A proposito di letteratura e marxismo creativo

di György Lukács

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.

a cura di A. J. Liehm

Intervista rilasciata al giornalista cecoslovacco A. J. Liehm nel dicembre 1963 e pubblicata nel n. 3 della rivista Literární noviny, Praga, gennaio 1964. Qui ripubblichiamo la traduzione italiana apparsa nel n. 69 de Il contemporaneo, febbraio 1964, Roma. Non ci sono indicazioni del nome del traduttore. Si sono apportate alcune rare correzioni.


Lukács – Ecco, di un libro m’interessa sempre se ciò che in esso è detto, non sarebbe stato possibile raccontarlo nella medesima dimensione, diciamo, del reportage, se vi si pongono questioni oppure si risolvono problemi a un livello realmente artistico e non nelle dimensioni della sociologia. A tal riguardo sono un conservatore ed esigo che per tutto quanto vi è di importante nell’arte, si trovi una forma corrispondente. Questo vale da Omero sino a Kafka. Allo stesso modo, sono contro la forma senza contenuto e senza un problema poeticamente concreto, all’interno e viceversa. Per il resto vi sono altri mezzi e strumenti, per esempio la stampa. Credo che un buon lavoro sociologico sia più importante e, dal punto di vista della conoscenza, più redditizio, forse, dell’Homo Faber di Frisch. Affinché un ingegnere si renda conto della propria alienazione nella società capitalistica, non deve necessariamente avere un rapporto con la propria figlia. Questa è un’aggiunta poeticamente inorganica per il lettore modernista. Il problema della alienazione ci viene rappresentato in modo molto più suggestivo da ogni buon sociologo. Compito dell’artista è scoprire il problema mediante la forma artistica. Continua a leggere

Lukács: ritorno al concreto

di György Lukács

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.

Intervista concessa a Naïm Kattan e pubblicata nella “Quinzaine Littéraire”, 1/15 dicembre 1966 con il titolo “Lukács: revenir an concret”. Tradotta e pubblicata in italiano da “L’Espresso”, n. 2, gennaio 1967, p. 11 con il titolo “Lo scrittore a piede libero”, senza indicazione del traduttore.


L’appartamento di Lukács è all’ultimo piano di un edificio che si affaccia sul Danubio. Le pareti sono tappezzate di libri. Guardo a caso: opere complete di Hegel e di Marx. Sulla scrivania, altri libri, riviste in ungherese, in tedesco, in francese. È qui, che da dieci anni, Lukács prosegue nel suo lavoro.

Si sa che fu Ministro della Cultura nel governo di Imre Nagy. Dopo che la rivoluzione ungherese fu schiacciata, Lukács visse alcuni mesi, in un esilio volontario, in Romania. Dal suo ritorno, si è imposto il compito di terminare la sua “summa” filosofica. Un primo volume di più di mille pagine è già stato pubblicato in tedesco. Lukács è in tenuta da lavoro: pantaloni scuri, giacca kaki. Piccolo e magro, dà l’impressione di possedere un mondo. Ci si dimentica che egli ha 82 anni.

«Ho cominciato la mia vera opera a 70 anni», esordisce Lukács. «A volte, si direbbe che esistano delle eccezioni alle leggi biologiche. In questo senso sono un seguace di Epicuro. Ma io pure invecchio. Per molto tempo ho cercato la mia vera strada. Sono stato idealista, poi hegeliano, e in Storia e coscienza di classe ho cercato di essere marxista. Durante lunghi anni sono stato funzionario del Partito Comunista a Mosca; è in questo periodo che ho avuto il tempo di leggere e rileggere molto, da Omero a Gorki. Fino al 1930, però, i miei scritti erano soprattutto delle esperienze intellettuali. È dopo che vennero i primi traguardi e le basi per il lavoro successivo.

Questi scritti possono sembrare oggi superati, ma essi hanno forse fornito ad altri un suggerimento, una spinta. Certo, può sembrare strano che io abbia dovuto toccare il settantesimo anno per mettermi a lavorare intorno alla mia opera. Una vita non è poi infinita. Pensate a Marx, a questo genio colossale. Ebbene egli non è riuscito a dare che un abbozzo del suo metodo. Nella sua opera non ci sono tutte le risposte che vorremmo. In realtà, stava nel suo tempo. Io utilizzo il suo metodo per i miei studi di estetica. Se egli vivesse oggi, sono sicuro che scriverebbe di estetica». Continua a leggere

Lukács, Benjamin e il problema delle avanguardie

di Ferruccio Masini

«Il Contemporaneo-Rinascita», 30 luglio 1971.

In un’intervista a Der Spiegel, apparsa in Italia nel 1970, György Lukács dichiarava: «Lenin ha sempre affermato che non esiste una muraglia cinese tra rivoluzione borghese e rivoluzione proletaria. Infatti nel 1917 una rivoluzione socialista nacque proprio dal fatto che non erano state soddisfatte alcune rivendicazioni borghesi rivoluzionarie, quali la pace e la distribuzione delle terre ai contadini»1. È in questa prospettiva di giudizio storico-politico che, sia pure contraddittoriamente, tende a collocarsi il Lukács critico-teorico dell’estetica e della letteratura allorché denuncia il «settarismo pseudomarxista» – che «ha cancellato dalla storia tedesca tutto quello che non è immediatamente attinente alla rivoluzione proletaria» – e l’altro «settarismo», quello dei «buongustai “d’avanguardia”, che mettono nello stesso sacco la scultura negra e Fidia, i disegni degli alienati e Rembrandt, e magari preferiscono i primi ai secondi»2.

A questa presa di posizione, in sé corretta, non si riconnettono coerentemente le valutazioni sostanzialmente omogenee, anche se con parziali rettifiche di mira, espresse da Lukács in ordine alla letteratura d’avanguardia, giacché proprio quello schematismo ottimistico-contenutista che talora egli rimprovera agli «ingegneri dell’anima» è alla base dei suoi fraintendimenti e delle sue drastiche condanne. È nota l’incomprensione lukacsiana per Proust, Joyce, Kafka, condizionata appunto dall’ipnosi dei modelli realistico-ottocenteschi e, più in generale, la perentoria scomunica degli autori d’avanguardia presi in un fascio, nei quali si compirebbe quel la «diffamazione della realtà» che eliminando il tipico, attraverso l’allegoria, involge la distruzione del particolare, base della letteratura realistica. Indubbiamente l’ossessione di Lukács per lo spettro della decadenza che in varie guise mistificanti (la falsa autocritica, l’apologia indiretta della reazione, ecc.) contrabbanda ideologie e preconcetti borghesi e piccolo-borghesi all’interno della stessa avanguardia rivoluzionaria antifascista, ha le sue precise motivazioni storiche che se riguardano, per un certo aspetto, la posizione radicalmente e sinceramente autocritica dello stesso Lukács nei confronti del suo periodo «protoesistenzialistico» (da L’anima e le forme alla Teoria del romanzo) fino alla svolta marxista di Storia e coscienza di classe, affondano peraltro le loro radici nella necessaria intransigenza degli anni di lotta contro il fascismo. Ed è innegabile che proprio questa intransigenza, la cui severa venatura morale ricorda il rigorismo estremistico-tragico del giovane Lukács de L’anima e le forme, ha avuto il merito di sgombrare il campo da molti feticci metodologici (come quello dell’apartiticità dell’arte o l’altro della neutralità ideologica della teoresi) in un tempo in cui l’unico antidoto alle suggestioni irrazionaliste e neoromantiche era costituito proprio da quella mancanza di «timida prudenza» con cui il critico marxista deve «gettarsi a corpo perduto nella mischia mandando al diavolo le preoccupazioni per la sua reputazione, per la sua “infallibilità”, per la sua “fama”, pur di compiere un’opera utile battendosi contro tendenze nocive e contribuendo alla indispensabile chiarificazione»3.

A distanza di anni l’affettuoso ammonimento di Anna Seghers acquista, ciononostante, tutta la sua forza e vale a richiamare la nostra attenzione anche sul limite teorico-rivoluzionario di quella dura intransigenza: «Lukács, caro Lukács, non ti arrabbierai se ti dico che nel ricorso a una citazione qualsiasi [in questo caso un passo di Gorkij], pur imponente che sia, c’è sempre qualcosa che ricorda la scopa fatata. In altre parole, c’è ancora la possibilità di illudersi che siccome un uomo saggio e prudente ha finalmente trovato la chiave di una certa porta, sarà possibile servirsene per aprire tutte le porte simili a questa»4.

Il confronto con Walter Benjamin – al quale Lukács dedicherà alcune pagine singolarmente equilibrate e penetranti della sua Estetica5 – potrà forse essere istruttivo proprio per rilevare i termini di una questione che trascende, in definitiva, la stessa posizione lukacsiana, quella, cioè, delle avanguardie dai punto di vista di una analisi marxista.

Giustamente – ci sembra – Ernst Bloch rilevava in Benjamin una caratteristica macroscopicamente assente in Lukács: la straordinaria sensibilità per il dettaglio marginale, per la sfumatura significativa, per «i freschi elementi che partendo di qui si dischiudono nel pensiero e nel mondo»6, per quelle singolarità che spezzano in maniera inconsueta e paradossale la levigata superficie di un tutto, la capacità, insomma, di costruire i problemi attraverso un «montaggio reale» di parti in apparenza estranee o irrilevanti o lo «smontaggio» di quanto sembra, a prima vista, strettamente connesso. La secolarizzazione della preghiera nella «attenzione» (lo diceva Scholem a proposito di Benjamin) sta in questa acribia del dettaglio, in questa «micrologia filologica» che coglie nel particolare la chiave interpretativa di un intero processo, o meglio, si vale di quel particolare, risolvente in sé una pregnanza emblematica di rimandi, per cristallizzare quel processo in un evento carico di significati. Sotto questo punto di vista il metodo storiografico lukacsiano, disteso per scorci panoramici e ampie campate sistematico-concettuali, è ben distante da quello sinuoso e flessibile di Benjamin, in cui il pensare critico è sempre un pensare «per figure», un pensare semantico-dialettico dove alla presa «soggettiva» dell’interprete si sostituiscono le fluide articolazioni dell’oggetto che si espone da sé, nell’ambito di una prospettiva «tendenziosamente» determinata.

Lukács avverte acutamente che nella teoria benjaminiana della allegoria, in cui l’analisi del dramma barocco tedesco ribalta esemplarmente in quella delle avanguardie con temporanee, si nasconde la «autodissoluzione dell’estetico»7. Ed è evidente che siffatta «dissoluzione» risulta inaccettabile per il filosofo marxista al quale importa una fondazione materialistica dell’estetico che, chiusa nella fortezza del realismo, costituisca una barriera insormontabile per le tendenze reazionarie dell’arte d’avanguardia, prigioniera dei suoi inframondi nichilistici e dei suoi cieli orribilmente vuoti. Lukács, in realtà, non sa rassegnarsi di fronte ad una «dissoluzione dell’estetico» che tende a coinvolgere, in una sorta di apocalittico e macabro naufragio, la visione paradigmatica di un’arte che rispecchia le mediazioni sociali «porta; te» dai particolari e quindi reintegra in se stessa l’ideale di una humanitas sottratta alla reificazione. Per questo egli rimprovererà a Benjamin di limitarsi a «descrivere», affermando che «in un contesto allegorico anche l’emblema non esprime altro che una feticizzazione acriticamente approvata»8. Ma nella descrizione benjaminiana, che è poi – come osserva Bloch – un descrivere includente in un cerchio, e cioè in una costellazione di significati, proprio quella feticizzazione comporta la dissoluzione dell’estetico, cioè il problematizzarsi della stessa progettazione artistica aggredita dalle implicazioni ideologiche, vale a dire dai fantasmi della falsa e anche cattiva coscienza. Quella feticizzazione è, nella trasparenza critica in cui la fa emergere Benjamin, precisamente la crisi di quell’immagine universale dell’uomo o, in altre parole, di quel «contenuto universale di umanità che – secondo Lukács – implicite è presente e dappertutto nel rispecchiamento estetico»9. Per Benjamin questo contenuto e questo rispecchiamento sono comunque indistinguibili dalla falsificazione ideologica di una società divisa in classi, dall’interno sfacelo di quel patrimonio culturale» che lo storicismo ha canonizzato mentre si tratta invece di mostrare come lo scheletro dell’allegoria realizza appunto l’autodecomposizione di quel contenuto, scoprendo l’oggettiva deformazione di quei rispecchiamento.

La descrizione di Benjamin non è dunque solo una «descrizione»: essa decifra il geroglifico marxiano della merce trasferito in quelle ipostasi ormai vacillanti e disgregate della falsa coscienza che sono appunto nascoste negli emblemi strutturali-allegorici dell’avanguardia, cogliendo al tempo stesso la temperatura critica della decadenza in quel momento di choc che la distacca, con una salutare estraneazione, dall’approdo finale di un’arte che non è più pacificazione nella humanitas e non può più assorbire le lacerazioni della realtà.

In questo senso i procedimenti allegorizzanti dell’avanguardia – al cui inventario di morti oggetti il nano piccolo e brutto della teologia10 dà una mano preziosa, alleandosi nella lotta di classe – mettono la borghesia contro se stessa, smantellando i suoi alibi storicisti, l’ipocrisia della sua fede «socialdemocratica» nel progresso. È evidente che sono gli stessi strumenti categoriali presenti nella officina critico-estetica del Lukács a impedire a quest’ultimo, diversamente da quanto avviene per Benjamin, di «decifrare» il paesaggio per geroglifici e monogrammi dell’avanguardia. Esso si presenta agli occhi del filosofo di Budapest come quell’inferno della compiuta peccaminosità borghese in cui Benn si incontra “con Kafka, Musil con Joyce, e sul quale grava la caligine del «nichilismo estetico»11, dove – ahimè – tutte le vacche sono nere. Ma è proprio l’avanguardia che, mettendo in questione tutto il passato, mette implicitamente in questione «le vittorie dei dominatori». Sotto il patrimonio culturale, di fronte al quale – dirà Benjamin – «il materialista storico non potrà comportarsi come un osservatore distaccato», ci sono appunto queste vittorie, c’è un’origine a cui quest’ultimo «non può pensare senza orrore»: quel patrimonio, infatti, «deve la propria esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che lo hanno creato, [sembra quasi di ascoltare il discorso brechtiano sui grandi condottieri della storia], ma anche alla schiavitù senza nome dei loro contemporanei»12. È al preciso scopo di reimpostare, in termini di unità teoria-prassi il discorso sull’arte, che Benjamin utilizza la teologia al servizio della lotta di classe, giacché il tema messianico della redenzione di un mondo contaminato dalla colpa della soggettività diventa il catalizzatore di un processo rivoluzionario in cui l’arte può giustificarsi solo in via negativa come allegoria di un «cattivo sguardo» – che è anche uno sguardo critico sulla decadenza – e, al tempo stesso, come allegoria utopica di un rovesciamento liberatore.

È ancora una volta, questo, il discorso sulla prospettiva. Il problema della prospettiva costituisce un discrimine fondamentale, in Lukács, per identificare nell’ambito del realismo socialista la fonte dello schematismo («configurazione meccanica», «meccanica definizione della prospettiva»). Ma si potrebbe ricondurre a una questione di prospettiva anche il problema dell’avanguardia, così come si configura in Benjamin, per cui potremmo dire, rovesciando le parole di Lukács, che le tragedie individuali non escludono l’ottimismo storico-universale13. È quanto fa Benjamin, che radicalizza appunto la tragedia individuale nell’ambito di una prospettiva dove il materialismo storico si incontra con la speranza utopica, «la piccola porta» da cui può entrare il Messia14, la tempesta spirante dal paradiso, che spinge irresistibilmente nel futuro l’angelus novus, l’«angelo della storia»15. Mentre la prospettiva lukacsiana privilegia il momento dell’evoluzione sociale oggettiva, che sul piano letterario si manifesta oggettivamente nello sviluppo di una serie di caratteri agenti in situazioni determinate»16, e quindi si riconduce a modelli storico-letterari desunti dai classici del realismo (Tolstoj), quella di Benjamin è una «costellazione carica di tensioni»17 in cui sta la possibilità di una «chance rivoluzionaria nella lotta per il passato oppresso»18. Evidentemente la categoria benjaminiana del «tempo-ora» (Jetztheit) gioca nella dialettica rivoluzionaria un ruolo di primo piano proprio nell’ambito della liquidazione dei modelli, che è poi la liquidazione di una determinata «aura» umanistico-borghese.

Il passato, «carico di tempo-ora», non è «giudicato» nel senso hegeliano di una verità-totalità che privilegia il «risultato» dell’accadere; la dialettica della prassi storica rivoluzionaria spezza quel continuum e non si sottomette al ritmo di un processo che vede nel presente il frutto maturo del passato, il realizzarsi della sua verità. «Al concetto di un presente che non è passaggio, ma è in bilico nel tempo ed immobile, il materialista storico non può rinunciare»19.

Non riteniamo sia nostro compito, in questa sede, confrontare Lukács a Benjamin in rapporto al dibattito sul «marxismo occidentale» o sul «materialismo storico», magari andando alla ricerca del «vero Marx», che non è in ogni caso quello dei professori o dei pretenziosi depositari di «verità rivelate», ma l’altro, ben più vivo, incarnato nella teoria-prassi dei partiti storici della classe operaia. La legittima diffidenza di Lukács per l’intelligenza borghese critica ed evoluta, che di fronte alla nuova situazione mondiale determinata dalla Rivoluzione d’ottobre, dal crollo del fascismo e dalla costituzione di nuovi Stati socialisti, si foggia o tenta di foggiarsi armi adeguate al suo «panico elementare di impotenza» o alla sua angoscia nullificante, tende spesso a risolversi in una formula monolitica di giudizio sui prodotti artistici dell’avanguardia, non sufficientemente mediato dall’analisi delle fasi storiche della lotta di classe a cui corrispondono momenti diversi nel processo d’ideologizzazione e quindi di riassesto o di disintegrazione soprastrutturale. A questa angustia di prospettiva sulla letteratura del Novecento a cui – come giustamente è stato notato – concorre «l’attaccamento tenace ad un certo tipo di narrativa epica e ad un certo tipo di letteratura che, in un secondo tempo, avrebbe consentito la saldatura con certe componenti caratteristiche del marxismo lukacsiano (umanesimo, gnoseologia)»20, corrisponde l’ipoteca formalistica nascosta nel concetto di «realismo critico» in T. Mann e nel conseguente disinteresse per le stesse posizioni progressiste-materialiste dell’avanguardia (Brecht, Maiakovskij).

Questo atteggiamento si riconduce al cardine centrale dell’estetica lukacsiana per il quale esiste una «grande letteratura» il cui valore paradigmatico-catartico è di sempre. «La grande letteratura ha sempre ottenuto i suoi effetti catartici rivelando le contraddizioni centrali di una fase dell’evoluzione dell’umanità sotto forma di conflitti tipici di figure umane elevate alla tipicità poetica»21. La stessa partiticità dell’arte si giustifica, per Lukács, solo attraverso questa mediazione catartica, nel senso che l’oggettività estetica, su cui si impianta il rispecchiamento di una «totalità intensiva» della realtà, è strettamente connessa alla necessità di prender partito di fronte alla dialettica fondamentale, al movimento e alle contraddizioni profonde di questa realtà. Ma l’errore di Lukács non sta tanto, a nostro avviso, nelle implicazioni riduttive della sua «problematica contenutistica» (Galvano della Volpe), quanto nel fatto che a queste si aggancia una predeterminazione forrnale-strutturale del fenomeno estetico come cosmo in se stesso conchiuso, nel senso che precostituisce il margine in cui la storicità stessa della realtà può investire la storicità delle categorie estetiche. Beninteso, lo stesso Lukács sottolinea giustamente che «un’autentica storicità non può mai consistere in una mera trasformazione dei contenuti, mentre le forme resterebbero perfettamente identiche, le categorie sarebbero assolutamente immutabili»22; ma, di fatto, egli riconduce alla «oggettiva struttura-categoriale dell’opera d’arte», come conversione nella immanenza di «tutti i movimenti della coscienza verso il trascendente»23, e quindi alla priorità del simbolo sull’allegoria, il limite invalicabile del realismo, al di là del quale non può esistere che uno «sperimentalismo problematico», destinato a restare, nella migliore delle ipotesi, confinato nell’assolutizzazione dell’immediatezza. «L’avanguardia fa di un – necessario – riflesso soggettivo una realtà, anzi la realtà autentica, un’oggettività presuntamente costitutiva, e dà quindi un’immagine deformata della realtà considerata nel suo complesso»24. E tuttavia questo «sperimentalismo problematico», che pure riflette, come variante deformata e deformante del realismo, la realtà, può riproporre, sotto l’allegoria della trascendenza, una conversione ad un’immanenza divenuta sempre più enigmatica ed insondabile e può dialettizzarsi al di là del codice linguistico di un realismo incapace di accogliere nelle sue procedure gnoseologiche-selettive (il tipico) l’esperienza di nuove articolazioni semantiche.

Il fatto che questa dialettica, imposta, tra l’altro, dal terreno di lotta su cui si muove l’offensiva neocapitalistica dell’industria culturale, possa spostare e non soltanto mutare di funzione la nozione stessa dell’arte o addirittura comprometterla radicalmente sulla base del movimento di una realtà non sussumibile in un concetto di «totalità» ancora per molti riguardi legato alla tradizione umanistico-borghese, riapre il problema di fondo del superamento rivoluzionario della cultura attraverso una reinvenzione del suo senso e quindi mediante il passaggio dall’accentuazione gnoseologico-sistematica a quella critico-ideologica dei marxismo.

1 G. Lukács, Cultura e potere, a cura di C. Benedetti, Roma, 1970, p. 170.

2 Id., «Una discussione epistolare tra A. Seghers e G. Lukács», in G. Lukács, Il marxismo e la critica letteraria, trad. it. di C. Cases, Torino, 1964, p. 397.

3 Ivi, p. 398.

4 Lettera di A. Seghers. del febbraio 1939, ivi, p. 402.

5 G. Lukács, Estetica, 2 voll., trad. it. di A. Marietti Solmi, Torino, 1970, II, pp. 1502-07; ma si veda anche Il significato attuale del realismo critico, trad. it. di R. Solmi, Torino, 1957, pp. 45-48 e passim.

6 In AA. VV., Uber Walter Benjamin, Frankfurt a.M., p. 17.

7 G. Lukács, Il significato attuale, cit., p. 51.

8 Estetica, cit., II, p. 1506.

9 Ivi, p. 1505.

10 W. Benjamin, «Tesi di filosofia della storia» in Angelus Novus, Saggi e frammenti, trad. it. e introd. di R. Solmi, p. 72.

11 G. Lukács, Estetica, cit., II, p. 1511.

12 W. Benjamin, «Tesi di filosofia della storia», in op. cit., pp. 75-76.

13 G. Lukács, «Il problema della prospettiva», in Il marxismo, cit., p. 460 e 464.

14 «Tesi di filosofia», in op. cit., p. 83.

15 Ivi, pp. 76-77.

16 «Il problema della prospettiva», in op. cit., pp. 460-61.

17 «Tesi di filosofia», in op. cit., p. 81.

18 Ivi, p. 82.

19 Ivi, p. 81.

20 M. Vacatello, Lukács da “Storia e coscienza di classe” al giudizio sulla cultura borghese, Firenze 1968, p. 105.

21 G. Lukács, Estetica, cit., II, p 1598.

22 Ivi, prefazione, p. XXVI

23 Ivi, pp. XXX-XXXI.

24 Il significato attuale, cit., p. 58.

György Lukács inattuale? Una teoria politica del romanzo

di Emanuele Zinato

L’immaginario politico. Impegno, resistenza, ideologia, Eds. S. Albertazzi, F. Bertoni, E. Piga, L. Raimondi, G. Tinelli, Between, V.10 (2015), http://www.Betweenjournal.it/ 30/11/2015


I rapporti sociali sono sfuggiti al controllo degli uomini stessi assumendo la forma di cose.
G. Lukács, Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale

I. Il termine inattuale, presente nel titolo del mio intervento in forma interrogativa, vorrebbe risultare doppiamente sibillino. Al suo significato più comune, di segno negativo, che sta per “invecchiato”, come si sa, si affianca un senso orgogliosamente apologetico e irriverente, quello delle Considerazioni inattuali di Nietzsche o dell’inattualità come valore paradossale del saggismo frammentario di Karl Kraus.

In questo mio intervento, per azzardare delle risposte, cercherò innanzitutto di mettere a fuoco alcuni punti di forza di Lukács, limitatamente alla teoria del romanzo, degni di considerazione nel campo teorico attuale.

Come ha osservato Vittorio Strada (Strada, 1986: 21), i due maggiori teorici novecenteschi del romanzo, Lukács e Bachtin, si potrebbero leggere come una delle coppie oppositive su cui si fondano le Vite parallele di Plutarco. Lukács, infatti, è noto come il fautore di un’estetica normativa del marxismo ufficiale; Bachtin è stato viceversa una vittima, deportato e costretto al silenzio dallo stalinismo.

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Georg Lukács e il patto col diavolo

di George Steiner

[Georg Lukacs and His Devil’s Pact, «The Kenyon Review» Vol. 22, No. 1 (Winter, 1960), pp. 1-18, trad. it. Ruggero Bianchi, in G. Steiner, Linguaggio e Silenzio, Rizzoli, Milano 1972, pp. 327-342]

Nel ventesimo secolo non è facile per un uomo onesto fare il critico letterario. Vi sono tante cose più urgenti da fare. La critica è un’aggiunta. Giacché l’arte del critico consiste nel sottoporre le opere di letteratura proprio all’attenzione di quei lettori che forse hanno meno bisogno di un tale aiuto: forse che un uomo legge critiche di poesia o teatro o narrativa se non possiede già per conto suo una cultura letteraria di notevole livello? Su l’un lato e l’altro, per giunta, vi sono due tentatori. A destra, la Storia Letteraria, con la sua aria solida e le sue credenziali accademiche. Alla sinistra, la Recensione, non proprio un’arte, ma piuttosto una tecnica devota alla teoria poco plausibile che ogni giorno dell’anno viene pubblicato qualcosa che vale la pena di leggere. Anche la critica migliore può soccombere all’una o all’altra di queste tentazioni. Ansioso di raggiungere la rispettabilità intellettuale, la posizione salda dello studioso, il critico può diventare, come Sainte-Beuve, quasi uno storico della letteratura. O può cedere alle pretese del nuovo e dell’immediato: una parte significativa delle dichiarazioni critiche di Henry James non è sopravvissuta ai luoghi comuni di cui esse erano molto prodighe. Le buone recensioni sono ancor più effimere dei brutti libri.

Ma vi è ancora un’altra ragione importante per cui è difficile a una mente seria, nata in questo secolo tormentato e periglioso, dedicare il grosso delle proprie energie alla critica letteraria. La nostra è, in maniera preminente, l’epoca delle scienze naturali. Il novanta per cento di tutti gli scienziati vive oggi. Il ritmo delle conquiste in campo scientifico, il ritrarsi dell’orizzonte davanti allo spirito che indaga, non è più assolutamente confrontabile con quello del passato. Ogni giorno si scoprono nuove Americhe, sicché la tempra della nostra epoca è permeata di valori scientifici. Questi estendono la propria influenza e il proprio fascino molto al di là dei confini della scienza intesa in senso classico. La storia e l’economia sostengono di essere, in qualche misura fondamentale, delle scienze; e così pure la logica e la sociologia. Lo storico dell’arte affina strumenti e tecniche che considera scientifici. Il compositore di musica dodecafonica collega i suoi esercizi austeri a quelli della matematica. Durrell ha scritto nella prefazione all’Alexandria Quartet che il suo tentativo è quello di tradurre nel linguaggio e nello stile della sua narrativa la prospettiva della relatività. Vede la città di Alessandria in quattro dimensioni.

Tale ubiquità della scienza ha recato con sé nuove modestie e ambizioni nuove. Diffidando del semplice istinto, la scienza esige una mitologia di rigore e di prova. Come splendido compenso, offre il miraggio della certezza, della conoscenza sicura, del possesso intellettuale salvaguardato dal dubbio. Lo scienziato grandissimo rifiuterà tale prospettiva; persevererà nel dubbio anche nel cuore della scoperta. Ma la speranza della verità oggettiva e dimostrabile è sempre presente e ha attirato a sé le menti più vigorose dei nostri tempi.

Nella critica letteraria non vi sono terre promesse di fatti stabiliti, né utopie di certezza. Per la sua stessa natura, la critica è personale. Non è suscettibile di dimostrazione né di prova coerente. Non dispone di strumenti più esatti della barba di Housman che si rizzava quando la grande linea di poesia gli saettava nella mente. In tutta la storia, i critici hanno cercato di dimostrare che il loro métier era una scienza in fin dei conti, che aveva canoni oggettivi e strumenti per pervenire alle verità assolute. Coleridge imbrigliò il proprio genio intensamente personale e spesso instabile al giogo di un sistema metafisico. In un celebre manifesto, Taine proclamò che lo studio della letteratura non era meno esatto di quello delle scienze naturali. I. A. Richards ha sottoscritto la speranza che vi sia un’oggettiva base psicologica all’atto del giudizio estetico. Il suo discepolo più eminente, W. Empson, ha applicato alle arti della critica letteraria le modalità e i gesti della matematica.

Resta però il fatto: il critico letterario è un uomo singolo che giudica un dato testo secondo l’attuale disposizione del proprio spirito, secondo il proprio umore o l’edificio delle proprie convinzioni. Può darsi che il suo giudizio abbia un valore maggiore del vostro o del mio soltanto perché si basa su una gamma più vasta di conoscenze o perché è presentato con chiarezza più convincente. Non lo si può dimostrare in maniera scientifica, né può pretendere di essere durevole. I venti del gusto e della moda sono incostanti e ogni generazione di critici ricomincia da capo a giudicare. Le opinioni sui meriti di un’opera d’arte sono, per giunta, inconfutabili. Balzac riteneva che la Radcliffe fosse grande come Stendhal. Nietzsche, una delle menti più acute che mai si siano occupate di musica, finì per sostenere che Bizet era un compositore più genuino di Wagner. Possiamo essere profondamente convinti che tali opinioni sono ingiuste ed erronee. Ma non possiamo rifiutarle come uno scienziato può rifiutare una teoria falsa. E chissà che una qualche epoca futura non concordi con giudizi che oggi sembrano insostenibili? La storia del gusto è un po’ come una spirale. Le idee che in un primo momento vengono considerate oltraggiose o di avanguardia diventano le credenze reazionarie e consacrate della generazione successiva.

Il critico moderno si trova dunque doppiamente in pericolo. La critica ha intorno a sé qualcosa di un’epoca più agiata. È difficile, su basi morali, resistere alle fiere sollecitazioni dei problemi economici, sociali e politici. Se vi è la minaccia di una qualche forma di barbarie e di autodistruzione politica, lo scrivere saggi sulle belles-lettres pare un’occupazione piuttosto marginale. Il secondo dilemma è di natura intellettuale. Per eminente che sia, il critico non può partecipare all’avventura principale della mente contemporanea: l’acquisizione della conoscenza positiva, il dominio del fatto scientifico o l’esplorazione della verità dimostrabile. E se è onesto con se stesso, il critico letterario sa che i suoi giudizi non hanno una validità duratura, che domani possono essere capovolti. Una cosa soltanto può conferire alla sua opera un po’ di durevolezza: il vigore o la bellezza del suo stile. Grazie allo stile, la critica può a sua volta diventare letteratura.

I maestri della critica contemporanea hanno cercato di risolvere questi dilemmi in modi differenti. T. S. Eliot, Ezra Pound e Thomas Mann, per esempio, hanno fatto della critica un’appendice alla creazione. I loro scritti critici sono commentari alle proprie opere poetiche; specchi che l’intelletto presenta alla fantasia creativa. In D. H. Lawrence, la critica è autodifesa: pur discutendo apparentemente di altri scrittori, di fatto Lawrence stava difendendo il proprio concetto dell’arte del romanzo. Leavis ha accettato la sfida a testa bassa. Ha posto le sue energie critiche al servizio di un’appassionata visione morale. È tutto intento a stabilire standard di maturità e di ordine in letteratura perché la società nel suo complesso possa procedere in una maniera più matura e ordinata.

Ma nessuno ha offerto ai dilemmi morali e intellettuali che assediano la critica letteraria una soluzione più radicale di quella di Georg Lukács. Nelle sue opere si concretizzano due convinzioni. La prima, che la critica letteraria non è un lusso, che non è quello che il più sottile critico americano ha definito «un discorso per dilettanti». Ma che, al contrario, è una forza militante e fondamentale per la formazione della vita degli uomini. In secondo luogo, Lukács afferma che l’opera del critico non è né soggettiva né incerta. La critica è una scienza con un proprio rigore e una propria precisione. La verità del giudizio si può verificare. Georg Lukács è, naturalmente, marxista. Anzi, è l’unico grande talento critico che sia emerso dal grigio servaggio del mondo marxista.

II

In un saggio che risale al 1948, Lukács tracciò un’analogia significativa. Disse che la fisica newtoniana aveva dato alla coscienza settecentesca il suo principale impulso liberatore, insegnando alla mente a vivere la grande avventura della ragione. Secondo Lukács, tale ruolo dovrebbe essere svolto ai giorni nostri dall’economia politica. È attorno all’economia politica, in senso marxista, che dovremmo ordinare la nostra comprensione delle vicende umane. Lukács stesso giunse alla letteratura attraverso l’economia, così come si può dire che Aristotile si accostò al dramma tramite un’indagine sistematica in campo morale.

Il materialismo dialettico sostiene che la letteratura, come tutte le altre forme d’arte, è una «sovrastruttura ideologica», un edificio dello spirito costruito sulle fondamenta del fatto economico, sociale e politico. Nello stile e nel contenuto l’opera d’arte riflette esattamente la sua base storica e materiale. L’Iliade non era meno condizionata dall’ambiente sociale (un’aristocrazia feudale frantumata in piccoli regni rivali) di quanto non lo fossero i romanzi di Dickens, che riflettono con tale vigore l’economia della produzione in serie e la crescita di un nuovo pubblico di massa. Pertanto, sostiene il marxista, il progresso dell’arte è sottoposto alle leggi della necessità storica. Non possiamo concepire Robinson Crusoe prima della nascita dell’ideale mercantile. Nel declino del romanzo francese dopo Stendhal osserviamo l’immagine di un più vasto declino della borghesia francese.

Ma dove c’è legge c’è scienza. E quindi il critico marxista nutre la convinzione di essere impegnato non in cose opinabili ma in determinazioni di realtà oggettiva. Senza tale convinzione, Lukács non avrebbe potuto dedicarsi alla letteratura. Raggiunse la maturità intellettuale in mezzo alla ferocia caotica della guerra e della rivoluzione nell’Europa centrale. Giunse al marxismo per la strada tortuosa della metafisica hegeliana. Nei suoi primi scritti vi sono due note dominanti: la ricerca di una chiave per comprendere l’apparente tumulto della storia e il tentativo dell’intellettuale di giustificare la propria scelta della vita contemplativa. Come Simone Weil, cui egli spesso mi fa pensare, Lukács ha l’anima di un calvinista. Si può immaginare come abbia dovuto lottare per disciplinare in se stesso l’inclinazione naturale alla letteratura e all’aspetto estetico delle cose. Il marxismo gli offrì la possibilità fondamentale di restare critico letterario senza aver l’impressione di aver dedicato le proprie energie a uno scopo piuttosto frivolo e impreciso. Nel 1918 Lukács aderì al partito comunista ungherese. Durante il primo breve periodo di governo comunista a Budapest, prestò servizio come commissario politico e culturale con la quinta Armata Rossa. Dopo la caduta di Béla Kun, Lukács andò in esilio. Rimase a Berlino fino al 1933 e quindi si rifugiò a Mosca. Là rimase e lavorò per dodici anni, facendo ritorno in Ungheria soltanto nel 1945.

È questo un fatto di ovvia importanza. Il tedesco è la lingua principale di Lukács, ma l’uso che ne fa è diventato fragile e sgradevole. Il suo è lo stile dell’esilio; ha perso i caratteri della parlata viva. Più essenzialmente: tutto il tono di Lukács, il tenore fervido e a volte angusto della sua visione, riflette il fatto dell’esilio. Da Mosca, circondato da una piccola cerchia di compagni d’esilio, Lukács osservò l’estendersi della crisi sull’Europa occidentale. I suoi scritti sulla letteratura francese e tedesca divennero una difesa appassionata contro le menzogne e la barbarie del periodo nazista. E ciò spiega un grosso paradosso nella produzione di Lukács. Pur essendo comunista per convinzione, materialista dialettico in virtù del suo metodo critico, egli ha tenuto lo sguardo decisamente fisso al passato. Thomas Mann vide nelle opere di Lukács un senso eminente della tradizione. Nonostante le pressioni dei suoi ospiti russi, Lukács prestava soltanto un’attenzione distratta alle conquiste celebrate del «realismo sovietico». Insisteva invece sulla grande tradizione della poesia e della narrativa europea del Settecento e dell’Ottocento, su Goethe e su Balzac, su Walter Scott e Flaubert, su Stendhal e Heine. Quando scrive di letteratura russa, Lukács tratta di Puškin o di Tolstoj, non dei poetastri dell’epoca staliniana. La prospettiva critica è rigorosamente marxista, ma la scelta dei temi è «centroeuropea» e conservatrice.

In mezzo all’apparente trionfo del fascismo, Lukács mantenne una serenità appassionata. Si sforzò di scoprire la tragica pecca, il seme di caos, da cui era scaturita la follia di Hitler. Una delle sue opere, un libro in se stesso stridulo e spesso mendace, s’intitola La distruzione della ragione (1955). È il tentativo filosofico di risolvere il mistero drammatizzato da Thomas Mann nel Dottor Faustus. Come si scatenò l’ondata di tenebre sull’anima tedesca? Lukács fa risalire le origini del disastro all’irrazionalismo di Schelling. Ma al tempo stesso insisteva sull’integrità e la forza vitale dei valori umani. Essendo comunista, Lukács non dubitava che il socialismo avrebbe finito per prevalere. Considerava suo compito particolare quello di organizzare in vista del momento della liberazione le risorse spirituali presenti nella letteratura e nella filosofia europee. Quando le poesie di Heine tornarono a essere lette in Germania, era disponibile un saggio di Lukács che tracciava un ponte tra il futuro e il mondo semidimenticato del liberalismo cui Heine era appartenuto.

Lukács dunque ha offerto una soluzione al duplice dilemma del critico moderno. In quanto marxista, scorge nella letteratura l’azione delle forze economiche, sociali e politiche. Tale azione si basa su certe leggi di necessità storica. Per Lukács la critica è una scienza ancor prima di essere un’arte. La sua preferenza per Balzac su Flaubert non dipende dal consenso o dal gusto personale. È una determinazione oggettiva cui si è pervenuti tramite un’analisi del fatto materiale. In secondo luogo, Lukács ha conferito al suo stile un’intensa immediatezza. Affonda le proprie radici nelle battaglie e nelle circostanze sociali del tempo. I suoi scritti sulla letteratura, come quelli su Tolstoj, sono strumenti di combattimento. Comprendendo la dialettica del Faust di Goethe, dice Lukács, si è meglio attrezzati a leggere gli enigmi sanguinosi del presente. La caduta della Francia nel 1940 è scritta a grossi caratteri nella Comédie humaine. Gli argomenti di Lukács hanno a che fare con problemi fondamentali della nostra vita. Le sue critiche non sono una semplice eco alla letteratura. Anche quando è settario e polemico, un libro di Lukács ha sempre una curiosa nobiltà. Possiede quella che Matthew Arnold chiamò «alta serietà».

III

Ma, in pratica, quali sono i grossi risultati di Lukács come critico e storico delle idee?

Ironicamente, una delle sue opere più influenti risale a un periodo in cui il suo comunismo era venato di eresia. Storia e coscienza di classe (1923) è un caso quasi leggendario. È un livre maudit, un libro dato alle fiamme, di cui sono rimaste relativamente poche copie1. Si trova in esso un’analisi fondamentale della «reificazione» dell’uomo (Verdinglichung), della degradazione della persona umana a oggetto statistico tramite i processi industriali e politici. L’opera fu condannata dal partito e ritirata dall’autore. Ma ha portato a una tenace vita sotterranea e taluni scrittori, come Sartre e Thomas Mann, l’hanno sempre considerata il capolavoro di Lukács.

A mio parere, tuttavia, la sua preminenza si trova altrove: nei saggi e nelle monografie da lui scritte durante gli anni Trenta e Quaranta, che cominciarono a uscire in una sfilza di volumi imponenti dopo la fine della guerra. L’essenza di Lukács si trova nello studio di Goethe e i suoi tempi (1947), nei saggi sul Realismo russo nella letteratura mondiale (1949), nel volume intitolato Realisti tedeschi dell’Ottocento (1951), nel libro su Balzac, Stendhal e Zola (1952) e nella grande opera su Il romanzo storico (1955). A ciò bisognerebbe aggiungere alcuni volumi massicci di carattere più squisitamente filosofico, quali Contributi a una storia dell’estetica (1954), e quello che è forse il magnum opus di Lukács, lo studio di Hegel (di cui apparve il primo volume nel 1948).

È impossibile dare una descrizione breve e tuttavia accurata di una gamma così vasta di materiale. Ma vi sono alcuni motivi che emergono come classici arricchimenti della comprensione che noi abbiamo della letteratura.

Vi è l’analisi lukacsiana del declino del romanzo francese. Lukács è il più grande studioso vivente di Balzac e vede nella Comédie humaine il massimo monumento del realismo. La sua interpretazione di Les illusions perdues è un esempio perfetto del modo in cui la visione dello storico vien fatta pesare sulla struttura di un’opera d’arte. È questa visione a indurre direttamente Lukács a una condanna di Flaubert. Tra Balzac e Flaubert vi è la sconfitta del 1848. Lo splendore delle speranze liberali era sbiadito e la Francia si stava dirigendo verso la tragedia della Comune. Balzac guarda il mondo con l’ardore primitivo della conquista. Flaubert guarda il mondo come attraverso una lente, con disprezzo. In Madame Bovary il bagliore e l’artificio delle parole sono diventati fini a se stessi. Quando Balzac descrive un cappello, lo fa perché un uomo lo porta. La descrizione del berretto di Charles Bovary, dal canto opposto, è un pezzo di virtuosismo tecnico; sfoggia la padronanza che Flaubert ha del vocabolario dei sarti francesi. Ma la cosa è morta. E dietro questo contrasto nell’arte del romanzo, Lukács scorge la trasformazione della società attraverso il capitalismo maturo. In una società preindustriale, o in una società in cui l’industrialismo rimane su piccola scala, il rapporto dell’uomo con gli oggetti fisici che lo circondano ha un’immediatezza naturale. Questa viene distrutta dalla produzione in massa. L’arredamento della nostra vita è il frutto di processi troppo complessi e impersonali perché qualcuno li possa dominare. Isolato dalla realtà fisica, respinto dalla trasandatezza disumana del mondo delle fabbriche, lo scrittore cerca rifugio nella satira o nelle visioni romantiche del passato. Tutte e due le ritirate sono esemplificate in Flaubert: Bouvard et Pécuchet è un’enciclopedia del disprezzo, mentre Salammbô può essere considerato il sogno a occhi aperti di un antiquario un po’ sadico.

Da tale dilemma scaturì quella che Lukács definisce l’illusione del naturalismo, la convinzione che l’artista possa ricatturare un senso di realtà con la semplice forza dell’accumulazione. Mentre il realista seleziona, il naturalista enumera. Come l’insegnante di Hard Times di Dickens, esige fatti e ancora fatti. Zola aveva una fame inesauribile di particolari circostanziati, una passione per gli orari e gli inventari (viene in mente il catalogo dei formaggi in Le ventre de Paris). Provava piacere a infondere la vita in una citazione della Borsa valori. Ma la sua teoria del romanzo, sostiene Lukács, era radicalmente falsa. Porta alla morte della fantasia e al reportage.

Lukács non scende a compromessi con la propria visione critica. Esalta Balzac, realista e animato da princìpi clericali; e condanna Zola, progressista in senso politico e precursore del «realismo socialista».

Ancor più autoritario e originale è il trattamento che Lukács fa del romanzo storico. È questo un genere letterario la cui critica occidentale ha dedicato soltanto un’attenzione superficiale. È difficile focalizzare bene la sfera del romanzo storico. A volte, la sua testa è nelle stelle mitologiche, ma più sovente il grosso si può trovare nella buona terra della letteratura commerciale. Il concetto stesso evoca alla mente improbabili amorosi che inseguono giovinette terrificate eppure vestite vaporosamente attraverso copertine di libri riccamente decorate. Solo rarissimamente, quando interviene uno scrittore come Robert Graves, comprendiamo che il romanzo storico ha virtù ben precise e una nobile tradizione. È a queste che Lukács si rivolge in uno studio importante, Il romanzo storico.

Tale forma nacque da una crisi della sensibilità europea. La rivoluzione francese e l’epoca napoleonica avevano diffuso nella coscienza della gente comune un senso dello storico. Mentre Federico il Grande aveva chiesto che le guerre fossero condotte in maniera tale da non disturbare il corso normale degli eventi, le armate di Napoleone marciarono su e giù per l’Europa riplasmando il mondo lungo la strada. La storia non era più qualcosa che riguardava archivi e principi; era diventata la struttura della vita quotidiana. A tale mutamento i romanzi di Waverley reagirono in maniera profetica e diretta. Anche qui, Lukács si muove su un terreno fresco. Noi non prendiamo Walter Scott con assoluta serietà. Con ogni probabilità, commettiamo un’ingiustizia. Se ci teniamo a sapere che artista attento fosse Scott e quale penetrante senso storico sia all’opera in Quentin Durward o The Heart of Midlothian, la cosa migliore è leggere un libro scritto a Mosca da un critico ungherese.

Lukács prosegue esplorando l’evoluzione della narrativa storica nell’arte di Manzoni, Puškin e Victor Hugo. La sua lettura di Thackeray è particolarmente suggestiva. Egli sostiene che gli elementi archeologici in Henry Esmond e The Virginians esprimono la critica di Thackeray alle condizioni sociali e politiche dei suoi tempi. Togliendo la parrucca al Settecento, il romanziere satireggia la falsità delle convenzioni vittoriane (ciò che i marxisti chiamano zeitgenössische Apologetik). Personalmente ritengo che Lukács interpreti male Thackeray. Ma si tratta di un errore fruttuoso, come lo sono spesso gli errori della buona critica, e conduce a un’idea originalissima. Lukács nota che il discorso arcaico, per abilmente maneggiato che sia, di fatto non avvicina il passato alla nostra fantasia. I maestri classici del romanzo storico scrivono narrativa e dialogo nel linguaggio dei propri tempi. Creano l’illusione del presente storico tramite la forza della fantasia realizzata e perché essi stessi sperimentano il rapporto tra la storia passata e il proprio tempo come un rapporto di continuità viva. Il romanzo storico vacilla quando questo senso di continuità non è più prevalente, quando lo scrittore sente che le forze della storia trascendono la sua comprensione razionale. Egli allora si rivolge a un passato sempre più remoto o esotico per protestare contro la vita contemporanea. Invece del romanzo storico, troviamo laboriosa archeologia. Si confronti la poetica della storia implicita in La certosa di Parma con l’artificio erudito di Salammbô. Tra artefici meno abili di Flaubert questo senso dell’artificio è rafforzato dall’uso arcaico del linguaggio. Il romanziere si sforza di rendere autentica la propria visione del passato scrivendo i dialoghi in quella che suppone sia stata la sintassi e lo stile del periodo in questione. È, questo, un debole artificio. Forse che Shakespeare avrebbe fatto meglio a far parlare Riccardo II in inglese chauceriano?

Ora, come osserva Lukács, questo declino del concetto classico del romanzo storico coincide esattamente con il passaggio dal realismo al naturalismo. In entrambi i casi, la visione dell’artista perde la propria spontaneità: in un certo modo, egli è estraneo al proprio materiale. Ne consegue che i problemi di tecnica diventano predominanti a spese della sostanza. L’immagine di Glasgow in Rob Roy è storicamente percettiva, ma scaturisce in maniera più significativa dai conflitti sociali e personali della narrazione. Non è un pezzo di restauro antiquario. Ma questo è proprio ciò che è l’immagine di Cartagine in Salammbô. Flaubert ha costruito un sontuoso guscio vuoto attorno a un’azione autonoma. Come osservò Sainte-Beuve, è difficile conciliare le motivazioni psicologiche dei personaggi con l’ambiente storico presentato. Walter Scott credeva nello spiegarsi razionale e progressivo della storia inglese. Vedeva negli avvenimenti dei propri tempi una conseguenza naturale di energie liberate nel corso del Seicento e del Settecento. Flaubert, al contrario, si volse all’antica Cartagine o ad Alessandria perché trovava insopportabile la propria epoca. Non essendo in sintonia con il presente – vide nella Comune un tardo spasimo del Medioevo – non riuscì a raggiungere una comprensione fantastica del passato.

Si concordi o no con questa analisi, la sua originalità e la sua ampiezza di riferimenti sono evidenti. Essa illustra l’esercizio essenziale di Lukács: lo studio attento del testo letterario alla luce di problemi politici o filosofici di vasta portata. Lo scrittore o l’opera singola sono il punto di partenza. Di qui la discussione di Lukács si muove all’esterno attraverso un terreno complesso. Ma il tema o l’idea centrale sono tenuti continuamente di vista. Infine, la dialettica si fa serrata, ordinandone gli esempi e le convinzioni.

Analogamente, il saggio sulla corrispondenza tra Goethe e Schiller verte soprattutto sulla discussa questione della natura delle forme letterarie. La discussione dell’Hyperion di Hölderlin dà il via a uno studio del ruolo cruciale e tuttavia ambiguo svolto dall’ideale ellenico nella storia dello spirito tedesco. Nelle sue numerose considerazioni su Thomas Mann, Lukács s’interessa di quello che considera il paradosso dell’artista borghese in un secolo marxista. Lukács sostiene che Mann decise di star fuori dalla corrente della storia, pur rendendosi conto del carattere tragico della propria scelta. Il saggio su Gottfried Keller è un tentativo di chiarire il difficilissimo problema dell’arresto dello sviluppo della letteratura tedesca dopo la morte di Goethe. In tutti questi esempi, non è possibile separare il singolo giudizio critico dal più ampio contesto filosofico e sociale.

Essendo la sua discussione così serrata e fitta, è difficile offrire citazioni significative dalle opere di Lukács. Forse un breve passo tratto da un saggio su Kleist può comunicarne il tono dominante:

Il concetto di passione di Kleist porta il dramma vicino all’arte del racconto. Una singolarità intensificata è presentata in una maniera che ne sottolinea la unicità accidentale. Nel racconto ciò è assolutamente legittimo. Questo è infatti un genere letterario concepito appositamente per rendere reale il ruolo immenso della coincidenza e della contingenza nella vita umana. Ma se l’azione rappresentata resta al livello di coincidenza… e se riceve la dignità di dramma tragico senza prova alcuna della sua obiettiva necessità, si avrà inevitabilmente un effetto di contraddizione e di dissonanza. I drammi di Kleist, di conseguenza, non indicano la strada maestra del dramma moderno. Tale strada va da Shakespeare, attraverso gli esperimenti di Goethe e di Schiller, al Boris Godunov di Puškin. A causa del declino ideologico della borghesia, essa non ebbe un seguito adeguato. I drammi di Kleist rappresentano una strada laterale irrazionale. La passione individuale isolata distrugge il rapporto organico tra il fato della persona individuale e la necessità sociale e storica. Con la dissoluzione di tale rapporto, le basi poetiche e filosofiche del genuino conflitto drammatico sono a loro volta distrutte. La base del dramma si fa esile e angusta, esclusivamente privata e personale… Le passioni kleistiane rappresentano senza dubbio una società borghese. La loro dialettica interna riflette conflitti tipici di individui che sono diventati «monadi senza finestre» in un ambiente borghese.

Il riferimento a Leibniz è tipico. La qualità della mente di Lukács è filosofica, nel senso tecnico della parola. La letteratura concentra e concretizza quei misteri di significato che costituiscono l’interesse principale del filosofo. Sotto questo aspetto, Lukács appartiene a una tradizione notevole. La Poetica è critica filosofica (il dramma visto come il modello teorico dell’azione spirituale); come lo sono gli scritti critici di Coleridge, Schiller e Croce. Se l’andatura è pesante, è perché la materia in discussione è insistentemente completa. Come altri critici filosofi, Lukács affronta problemi che hanno tormentato l’indagine dai tempi di Platone. Quali sono le distinzioni fondamentali tra epica e dramma? Che cos’è la «realtà» in un’opera d’arte, l’antico enigma dell’ombra che pesa di più della sostanza? Qual è il rapporto tra la fantasia poetica e la percezione comune? Lukács solleva il problema del personaggio «tipico». Perché certi personaggi letterari – Falstaff, Faust, Emma Bovary – possiedono una carica di vita maggiore di quella di una moltitudine di altre creature fantastiche e anzi della maggior parte degli esseri viventi? È perché sono archetipi in cui i caratteri universali convergono e ricevono una forma memorabile?

Le indagini di Lukács attingono a un campo straordinario di documentazione. Egli dà l’impressione di possedere tutta la letteratura europea moderna e tutta la letteratura russa. Questo consente una rara combinazione di robusta esattezza filosofica e di ampiezza di visione. Per contrasto, Leavis, che non è meno moralista né lettore meno attento di Lukács, è cautamente provinciale. In fatto di universalità, l’equivalente di Lukács sarebbe Edmund Wilson.

Ma la medaglia ha un suo rovescio. La critica di Lukács ha la sua parte di cecità e di ingiustizia. A volte scrive con oscurità astiosa quasi ad affermare che lo studio della letteratura non dovrebbe essere un piacere ma una disciplina e una scienza, difficile da accostare come le altre scienze. Questo l’ha reso insensibile ai grandi musicisti del linguaggio. Lukács manca di orecchio; non possiede quel diapason interiore che consente a Ezra Pound di scegliere senza sbagliare l’istante di gloria di un lungo poema o di un romanzo dimenticato. Nell’omissione di Rilke da parte di Lukács vi è un’oscura protesta contro la meraviglia del linguaggio del poeta. In un certo senso, scrive troppo mirabilmente. Anche se lo negherebbe, inoltre, Lukács tende davvero all’errore fondamentale della critica vittoriana: il contenuto narrativo, la qualità della favola, influenza la sua valutazione. La sua incapacità di includere Proust, ad esempio, getta il dubbio su tutta la visione che Lukács ha del romanzo francese. Ma la trama della Recherche du temps perdu, il fasto e le perversità che Proust descrive, offendono ovviamente il moralismo austero di Lukács. Il marxismo ha un credo puritano.

Come tutti i critici, anch’egli ha le sue avversioni particolari. Lukács detesta Nietzsche ed è insensibile al genio di Dostoevskij. Ma essendo un marxista coerente, fa della cecità una virtù e attribuisce alle sue condanne un valore oggettivo e sistematico. Leavis si trova evidentemente a disagio con le opere di Melville. T. S. Eliot ha condotto una lunga e sottile polemica con la poetica di Milton. Ma in essa le cortesie fondamentali vengono rispettate. Le argomentazioni di Lukács sono ad hominem. Infuriato dalla visione del mondo di Nietzsche e Kierkegaard, egli ne consegna le persone e le fatiche all’inferno spirituale del prefascismo. Questa, naturalmente, è un’interpretazione erronea e grottesca dei fatti.

Di recente, questi difetti di visione si sono fatti più drastici. La distruzione della ragione e i saggi di estetica apparsi da allora, ne sono guastati. Senza dubbio, vi è un problema di età. Lukács aveva settant’anni nel 1955 e i suoi odii si sono irrigiditi. Vi è in parte il fatto che Lukács è ossessionato dalla rovina della civiltà della Germania e dell’Europa occidentale. Va a caccia dei colpevoli da consegnare al Giudizio Finale della storia. Ma vi è soprattutto, a parer mio, un intenso dramma personale. All’inizio della sua brillante carriera, Lukács strinse un patto con il demone della necessità storica. Il diavolo gli promise il segreto della verità oggettiva. Gli diede il potere di impartire benedizioni o pronunciare condanne in nome della rivoluzione e delle «leggi della storia». Ma dal ritorno di Lukács dall’esilio, il diavolo è rimasto in agguato nei dintorni, chiedendo il proprio onorario. Nell’ottobre del 1956, ha picchiato con forza alla porta.

IV

Accenniamo qui a fatti di natura personale. La parte svolta da Lukács nell’insurrezione ungherese e il monachismo successivo della sua vita personale hanno un ovvio interesse storico. Ma contengono un elemento di agonia privata cui un estraneo difficilmente può accedere. Un uomo che perde la propria religione perde le proprie convinzioni. Un comunista per cui la storia si mette a fare salti mortali corre il rischio di perdere la ragione. Forse, è peggio così. Quanti non l’hanno provato, tuttavia, difficilmente possono capire che cosa significhi un simile crollo di valori. Inoltre, nel caso di Lukács, i moventi dell’azione sono oscuri.

Accettò il posto di ministro della Cultura nel governo di Nagy. Non, ritengo, per essere tra le guide di un movimento antisovietico, bensì piuttosto per conservare il carattere marxista della vita intellettuale ungherese e proteggerne l’eredità fondamentale contro le forze rinascenti della destra agrario-cattolica. Più essenzialmente, forse, perché un Lukács non può aderire a un solo lato della storia anche quando questa assume forme assurde. Non può essere uno spettatore. Ma il 3 novembre, un giorno prima che l’Armata Rossa riconquistasse Budapest, Lukács si dimise. Perché? Aveva deciso che un marxista non deve opporsi alla volontà dell’Unione Sovietica in cui s’incarna, nel meglio e nel peggio, il futuro del materialismo dialettico? Fu convinto a ritirarsi da una causa persa da amici che temevano per la sua vita? Non sappiamo.

Dopo un periodo di esilio in Romania, Lukács ottenne il permesso di tornare in patria. Ma non gli fu più consentito di insegnare e la sua opera passata divenne oggetto di attacchi e di scherni sempre più feroci. Tali attacchi in realtà sono anteriori all’insurrezione di ottobre. L’Ungheria aveva la sua versione in miniatura di Ždanov, un omuncolo feroce di nome Joseph Revai. Dapprima allievo di Lukács, ma poi geloso della celebrità del maestro, Revai pubblicò un opuscolo sulla Letteratura e democrazia popolare nel 1954. In esso redasse un atto d’accusa stalinista di tutto il lavoro di Lukács. Accusò Lukács di aver costantemente trascurato la letteratura sovietica contemporanea. Lo accusò di essere pericolosamente antiquato nella sua concentrazione su Goethe e Balzac. Persino un romanzo mediocre di un comunista, sostiene Revai, è infinitamente preferibile a un grande romanzo di un reazionario o di un premarxista. Lukács pone gli ideali letterari «formalistici» al di sopra degli interessi di classe e di partito. Il suo stile è inaccessibile al lettore proletario.

Dopo ottobre, tali accuse si fecero meno stridule. I pubblicisti ungheresi e tedesco orientali tirarono fuori di nuovo le vecchie accuse di eresia rivolte ai primi scritti di Lukács. Rievocarono la sua ammirazione giovanile per Stefan George e scorsero tracce di «idealismo borghese» nelle sue opere mature. Il vecchio tuttavia non fu toccato e per uno di quei giudizi strani, kafkiani, ammessi a volte dai regimi comunisti, gli fu persino consentito di pubblicare un volumetto di saggi presso una casa editrice della Germania Occidentale (Wider den missverstandenen Realismus, Amburgo, 1958).

Può darsi che la relativa immunità di Lukács sia dovuta all’interesse che gli intellettuali socialisti al di fuori della cortina di ferro hanno avuto per il suo caso. Ma certamente il problema più importante è questo: come considerò Lukács stesso le sue convinzioni e i suoi risultati alla luce della tragedia di ottobre? Fu attirato dal grande limbo della delusione? I suoi dei finirono per abbandonarlo?

Questioni del genere non possono essere spinte molto lontano senza cadere nella futilità: esse coinvolgono quel luogo intimo di illusione vitale che conserva la coscienza religiosa o rivoluzionaria. Il giudizio espresso da Lukács sulla rivoluzione ungherese si trova in una prefazione da lui scritta nell’aprile del 1957: «Avvenimenti importanti si sono verificati in Ungheria e altrove, costringendoci a rimeditare molti problemi connessi con l’opera di tutta la vita di Stalin. La reazione a quest’ultimo, sia nel mondo borghese che nei paesi socialisti, sta assumendo la veste di una revisione degli insegnamenti di Marx e di Lenin. E ciò costituisce certamente la minaccia principale al marxismo-leninismo». Queste parole sembrano eludere disperatamente il punto. Ma teniamo bene in mente una cosa soltanto: per uomini come Koestler o Malraux, il comunismo fu un espediente temporaneo di passione. Il comunismo di Lukács è la fibra stessa della sua intelligenza. La sua interpretazione della crisi dell’ottobre 1956, qualunque possa essere, sarà stata ottenuta entro la cornice di una visione dialettica della storia. L’uomo che ha perso la vista continua a vedere quanto gli sta intorno in forma di immagini ricordate. Per sopravvivere intellettualmente, Lukács deve aver elaborato un compromesso interiore di qualche genere: simili spedizioni punitive nella propria coscienza sono tipiche della condizione marxista. Il suo commento sulla minaccia del revisionismo ci indica la strada. Se lo interpreto in maniera corretta, Lukács sta dicendo che l’episodio ungherese è un’estensione finale, una reductio ad absurdum della politica stalinista. Ma tale politica era una falsa partenza dalla dottrina marxista-leninista e la violenza con cui venne attuata ne prova soltanto il fallimento. La giusta reazione al disastro ungherese non implica pertanto un abbandono dei princìpi primi marxisti. Al contrario, bisogna tornare a tali princìpi nella loro formulazione genuina. O, come si esprimerebbe uno dei capi dell’insurrezione: «Opponiamoci all’Armata Rossa in nome del Soviet dei lavoratori di Leningrado del 1917». Vi è forse, in questa idea, l’antico, ingannevole sogno del comunismo separato dall’oscurantismo e dalle ambizioni particolari della dominazione russa.

Lukács si è sempre ritenuto responsabile verso la storia. Ciò gli ha consentito di produrre un corpo di opere critiche e filosofiche che esprimono intensamente lo spirito crudele e serio dell’epoca. Che noi ne condividiamo o no le convinzioni, non c’è dubbio che egli ha conferito alla Musa minore della critica una notevole dignità. Gli ultimi anni di solitudine e di pericolo ricorrente non fanno che sottolineare quanto ho osservato all’inizio: nel Novecento non è facile per una persona onesta fare il critico letterario. Ma, del resto, non lo è stato mai.

1 Storia e coscienza di classe è ora reperibile in francese. Viene inoltre ristampato anche nell’edizione tedesco-occidentale delle opere complete di Lukács, insieme con altri saggi giovanili che sono tra i suoi migliori prodotti in campo filosofico e fanno di lui un autentico predecessore di Walter Benjamin. Le autorità culturali dell’Est permettono queste pubblicazioni occidentali di libri marxisti eretici ma prestigiosi: è questo un tocco caratteristico di politica «bizantina».

Lukács parla

di György Lukács

intervista di Naïm Kattan

«La Quinzaine littéraire», 1-15 dicembre 1966

trad. it. gyorgylukacs.wordpress.com

Il suo appartamento è situato all’ultimo piano di uno stabile che dà sul Danubio. I libri tappezzano i muri. Guardo qua è la a caso: opere complete di Hegel e di Marx. Sul tavolo dei libri, delle riviste in ungherese, in tedesco, in francese. È qui che da dieci anni Lukács lavora alle sue opere.

Ho iniziato la mia opera vera e propria a settant’anni. Pare che esistano delle eccezioni alle leggi materiali. In questo sono un adepto di Epicuro. Anche io sto invecchiando. Da tanto tempo cerco la mia strada. Sono stato idealista, poi hegeliano. In Storia e coscienza di classe ho provato ad essere marxista. Per molti anni sono stato funzionario del partito comunista a Mosca. Ho potuto rileggere, da Omero a Gorky. Fino al 1930 tutti i miei scritti erano degli esperimenti intellettuali. Poi ci furono degli abbozzi e dei preparativi. Anche se sono superati, questi scritti sono stati di stimolo ad altri. Continua a leggere

Marxismo e romanzo storico

di Guido Piovene

«La Stampa» 30 giugno 1965

La più importante opera critica di Giorgio Lukács Marxismo e romanzo storico

Per il filosofo, il romanzo vivo e classico è sempre “storico”: rievocando il passato (Manzoni) o rappresentando il presente (Balzac), fa della società la vera protagonista – Mancando questa coscienza, decade: da Dostoevskij a Kafka, il giudizio di Lukács è negativo

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Pubblicato e discusso nell’Unione Sovietica, dove il famoso pensatore ungherese risiedeva a quel tempo, pochi anni prima della guerra, Il romanzo storico di Giorgio Lukács è uscito ora presso Einaudi. Nella sua bella introduzione, Cesare Cases lo definisce «il libro più fuso e articolato che il Lukács critico e storico letterario abbia scritto»; ma ammette che il nostro interesse nel leggere qualche parte del libro è più storico che attuale; ci troviamo di fronte al monumento critico di un periodo «ormai concluso». Il marxismo di Lukács, ricordiamo qui di passaggio, suscitò controversie e riprovazioni settarie. Lukács fu imprigionato, poi liberato, dopo la rivolta di Budapest. Nel complesso Lukács ci ha dato l’espressione più vera e più completa della critica marxista di quel periodo, giacché non possiamo chiamare vera la critica di quelli che toglievano all’arte qualsiasi autonomia per farne un semplice strumento del potere politico. Il concetto su cui Lukács impernia il suo discorso è l’eccellenza, il valore esemplare del romanzo «classico» e, a contrasto, l’inferiorità di tutto quello che rientra nella categoria molto vasta del «decadente». L’apertura, o chiusura, all’ispirazione storica di chi scrive romanzi costituisce il criterio discriminante. Il titolo, Il romanzo storico, non deve indurre a credere che vi siano per Lukács altri generi di romanzi di pari dignità. Il romanzo che ammira e accetta è sempre storico, rappresenti la storia passata (Walter Scott, Manzoni, tenuto molto in alto), o «il presente come storia» (Balzac, Stendhal). Il romanzo, nel periodo d’oro, è stato l’epopea della società borghese ancora progressiva, e potrà esserlo domani di quella socialista, purché vi ritrovi lo stesso grado di libertà nel descrivere, senza sovrapporvisi arbitrariamente, tutte le varietà e i conflitti d’una società reale. I più grandi romanzi sono nati dall’affermarsi della «consapevolezza storicistica»; o il romanziere sente, rappresenta dal vivo, il moto e il dramma della storia, ed è realista e progressivo; o, se prende altra strada, esce dalla realtà, cade nel falso, fa opera reazionaria. La «consapevolezza storicistica», e il romanzo storico che ne deriva, hanno il loro grande prologo nella rivoluzione francese. Si apre il periodo d’oro del romanzo storico, anzi del romanzo tout court, che si chiude approssimativamente con la reazione successiva ai moti del 1848. Il romanzo storico sostituisce l’antica epopea perché la psicologia degli uomini, «le circostanze economico-morali della loro vita», si sono così complicate da rendere necessaria una descrizione vasta e differenziata. L’arte del grande romanziere come Balzac, che per Lukács costituisce il vertice, sta nell’essere dentro «la varietà e molteplicità d’aspetti della vita di un popolo», nel subbuglio delle «aspirazioni e tendenze individuali», ma di vederle miste al «contenuto sociale dei conflitti», da cui non si possono scindere. «Gli elementi complessi e capillari di tutta la società dell’epoca trovano il loro giusto posto nel quadro»; «lo sviluppo delle circostanze oggettive» emerge dal «graduale manifestarsi dei caratteri individuali che ne scaturiscono». Ma il grande romanziere, realista e non naturalista, non copia la realtà; la concentra nelle sue invenzioni, la esprime in individui tipici. Le grandi personalità della storia sono rappresentate nella loro giusta luce se il romanziere fa sentire com’esse sorgano dalle oscure correnti del popolo, a cui danno voce; sono, nel tempo stesso, dominatrici ed accessorie. La società coi suoi conflitti è la vera protagonista. Il secondo periodo, quasi del tutto negativo, si estende dalla reazione borghese dopo il 1848, che separa borghesia e popolo come «due nazioni diverse», alla soglia dei nostri giorni. Il senso della storia decade e si corrompe. Il romanzo la elimina, o la conserva come ambiente ornamentale-esotico di psicologie private, di destini personali chiusi. Nel soffio di tendenze destoricizzanti, metafisiche, mistiche, la storia d messa in causa solo per tradire se stessa. Un esempio cospicuo della «disumanizzazione» o «privatizzazione» della storia in un grande artista è Salammbô di Flaubert; l’immenso e indifferente scenario di Cartagine, in cui si accumula l’atroce, l’inumano, lo strano, l’anormale, il mostruoso, è costruito solo per fare da sfondo alle agitazioni isteriche della protagonista e per fuggire come in sogno l’odioso presente. Il popolo non è più fatto d’individui diversi e veri ma diventa una massa amorfa. Esistono gli scrittori dalla parte del popolo (Zola). Ma, costretti a rappresentarlo diviso dall’insieme della società, ne danno un’immagine falsa, astratta, generica, e cadono negli stessi vizi del romanzo borghese a cui vogliono contrapporsi. Vi è poi il terzo periodo, quello più vicino a noi. Anche tra i migliori, che aspirano a ritrovare il contatto col popolo, il rapporto tra idea e rappresentazione è «troppo diretto, troppo intellettualistico, troppo generale». Necessario, secondo Lukács, «il superamento della funesta eredità dell’evoluzione ideologica tardo-capitalistica», la sua «liquidazione artistica», il ricollegamento al romanzo storico classico della borghesia progressiva, (Balzac, Tolstoj, ecc.), ideologico senza forzature, solo perché sentiva la realtà dal suo interno. Il marxismo deve spiegare che l’intermezzo decadente ha dato opere senza verità, inadeguate anche artisticamente, anche quando si devono ad artisti con grandi doti. È una conclusione che certo non ci può rendere contenti. La visione di Lukács, conservando la propria forza, rivela oggi tutto quanto v’è in essa di antistorico e d’irreale. Tolstoj è glorificato; Dostoevskij, proprio in un libro imperniato sul grande romanzo dell’Ottocento, è taciuto. Negato ogni valore all’eccentrico, al soggettivo, e naturalmente al perverso. Il repertorio dei salvati e quello dei respinti, la graduatoria dei valori, non sono ammissibili. Si dà un peso eccessivo ad Anatole France, a Romain Rolland romanziere, a Gorkij («il più grande scrittore del nostro tempo»); Joyce e Musil sono citati di passaggio e soltanto a titolo di biasimo, e di Proust e di Kafka nemmeno e fatto il nome. Al loro posto compaiono nella scena scrittori comprimari o anche dimenticati. Anche nel mondo socialista ogni sforzo intellettuale autentico è volto a demolire questo genere di restrizioni. La realtà ha un numero troppo grande di stanze perché si possa aprirle tutte con una chiave sola, come in quel periodo s’illusero anche critici e storici dell’altezza di Lukács. Con i suoi criteri parziali, egli ne apre una parte; penetra a fondo nel romanzo, che gli è congeniale, della prima metà del secolo XIX; scrive pagine geniali e fertili su quel romanzo, sui rapporti tra romanzo e dramma, e su altri argomenti che qui dobbiamo sorvolare. Ma altri reparti gli rimangono chiusi. La stessa critica marxista successiva (vedi Edwin Perry Burgun) investe la letteratura forse con meno impeto e calore ideologico, ma anche con maggiore ricchezza di strumenti, il che la rende più prudente nell’eliminare i maestri. E rimane il fatto che i versi di Baudelaire citati da Lukács («Emporte-moi, wagon! enlève-moi, frégate!», con quel che segue) malgrado la «infinita e disperata, delusione» che esprimono, la loro ispirazione antistorica, bastano da soli a seppellire le buone intenzioni di cento romanzieri «storici» secondari.

Con Lukács a Budapest

di Stephen Spender

«Encounter», December 1964, pp. 54-58

traduzione di gyorgylukacs.wordpress.com (per l’originale clicca qui)

Avvertenza del traduttore: questa è una traduzione di servizio, con piccole modifiche di stile e qualche traduzione a senso. Tuttavia per un uso scientifico dell’intervista, si consiglia vivamente la lettura dell’originale inglese.


Raggiungo a piedi il suo appartamento al quinto piano (noto che il pozzo del cortile del condominio è trivellato di colpi di pistola). Suono il campanello e vengo introdotto nel suo studio. Lui sta telefonando e io ho un po’ di tempo per dare un occhiata alla libreria stipata di libri – che avevano piccoli segnalibro per la consultazione –, al piccolo busto di Goethe sul suo tavolo dirimpetto alla sua sedia e ad alcune targhe di bronzo. È lo studio di un Gelehrter (un dotto), stracolmo di sapere, ma, in questo chiaro giorno di settembre, con una piacevole aria di pulizia e luce. Lukács entra, si siede al suo tavolo, dinnanzi a Goethe. È basso con una larga testa su un piccolo corpo e un volto, per così dire, scavato alle estremità della fronte dove sembrano esservi dei profondi solchi. Ma più al centro la carne volge in rughe di espressione, una fronte accigliata, un naso pronunciato, orecchie a sventola e occhi chiari con pesanti borse sotto gli occhi. Mentre parliamo sono un po’ preoccupato, confrontando la sua protratta e vigorosa capacità comunicativa in un’altra lingua col suo aspetto piuttosto fragile. L’impressione generale che dà, nell’aspetto e nell’atteggiamento vigoroso, è quella di un ebreo come Bertrand Russel. Come Russel assomiglia a un intellettuale, ma non solo: vivace, ma non intellettualistico. Un po’ sciupato, ma gagliardo alquanto: uno non direbbe che ha ottant’anni, per quanto egli vi faccia continuo riferimento.

I suoi modi sono quelli di un aristocratico cortese e discreto. Con Goethe non solo dinnanzi, ma anche dietro, nei volumi, raggiunge le vette più alte. Le cime tra le quali si muove agilmente sono – si vedrà subito – Dante, Goethe, Tolstoj, Proust, Mann. Alla fine sono andato via con quel senso di euforia che si prova dopo essere stati con persone di intelligenza superiore e che non fingono di non esserlo (come invece gli intellettuali inglesi fanno spesso).

Non prendo appunti, in parte perché odio uscire con un quaderno, in parte perché non avevo alcuna intenzione di scrivere sulla nostra conversazione, almeno fino a quando non sono stato sul punto di congedarmi. Allora gliene accenno e gli dico di essere dispiaciuto per non aver qualcosa su cui scrivere. Mi risponde che è meglio dare il senso della conversazione piuttosto che riportare tutto minuziosamente. «Altrimenti avresti potuto portare un registratore, che però non avrebbe permesso affatto una vera conversazione». Il registratore uccide l’intervista perché la pone allo stesso livello di una lettera dettata e firmata in assenza.

Ricordiamo il nostro incontro a Ginevra, al primo dei Rencontres de Genève nel 1946, dove erano presenti Karl Jaspers and Merleau-Ponty, e parliamo della recente scompara di Merlau-Ponty. Lukács mi dice che al tempo degli incontri lui ammirava il livello e l’apertura dell’intelligenza di Merleau, e che aveva avuto l’impressione che egli era una mente capace di grandi sviluppi, più di quanto non lo fosse Sartre. Ma dopo Merleau-Ponty divenne un po’ accademico, «troppo professore universitario», allorché Sartre ne ebbe grande considerazione, contribuendo al suo successo. I suoi recenti lavori – si sia d’accordo o meno con essi – furono le cose più interessanti.

Lukács mi dice di aver appena finito di fare conferenze, partecipare a dibattiti, etc., e che ora è tempo di fermarsi e provare a fare il punto sulle elaborazioni di una vita. La sua è la situazione opposta a quella di Bertrand Russel, che ha scritto i suoi lavori filosofici abbastanza giovane ed è ora libero di fare pronunciamenti e darsi al mondo dell’azione.

Egli ha appena finito la prima parte del suo libro sull’“Estetica marxista” e sta ora scrivendo sulla relazione tra la personalità umana e la società nel sistema marxista. È un soggetto complesso perché non si tratta né dell’idea che la persona sia completamente condizionata dalla società – un’unità sociale – né del fatto che essa sia completamente separata da essa. Per esempio, in una famiglia una persona non è isolata: viene influenzata dalle relazioni che intrattiene e che, a loro volta, vengono da influenzate dalla stessa persona. Si è fatti dalla società e si fa la società.

Mi chiede cosa sto scrivendo; dico che le sue annotazioni sono particolarmente interessanti per me perché da anni sono impegnato nella scrittura di una poesia che indaghi l’esperienza della storia del proprio tempo simboleggiata dai pronomi personali – Io, tu, lui, lei, noi, loro, etc. Uno è dapprima cosciente di sé come “Io”, poi anche di altri sempre come “Io”. C’è una fase (in particolare nell’adolescenza) di perdita di sé nell’eccitazione di essere “noi”. “Noi” giovani contro “loro” i vecchi, “noi” compagni contro “loro” i capitalisti. “Loro” non sono solo persone cui “noi” ci opponiamo, ma loro sono potenzialmente assorbiti nelle cose che possiedono, astrazioni che rappresentano. Ogni classe che appare come “loro” al “noi” di un’altra classe è considerata dagli “Io” che sono membri del “noi” come un po’ disumanizzata.

«Ciononostante», obietta Lukács, «ogni cosa umana ha una base soggettiva». È un’illusione credere che la classe dominante non sia soggettiva. «Ma le persone tendono a percepirsi come viventi in una storia impersonale, in mezzo a forze storiche, eredi di un passato spersonalizzato», ho risposto. Pensarsi nella storia del nostro tempo in un modo da penetrare e scoprire la propria soggettività anche quando si sta parlando di quei “loro” tremendi come Stalin o Hitler, questa è la mia idea.

Mi chiede se ho pensato a una sequenze di scene differenti o a un struttura narrativa. Rispondo che avrei scritto una sequenza interrelata di parti. Lukács non crede sia possibile scrivere un lungo poema moderno con un unico metro continuo. Io dico che niente sarebbe più noioso oggi di un esametro goethiano o di una pentapodia giambica wordsworthiana, ma che il grande esempio per i poeti moderno è Dante, e non per la sua terza rima, ma per la natura assolutamente letterale che sta alla base delle sue chimere immaginifiche. Per quanto fantastiche possano apparire le sue invenzioni, esse rimangono concrete e possono essere espresse in un modo diverso da quello letterario, possono essere ritratte o scolpite. C’è sempre nello schema dantesco un piano, un modello, nell’immaginario. Nemmeno in Shakespeare ciò avviene, al punto che l’immaginario tende a dissolversi nel linguaggio iperbolico.

È poi d’accordo con l’idea che la Divina commedia sia in realtà una sequenze di scene, non un continuo sviluppo di narrazione e temi come il Paradiso perduto. Crede che l’Inferno sia la parte migliore della Commedia e possa essere visto come un vasto sistema di camere sotterranee. Si passa da una stanza all’altra, ad esempio da una scena con Paolo e Francesca a una con Ugolino. Non potrebbe esserci un poema moderno corrispondente alla Divina Commedia, perché Dante ha scritto in un età in cui gli uomini credevano che la condizione fondamentale dell’esistenza fosse immutabile. I personaggi nell’Inferno non sono quelli condizionati dal loro ambiente o dall’inferno. Sono, per così dire, statue rapprese in un gesto e proiettate dalle loro umane qualità morali in una storia nella quale i fondamenti della vita umana non mutano. Quando Dante parla con Paolo e Francesca loro gli rispondono secondo il ruolo che hanno recitato nella loro vita, non come persone trasformate dalle circostanze.

Lukács pensa che nella nostra epoca, diversamente da quella di Dante, noi non possiamo concepire i caratteri come fissi, statici, separati dalle idee e dagli interessi della società nella quale le persone vivono. Il marxismo concepisce le persone come influenzate da certe tendenze, certe direzione intraprese dalla società, senza cristallizzarle in caratteri che possono essere tolti alla storia per essere esaminati come oggetti separati. Nessuno è completamento buono o cattivo, giusto o sbagliato. Piuttosto può prendere una buona o cattiva direzione. Con ciò Lukács non intende che le persone siano prevedibilmente influenzate dalle situazioni, sì da poter essere analizzate meccanicamente. Dopo la Rivoluzione del 1917 si è avuta in Russia una famosa discussione tra Lenin e Bucharin, nella quale quest’ultimo sosteneva che, una volta realizzati un completo dominio delle informazioni sociologiche e un completo controllo della scienza politica sullo sviluppo storico, allora il comportamento umano sarebbe stato interamente prevedibile. Lenin replicò che era una sciocchezza perché l’imprevedibilità è una qualità essenziale della natura umana. Marx ha detto che la storia non finisce con il comunismo, ma che inizia con esso. Dopo la vittoria finale del comunismo, ogni cosa precedente sarebbe stata preistoria.

Tolstoj rispetto alla storia era realista quanto Marx, sebbene non si occupasse di marxismo. Ma in Guerra e Pace, il principe Andrej diventa, in seguito agli eventi nei quali si è trovato a vivere, un’altra persona. Al tempo in cui viene ferito, sul campo di Austerlitz, egli è dominato dall’ambizione di diventare un altro Napoleone. Ma successivamente – dopo Borodino – quando è nell’accampamento sdraiato tra gli altri feriti, è semplicemente un uomo tra gli altri che hanno lottato per la propria patria. E tra questi due eventi c’è la relazione con Nataša Rostova. Quindi, ad Austerlitz c’è il crollo delle ambizioni del principe Andrej; a Borodino una crisi morale ancora più profonda he si manifesta sotto forma di perdono e compassione, sorti quando vede il suo odiato rivale, Anatole, portato al campo feriti su una barella, ed egli non prova per lui nient’altro che pietà.

«Quindi tu pensi che il marxismo possa fornire uno schema per la poesia alla maniera in cui Tommaso d’Aquino lo diede a Dante?». «Io credo di no, perché noi non abbiamo un concetto fisso delle caratteristiche morali, come dire bianco o nero, buono o cattivo, ma solo direzioni dentro la dialettica del processo storico; e la storia non si ferma davanti ai risultati raggiunti». Gli chiedo oggi qual è un buon esempio di opera letteraria marxista. Egli ammira molto Una giornata di Ivan Denisovič di Aleksandr Solženicyn. La cosa importante di questo romanzo – dice – è che lo scrittore non ha solo descritto l’orrore del campo di concentramento, ma anche ritratto il modo nel quale differenti esseri umani reagiscono a tale situazione, se affermano la loro natura umana o se la tradiscono. «Credo che oggi il compito fondamentale degli scrittori nei Paesi socialisti sia l’interpretazione poetica del periodo stalinista, perché ciò che vi era di buono o di cattivo è legato a quel tempo che lo prodotto. Per cui nel campo del realismo socialista un passo in avanti è stato fatto con questo romanzo».

Ma, suggerisco, dire che Tolstoj era marxista senza saperlo significa dire che ogni bravo scrittore inevitabilmente è, che lo sappia o meno, una marxista. Il suo essere marxista consiste semplicemente nel mostrare nelle sue opere la relazione tra l’individuo e il tempo e lo spazio storici. Dunque forse l’Ulisse è inconsapevolmente un romanzo marxista. Lukács disapprova, trova l’Ulisse noioso. Lo ha letto solo perché obbligato, perché gli avevano detto che era “importante”. Egli crede che Joyce abbia raggiunto risultati poco rilevanti, se si eccettua l’indagine del meccanismo attraverso il quale si produce la coscienza soggettiva di un determinato personaggio, associando impressioni, memorie, idee. Secondo Lukács Joyce è un naturalista nella descrizione dei processi associativi, e questo non fa di lui un realista socialista. Lukács non è interessato ai meccanismi in sé, ma al pensiero e alle conclusioni cui esso arriva.

Mi chiede se so chi ha inventato l’espressione “monologo interiore”. Dico che penso essere qualche ignoto romanziere francese dell’Ottocento di cui ho dimenticato il nome. Nient’affatto, mi risponde. Il critico russo Černyševskij ha per primo notato che ciò che distingue gli scritti giovanili di Tolstoj nella prima metà degli anni Cinquanta dell’Ottocento era l’uso del monologo interiore. E naturalmente ve ne sono molti esempi nelle opere tardi di Tolstoj (i pensieri del principe Andrej dopo Austerlitz), e in Dostoevskij. Il contributo di Joyce è quello di descrivere naturalisticamente il vero meccanismo del monologo interiore.

«E Proust allora?» «Oh, il caso di Proust è molto differente da quello di Joyce. In Alla ricerca del tempo perduto c’è una vera raffigurazione del mondo, e non un naturalistico – pretenzioso e grottesco – fotomontaggio di associazioni. Il mondo di Proust può sembrare frammentario e problematico. In un certo senso completa la situazione dell’ultimo capitolo de L’educazione sentimentale, dove Frédéric Moreau torna a casa dopo la disfatta della Rivoluzione del 1848: egli non fa più esperienza della realtà, ma vive solo il desiderio per il suo tempo perduto. Il fatto che questa situazione fornisce il contenuto peculiare dell’opera di Proust è la ragione della sua frammentarietà e della sua natura problematica. Cionondimeno, essa è rappresentazione artistica di una vera situazione.

«Vedi, quello che mi chiedo di un romanzo non è se esso descriva naturalisticamente il mio moto interiore – Mr. Bloom che siede al bagno e pensa – ma se esso accresca la somma delle mie esperienze di vita. Per me Proust lo fa, Joyce no». Un esempio di ciò che egli ammira è la scena di Carlotta a Weimar di Thomas Mann in cui Goethe al mattino si ridesta da quelle immagini ancora fluttuanti su di lui dal sogno, dei, dee e ninfee – «una realtà genuinamente umana e naturale».

Lukács paragona se stesso a quel monello della storia di Hans Andersen, che vede che l’imperatore è senza vestiti. Tutti elogiano Joyce. Lukács vede e dice che l’imperatore passeggia nudo. Lukács osserva e vede che non c’è niente in Samuel Beckett, niente nel Quartetto di Alessandria di Lawrence Durell, niente nella cosiddetta scuola di critica semantica. «Ma, naturalmente, posso dire queste cose solo perché sono un vecchio, un ottantenne».

Mi sorride. E quando gli chiedo della moderna pittura lui mi dice che forse è perché è troppo vecchio, ma vede nella recente pittura la tendenza a inventare tecniche che nessuno ha mai usato prima – o che a nessun altro pittore contemporaneo è capitato di usare e per questo di ciò gli capita di essere il pittore più discusso, ma dopo sei mesi la novità svanisce, e appare chiare che a parte il mezzo il quadro non ha contenuto. Invece di cercare il contenuto i critici e il pubblico cercano in un pittore qualche nuovo trucco. Ma è sbagliato pensare che Cézanne e Van Gogh, ai quali spesso si fa risalire la linea di sviluppo della pittura moderna, erano vuoti di contenuti. Il loro lavoro ha molto a che fare con il contenuto. Ma dopo di loro c’è sta una tendenza sempre più marcata in arte a separare la tecnica dal contenuto, facendolo diventare un fine in sé.

Ma forse dopo tutto l’arte del tempo in cui abbiamo vissuto, che abbiamo etichettato come “arte moderna” e che ha forgiato gli standard del gusto dal 1914 ai tardi anni Cinquanta, è stata il riflesso di un periodo in cui per gran parte delle persone i problemi della vita erano stati ridotti ai termini della mera sopravvivenza ai terribili disastri, guerre e sconvolgimenti. Egli però crede che oggi – nonostante le apparenze – stiamo uscendo dai quarant’anni di buio per entrare in uno di relativa luce. «Penso che ciò sia vero per tutta l’Europa, sia dell’est che dell’ovest. Spero che tu non te la prendi se rimprovero Encounter per non voler vedere questi cambiamenti. Voi siete conservatori in proposito perché continuate a scrivere che le Democrazie Popolari vivono ancora sotto l’era stalinista e sostenete le posizioni che Koestler e Orwell sostenevano una generazione fa».

Guardando indietro nel tempo, alla sua vita passata, Lukács si dice contento che la sua vita sia coincisa con ottanta anni di grandi cambiamenti storici. Era ancora uno studente al tempo della pubblicazione dei Buddenbrooks. Egli è vissuto negli anni precedenti il 1914, un’epoca oggi inimmaginabile. Il periodo dal 1914 al 1956 ora viene considerato come storia di guerra, rivoluzioni, disoccupazione, fame, fascismo, campi di concentramento e infine – dopo la Seconda guerra mondiale – come la storia dello stalinismo, della guerra fredda e della paura della distruzione di tutta la nostra storia culturale ad opera della bomba atomica. Lukács crede che uno dei sintomi di questo nuovo periodo sia la rinascita di interesse per il marxismo.

«Ci troviamo all’inizio di una nuova fase, ma la maggior parte delle persone non ne ha consapevolezza», mi scrive in una lettera che restituisce il mio abbozzo di intervista. In una altra lettera lamenta il fatto che egli non aveva pensato alla nostra conversazione come ad una intervista pubblica, e ha fatto degli appunti alla mia bozza solo nel senso della Solidarität der Schriftsteller – la solidarietà degli scrittori. Egli crede che solo risposte a importanti questioni su argomenti di grande interesse pubblico meritano di essere pubblicate. La nostra era solo una vivace discussione tra scrittori. Comunque, ha lasciato a me la decisione finale sulla pubblicazione dell’intervista. Io ho deciso di pubblicarla, in parte perché spero che essa sia un esempio di quel tipo di dialogo “tra colleghi” dell’est e dell’ovest, che Encounter dovrebbe ora inaugurare. Pubblicare questa intervista è forse il solo modo per rispondere al rimprovero di Lukács al nostro pubblicare solo “report ostili”. Forse io posso aggiungere a nostra debole difesa che la maggior parte di coloro che a posteriori approvò l’“antistalinismo” tra il 1945 e il 1956 è spesso quella un tempo ci ha attaccava per il nostro antistalinismo della prima ora. Noi tutti oggi concordiamo sul fatto che gli eventi e gli atteggiamenti in Europa sono cambiati, e che a motivo di ciò una una nuova atmosfera e nuove relazioni sono possibili. Gli scrittori dietro la cortina di ferro sono colleghi degli scrittori di qui; noi rispettiamo la loro sensibilità e rispettiamo i loro punti di vista quando (come ora) non obbediscono ad atteggiamenti e disposizioni ufficiali.

L’estetica di Lukács, i suoi critici, i suoi avversari

di Nicolae Tertulian

da Lukács e il suo tempo. La costanza della ragione sistematica, a c. di M. Valente, Tullio Pironte Editore, Napoli 1984 (Atti del convegno di Roma, dicembre 1981).

La Estetica di Lukács, circa 20 anni dopo l’apparizione nella sua forma compiuta, nei due grandi volumi pubblicati in tedesco dal titolo Die Eigenart des Ästhetischen (La peculiarità dell’estetico), non ha ancor ricevuto, ed è sorprendente che sia così, l’accoglienza critica che attendeva e meritava. Sarebbe errato asserire che manchino del tutto commenti relativi a questa importante opera (io stesso ho dedicato al pensiero estetico di Lukács lunghi e minuziosi studi) ma è certo che un’analisi esauriente della sua struttura profonda, delle sue principali articolazioni, del suo ricco spiegamento categoriale, si fa ancora, a quanto mi risulta, attendere. Continua a leggere