesto che per anni si lascia prendere dalla demagogia dell’imperialismo tedesco per dover confessare alla fine che semplici lavoratori avevano capito esattamente e chiaramente la situazione già anni prima.
Molti intellettuali sentono già oggi da chi siano realmente minacciate la libertà e la cultura. Molti si rivolgono, anche con un forte pathos morale, contro l’imperialismo, contro la preparazione della guerra. Ma la nostra dignità di rappresentanti della cultura esige proprio che di questo sentimento noi facciamo un sapere. E a questo si può arrivare solo mediante la scienza dell’economia politica, mediante l’economia del marxismo.
Gli intellettuali sono al bivio. Dobbiamo preparare una svolta storica verso il progresso e combattere per essa in prima linea, come gli intellettuali francesi del XVIII secolo e quelli russi del XIX, o dobbiamo essere vittime impotenti, collaboratori abulici di una reazione barbarica, come gli intellettuali tedeschi della prima mela del XX secolo? Non si può esitare a decidere quale atteggiamento sia degno, e quale indegno, dell’essenza, del sapere, della cultura dell’intellettuale.

Il profeta dell’anticapitalismo romantico

02 martedì Giu 2015

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

≈ Lascia un commento

Tag

anticapitalismo romantico, Balzac, Bäumler e Rosenberg, Benjamin, Bloch, Carlyle, dialettica dell'illuminismo, Dilthey, disincanto del mondo, Dostoevskij, fascismo, Freier, Fromm, Hans Castorp, Heidegger, Huch, idealismo, illuminismo, Jünger, La montagna incantata, Landauer, Löwenthal, Levine, Marcuse, Muhsam, Naphta, Nietzsche, realismo, reazione, Russia, Simmel, Sismondi, Spengler, stalinismo, Tönnies, Thomas Mann, Toller, Tolstoj, Weber


di Michael Löwy

«Lettera Internazionale, n. 23, 1990.

György Lukács è stato probabilmente il primo autore ad impiegare il concetto di anticapitalismo romantico; questo termine comincia infatti ad apparire nei suoi scritti sin dagli anni’30. Sebbene non sia mai giunto a svilupparne una definizione sistematica, alcuni elementi di tale concetto sono impliciti nelle sue opere filosofiche e letterarie. Lukács concepiva il romanticismo non come una categoria puramente estetica o letteraria, ma come un fenomeno più ampio, che investiva, oltre all’arte e alla letteratura, la politica, la filosofia, la sociologia, l’economia politica e la religione. Non gli sfuggiva inoltre il rapporto tra romanticismo e capitalismo, la differenza tra la forma romantica e le altre forme di coscienza anticapitalistica: la critica romantica della civilizzazione borghese moderna è basata su valori sociali o culturali precapitalistici.

L’anticapitalismo romantico è stato una delle principali correnti di pensiero della modernità e una delle più influenti Weltanschauungen della cultura europea, sin dalla fine del 17° secolo. Al tempo della formazione di Lukács – i primi anni del 20° secolo – rappresentava ormai la visione dominante nella vita intellettuale della Germania e dell’Europa centrale.

Non c’è niente di più intrigante e contraddittorio dell’anticapitalismo romantico. La sua enigmatica ambiguità è magnificamente rappresentata dal personaggio di Leon Naphta nella Montagna incantata di Thomas Mann: gesuita e comunista, di origine ebraica, nemico giurato del filantropo liberale Settembrini, Naphta esalta la lotta dei Padri della Chiesa contro il capitalismo e si sente in sintonia con il movimento romantico, con la sua «ambiguità fantastica», capace di fondere insieme reazione e rivoluzione. Lukács è stato spesso indicato come il modello di questa creazione letteraria di Thomas Mann, un’ipotesi questa che contiene almeno una parte di verità.

Weber sottolinea in molti suoi scritti come il capitalismo e la società industriale siano caratterizzati dal disincanto del mondo (Entzauberung der Welt), cioè dalla sostituzione di sentimenti e valori con il calcolo razionale dei profitti e delle perdite. L’anticapitalismo romantico – con la sua tipica attrazione per la religione e il misticismo – è una forma di rivolta contro questa Entzauberung e un disperato tentativo di rigenerare il mondo attraverso la restaurazione dei valori qualitativi sradicati dalle macchine e dai libri contabili.

Il circolo di Max Weber ad Heidelberg è stato uno dei principali centri accademici neoromantici. L’attrazione dei suoi membri per la letteratura russa e per il pensiero religioso era espressione del loro distacco dallo spirito eccessivamente razionale del capitalismo occidentale. Due dei suoi membri, il giovane filosofo ebreo Ernst Bloch e György Lukács, portarono alle sue conseguenze più radicali ed escatologiche questo sentimento generale.

L’ambiguità dell’anticapitalismo romantico si manifestò nello sviluppo di due correnti contrapposte: una conservatrice e perfino reazionaria (e infine fascista), l’altra utopista e rivoluzionaria. Lukács e Bloch non furono gli unici esponenti di quest’ultima corrente. Ad essa appartennero anche molti scrittori espressionisti, la Scuola di Francoforte, i rivoluzionari bavaresi del 1919 (Landauer, Toller, Muhsam, Levine) e numerosi rivoluzionari della Budapest del 1919. In quell’anno, Thomas Mann viveva a Monaco, e rimase molto colpito dagli avvenimenti di quella rivoluzione. Il suo diario rivela un vivo interesse per gli scritti di Gustav Landauer, un’altra possibile fonte di ispirazione per il personaggio di Naphta1.

L’utopia dell’uomo muovo

L’anticapitalismo romantico è la chiave per comprendere i primi lavori di Lukács e il suo personale approccio al marxismo, agli antipodi del materialismo storico ortodosso della Seconda Internazionale. Nel suo periodo premarxista (fino al 1919), Lukács sognava un’utopia romatica in cui potessero fondersi Kultur, Gemeinschaft, religione e socialismo, come sostanze spirituali dotate di affinità elettiva, estranee al mondo superficiale, prosaico, entzaubert, della società borghese.

Il romanticismo fu il tema centrale delle sue prime riflessioni letterarie e filosofiche. Al 1907 risale il progetto di un grande libro, Die Romantik des neunzehnten Jahrhunderts. I capitoli principali avrebbero dovuto essere: 1 Goethe e Fichte, 2 La tragedia del romanticismo (Schelling, Schlegel, il misticismo), 3 Vecchio e nuovo romanticismo (il nuovo come reazione), 4 Germania e Francia (lo Sturm und Drang e il romanticismo francese), 5 I preraffaelliti (romanticismo artistico e socialismo), 6 Romanticismo à rebours (Schopenhauer, Baudelaire, Kierkegaard, Flaubert e Ibsen). I suoi taccuini di questo periodo contengono numerosi estratti da Novalis, Schelling, Schlegel e Schleiermacher. Ma, come dimostra il piano dell’opera, l’interesse di Lukács non era limitato alla letteratura tedesca: ad attirarlo era l’intero universo dell’anticapitalismo romantico. Una fonte di ispirazione sempre più importante divenne per lui la letteratura russa, nella sua dimensione politica e religiosa (Tolstoj e soprattutto Dostoevskij). In una intervista del 1974, Ernst Bloch ricordò l’«immensa influenza» esercitata all’inizio del secolo dalla cultura russa, dall’«universo spirituale di Tolstoj e Dostoevskij», in una parola dalla «Russia immaginaria», sugli intellettuali tedeschi, e in particolare sul suo amico Lukács. Per Lukács (come per Bloch) gli scrittori russi rappresentavano l’aspirazione a superare l’individualismo disperato e desolato dell’Europa occidentale e a procedere verso la creazione di un uomo nuovo in un mondo nuovo.

Se il saggio sulla Filosofia romantica della vita in L’anima e le forme (1910) criticava il romanticismo tedesco, ciò avveniva, paradossalmente, perché il suo rifiuto del mondo esistente non era abbastanza radicale. Il romanticismo aveva creato un mondo organico, unificato, poetico e spirituale e lo aveva identificato con quello reale. Per Lukács, un’autentica opera d’arte poteva essere realizzata soltanto attraverso la netta separazione delle sfere eterogenee, «la creazione di un mondo nuovo ed unitario definitivamente separato dalla realtà».

La teoria del romanzo (1916) è intrisa di nostalgia romantica per i tempi felici in cui «le vie erano illuminate dalla luce delle stelle», le età epiche caratterizzate dalla perfetta corrispondenza delle azioni con le esigenze interiori. L’immutabile archètipo era rappresentato dalla Grecia omerica, mentre il Medioevo cristiano – Giotto e Dante – si configurava come una nuova Grecia, l’ultima manifestazione dell’organic Gemeinschaft, della naturale unità delle sfere metafisiche. Tuttavia, diversamente dai romantici, Lukács non credeva possibile o desiderabile una restaurazione: «…in un mondo chiuso noi non potremmo respirare. Noi abbiamo scoperto la produttività dello spirito…». Il fallimento dei romantici conseguiva dall’impossibilità di «ritornare ai tempi dell’epos cavalleresco». Invece di aggrapparsi al passato, Lukács sognava un futuro utopico, un paradiso terrestre, una porta verso una nuova epoca della storia del mondo, il superamento della società borghese e della civilizzazione industrial-capitalistica, l’era della «perfetta innocenza» (Epoche der vollendeten Sündhaftigkeit), un nuovo mondo del quale Tolstoj era stato l’araldo e Dostoevskij, forse, il nuovo Omero o Dante. L’intenzione non era quella di resuscitare l’antica Grecia o il mondo chiuso medioevale, ma di creare una nuova comunità che avrebbe dovuto esprimersi artisticamente mediante una «forma rinnovata di epos»2. Al romanticismo nostalgico sembra sostituirsi qui, con una decisiva metamorfosi spirituale, un romanticismo utopistico, orientato verso il futuro, benché affascinato al tempo stesso dalla «Russia metafisica», il «sogno Russia» al quale si riferiva Bloch.

Una versione romantica del marxismo

Anche dopo la sua iscrizione al Partito comunista ungherese (dicembre 1918) – una decisione che può essere compresa soltanto a partire dal suo precedente anticapitalismo romantico e dalla sua partecipazione alla rivoluzione ungherese del 1919 – il pensiero di Lukács mantenne la sua dimensione romantica. Per un lungo periodo, essa si combinò con il marxismo in una fusione intellettuale estremamente originale e sottile, il cui prodotto più compiuto fu il saggio La vecchia e la nuova cultura (1919), pubblicato quando Lukács era commissario del popolo per l’Educazione nel Governo Rivoluzionario Ungherese. Questo lavoro contrappone la Kultur organica della Grecia e del Rinascimento (che sembra sostituire il precedente modello medioevale Giotto-Dante), quando la vita e la produzione erano dominate dal künstlerischer Geist, alla totale mercificazione dell’arte e della cultura nel capitalismo. Il rivoluzionamento della produzione operato dal capitalismo esige la fabbricazione delle cosiddette «novità» e quindi una trasformazione rapida della forma e della qualità dei prodotti, indipendentemente dal loro valore estetico o d’uso. Ciò comporta il dominio tirannico della moda. (Troviamo intuizioni simili in alcuni scritti di Walter Benjamin sulla moda e sulla falsa «novità» del prodotto.) Moda e cultura sono concetti che nella sostanza si escludono reciprocamente (dem Wesen nach sich ausschliessende Begriffe). Con la generale mercificazione della vita, la cultura autentica comincia a declinare. Il capitalismo distrugge la culturale (è kulturzerstörend). Lukács concepisce la rivoluzione socialista come una restaurazione culturale. Una cultura organica «diviene di nuovo possibile». In modo tipicamente romantico/rivoluzionario, il socialismo è concepito come ripristino della continuità interrotta dal capitalismo: il futuro utopico (la nuova cultura) getterà un ponte verso il passato precapitalistico (la vecchia cultura), sul vuoto dell’attuale capitalismo (la non cultura).

Pochi anni dopo, in Storia e coscienza di classe (1923), Lukács sembra voler prendere le distanze dall’anticapitalismo romantico. Dopo Rousseau, il concetto di «crescita organica» viene assumendo, «nella battaglia contro la reificazione, un significato sempre più reazionario, dal romanticismo tedesco alle scuole storiche di diritto, Carlyle, Ruskin, etc.». Ma, allo stesso tempo, si riconosce che, ben prima di Marx, autori come Carlyle avevano compreso e descritto l’essenza antiumana (windermenschliches) del capitalismo, la sua natura distruttrice e oppressiva di tutto ciò che è umano. Una nostalgia tipicamente romantica affiora a volte in alcuni passaggi, per esempio nel paragone tra la soggezione di ogni forma di vita alla meccanizzazione e al calcolo razionale nel capitalismo e «il processo organico vitale di una Gemeinschaft» come nel villaggio tradizionale. Il tema centrale del libro, l’analisi critica della reificazione (Verdinglichung), in tutte le sue forme – economica, giuridico-burocratica, culturale – è largamente ispirato dalla sociologia neoromantica tedesca: Tönnies, Simmel, Weber.

Senza dubbio, i motivi sociologici vengono qui riformulati da Lukács nei termini di una critica marxista della reificazione capitalista. Ma a volte egli procede, in quest’opera, nel senso opposto. Partendo da alcuni passaggi del Capitale, sviluppa una critica particolarmente acuta della meccanizzazione del lavoro e della quantificazione del tempo, critica che possiede innegabili affinità con il romanticismo. Secondo alcuni critici neo-kantiani di Lukács, per Colletti ad esempio, questo genere di analisi dimostra che il filosofo ungherese sostituì il romanticismo bergsoniano al marxismo. Ma si potrebbe anche supporre che Lukács abbia potuto scrivere questo libro soltanto grazie a un elemento di anticapitalismo romantico presente nello stesso Marx. Come sottolineò giustamente Paul Breines, il giovane Lukács tentò di «restituire al marxismo la sua dimensione romantica perduta»3.

Gli scritti letterari di Lukács degli anni 1922-23 contengono dei riferimenti molto significativi a scrittori anticapitalisti romantici, in particolare a Dostoevskij, che ai suoi occhi rappresentava l’esempio più radicale di rigetto utopico della civiltà borghese occidentale. In un articolo del 1922, pubblicato nella Rote Fahne (il quotidiano del Partito Comunista tedesco), La confessione di Stavrogin, Lukács esalta la capacità di Dostoevskij di descrivere un mondo utopico, in cui «tutto ciò che di meccanico e inumano, privo di anima (seelenlos) e reificato, possiede la società capitalistica, è abolito». Un articolo del 1923 sembra echeggiare l’ultimo capitolo della Teoria del romanzo. Dostoevskij è visto come il precursore dell’essere umano futuro, «già socialmente ed economicamente liberato», in grado di vivere pienamente la propria vita interiore.

La svolta

Verso la fine degli anni ’20, Lukács divenne apertamente ostile al romanticismo, e questo mutamento fu accompagnato, negli anni immediatamente successivi, da contraddizioni e improvvisi ripensamenti4.

Probabilmente, la posizione di Lukács deve essere messa in rapporto con l’inizio, pressoché simultaneo, della sua «riconciliazione forzata» con lo stalinismo. Era il periodo del piano quinquennale di Stalin (1928-33), che innalzava l’industrializzazione ad alpha ed omega della «costruzione del socialismo» e non concedeva, naturalmente, nessuno spazio alla nostalgia romantica. Arthur Koestler rievoca nella sua autobiografia i suoi pensieri di militante comunista nel 1930: «Quando ho detto che mi ero innamorato del piano quinquennale, non si trattava di una esagerazione … La teoria marxista e la pratica sovietica rappresentavano il definitivo e ammirevole compimento dell’ideale di progresso del XIX secolo, a cui dovevo fedeltà. La forza più potente della terra avrebbe senza dubbio apportato la massima felicità al massimo numero di persone».

Ma la relazione tra il dogma stalinista e l’atteggiamento di Lukács verso il romanticismo è più complessa. In anni successivi, infatti, egli tornerà a guardare con simpatia agli scrittori dell’anticapitalismo romantico. Il mutamento delle sue posizioni culturali potrebbe essere messe in relazione anche con il sorgere del nazismo, che appariva a lui (come a molti altri) il risultato logico della reazione romantica, operante nella cultura tedesca, ma anche questa versione è tutt’altro che ovvia e non può spiegare le interpretazioni sorprendentemente divergenti di Dostoevskij che egli diede nel 1931, nel 1943 e nel 1957. Per decenni, in realtà, Lukács sembra essere stato combattuto tra l’Aufklärung e l’anticapitalismo romantico. L’ideologia democratico-liberale e razionale del Progresso (che egli tentò di riconciliare con la dura realtà totalitaria dello Stato sovietico), era quella prevalente, ma la vena dell’anticapitalismo romantico riemergeva a tratti inaspettatamente.

Il termine «anticapitalismo romantico» apparve per la prima volta in un articolo del 1931 su Dostoevskij, in cui Lukács gettava repentinamente nella pattumiera il grande scrittore russo che aveva ispirato i suoi ideali giovanili romantico-rivoluzionari. Secondo questo saggio, che fu pubblicato a Mosca, l’influenza di Dostoevskij discendeva dalla sua capacità di trasformare i problemi dell’opposizione romantica al capitalismo in problemi «interiori», «spirituali», permettendo così agli intellettuali piccolo-borghesi di «approfondire» la propria Weltanschauung in una rivoluzione religiosa da salotto (religiöselnde Salon-Revoluzzerei). Un giudizio, questo di Lukács, che avrebbe potuto essere esteso presumibilmente ai suoi stessi scritti, come a quelli di Bloch, almeno fino al 1931.

I primi lavori di Lukács avevano costantemente collegato Tolstoj e Dostoevskij, pur sottolineando sempre la superiorità di quest’ultimo. Nel 1931, Lukács passa invece a contrapporre Tolstoj, come rappresentante della «tradizione classica della classe borghese rivoluzionaria in ascesa» – una definizione alquanto singolare per uno scrittore che disprezzava tanto i lussi cittadini ed ammirava la povera gente di campagna – a Dostoevskij, i cui scritti vengono intesi come l’espressione delle tendenze romantiche e reazionarie latenti della piccola borghesia. Nella peggiore delle ipotesi Dostoevskij è presentato come «lo scrittore dei Cento Neri e dell’imperialismo zarista», e nella migliore come l’autore di una «frazione dell’opposizione intellettuale anticapitalistica romantica piccolo borghese», un gruppo sociale oscillante tra destra e sinistra, ma per il quale «un largo viale conduce alla destra, alla reazione (oggi al fascismo), e solo uno stretto e disagevole sentiero alia sinistra, alla rivoluzione». La conclusione di questo avvincente brano di delirio dogmatico è che, con l’inevitabile declino della piccola borghesia, «la gloria (Ruhm) di Dostoevskij svanisce ingloriosamente (Ruhmlos)»5.

Un’autocritica spietata

Quest’articolo dà inizio a un modello di analisi riscontrabile nella maggior parte degli approcci successivi di Lukács all’anticapitalismo romantico: da una parte, la constatazione del carattere contraddittorio dei fenomeno e dall’altra una tendenza (a volte completamente unilaterale) a considerare dominante in esso l’inclinazione reazionaria e perfino fascista. Non stupisce che questo saggio abbia fatto andare su tutte le furie il suo amico romantico/rivoluzionario Ernst Bloch e contribuito a raffreddare i loro rapporti6.

La natura di questo articolo non mi consente di analizzare tutte le mutevoli prese di posizione di Lukács nei riguardi dell’anticapitalismo romantico un itinerario bizzarro, tortuoso e sconcertante. Mi limiterò ad alcuni degli esempi più significativi.

In un articolo pubblicato pochi mesi dopo il saggio su Dostoevskij, Lukács torna nuovamente sul tema del nesso immediato tra il fascismo tedesco e «l’arsenale teorico dell’anticapitalismo romantico», pur operando una distinzione tra «l’onestà soggettiva ancora presente in Sismondi e nel giovane Carlyle» e le manipolazioni della propaganda fascista.

Lukács non poteva fingere di ignorare che le radici del suo stesso approccio al marxismo e alla rivoluzione si trovavano nella cultura dell’anticapitalismo romantico. Ma ciò, invece di indurlo ad approfondire la sua analisi, lo portò invece, in un manoscritto del 1933 sulle origini culturali del fascismo, a inasprire la propria autocritica. Secondo questo scritto, Storia e coscienza di classe è un libro pericoloso che contiene «le più gravi concessioni al punto di vista idealistico borghese del mondo». Dopo aver sottolineato la continuità tra l’idealismo tedesco e il fascismo, aggiunge: «Come seguace di Simmel e Dilthey, come amico di Max Weber e Emil Lask, come lettore entusiasta di Stefan George e di Rilke, ho vissuto anch’io l’evoluzione qui descritta … Ho visto molti amici della mia giovinezza, sinceri e convinti anticapitalisti romantici, finire travolti dalla tempesta del fascismo». Il legame decisivo tra la visione anticapitalistica romantica e il suo particolare approccio alla causa rivoluzionaria – un percorso condiviso da molti altri intellettuali tedeschi, in particolare da quelli ebrei con un retroterra romantico – non viene qui neppure preso in considerazione.

Questo manoscritto del 1933, una sorta di primo abbozzo per la Distruzione della Ragione, tenta un’analisi più generale e sistematica del risveglio dell’anticapitalismo romantico alla fine del XIX secolo. In esso Lukács, pur classificando tutti i critici in chiave anticapitalistico-romantica della società borghese come «rivoluzionari romantici» (o perfino come precursori del fascismo), opera tuttavia un’importante distinzione all’interno del neo-romanticismo. Il periodo precedente al 1914, visto attraverso gli scritti di Nietzsche, Tönnies, Simmel, Weber, Huch e la Lebenphilosophie, si ispirava al Frühromantik ed era ancora sufficientemente ambiguo da consentire un’interpretazione di «sinistra». Il periodo del dopoguerra, visto attraverso gli scritti di Heidegger, Jünger, Spengler, Freier, Bäumler e Rosenberg, si richiamava invece direttamente allo Spätromantik ed era apertamente reazionario, se non fascista. La transizione dal primo al secondo periodo fu caratterizzata da una tendenza sempre più spiccata verso l’irrazionalità e il mito. Si tratta di un’ipotesi interessante, che non tiene conto tuttavia dell’evoluzione di pensatori di sinistra come Marcuse, Benjamin, Fromm, Löwenthal e molti altri, che ebbe innegabili legami con la cultura neo-romantica.

La polemica contro l’espressionismo

Lukács fu particolarmente interessato all’opera di Nietzsche. In un articolo del 1934, intitolato Nietzsche precursore dell’estetica fascista, l’autore di Così parlò Zarathustra è presentato come un seguace della tradizione anticapitalistica romantica. Come tutti gli scrittori di questa corrente, «egli compie un continuo raffronto tra la mancanza di cultura del presente (Kulturlosigkeit) e la cultura superiore dell’epoca precapitalista o del primo capitalismo. Come tutti i critici romantici della degradazione dell’uomo prodotta dal capitalismo, Nietzsche combatte il feticismo della moderna civilizzazione, opponendogli la cultura di stadi economici e sociali più arretrati». Lukács appare inconsapevole del fatto che una tale forma di critica culturale, che in effetti gioca un ruolo regressivo in Nietzsche, poteva, in un altro contesto, assumere un carattere rivoluzionario, come ad esempio nel suo articolo del 1919, La vecchia e la nuova cultura. La sua unica concessione fu quella di riconoscere a Nietzsche intenzioni sincere, fuorviate dalla manipolazione nazista delle sue idee: «Il fascismo deve abolire tutto quanto vi è di progressivo nell’eredità borghese; nel caso di Nietzsche deve falsificare o negare ogni espressione di una critica romantica soggettivamente sincera della cultura capitalistica»7.

Lukács valuta in modo non dissimile l’espressionismo nel famoso saggio Grandezza e decadenza dell’espressionismo (1934), in cui questo movimento artistico è messo in relazione con l’anticapitalismo romantico e vengono delineate interessanti analogie con la Filosofia del denaro di Simmel. Ignorandone completamente la dimensione rivoluzionaria, Lukács definisce qui l’espressionismo come «una delle tante tendenze ideologiche borghesi che sarebbero in seguito approdate al fascismo; il cui ruolo ideologico nello spianargli il cammino fu pari a quello delle altre tendenze dell’epoca». Tre anni dopo la pubblicazione di questo saggio, i nazisti organizzarono l’infame mostra sull’«Arte degenerata», in cui furono esposti lavori di quasi tutti i più noti pittori espressionisti. In una postilla aggiunta nel 1953 all’articolo sopra citato, Lukács si mostra imperturbabile. «Il fatto che i nazionalsocialisti abbiano rifiutato in un secondo momento l’espressionismo in quanto forma d’arte degenerata non inficia in nessun modo la verità storica dell’analisi qui esposta»8.

Questa presa di posizione lo portò ad un altro scontro polemico con l’amico di un tempo ed alter ego, Ernst Bloch. Nel 1953 Lukács scrisse una recensione critica di Eredità nel nostro tempo, in cui si sosteneva che fino a quando Bloch avesse continuato a richiamarsi acriticamente all’anticapitalismo romantico, la sua concezione del marxismo sarebbe rimasta sostanzialmente errata. Bloch viene quindi inaspettatamente (ma acutamente) paragonato al «socialdemocratico Herbert Marcuse», che «esaltava l’autentica» Lebenphilosophie di Dilthey e Nietzsche in opposizione a quella falsa dei fascisti9. Nel 1938, nel corso della sua polemica con Bloch, in Es geth um den Realismus, (così come in altri scritti contemporanei) Lukács torna nuovamente sulla distinzione tra le «intenzioni soggettive» sincere di alcuni artisti espressionisti, e il contenuto «oggettivo» (reazionario) della loro opera. Come esempio di questa contraddizione, egli cita… i suoi primi lavori. Malgrado le sue buone intenzioni la Teoria del romanzo era «un’opera del tutto reazionaria», intrisa di misticismo idealista. Persino Storia e coscienza di classe viene definita retrospettivamente «reazionaria in ragione del suo idealismo». Es geht um den Realismus sviluppa quella che è forse la premessa storico-filosofica fondamentale dell’approccio unilaterale di Lukács all’anticapitalismo romantico. In essa si parla infatti del pericolo di un «avvelenamento demagogico» della cultura popolare in conseguenza della decomposizione delle forme antecedenti di vita popolare prodotta dal capitalismo, un processo definito tuttavia «in sé economicamente progressivo». Questa fede nella natura intrinsecamente progressiva e benefica dello sviluppo capitalistico e del razionalismo industriale gli consentì di cogliere la dimensione sovversiva e potenzialmente rivoluzionaria di una critica nostalgicamente rivolta alle forme di vita sociale e ai valori culturali del passato.

Un itinerario tortuoso

Dopo l’articolo del 1931 su Dostoevskij, Lukács appare rinchiuso in uno schema analitico dogmatico che sottolinea quasi esclusivamente gli elementi reazionari e le tendenze pre-fasciste (certamente presenti) della cultura anticapitalista romantica. Ciò nonostante troviamo, in alcuni saggi scritti a Mosca tra il 1939 e il 1941, una valutazione sorprendentemente favorevole di Balzac e Carlyle. Ribattendo a quei critici letterari sovietici che «esaltavano» la tradizione borghese «progressiva» contro le idee «reazionarie» di Balzac, Lukács respinge quella che giudicava una mistificazione liberal-borghese, «la mitologia di uno scontro tra Ragione e Reazione o, in un’altra variante, il mito della lotta tra l’angelo illuminato del progresso borghese … e il demonio nero del feudalesimo». Secondo lui, le intuizioni di Balzac e Carlyle riguardo alla natura del capitalismo – in particolare sulla sua tendenza alla distruzione della natura – non potevano essere espunte meccanicamente dall’insieme della loro visione generale (in cui era compresa la loro ideologia conservatrice), secondo il buon vecchio metodo proudhoniano di separare il lato «buono» delle realtà economiche e sociali da quello «cattivo». Nelle opere di questi scrittori la critica perspicace del capitalismo è intimamente connessa alla loro idealizzazione del Medioevo. Balzac è penetrante grazie al suo anticapitalismo romantico e non suo malgrado10.

Un articolo del 1943 su Dostoevskij è ancora più interessante. In esso Lukács non solo riesamina completamente la sua precedente posizione eccessivamente negativa, ma dimostra anche una sorprendente consapevolezza delle potenzialità rivoluzionarie insite nell’anticapitalismo romantico (sebbene l’espressione non compaia mai nel saggio). Secondo Lukács, i libri di Dostoevskij esprimono una «ribellione contro le deformità morali e spirituali dell’essere umano prodotte dallo sviluppo capitalistico» e una «vibrante protesta contro tutto ciò che è falso e distorto nella società borghese moderna». Contro questo mondo disumano, Dostoevskij sognava di una trascorsa età dell’oro, simboleggiata dalla Grecia arcaica così come è raffigurata dal pittore Claude Lorrain in Acis e Galatea. La rivolta spontanea e selvaggia dei personaggi di Dostoevskij ha sempre un rapporto inconscio con quest’età dell’oro: «Questa rivolta è la grandezza progressiva poetica e storica di Dostoevskij; essa accese un bagliore nell’oscurità della miseria di Pietroburgo, un bagliore che illuminò le strade verso l’avvenire sull’umanità».

Insomma, l’età dell’oro del passato getta la sua luce sulle vie che conducono al futuro utopico: sarebbe difficile immaginare una formula più pregnante per definire quella Weltanschauung romantica e rivoluzionaria che Lukács sembra di nuovo far sua nel 1943. Nella prefazione nel febbraio del 1946 ai suoi saggi sugli scrittori realisti russi, Dostoevskij viene accolto come autore progressivo, capovolgendo così il giudizio espresso negli anni ’30. Nel riconoscere gli elementi reazionari e mistici delle intenzioni soggettive (Subjektiven Meinungen) di Tolstoj e Dostoevskij, Lukács insiste ad assegnare la priorità al significato sociale e storico obiettivo di questi autori. «Il fattore determinante è il legame umano ed artistico dello scrittore con un movimento popolare vasto e progressivo … le radici di Tolstoj si trovano tra la gente di campagna, quelle di Dostoevskij tra gli strati sofferenti della plebe delle città, quelle di Gor’kij tra il proletariato e i contadini poveri. Ma tutti e tre nel più profondo della loro anima sono radicati in questo movimento, che cerca e combatte per la liberazione del popolo. Altro che “i Cento Neri …”!»

Ma durante i primi anni del secondo dopoguerra, il precedente atteggiamento antiromantico di Lukács ebbe di nuovo il sopravvento, come si desume da un confronto tra le sue diverse interpretazioni del personaggio di Naphta nella Montagna incantata. Nel 1942, pur etichettando l’ideologia di Naphta come «demagogia reazionaria» Lukács ammette tuttavia che Thomas Mann se ne era servito per mettere in evidenza «il carattere seducente (spirituale e morale) dell’anticapitalismo romantico» e «la correttezza di alcuni elementi della sua critica dell’attuale vita quotidiana». Ciò nonostante, pochi anni più tardi «il gesuita Naphta» è definito semplicemente come «il portavoce della Welthanschauungen reazionaria, fascista e antidemocratica». La sua analisi assomiglia molto ad una versione raffinata di quello scontro mitico tra «l’angelo di luce del progresso borghese e il nero diavolo del feudalesimo», a cui aveva accennato ironicamente nel 1941. Il tema centrale della Montagna incantata è «lo scontro ideologico tra la vita e la morte, la salute e la malattia, la reazione e la democrazia», il duello intellettuale tra «l’umanista democratico italiano Settembrini e l’allievo ebreo dei gesuiti Naphta, portavoce di un’ideologia cattolicizzante e prefascista». Sembra evidente che una semplificazione così unilaterale e grossolana non afferra l’ambivalenza affascinante del personaggio di Naphta, e riduce il suo anticapitalismo romantico, la sua complessa e paradossale ideologia religiosa-rivoluzionaria, alla sola dimensione conservatrice e oscurantista.

La distruzione della ragione.

Molti scritti di Lukács risentono di questo giudizio arido e limitato della cultura romantica. Il caso più noto è quello della Distruzione della Ragione (1955), in cui l’intera storia del pensiero tedesco, da Schelling a Tönnies, da Dilthey a Simmel e da Nietzsche a Weber viene dipinta come un assalto in grande stile della reazione contro la ragione e tutte le correnti del romanticismo, «dalla scuola storica del diritto a Carlyle», vengono accusate di aver favorito «una totale irrazionalizzazione della storia» e quindi, in ultima analisi, il trionfo dell’ideologia fascista.

I critici giudicano generalmente questo libro un pamphlet stalinista. Ciò non è del tutto esatto, dato che il suo leitmotiv non è, come per Zdanov e i suoi seguaci, la contrapposizione tra scienza (o filosofia) «proletaria» e scienza «borghese», ma piuttosto quella tra Ragione e Irrazionalità. Il suo limite più grave è di ignorare quella che la Scuola di Francoforte definisce «la dialettica dell’illuminismo», la trasformazione della ragione in uno strumento al servizio del mito, dell’oppressione e dell’alienazione. Paradossalmente, in quest’opera il concetto di anticapitalismo romantico è quasi del tutto assente. I romantici e i loro seguaci vi vengono trattati semplicemente da reazionari e da irrazionalisti. Uno dei pochi autori esplicitamente citati nel libro come anticapitalisti romantici è Ferdinand Tönnies, che è presentato in una luce piuttosto favorevole: «Scopriamo in Tönnies, rispetto all’anticapitalismo romantico precedente, una differenza: non vi è in lui la nostalgia di un ritorno a situazioni sociali sorpassate, in particolare al feudalesimo. La sua posizione costituisce piuttosto la base di una critica culturale che sottolinea nettamente i tratti negativi e problematici della cultura capitalistica, insistendo al tempo stesso sul carattere inevitabile e fatale del capitalismo». Tuttavia, l’opposizione tra Gesellschaft e Gemeinschaft, il tema centrale dei lavori sociologici di Tönnies, non rappresenta per Lukács altro che una deformazione «anticapitalista-romantica, soggettiva e irrazionalista» della realtà dello sviluppo capitalista già osservato da Marx11.

Lungo tutta l’evoluzione spirituale di Lukács, il rapporto con Dostoevskij appare sintomatico del suo atteggiamento generale verso l’anticapitalismo romantico. Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, la tendenza predominante fu l’anatema, di cui si può cogliere ancora un’eco nel Significato del realismo contemporaneo (1957), probabilmente uno dei peggiori saggi che Lukács abbia mai prodotto. In un primo momento egli sembra voler riconoscere lo sforzo critico dello scrittore russo. «Ciò che fa soffrire l’eroe di Dostoevskij è la disumanità tipica degli esordi del capitalismo, che marchia di sé tutti i rapporti umani». Ma il punto essenziale è un altro. «La protesta di Dostoevskij contro la disumanità del capitalismo si trasforma rapidamente in una critica del socialismo e della democrazia, fondata su una sofistica confusionista e su un anticapitalismo di tipo romantico». Il processo iniziato da Dostoevskij sarebbe stato sistematizzato da Nietzsche e avrebbe infine condotto al fascismo. Questo rifiuto del progresso e della democrazia si sviluppò progressivamente fino a sfociare nella demagogia sociale dell’hitlerismo». Un simile ragionamento astratto, che stabilisce una sorta di continuità ideologica irreversibile e ineluttabile da Dostoevskij a Hitler, è quanto meno assurdo e contrasta con l’influenza determinante esercitata dallo scrittore russo su tanti intellettuali rivoluzionari – a cominciare dallo stesso Lukács.

Gli ultimi anni

Gli anni che seguirono segnarono una sorta di pausa. Nelle sue grandi opere degli anni’60 – l’Estetica e l’Ontologia – il problema dell’anticapitalismo romantico è per lo più dimenticato e i riferimenti alla cultura romantica sono relativamente neutrali. Negli ultimi anni della sua vita, Lukács tornò infine ad avvicinarsi in modo più equilibrato ed aperto all’anticapitalismo romantico, quasi sempre in occasione delle riedizioni di suoi scritti giovanili. Ad esempio, nella prefazione alla ristampa del 1967 di Storia e coscienza di classe, riconobbe di dovere «qualcosa di positivo» a quell’«idealismo etico, con tutti i suoi tratti anticapitalisti romantici» e che questi elementi «con molteplici e profonde modificazioni» si erano integrati nella sua nuova visione del mondo (marxista)12. In un’intervista concessa nel 1966 a Wolfgang Abendroth, dichiarava: «Oggi non rimpiango di aver appreso le prime nozioni di scienza sociale da Simmel e Max Weber, piuttosto che da Kautsky. Ritengo che non si possa negare l’utilità di questa circostanza ai fini della mia evoluzione»13.

Ancora una volta, l’atteggiamento di Lukács verso Dostoevskij è l’indice del suo atteggiamento generale nei riguardi dell’anticapitalismo romantico. Nella prefazione del 1969 alla raccolta ungherese dei suoi saggi (Útam Marxhoz o La mia strada verso Marx), Lukács riferisce come la sua iniziale «ribellione anticapitalista romantica, rivolta contro le basi stesse del sistema costituito», fosse ampiamente ispirata da «un’interpretazione rivoluzionaria di Dostoevskij». Ancora più esplicitamente, nella prefazione del 1969 alla raccolta Letteratura ungherese, Cultura ungherese, egli rammenta che prima del 1917: «… ponevo i grandi autori russi, primi fra tutti Dostoevskij e Tolstoj, tra i fattori rivoluzionari decisivi … Fu in questo momento della mia evoluzione che l’anarco-sindacalismo francese mi influenzò in modo considerevole. Non sono mai riuscito a far mia l’ideologia social-democratica di questo periodo, e in particolar modo quella di Kautsky».

Da queste note autobiografiche risulta chiaramente l’ispirazione che Lukács trasse dalle varie forme di anticapitalismo romantico – dalla sociologia tedesca alla letteratura russa – durante i suoi anni di Bildung spirituale e politica. Furono esse ad ispirargli la lotta contro l’ideologia dominante liberal-razionalista (o positivista-utilitarista), inclusa la sua versione socialdemocratica, e lo condussero a sostenere i movimenti che si opponevano all’ordine borghese, dapprima gli anarco-sindacalisti e poi il bolscevismo. Ciò nonostante, dai tardi anni ’20, fino alla fine degli anni ’60, escluso un breve periodo nel corso della seconda guerra mondiale, Lukács soffrì di una strana cecità ideologica e sembrò percepire solo l’aspetto reazionario, irrazionalista, prefascista dell’anticapitalismo romantico.

Come possono essere spiegati questi stupefacenti cambiamenti? Corrispondevano a un movimento interno all’evoluzione filosofica di Lukács? Erano il riflesso di determinate circostanze storiche: l’ascesa del fascismo, l’uso di riferimenti romantici nei discorsi nazisti? O riflettevano le tante svolte a cui andò incontro la linea politica del Comintern e dell’Unione Sovietica? Non sono in grado di rispondere a queste domande. In ogni caso, questo percorso tormentato e contraddittorio dimostra che Lukács oscillava, come Hans Castorp, l’eroe del suo romanzo preferito, tra due poli: un «Settembrini marxista» e un «Naphta rivoluzionario». Egli non riuscì mai a superare le antinomie tra le sue stesse Weltanschauungen in una sintesi dialettica, l’Aufhebung della contraddizione tra romanticismo e illuminismo.

Bibliografia

T. Perlini, Utopia e prospettiva in Lukács, Bari, De Donato 1968.
G. Bedeschi, Introduzione a Lukács, Bari, Laterza, 1970.
N.M. De Feo, Weber e Lukács, Bari, Laterza, 1971.
G. Vacca, Lukács o Korsch?, Bari, Laterza, 1969.
R. Caccamo-De Luca, L’intellettuale come “utopia”: il caso Lukács -Mannheim, Roma, Elia, 1977
Y. Bordet, Lukács, il gesuita della rivoluzione, Milano, Sugar, 1979.
E. Matassi, Il giovane Lukács, Napoli, Guida, 1979.
F. Fehér-À.Heller-G.Markus-A.Radnóti, La scuola di Budapest: sul giovane Lukács, Firenze, La Nuova Italia, 1978.
R. Valle, Dostoevskij politico e i suoi interpreti, Roma, Archivio Guido Izzi, 1990.

Note

1 T. Mann, Journal 1918-1921, 1933-34 (Paris, Gallimard, 1985), 88, 89, 106, 108, 121: «nel libro di Landauer ci sono molte cose che mi sono piaciute … Sto studiando la possibilità di introdurre degli elementi russo-chiliastico-comunisti nella Montagna incantata».

2 G. Lukács, Teoria del romanzo (Sugar, Milano, 1962) pp. 55, 61, 217.1 presupposti religioso-rivoluzionari di questo libro si trovano nella contemporanea Dostoevskij-Notizen (scoperta e trascritta da F. Fehér), in cui la letteratura russa, il messianesimo ebraico, il misticismo, Kierkegaard, Nietzsche e Sorel sono fusi in una filosofia deila storia romantica e apocalittica. L’alternativa al moderno stato europeo, che non è altro che «die organisierte Tuberkolose», è una forma utopica della Gemeinde russa.

3 G. Lukács, Geschichte und Klassenbewusstein (Storia e coscienza di classe, Milano, Sugar, 1967, p. 119). Vedi anche L. Colletti, Il Marxismo e Hegel (Bari, Laterza, 1973).

4 Il primo scritto in cui questa nuova posizione fa la sua comparsa è una recensione del 1928 del libro di Carl Schmitt sul romanticismo politico. Lukács appoggia senza alcuna riserva la tesi di Schmitt – a mio avviso molto superficiale – riguardo all’«occasionalismo e alla mancanza di contenuto politico del pensiero romantico». Seguendo Schmitt, Lukács insiste sull’«incoerenza» dei romantici, sul loro soggettivismo antiscientifico, sul loro esasperato estetismo, ecc.

5 Lukács paragona il percorso di Dostoevskij, dalla cospirazione rivoluzionaria alla religione ortodossa e allo zarismo, all’evoluzione di Friedrich Schlegel, il repubblicano romantico che si unì infine a Metternich e alla Chiesa cattolica.

6 Cfr. Ernst Bloch, «Intervista con Ernst Bloch»: «Mio caro amico, gli ho detto, mio mentore per quanto concerne Dostoevskij e Kierkegaard … Che ti è accaduto per scrivere una cosa simile su Dostoevskij?»

7 In Friedrich Nietzsche, di F. Mehring e G. Lukács (Berlino, Aufbau Verlag, 1957).

8 G. Lukács «Grosse und Verfall des Expressionismus», Essays über Realismus (Saggi sul realismo, Torino, Einaudi, 1970).

9 Il riferimento è al saggio di Marcuse («Der Kampfgegen den Liberalismus in der totalitären Staatsauffassung»). La recensione di Lukács rimase inedita a lungo. Ne esiste una traduzione italiana in G. Lukács, Intellettuali e irrazionalismo, a cura di V. Franco (Pisa, Ets, 1984).

10 G. Lukács, Ecrits de Moscou (Parigi, Editions Sociales, 1974).

11 G. Lukács, Die Zerstörung der Vernunft (La Distruzione della ragione, Torino, Einaudi 1959, p. 129, 600-7).

12 G. Lukács, «Prefazione alla nuova edizione (1967)», in Storia e coscienza di classe, cit., р. IX.

13 Conversazioni con Lukács, di W. Abendroth, Hans Heinz Holz, Leo Kofler (Bari, De Donato, 1968, p. 122).

Tra possibilità e costrizione. L’Aesthetik di Lukács

07 mercoledì Gen 2015

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

≈ Lascia un commento

Tag

allegoria, avanguardia, Bloch, Croce, dialettica, dinamismo nell’arte, esistenzialismo, Estetica, Ettore, Goldmann, Hölderlin, Hegel, Holz, Ingarden, irrazionalismo, Királyfalvi, la relazione tra teoria e pratica, Lichtheim, modernismo, Nietzsche, Parkinson, particolare, pedagogismo, rappresentazione, realismo, reificazione, revisione, ricezione, riflessione, ripudio, Schopenauer, semiotica, sistemi di segni, Socrate, soggetto, soggetto-oggetto, Storia e coscienza di classe, Tempo, totalità estensiva, totalità intensiva, unità epistemica, Weber, Zitta


di Edward W. Said

«Times Literary Supplement», 6 febbraio 1976.

da Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, Feltrinelli, Milano 2008.

The Aesthetics of György Lukács di Béla Királyfalvi è un lodevole tentativo di fare i conti con l’ultimo importante sforzo teorico del filosofo ungherese, la sistematica filosofia dell’arte elaborata nei due volumi di Die Eigenart des Aesthetischen, pubblicati nel 1963. Nonostante il respiro quasi goethiano (perché, alla fine della vita, Lukács inizia a pensare in termini di benessere, normalità e sviluppo virtuoso – ed è questa una delle ragioni per cui oggi appare tanto inattuale), l’Aesthetik lukácsiana è rimasta piuttosto in ombra in Occidente. Királyfalvi si concentra in particolare sulla versione ungherese dei lavori di ispirazione marxista di Lukács (senza però spiegarci quanto e se differiscano dalla loro versione tedesca, motivo per cui la scelta risulta alla fine arbitraria e ingiustificata) e ci restituisce un’interpretazione attenta e circostanziata, coprendo esaurientemente tutti i principali nodi teorici dell’Aesthetik.
E tuttavia, perlomeno due elementi centrali finiscono per smarrirsi. Il primo consiste nel fatto che Lukács procede tanto per un’esemplificazione e un’analisi concrete quanto per generalizzazioni filosofiche, laddove il quadro delineato da Királyfalvi è quasi del tutto epurato delle suggestive incursioni su lavori specifici tipiche della scrittura di Lukács. Un’ulteriore lacuna è determinata poi dalla decisione discutibile ma non del tutto infondata di limitare l’analisi del lavoro di Lukács esclusivamente alla produzione marxista. Perché Lukács non è interessante solo come marxista, ma anche per il tipo di marxismo che rielabora, che si rivela tanto eccentrico quanto, se solo si pensa alla sua fase premarxista, eclettico e inclusivo. Rispetto a questa dimensione del lavoro di Lukács, Királyfalvi si rivela piuttosto insensibile.
Tuttavia, anche solo per il fatto di essere la prima monografia in lingua inglese dedicata a una filosofia estetica contemporanea di stampo esplicitamente marxista, il libro di Királyfalvi esaurisce una prima importante fase del lavoro analitico sul filosofo ungherese. Adesso, infatti, abbiamo bisogno di saperne di più su tutto ciò che nella cultura filosofica e letteraria tedesca di fine Ottocento prelude al lavoro di Lukács, come pure sul rapporto, cui accenna Királyfalvi, che lo lega a determinati artisti ungheresi, e soprattutto dobbiamo studiare temi, motivi e immagini che ricorrono come un leitmotiv lungo i quasi sei decenni in cui si è sviluppato il suo lavoro. Perché anche i fraintendimenti e le cattive interpretazioni che costellano il lavoro di Lukács sono interessanti e fanno integralmente parte, non solo del marxismo, ma più in generale della cultura occidentale. E nondimeno, come presenza centrale in questo contesto, Lukács offre ai suoi lettori una massa di scrittura a dir poco problematica.
Si tratta di un corpus teorico sul quale ci si è accaniti fino all’inverosimile per quanto concerne malafede politica, viltà morale, compromissioni con lo stalinismo, autoaccuse e così via. Gli strali che George Lichtheim rivolge a Lukács, per esempio, non hanno comunque impedito che a sprazzi potesse svilupparsi un’analisi più argomentata sulla sostanza dell’intera opera filosofica e critica lukácsiana; ma anche in questo caso l’impressione è che a contare maggiormente non sia il lavoro di Lukács quanto il fatto di disapprovare o meno, più che l’impegno e le idee politiche, lo stile morale e politico dell’uomo. La sensazione che se ne ricava è che Lukács sopravviva riprovevolmente a ogni difficoltà, ed è sintomo più che altro del fatto che un comunista venga giudicato su standard morali che non si applicano mai per l’universo capitalista. Nessuno però ha spinto la disapprovazione nei confronti di Lukács su livelli di terrorismo intellettuale paragonabili a quelli raggiunti dalla lettura rancorosa di G. Zitta, il cui Georg Lukács Marxism, del 1964, individua nell’ortodossa dialettica marxista di Lukács la causa di ogni male possibile. Più di recente, in particolare grazie all’eccellente raccolta di saggi di G.H.R. Parkinson, Georg Lukács: The Man, His Work, and His Ideas del 1970, una lettura intellettualmente seria del lavoro del filosofo ungherese ha iniziato a emergere, impedendo che il comportamento politico sui generis di Lukács, e in particolare il sostegno allo stalinismo che diviene poi capacità di sopravvivergli, finisse per oscurare del tutto l’entità del suo lavoro intellettuale. Molti, se non addirittura tutti i principali lavori di Lukács sono stati tradotti in inglese, permettendo al lettore angloamericano di saperne di più sulla portata e il valore del suo pensiero che non sui giudizi di parte da lui espressi su Balzac e il realismo. Eppure, dalla sua scomparsa, nel 1971, la reputazione e l’influenza di Lukács hanno tristemente, e in un certo senso ironicamente, perduto ogni tipo di presa e di appeal sul discorso critico. Ma come è possibile che un intellettuale militante, precursore e inventore di concetti centrali come quelli di prototipo e avanguardia, non abbia quasi lasciato traccia di sé all’interno di un ambiente culturale, quello del pensiero critico, le cui parole d’ordine restano ancorate a un avanguardismo profetico e a uno stile intellettuale di radicale opposizione? Quel che resta del pensiero di Lukács appare decisamente démodé: in circoli intellettuali in cui si discute solo di formalismo, strutturalismo e decostruzione, il suo approccio pesantemente pedagogico, l’ostinazione apparentemente cieca che gli fa preferire addirittura Heinrich Mann a Kafka, le ripetizioni, le frequenti inesattezze e una pedanteria di stampo ottocentesco restituiscono l’impressione di un pensiero decisamente fuori luogo. Solo George Steiner sembra aver compreso e tematizzato la dimensione drammatica del lavoro di Lukács, senza però poter presagire in tutta la sua profondità il senso della confessione che Lukács stesso avrebbe rilasciato nel 1967 a Hans Heinz Holz a proposito di Ettore, “l’uomo che viene sconfitto, e sta nel giusto ed è il vero eroe”, risultando pertanto figura “decisiva per tutto lo sviluppo ultimo del mio lavoro”.

In ambito letterario Lukács guarda quasi esclusivamente all’Ottocento. La sua è davvero la cultura di Ettore, e in quanto tale si oppone a quella appassionante, intensa e vittoriosamente fugace di Achille. Nietzsche e Schopenhauer gli appaiono riprovevoli irrazionalisti, esempi di una modernità tristemente reazionaria. Immergersi nelle migliaia di pagine che Lukács ci ha lasciato permette di rendersi conto di come per lui, a contare davvero, non fossero gli scrittori eccentrici ma i grandi scrittori: Shakespeare, Goethe, Marx, Hegel, Balzac, Tolstoj e la cultura che li ha prodotti. L’impressione è che fosse incapace di appassionarsi ad autori come Rousseau o Artaud, il cui principale intento era di fare a pezzi i valori letterari, perché la sua era una cultura segnata da leggi complesse ma assertive, certificabili e uniformemente trasmissibili. Dopo la prima guerra mondiale è praticamente impossibile imbattersi in un testo di Lukács in cui si parli del significato della lettura o dell’esperienza di un dato autore, e tantomeno in considerazioni su ciò che impressiona o disorienta in un determinato romanzo. Eppure il suo percorso critico e filosofico esplora pressoché la totalità del campo semantico su cui si misura oggi il discorso critico: rappresentazione, riflessione, reificazione, ricezione, unità epistemica, dinamismo nell’arte, sistemi di segni, la relazione tra teoria e pratica, i problemi del “soggetto” o, come suggerisce sin dal titolo uno dei suoi primi articoli, rimasto poi intradotto, “La relazione soggetto-oggetto in estetica”. Come per Kenneth Burke, anche la critica lukácsiana copre questi nodi centrali senza però dar mai l’impressione di poter servire ad altri critici: entrambi ci restituiscono un lavoro tanto indefesso quanto eccessivamente esplicito, in un certo senso troppo definito per consentire di ricavarne idee e suggestioni da tradurre nella vulgata corrente. E questo tipo di lavori finisce per rappresentare valori ritenuti immodificabili e pietrificati: nel caso di Burke quelli ispirati a un eccentrico, genuino e favoloso eclettismo, per Lukács invece un testardo e indomito marxismo.
Perché è innegabile, Lukács è stato un “mastino” del marxismo. Dopo la sua “conversione”, nei primi anni venti, nessuna questione politica, culturale o letteraria gli apparve tanto sottile o recondita da impedirgli di ricavarne una lezione marxista. E questo a volte può restituire l’impressione di un impoverimento, una banalizzazione; di norma però avviene il contrario. Il saggio su Hölderlin contenuto in Goethe und seine Zeit, per esempio, sorprende per la portata della sua empatia umana e la sua comprensione politica. Riscattando Hölderlin da George, Gundolf, Dilthey e il nazionalsocialismo, Lukács ricollega il “tardo giacobinismo” del poeta alla tradizione di Hegel e della Rivoluzione francese. E così, anziché precursore di un misticismo irrazionale, Hölderlin viene individuato come quell’unico poeta privo di successori che Lukács riteneva fosse. Qui, come in molte altre circostanze, il criterio di gusto di Lukács sembra ostaggio di ciò che molti commentatori ingenerosi definirebbero senza dubbio come parzialità, nella misura in cui il marxismo verrebbe abilmente manipolato per permettere di rintracciare affinità di temperamento con questo o quell’autore. Può darsi. Ma perché si pensa sempre che il marxismo sia così rigidamente ottuso, o che funzioni solo (e per Lukács semmai è vero il contrario) come un crudo imprimatur su determinati aspetti della cultura?
Oggi sembra più corretto e logico affermare che il marxismo per Lukács non ha mai rappresentato una semplice silloge di verità prestabilite, né un metodo di analisi, ma una sorta di necessità, in primo luogo per correggere e quindi per trasformare e guidare il proprio rapporto col mondo. Di certo nulla può risultare più sorprendente e volubile dell’ardore (Sehnsucht) e dell’indefinita ironia che pervadono i lavori precedenti la sua conversione al marxismo. In questo atteggiamento di fondo, la presenza di Kant e Kierkegaard, che influenza le analisi potenti ma in fin dei conti retrospettive sulla lirica, il dramma, il saggio e il romanzo, viene comunque temperata dalla padronanza del Socrate platonico, un investigatore idealista e appassionato le cui tendenze romantiche sono tenute sotto controllo dalle discontinuità della vita e dal particolare stile di scrittura (il saggio), come del resto dal carattere farsesco e perlopiù ironico dei suoi esempi. Eppure, l’idea di Socrate come antidoto all’emozione incontrollata viene implicitamente rafforzata in Lukács dalla scoperta di un tempo futuro e potenziale, anche quando dà l’impressione di impantanarsi nei dilemmi morali senza sbocco del primo Novecento.
Verso la fine del primo saggio di Die Seele und die Formen, Lukács parla per la prima volta di un grande evento estetico destinato a rendere la scrittura saggistica e il suo autore del tutto impotenti per quanto riguarda chiarezza, autonomia e capacità di visione. E tuttavia, il saggio, come forma di scrittura, “sembra giustificare la propria esistenza in quanto strumento necessario al fine ultimo, come penultimo passaggio di questa gerarchia”. Troviamo qui le tre dimensioni del tempo di cui Lukács, ancor più di Georges Poulet e ben prima di Heidegger, è stato il filosofo e poeta, colui che ha saputo coglierne tecnicamente il pathos intrinseco: un impossibile desiderio di unità nel passato, un’insanabile frattura tra ideale e realtà nel presente, e un futuro destinato a imporsi e distruggere tutto. Perdita, alienazione e annullamento. Dopo il 1918 per Lukács il marxismo in realtà non rappresenta tanto la capacità di trasformare questa tripartizione temporale, quanto piuttosto la possibilità di ricavare una disciplina (la dialettica) e un luogo (il saggio) in base e attraverso i quali poter osservare, guidare e chiarire queste tre dimensioni del tempo storico: di oggettivarle anziché esserne soggetto, ma solo nella scrittura. Che parli del proletariato o del romanzo, Lukács in realtà sta sempre confrontandosi con la coincidenza di un momento particolare di queste tre fasi con la forma altrettanto particolare, statica o dinamica, della sua comprensione nella coscienza. Lessing e Marx gli insegnano a disincagliare queste coincidenze dall’apparente disordine degli eventi.
Si considerino per esempio le principali questioni, gli stili e le espressioni con cui si misura Lukács. Molti di questi hanno a che fare meno con la storia in quanto tale che non con ciò che rispetto alla storia risulta marginale o eccentrico, o con attribuzioni di senso e di possibilità nella storia. Da qui le idee di reificazione, coscienza di classe del proletariato, alienazione e totalità. Nel suo lavoro di metà anni venti, Lukács è stato attratto anche dalla separazione tra mondo vegetale (o naturale) e vita umana. Il marxismo quindi non ha che drammatizzato e specificato i riflessi del tempo e della storia nella coscienza umana. La scrittura marxista di Lukács intercetta la qualità, sempre insufficiente da un punto di vista esistenziale, del tempo storico – il suo carattere intermedio e sospeso, la sua corrosiva ironia, i suoi aspetti profetici e anticipatori – per fissarla in categorie identificabili. E nondimeno, quando Lukács affronta la realtà, e soprattutto momenti agognati della realtà come l’unità tra soggetto e oggetto, l’impressione è che le sia a un passo, che davvero la sfiori, riflettendo sui suoi riflessi. E sembra volerci dire che il marxismo tutt’al più è stato in grado di guidare uno scambio tra l’intelletto individuale o collettivo e la realtà bruta: non ha abbattuto barriere e confini, semmai li ha dissolti formalizzandoli incessantemente, proprio come la coscienza proletaria che (paradossalmente) esiste davvero solo quando una dimensione atomizzata e del tutto disumanizzata ha dissolto e spazzato via ogni forma di solidarietà umana. Solo una dialettica marxista di stampo pesantemente hegeliano poteva interrompere una simile rarefazione e negazione; solo un linguaggio in grado di significare ed essere quella dimensione per cui il tempo diviene una forma di assenza poteva in qualche modo tradurre quest’impasse. “La storia non è che la storia dell’incessante rovesciamento delle forme oggettive che modellano la vita dell’uomo.”
La combinazione di dogmatismo ed evasione, costante nel pensiero di Lukács, è in parte esito di tutto ciò. Il suo impegno politico non ha mai avuto lo stesso significato di quello, per esempio, che caratterizza Gramsci fino al 1930 – e Gramsci era l’unico altro grande teorico marxista non russo ad avere la statura intellettuale e il potere di Lukács. Ma se Gramsci, nonostante il successivo isolamento e i dissidi con il Comintern, aveva alle spalle una cultura italiana, il Partito comunista italiano e “L’Ordine Nuovo”, Lukács era invece, in modo quasi intermittente, continuamente dentro e fuori dall’Ungheria e dall’ungherese, dal tedesco e dalla Germania, dall’Unione sovietica e da numerose riviste, istituti e università dell’Europa orientale e occidentale. Entrambi, dunque, sono stati senza dubbio membri di una cultura antagonista, ma, a differenza di Gramsci, non è mai stato facile identificare Lukács con una situazione oggettiva e data o un movimento specifico all’interno di quella cultura, né prevedere, parlando figuratamente, la sua mossa successiva.
Il modo di procedere tipico di Lukács lo si potrebbe definire parahegeliano, dal momento che, più che tra antitesi e sintesi, si muove allontanandosi dall’immediato verso una “totalità” proiettata nel futuro. Si consideri per esempio questo passaggio di Storia e coscienza di classe:

Se si tenta di attribuire alla coscienza di classe una forma immediata di esistenza, si cade inevitabilmente nella mitologia: e come demiurgo del movimento si presenta allora un’enigmatica coscienza generica (tanto enigmatica quanto lo è lo “spirito del popolo” di Hegel), che si riferisce alla coscienza del singolo e agisce su di essa in un modo del tutto incomprensibile, che viene reso ancora più incomprensibile dal ricorso a una psicologia meccanico-naturalistica. D’altro lato, la coscienza di classe che nasce e si sviluppa con la coscienza della situazione e degli interessi comuni, presa in astratto, non è nulla di specifico per il proletariato. La peculiarità della sua situazione poggia sul fatto che l’oltrepassamento dell’immediatezza ha un’intenzione diretta alla totalità della società – ed è indifferente che questa intenzione sia già psicologicamente cosciente oppure resti in un primo tempo inconscia.

La logica qui è hegeliana, per la dinamica storica cui inerisce, ma è più radicale e politica di quella di Hegel sia nella sostanza che nel modo in cui aspira al futuro, e ben più radicale e sorprendente di ogni altra (fatta eccezione per l’odiato Nietzsche) per la sua fede nella totalità. Tutto ciò, afferma Lukács, sarebbe avvenuto grazie al “processo dialettico per cui ogni realtà immediata viene costantemente annullata o trascesa”.
All’assoluto intellettualismo di questo stile di scrittura (basti pensare alla cura con cui Lukács evita ogni tipo di potere o l’assunzione di potere) corrisponde una certa quale inafferrabilità. Con ciò intendo semplicemente dire che il nucleo duro dell’idea di coscienza di classe non può essere né provato né negato: non indica tanto una legge, quanto piuttosto un’aspirazione ontologica verso l’annullamento e la trascendenza come movimenti della vita. Non allude a chiari segni di miglioramento per le sorti di un derelitto proletariato, e possiede inoltre scarsa forza affettiva. Piuttosto, come l’Aschenbach di Mann, Lukács sembra pensare alla tensione (un pugno chiuso) alleviata da un altro movimento (un pugno aperto), se non fosse che l’annullamento e la trascendenza sono per lui termini dialettici in grado di esprimere quella tensione totale e quella aspirazione totale che fanno parte del suo universo. Qui, ancora una volta, interviene il marxismo, e tiene sotto controllo Lukács impedendo che questi totali opposti si disperdano e degenerino. La coscienza di classe, qualcosa che non si possiede mai definitivamente ma si cerca sempre di raggiungere, è quella disciplina sociale discreta di cui la storia non è che l’illustrazione cosmica.
Invecchiando, Lukács ha aggiunto un ulteriore impulso regolativo al suo lavoro: la tecnica della revisione e del ripudio, associata all’abitudine di ripubblicare quanto stava ripudiando. Tutto ciò rientra senza dubbio in quella costante attività di revisione critica del proprio lavoro che è lecito aspettarsi da un autore straordinariamente riflessivo come lui. A quanto ne so non esistono studi sistematici sulle ricusazioni e i ripudi di Lukács. Io stesso non sono mai riuscito a capire la prefazione del 1967 a Storia e coscienza di classe, né la recensione del 1926 a Moses Hess, in cui, attraverso Hess, Lukács attacca la sua stessa “dialettica idealista”. C’è da chiedersi se queste (auto)critiche ricorrano in momenti specifici della sua carriera. Oppure se davvero cancellino, migliorino o estendano le tesi contro cui si rivolgono, come quella sulla natura come categoria sociale. Sono forse dei tentativi attraverso cui Lukács intende apparire ancora più ortodosso? O sono invece requisiti immaginativi della dialettica stessa? E, ancora, non dimostrano forse come l’autocritica sia un’altra forma di insistenza, un ulteriore testo che si aggiunge alla serie infinita di commenti su commenti e riflessioni su riflessioni attraverso cui Lukács si tiene in vita?
Sono tutte domande che assumono una certa rilevanza quando ci si confronta con l’estetica lukácsiana. Dall’inizio alla fine, l’arte per Lukács è una forma di riflessione: dell’uomo, della società, di se stessa. A seconda del momento specifico della carriera che si prende in considerazione, si troverà Lukács sostenere con forza uno di questi tre elementi come oggetto privilegiato della riflessione dell’arte. E in ognuna di queste fasi si può rintracciare una squisita simmetria dialettica. All’inizio della carriera, l’interesse di Lukács si rivolge al carattere in un certo senso (auto)riflessivo dei generi letterari. In questa prospettiva, il romanzo poteva venire inteso in termini così generalizzati da dar l’impressione di essere essenzialmente un esercizio di riflessione su di sé e rivolto a se stesso. Alla fine della carriera Lukács ritorna sull’an sich (l’in sé e per sé) in estetica, ma, come specifica nella prefazione all’Aesthetik del 1963, con un metodo e un atteggiamento radicalmente opposti rispetto a quelli assunti in precedenza.
Ora infatti la principale categoria di arte, la sua identità propria e intrinseca (Eigenart), ogniqualvolta è chiamata in causa un’estetica rigorosa, risiede nella specificità, nella particolarità, nella concretezza (Besonderheit). Ma questo carattere non assume significati magici, religiosi o trascendentalmente inattingibili. Al contrario è qualcosa che inerisce oggettivamente e soggettivamente tanto all’uomo nella sua totalità quanto alla storia. Tra queste due polarità diametralmente opposte, del primo e dell’ultimo Lukács, si sviluppano le linee di fondo di un’ambiziosa pratica della critica marxista.
I principali esiti di questa critica sono abbastanza noti: includono i lavori sul realismo, il modernismo, l’irrazionalismo, l’esistenzialismo, il romanzo storico, come del resto ovviamente le frequenti analisi della tendenziosità nell’arte. E tuttavia l’aspetto più significativo dell’estetica dell’ultimo Lukács consiste nel modo specifico in cui vengono ricapitolate e risolte le tesi principali a cui Lukács era approdato negli anni trenta, quaranta e cinquanta. Il vecchio disprezzo nei confronti di un volgare principio di causalità e di un mimetismo grezzo e senza mediazioni permane. E l’insofferenza verso l’irrazionalità, l’alienazione e l’idealismo (in ogni sua manifestazione) propri del modernismo, addirittura si rafforza. L’allegoria viene attaccata con violenza, come del resto il consumismo. I concetti di totalità estensiva e intensiva vengono affinati e approfonditi. Ma l’idea di totalità diviene ora la categoria attraverso cui l’arte ha il sopravvento sulla mediazione infinita, e pone Lukács in contatto diretto sia con la realtà corporea, senza che questo provochi alcun imbarazzo o tentennamento teorico, sia con l’idea di una “liberazione dalla società di classe”. Si tratta in ogni caso di una ripresa sorprendente dei temi trattati nei primi lavori. Le novità consistono in un’estesa trattazione del linguaggio (con l’interessante introduzione del Signalsystem I, sintomo di quanto Lukács fosse al corrente delle evoluzioni della semiotica) e una risoluta consapevolezza di ciò che Ágnes Heller ha definito “il falso dilemma delle ricettività”. Sull’altro piatto della bilancia, le parti dedicate alla musica, al cinema e all’arte ornamentale appaiono di valore discutibile. E tuttavia lo spirito dell’intero lavoro, il modo in cui riattualizza e ridefinisce in termini antropocentrici e antropomorfi una critica aristotelica, è a dir poco incoraggiante e porta impressa l’impronta evidente di Ernst Bloch, la cui influenza, insieme del resto a quella di Max Weber, viene direttamente riconosciuta.
Per portata ed esiti l’Aesthetik lukácsiana quasi non ha rivali in questo secolo. Vengono in mente Croce e, per quanto riguarda la letteratura, Das literarische Kunstwerk di Ingarden. In ambito marxista non ci sono opere di analogo spessore, per quanto, se si considerano le possibili applicazioni della teoria marxiana, Le Dieu caché di Lucien Goldmann rappresenta sempre un vertice. E non è un caso che Goldmann sia stato studente e discepolo di Lukács. Ben pochi autori però hanno saputo mettere a fuoco come Lukács la centralità e l’onnicomprensività dell’esperienza estetica, quella capacità cioè di coinvolgere l’uomo e la società nella loro interezza, nobilitando ogni idea di lavoro. Pochi oserebbero confrontarsi con ogni aspetto della cultura come ha fatto Lukács. Credo che a dargli sicurezza non sia stata né l’erudizione né l’ortodossia marxista. Un primo fattore lo si rintraccia semmai nella consapevolezza, presente dappertutto nei due volumi della Aesthetik, di quanto il comportamento estetico, essendo di per sé un tipo (in senso weberiano) dell’attività umana, possa rappresentare la totalità dell’esperienza umana: non è necessario che l’arte sia tutto se essa può caratterizzare, essendone il tipo ideale, un aspetto simbolico della totalità. È questo, si potrebbe aggiungere, il modo in cui Lukács riesce a trasformare in immediatezza sensuosa una mediazione astratta e una dimensione marginale, in virtù del segno estetico e del potere semiologico che possiede la forma estetica. In secondo luogo, tra l’opera d’arte e le sue circostanze si crea una dialettica che è interamente controllata, e questa dialettica, dopo anni di tentativi ed esperimenti, rappresenta il più importante contributo teorico di Lukács, ciò che gli permette di muoversi con sicurezza tra costrizione e possibilità, le due forze contrapposte che definiscono il lavoro artistico e l’opera d’arte. In altre parole, Lukács è riuscito a sistematizzare il processo in base a cui la realtà penetra nell’arte ed è riflessa dall’arte. E dopo di lui il tempo appare una questione infinitamente meno problematica.

Il paradigma inattuale: Pirandello, Lukács e la tragedia

15 sabato Nov 2014

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

≈ Lascia un commento

Tag

azione, Benjamin, Bestimmung, Bloch, carattere, casualità, contraddizione, D'Annunzio, De Sanctis, destino, dio nascosto, dramma, eroe, Eschilo, esistenza, eticità, Euripide, evento, fantasia, favola, feticismo, filosofia, forma, generalizzazione estetica, Hauptmann, Hegel, Heine, Ibsen, Ideal, ideell, intreccio, ironia, Kant, libertà dei moderni, Lukacs, Manzoni, marionette, metafisica tragedia, mito, moralità, naturalismo, necessità, Nietzsche, novel, opposizione, parola, Pirandello, possibilità, reificazione, romance, Sach, Shakespeare, Socrate, Sofocl, teoria dei generi letterari, totalità, Tragedia, umorismo, uomo intero, vita, Wagner


di Gaetano Compagnino

da «Letterature e lingue nazionali e regionali. Studi in onore di Nicolò Mineo»
a cura di S. C. Sgroi e S. C. Trovato, Roma 1996, pp. 89-119.


C’è, per Pirandello, un luogo in cui la sfera dell’arte e quella della ‘vita’ si intersecano e sembra si sovrappongano fin quasi a coincidere: è il luogo in cui si produce la rappresentazione di sé e del mondo – da parte degli uomini in carne ed ossa nella vita, da parte dell’artista nella creazione dei personaggi e del mondo dell’arte sua.

Dall’Umorismo del 1908 a Trovarsi (del 1932), lo scrittore torna di frequente sulla questione e spesso con le stesse parole1. Se mai, fra le pagine di un testo e quelle dell’altro è possibile trovare delle differenze di tono, poiché ora, come nella prima edizione del saggio sull’Umorismo, egli sottolinea (più di quanto non accada nella seconda) la comune natura illusoria delle due rappresentazioni2, ora ne accentua la differenza, come in Trovarsi, precisamente in relazione alla ‘libertà’ che è propria della disinteressata creazione dell’artista e agli ostacoli cui invece non riesce a sottrarsi la interessata rappresentazione della propria ‘realtà’, che è poi il problema donde prende le mosse Il fu Mattia Pascal3: Continua a leggere →

Statistiche del Blog

  • 351.455 visite

Archivi

«Compagno Lukács, sembri piuttosto pessimista»
«No, sono ottimista per il XXI secolo»
Maggio: 2022
L M M G V S D
 1
2345678
9101112131415
16171819202122
23242526272829
3031  
« Apr    

Enter your email address to follow this blog and receive notifications of new posts by email.

Unisciti ad altri 322 follower

lukács
images
GeorgLukacs
libri
Lukacs (da Il Contemporaneo)
luk3
Annuncio compleanno l'Unità
Casa di Lukács a Budapest
Casa di Lukács a Budapest
Tomba di Lukács
Tomba di Lukács
39_01
lukacsgy03
luk7
luka
ilukacs001p1
ob_d69ddd_lukacsetami
Taerga (Casa di Lukács a Budapest)
Taerga (Casa di Lukács a Budapest)
Lukács studente universitario
Lukács studente universitario
Lukács e la moglie
Lukács e la moglie
images (2)
Lukacs (da Il Contemporaneo)
images (1)
lukacs1919
Bundesarchiv Bild 183-15304-0097, Berlin, Tagung Weltfriedensrat, Georg Lukacz, Anna Seghers
Bundesarchiv Bild 183-15304-0097, Berlin, Tagung Weltfriedensrat, Georg Lukacz, Anna Seghers
b
lukacs-in-1913
luk9
ob_a74718_lukacsbureauinterloc
ob_971c5e_lukacsgertrudetco
lukacs (1)
luk10
Lukács e Fortini
Lukács e Fortini
ob_bdf59b_lukacsseghersbudapest19520218
Lukács e Fortini
Lukács e Fortini
Lukacs
Balla Demeter (1931- ) Lukács György (1971)
81771
Berlin, Tagung Weltfriedensrat, Georg Lukacz, Anna Seghers
ob_2ae6e6_lukacspetitsfours
Lukács e Fortini
Lukács e Fortini
Lukacs Fogarasi
georglukacs (1)
luk5
luk6
Al centro, mani in tasca
Al centro, mani in tasca
Casa di Lukács a Budapest
Casa di Lukács a Budapest
600x450-ct(21)
petoefi03
600x450-ct(7)
lukacs
Lukács nel suo studio
Lukács nel suo studio
Festschrift zum achtzigsten Geburtstag von Georg Lukács by Benseler, Frank
Young Lukacs
luk4
Lukács al Congresso della pace di Helsinki 1955
Lukács al Congresso della pace di Helsinki 1955
ob_796a7c_lukacsvestiaireami
g_lukacs
hqdefault
images (3)
At the meeting of the Petöfi Cercle on June 27,1956, Arpad Szakasits, social democrat, talks to philosopher George Lukacs.
At the meeting of the Petöfi Cercle on June 27,1956, Arpad Szakasits, social democrat, talks to philosopher George Lukacs.
Lukács-comisario-alimentos-hungría--outlawsdiary02tormuoft
luk2
Lukacs e Fortini 4
lukacs lezione
lukacssketch
2014-06-17 16.38.05
Al tempo del suo amore per Irma
Al tempo del suo amore per Irma
luk8
Lukacs - Rinascita 1979
studio
Lukacs e la moglie
COLDlukas
DMico
realisti
9458
LETTTEDSCA
SCRREAL
ceico
saggico
animaform
psico
culturaerivoluzione
thomas mann2
La_distruzione
GiovaneHgel_0001
onto
MARXCRITLETT
mg2z_cNk7DQptuMqRaaU5oA
soc
luk32
iico
estetica 1
lotta
artesoc
epico
letttedù
diario
pvico
artefilopolitica
lukcop_00021
teoria
artesoc2
gmico
prolegomeni
STUDIFAUT
mannù
est
lsico
kico
daico
teoria del romanzo3
spico
marxismoepolixcm
BREVESTORIALET
teoria del romanzo2
ehico
scre
luk
luk2
faico
Romanzo
dostoevskij
letttedes2
marxismocriticaletteraria
convico
onto
scc
marxpolcult
Goethe e il suo tempo
soclett
animaforme2
LSICO
TBico
marcoeico
cpico
cop
ico
ARTSO
CONTRST
lenin
thomas mann1
CONTRSTREST
books

Blogroll

  • Archivio Lukács (MIA)
  • Georg Lukács Archiv
  • Georg Lukács Archive
  • Grupo de Estudos sobre Trabalho e Ontologia
  • Instituto Lukács
  • Internationale Georg Lukács Gesellschaft e. V.
  • Les amis de Georg Lukacs
  • Lukács György Alapítványt
  • Sergio Lessa

Categorie

  • Audio
  • Bibliografia in francese
  • Bibliografia in inglese
  • Bibliografia in italiano
  • Bibliografia in portoghese
  • Bibliografia in tedesco
  • Bibliografia su Lukács
  • Carteggi e lettere
  • I testi
  • Inediti
  • interviste
  • segnalazioni
  • Tesi di laurea
  • Testimonianze
  • Traduzioni francesi
  • Traduzioni inglesi
  • Traduzioni italiane
  • Uncategorized
  • Video

Meta

  • Registrati
  • Accedi
  • Flusso di pubblicazione
  • Feed dei commenti
  • WordPress.com

Articoli recenti

  • Politica e filosofia della storia nel pensiero di Lukács
  • Riflessioni per una estetica del cinema 
  • Rivoluzione e psicologia della vita quotidiana 
  • L’anima e l’azione. Scritti su cinema e teatro
  • Lukács. Maestro di pensiero critico

Crea un sito o un blog gratuito su WordPress.com.

Privacy e cookie: Questo sito utilizza cookie. Continuando a utilizzare questo sito web, si accetta l’utilizzo dei cookie.
Per ulteriori informazioni, anche sul controllo dei cookie, leggi qui: Informativa sui cookie
  • Segui Siti che segui
    • György Lukács
    • Segui assieme ad altri 322 follower
    • Hai già un account WordPress.com? Accedi ora.
    • György Lukács
    • Personalizza
    • Segui Siti che segui
    • Registrati
    • Accedi
    • Segnala questo contenuto
    • Visualizza il sito nel Reader
    • Gestisci gli abbonamenti
    • Riduci la barra
 

Caricamento commenti...