di Pier Paolo Pasolini
«Vie Nuove» Anno XX, 1965
Lei, Sartre, non giudica male
che Notre Dame sia stata illuminata dai suoi preti
per questo interlocutore anfibio?
No!
Il Peperizzo di Pressis Passe, se ne va.
Nel Café di Port Royal cala l’ombra delle due.
No!
È necessario che gli scandali avvengano, ma io non mi scandalizzo
E guai all’uomo per cui gli scandali avvengono. Ma io non mi scandalizzo
affatto! E allora? Cristo stinge al Café di Port Royal (C’è qualcuno a questo mondo che, non scandalizzandosi,
cancella qualche paragrafo del Vangelo).
Ma là (a Est) si scandalizzano.
E inoltre (aggiunge il dolce uomo che non si scandalizza seduto sulla poltrona come una stupenda cicala
messaggera d’amore)
non c’è la «critica al marxismo».
Tutto, dunque, si spiega.
Ma intanto un’altra cicala
sola in due stanzette a Budapest, sul Danubio,
cui si giunge
da una strada di metallo nero come un corridoio,
tra brume depresse,
attraverso un ingresso senza portinaio,
con sei grandi monumenti contenenti la morte della piccola borghesia
che là visse e ora vi lascia il dolore di una morte non pianta
— sei monumenti, degradanti sui sei scalini, pieni
della forma del dolore ora empita dalla grandezza del popolo,
spazzature gelide per la pressione di esterne brume implacabili
— sei monumenti scoperchiati, con parte del loro contenuto
accese bucce d’un frutto mediterraneo pateticamente espatriato
Basta.
Al quinto piano viene la cicala ad aprire la porta,
non si scandalizza, ma non si appassiona,
le macchine per pensare non lo possono fare.
Non c’è ansia per quello che contesto.
La cicala ha ancora «tanto da cantare», non ha
tempo per rispondere. Le vieux! (Lo abbraccerò andandomene, avrò
coraggio di dirgli «Per tutti gli Anni Cinquanta sei stato nostra
Sfinge, lascia che ti abbracci»?)
Era
questa cicala prigioniera di un Quinto Piano e della Filosofia.
La sua luce era carismatica.
Ci possono essere due pezzi di pensiero, non due pezzi di luce.
Ringiovanito dalle età delle cicale, sembro
una formica catecumena, e la mia anima infatti,
come quella di un ragazzo
ha bisogno di tornare in patria con qualche regalo.
Mi palpo nella saccoccia del vestito italiano
le due battute parigine, sicuro del trionfo.
Non posso abbracciare la povera cicala magiara
che i suoi compatrioti disprezzano (amusez-vouz, avec le vieux):
uomini oscuri, funzionari, giovani letterati
che di Budapest sono l’anima nuova, come un nuovo Natale,
non sanno neanche dire dove abita,
io sono forse uno dei pochi che ne hanno notizia.
come un giornalista giovane,
e quando le sette di sera
fanno notte alta (quella silenziosa che precede le albe)
sulla capitale delle sfingi e del dolore esposto come una bandiera,
me ne vado senza regalo
con i saluti per Cesare Cases e Elsa Morante.
Me ne vado, espletato il mio dovere di giornalista sconosciuto
col suo volto minaccioso e le sue crudeli pretese di giovane,
me ne vado
come quando si lascia per sempre una città non vista.
Addio, Lukács, colombella tra le sfingi,
quanto deve ancora tubare la colomba col suo cervello d’uomo,
tra le sfingi depositarie del silenzio!
(Questa poesia, del gennaio 1965, tratta dalla raccolta Le belle bandiere, Roma, Editori Riuniti, 1977, contiene espliciti riferimenti ad esperienze allora recenti di Pasolini: il dibattito su Il Vangelo secondo Matteo tenuto nella cattedrale di Notre-Dame, una conversazione con Sartre in un caffè di Parigi, un successivo viaggio a Budapest).