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György Lukács

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György Lukács

Archivi tag: realismo e antirealismo

Problemi della coesistenza culturale

15 domenica Nov 2015

Posted by György Lukács in I testi, Traduzioni italiane

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Tag

alternative, arte, chi a chi?, competizione economica tra i sistemi, concezione monolitica dell'avversario, contenuto di classe della coesistenza, crisi, Gorkij, guerra atomica, Lenin, letteratura, lotta ideologica all’interno della coesistenza culturale, nesso intimo tra la validità storica di una concezione del mondo e l’intensità con cui essa serve alla conservazione della sua formazione sociale, realismo e antirealismo, realismo socialista, Solženitsyn, spiegzione ontologica dello stalinismo, sviluppo ineguale dei differenti campi di cultura, tendenza all’universalità di una formazione sociale


di György Lukács

[Probleme der Kulturellen Koexistenz (1964),  tra. it. di Giuseppina Panzieri Saija, in «Nuovi Argomenti», nn. 69-71, 1964, ora in G. L., Marxismo e politica culturale, Einaudi, Torino 1968].


Qualunque possa essere l’esito immediato degli attuali colloqui per la pace, è certo che nei prossimi decenni la coesistenza pacifica tra il mondo borghese e quello socialista acquisterà importanza sempre crescente. E poiché le discussioni attuali intorno a questo tema mostrano per lo più una notevole confusione sia nella determinazione dei fondamenti sia in quella delle prospettive, ci sembra opportuno esaminare brevemente i problemi teorici più generali che stanno alla base di questo complesso.

I

Soprattutto da parte dell’Occidente, si sottolinea di continuo che fino a quando l’Unione Sovietica non avrà rinunziato al suo obbiettivo, comunismo mondiale, non si potrà mai parlare di vera coesistenza. Sul piano teorico, questo ci sembra un discorso vuoto, mentre sul piano pratico esso significherebbe – per lo meno – il perpetuarsi della guerra fredda. Infatti, chiunque abbia una conoscenza anche approssimativa dell’essenza economica del capitalismo e del socialismo, dovrebbe sapere che entrambi i sistemi, a differenza di precedenti strutture economiche, hanno, in base ai loro stessi fondamenti, un carattere di universalità. Entrambi poterono sorgere soltanto sul fondamento per cui il mondo intero è diventato sul piano economico, e per ciò stesso anche politico, una struttura intrinsecamente interdipendente. In entrambi vi è la tendenza a modellare il mondo secondo la propria forma specifica, né possono rinunziare a questo tentativo obbiettivamente necessario senza contemporaneamente rinunziare a se stessi. Di conseguenza, il problema reale può essere posto soltanto così: dal momento che la guerra atomica, e con essa ogni guerra capace di sovvertire il mondo, esce dall’ambito delle possibilità reali, con quali mezzi queste tendenze di sviluppo totalmente universalistiche possono operare per realizzarsi? Pertanto, un modo pratico e razionale di rapporto tra questi due grandi sistemi può essere cercato soltanto sulla base del presupposto di queste attività necessariamente universali.

Ciò significa che la coesistenza dei due sistemi – dopo aver eliminato dapprima di fatto e poi su un piano sempre più decisamente istituzionale la possibilità di soluzioni belliche – può essere soltanto una forma nuova della lotta di classe internazionale. In una conferenza da me tenuta nell’estate del 1956, indicavo già che la domanda di Lenin «chi a chi?» è il fondamento dinamico di ogni coesistenza, di ogni dialogo all’interno della coesistenza. Da parte marxista, ciò è stato sempre affermato. Ora ciò che importa è che i politici e gli ideologi occidentali pervengano alla convinzione che anche la loro posizione, sia che venga esaminata nel campo della politica e dell’economia, della filosofia o dell’estetica, è una posizione di classe e non già la «rivelazione» di una ragione posta al difuori della società. Da tale convinzione non scaturisce affatto che i dialoganti debbano intendere il proprio punto di vista in modo relativo. Possono benissimo continuare a considerarlo l’unico giusto, così come facciamo noi marxisti; il riconoscimento teorico dell’inevitabilità del fondamento di classe nella pretesa di universalità sociale da parte dell’avversario, non deve portare ad un relativismo autocritico, giacché tale pretesa, pur essendo riconosciuta inevitabile sul piano sociale ed economico, può essere criticata su quello teorico come contraddittoria e insostenibile, così come avviene per l’ideologia capitalistica del punto di vista del marxismo. Di conseguenza, non si tratta di compiere ritirate né concessioni, ma soltanto di comprendere storicamente la posizione reale dell’avversario, di polemizzare contro ciò che egli realmente intende e deve necessariamente intendere, partendo dal suo punto di vista.

Il principio realmente attivo che determina la tendenza all’universalità di una formazione sociale, risiede naturalmente nella struttura e nella dinamica della sua economia. Pertanto, una analisi veramente ampia ed esauriente della coesistenza dovrebbe prendere le mosse di qui. Ma poiché il nostro obbiettivo non è così ampio, dobbiamo limitarci su questo problema ad alcune osservazioni, per poter giungere al più presto al nostro tema specifico. Innanzi tutto, una eliminazione istituzionale della guerra prima o poi dovrà portare all’abbandono di qualsiasi discriminazione nelle relazioni economiche. Tali discriminazioni, infatti, sono sostanzialmente una preparazione economica della guerra, e il fatto che potenti organizzazioni monopolistiche possano sfruttare una situazione di questo tipo per propri interessi più ristretti, non muta sostanzialmente il quadro complessivo, anche perché tutte le misure discriminatrici dal punto di vista economico sono strumenti della guerra fredda, e questa, una volta eliminata stabilmente la guerra vera e propria, dovrà scomparire prima o poi, più facilmente poi che prima.

È chiaro che soltanto la competizione economica tra i sistemi, che da ciò scaturisce, la forma reale della coesistenza economica, forniscono il motivo – in ultima analisi – decisivo per cui gli uomini di un sistema sceglieranno in favore del proprio o di quello avversario, ciò che costituisce appunto il contenuto decisivo della lotta di classe che sta alla base della coesistenza. Ho già illustrato in altre occasioni come lo stesso sviluppo economico fornisca la propaganda più efficace in questa competizione. Ma, ovviamente, ciò vale per lo sviluppo reale, non per uno sviluppo proclamato propagandisticamente. Ho già richiamato l’attenzione sul fatto che questa preponderanza della sfera economica non è un motivo operante in assoluto. Anzi – e ancora una volta in ultima analisi – si tratta di vedere quale sistema economico sia in grado di garantire agli uomini una vita più ricca di contenuto e di significato.

In precedenti articoli ho parimenti sottolineato questa limitazione ultima nell’efficacia ideologica dei fatti economici, soprattutto riferendomi alla grande forza spirituale di attrazione della Rivoluzione socialista negli anni venti, in un’epoca nella quale dal punto di vista economico non erano stati neppure riparati i danni prodotti dalla guerra. Per il presente, questo problema viene posto in primo piano anche soltanto perché l’ultima fase dello sviluppo capitalistico ha conferito al tempo libero, all’ozio un’importanza mai verificatasi prima in una misura socialmente così ampia. E ciò in due direzioni. Da un lato, il costante aumento quantitativo del tempo libero è insito nella tendenza di sviluppo dell’economia, dall’altro, la sua utilizzazione da parte dell’uomo non avviene con la naturalezza e la semplicità (non problematicità) in cui avveniva nella vita delle precedenti classi dominanti. Questi due aspetti, l’enorme aumento del numero di coloro che partecipano del tempo libero, e la crescente incapacità di utilizzarlo in modo umano, creano uno dei problemi culturali di fondo del nostro tempo, del quale i teorici del mondo borghese cominciano ad occuparsi sempre più intensamente. In tali circostanze, appare ovvio che i problemi culturali acquistino, per la decisione fra le alternative sociali, un’importanza che alcuni decenni fa sembrava inconcepibile. Anche Marx, che circa cento anni fa esaminava questo problema, e che nella «riduzione del lavoro necessario della società ad un minimo» scorgeva uno stato al quale «corrisponde la formazione artistica, scientifica ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero per tutti e grazie ai mezzi a disposizione di tutti», giudicava che tale stato potesse essere realizzato soltanto nel socialismo. Invece – e questo Marx nel 1857-58 non poteva in alcun modo prevedere – già nel capitalismo si è realizzato un tempo libero socialmente considerevole. Evidentemente, esso viene manipolato in modo conforme ai propri interessi dal capitalismo, che nel frattempo ha sottomesso al proprio dominio l’intera fabbricazione dei mezzi di consumo fino alla organizzazione della vita culturale. Questa contraddizione tra la crescente rilevanza sociale del tempo libero ed il suo vuoto interno parimenti crescente, la sua incapacità di soddisfare realmente gli uomini e tanto meno di conferire alla loro vita un più alto contenuto, costituisce oggi uno dei problemi culturali centrali nei paesi capitalistici ad alto livello di sviluppo.

Marx credeva ancora che tale livello delle forze produttive avrebbe potuto essere raggiunto soltanto nel socialismo. Dato il suo metodo schiettamente scientifico di analizzare soltanto le forze motrici che introducono il futuro e fare anche intorno a queste soltanto accenni generali che possano chiarirle come prospettive, egli non ha affrontato i problemi concreti del «regno della libertà», secondo la sua definizione posteriore. Le tendenze generali deformanti, sia teoriche sia pratiche, del marxismo-leninismo nel periodo staliniano hanno come conseguenza che agli uomini che soffrono per il vuoto capitalisticamente deformato del loro ozio, alla base divenuta astratta del loro sviluppo umano, non si profila alcun modello socialista, non viene prospettata una via d’uscita socialista. Inoltre – e ancora una volta si tratta di un fatto di somma importanza – non esiste alcun sostituto immanente al capitalismo per la mancanza di una prospettiva socialista come modello e via d’uscita.

Ai nostri fini, è sufficiente aver indicato i contorni più generali di questo nodo di problemi. Abbiamo inteso così soffermare l’attenzione sul fatto che, nell’evoluzione prevedibile dell’immediato futuro i problemi della cultura saranno chiamati a svolgere un ruolo qualitativamente più rilevante che in epoche precedenti, cioè in uno stadio inferiore di sviluppo del capitalismo.

II.

Abbiamo definito la coesistenza culturale una forma della lotta di classe. Naturalmente, in tal modo non si è detto nulla di nuovo. Fin da quando sono esistite le classi, la classe dominante ha sempre cercato di imporre agli sfruttati una concezione del mondo ad essa conveniente. Questa funzione della religione, della scuola ecc. è antichissima. Fin dal Medioevo, la pittura in quanto sostituto ed esplicazione della Bibbia fu uno strumento per esercitare in questo senso un’influenza sugli analfabeti. E non c’è dubbio che anche nel campo ideologico in senso più stretto tale lotta si verifichi da secoli, cioè fin da quando l’analfabetismo delle classi oppresse tende sempre più rapidamente a scomparire.

Naturalmente, in Occidente molti considerano queste affermazioni una volgarizzazione della cultura. E tale sarebbe se si assumesse che ogni filosofia, ogni opera poetica ecc. sia sorta soltanto allo scopo di adempiere a tale funzione nella lotta di classe. Ma il vero marxismo è ben lontano da tale concezione. Esso sa benissimo che, da un lato, ciascun ideologo è nato e cresciuto in un determinato paese, in una determinata epoca, in una determinata classe. Le impressioni ed influenze che formano la sua personalità si rivelano, di necessità, in tutto il suo modo di pensare e di sentire e quindi anche nella sua produzione. Questo effetto dell’ambiente sociale può naturalmente essere anche di tipo repulsivo; così, ad esempio, Friedrich Engels, figlio di un industriale, divenne comunista.

Ciò modifica in modo sostanziale il contenuto di classe nel singolo, ma non può sopprimere il carattere di classe dell’intero complesso. Ma la genesi sociale delle opere di cultura è soltanto una componente – e neppure decisiva – della loro essenza sociale. Indipendentemente dalle intenzioni del suo creatore, la creazione esercita una determinata influenza sulla vita sociale del suo tempo e eventualmente anche in quella posteriore. A prescindere dall’atteggiamento personale di Copernico, Keplero e Galilei verso i problemi religiosi del loro tempo, le loro opere hanno distrutto una ontologia religiosa che durava da più di un millennio, dando così una nuova fisionomia a tutte le lotte sociali sul terreno della concezione del mondo.

Se si vuole addivenire ad una valutazione realistica di tali lotte nel presente, bisogna intendere il concetto di concezione del mondo in senso assai vasto, ben oltre l’ambito della filosofia in senso stretto. Questa tendenza è sempre stata presente in modo assai accentuato nel marxismo, ma non certo esclusivamente in esso. Ad esempio, William James iniziò le sue lezioni sul pragmatismo con una citazione di Chesterton, il cui contenuto approvava senza riserve. Chesterton inizia i suoi saggi con le parole: «Vi sono individui – ed io tra questi – che ritengono che per un uomo la cosa praticamente più importante sia la sua concezione del mondo. Per un affittacamere che esamina il suo inquilino è certo molto importante conoscere le entrate di costui, ma ancor più importante è conoscere la sua filosofia». Se si sviluppa fino in fondo questo pensiero, si giunge a scoprire nelle azioni di ciascun uomo un particolare nesso sistematico che, da un lato, è determinato dal suo essere sociale – come abbiamo visto, l’atteggiamento di opposizione non sopprime questo universale essere determinati – dall’altro, conferisce a tutte le sue azioni immediate una unità di cui spesso egli stesso non è consapevole, o ne ha una consapevolezza fallace. Pertanto, non è affatto inesatto definire in generale concezione del mondo questo campo di forza psichico tra la riproduzione della realtà e la reazione ad essa. Non è questa la sede in cui analizzare i gradi molto diversi di consapevolezza di queste concezioni del mondo. Qui ci interessa mostrare la funzione di queste concezioni del mondo nel decidere sulle alternative della vita, in particolare su quelle che riguardano l’accettazione o il rifiuto del mondo sociale nel quale l’uomo vive, ed eventualmente – ciò che nella pratica è assai frequente – l’astensione dal giudizio su questo problema, astensione che può essere rassegnata, cinica ecc.

Per influenza del neopositivismo, in Occidente è assai diffusa l’opinione che soltanto i cosiddetti sistemi totalitari diano importanza alla concezione del mondo, mentre il «mondo libero» per principio sarebbe privo di concezione del mondo, e in ciò consisterebbe appunto la sua forza. Naturalmente, contro questa definizione forse un po’ troppo rozzamente sintetica alcuni avanzeranno obbiezioni. Ma dovrebbero tener presente che i maggiori neopositivisti per principio eliminano dal campo di ciò che può essere colto scientificamente o anche soltanto razionalmente tutto ciò che sfugge ad una manipolazione matematica dei fenomeni. Così, in un’opera celebre come il Trattato di Wittgenstein si legge: «La maggior parte delle affermazioni e delle domande che sono state scritte su oggetti filosofici non sono false ma prive di senso. Perciò a domande di questo genere non possiamo affatto rispondere ma soltanto accertare la loro mancanza di senso… E non c’è da stupirsi del fatto che i problemi più profondi in sostanza non siano veri problemi». Ed egli ne trae, con coraggio e coerenza, tutte le conseguenze. Così dice: «Per questo motivo, non vi possono essere proposizioni etiche», e più oltre, «Noi sentiamo che anche se vi fosse una risposta per tutte le possibili domande scientifiche, i problemi della nostra vita non ne sarebbero affatto toccati». A questo modo, Wittgenstein ha relegato tutti i problemi essenziali per l’uomo nel campo del non razionalizzabile, nell’irrazionale, e appunto con questo rifiuto radicale di tutti i problemi relativi alla concezione del mondo ne indica l’inevitabilità pratico-reale: gettandoli fuori della porta della filosofia, essi rientrano dalla finestra. Perciò non è un caso che l’esistenzialismo – e le concezioni del mondo, religiose o irreligiose, ad esso legate – abbia occupato questo spazio in nome di un irrazionalismo conforme al nostro tempo. E la polare complementarità di queste posizioni immediatamente antitetiche definisce sostanzialmente l’ambito delle concezioni del mondo dominanti in Occidente. Va a onore di Sartre di non potersi accontentare filosoficamente di questa polarità e di sforzarsi di continuo di superarla.

È possibile contrapporre con successo il marxismo a questa problematicità di principio di tutte le concezioni del mondo, è possibile, cioè, tra di essi un dialogo fecondo? Certamente, non con gli eredi del periodo staliniano. Costoro alla raffinata manipolazione della conoscenza contrappongono soltanto una grossolana rigidezza, alla irrazionalità della prassi umana, delle questioni importanti dell’esistenza umana, soltanto una rigidezza dogmatica. E quando, nel periodo successivo al XXII Congresso, alcuni marxisti cercano di correggere la manipolazione dogmaticamente grossolana accettando qualcosa dalle filosofie occidentali – la semantica ecc. nel campo del materialismo dialettico, la microsociologia ecc. in quello del materialismo storico – si trovano in errore. La «esigenza del giorno» per la teoria e la prassi dei comunisti è la conoscenza marxista di ciò che di nuovo si è avuto, dopo la morte di Lenin, nei mutamenti strutturali, nelle tendenze di sviluppo ecc. della vita sociale. Vi sono nuovi fenomeni di massa che non possono essere risolti appellandosi a Marx e a Lenin. Già nel 1922, introducendo la NEP nel capitalismo di Stato, Lenin diceva: «Neppure a Marx venne in mente di scrivere anche soltanto una parola in proposito, ed egli è morto senza aver lasciato neppure una citazione esatta o indicazioni inconfutabili. Perciò ora dobbiamo cercare di aiutarci da soli». Chruščëv nel suo discorso a Bucarest ha applicato questo metodo di Lenin in modo coraggioso ed esatto alla nuova situazione, alle affermazioni, esatte a suo tempo, di Lenin sul rapporto tra l’imperialismo e l’inevitabilità della guerra. Ciò significa, da un lato, che esiste tutta una serie di fatti nuovi, soprattutto economici, sia nel campo capitalista sia in quello marxista, che i classici del marxismo non poterono esaminare perché ai loro tempi non esistevano, e dall’altro, che Stalin ed i suoi seguaci hanno deformato su questioni importanti il metodo marxista, trasformandone la vitalità e l’apertura in irrigidimento. I nuovi fatti della vita possono essere decifrati unicamente mediante una rinascita del metodo marxista, un riesame spregiudicato su questa base, non incorporando acriticamente riflessi borghesi altrettanto acritici del nuovo sviluppo nel metodo staliniano rimasto – nell’essenza – immutato.

III.

Potrebbe sembrare che con tale analisi della situazione ideologica del capitalismo e del socialismo si venga a sottrarre alla coesistenza culturale ogni terreno intellettuale. In realtà, avviene esattamente il contrario: soltanto attraverso questo bilancio critico del presente è possibile spianare la via del futuro, la via verso la coesistenza culturale, che si avrà inevitabilmente. A tal fine, la premessa evidente è la resa dei conti con l’eredità staliniana quanto alla concezione socialista del mondo. Ciò, naturalmente, vale soltanto per coloro che sono in grado di comprendere il carattere di concezione generale del mondo proprio del marxismo. Da Max Weber a Wright Mills, non sono pochi coloro che – in misura maggiore o minore – l’hanno compreso. È difficile, invece, stabilire un dialogo su questo argomento con coloro che, come Madariaga, ritengono che la concezione del mondo di Lenin fosse: «O mi dai ragione o ti sparo». Per questo, Madariaga è rimasto sorpreso e urtato perché in un mio precedente l’ho nominato insieme a Enver Hodja; per questo non ha compreso come il tertium comparationis sia stato semplicemente l’adesione (presa di posizione affermativa) di entrambi alla guerra fredda e addirittura alla guerra calda. L’Occidente – nel suo stesso interesse – dovrà comprendere che l’alternativa attuale della visione del mondo e del metodo socialista è la scelta tra il ristabilimento del vero marxismo e la sua applicazione ai nuovi fenomeni del presente e l’irrigidirsi sui metodi deformati di Stalin, non già – come spesso si ritiene – tra Molotov e Köstler.

Se qui la lotta per trovare una via è evidente almeno ai pensatori più avanzati, la grande maggioranza concepisce la situazione ideologica dell’Occidente in modo indubbiamente troppo statico; né, sostanzialmente, ciò muta per il fatto che la valutazione pratica dello stato attuale assuma talvolta la forma di una «critica della cultura». Dietro questa staticità o questo sviluppo immutabilmente uniforme alla superficie, la realtà opera però un mutamento significativo, che, in verità, oggi si esprime soltanto in singoli tentativi politici su base pragmatistica, anche se – in sé significa per mutamento importante e di principio per tutto il mondo capitalistico. Per eliminare a priori ogni malinteso, si tratta di un mutamento all’interno del sistema capitalistico; non sto parlando ora delle possibilità di una rivoluzione socialista. Dopo la grande crisi del 1929, Franklin D. Roosevelt aveva compreso che, data la grande labilità di tutto il mondo attuale, data l’esistenza di un potente Stato socialista, il ripetersi di simili crisi avrebbe potuto recare con sé gravi pericoli anche per gli Usa. Di conseguenza, elaborò una politica economica la cui linea fondamentale mirava a evitare le crisi, a creare misure profilattiche per evitare il loro scoppio, ecc. Prescindendo dal fatto se questa posizione sia stata assunta con una giusta o falsa coscienza della sua base economica, il suo significato oggettivo risiede nella difesa degli interessi generali del capitalismo nel suo complesso, se necessario anche contro gli interessi di singoli gruppi capitalistici, per quanto potenti ed influenti. Infatti, non c’è alcun dubbio che alcuni di essi, in determinate circostanze, possano essere interessati allo scoppio di una crisi, anzi, addirittura a provocarla, per raggiungere una più ampia concentrazione delle posizioni di monopolio e distruggere dei concorrenti molesti. Ma la scossa mondiale che si è avuta nel 1929 e dopo ha dimostrato che in tali casi può essere messo in pericolo il sussistere del sistema capitalistico. Per contro, Roosevelt riuscì a realizzare in Usa questa linea di politica economica, anzi, a trasformarla nel filo conduttore della prassi capitalistica nei paesi capitalistici più sviluppati.

Il secondo caso in cui si presentò questa nuova politica fu la guerra contro la Germania di Hitler. Anche qui, interessi parziali di potenti gruppi capitalistici portarono a Monaco e alle sue conseguenze. A quel tempo, Roosevelt e Churchill avevano compreso che gli interessi collettivi del mondo borghese esigevano una guerra contro il sistema hitleriano – sia pure alleandosi con l’Unione Sovietica – e che qualora gli interessi parziali di singoli gruppi fossero prevalsi più a lungo, avrebbero condotto alla rovina del sistema nel suo complesso. Da quel momento, la questione non è mai più stata cancellata dall’ordine del giorno. Il sorgere di una potente coalizione di Stati socialisti, l’irresistibile movimento di liberazione dei popoli coloniali, la tendenza altrettanto irresistibile di paesi economicamente arretrati a superare la propria arretratezza, la trasformazione generale della strategia a causa delle armi nucleari, ecc., hanno reso ormai obiettivamente sempre più impossibile ignorare tale problema. Tuttavia, dalla morte di Roosevelt in poi, Kennedy è stato il primo, e finora l’unico, uomo politico del mondo capitalistico a riprendere questo programma, in condizioni differenti e assai più sviluppate. E che anche qui si tratti del contrasto di interessi tra il capitalismo nel suo complesso e le singole organizzazioni monopolistiche, è dimostrato con la massima chiarezza dal rapporto tra gli Usa e gli Stati dell’America centrale e meridionale: l’attuazione pratica di una stretta collaborazione economica politica, in cui uno sviluppo maggiore, una modernizzazione degli Stati del Centro e del Sud-America sarebbero di interesse vitale per il capitalismo statunitense nel suo complesso, naufraga sempre per il fatto che potenti gruppi capitalistici sono interessati a determinate situazioni di arretratezza di questi Stati – monoculture, grande proprietà terriera feudale, ecc.

Abbiamo indicato soltanto il problema di fondo, giacché la sua realizzazione in tutti i campi della vita internazionale non può essere assolutamente il fine di questo saggio. Basti accennare soltanto alla questione negra, come problema di politica interna, e all’infausto appoggio dato, in politica estera, alle tendenze e ai governi più reazionari del Centro e Sud-America, per rendere evidenti l’universalità di tale problema. Né questo saggio può porsi come obiettivo l’analisi delle possibilità e prospettive di tale sviluppo. Per noi, questo fatto storico ha soprattutto una importanza ideologica. Infatti, una sua conseguente attuazione richiede un ripensamento ideologico quanto lo richiede nel mondo socialista il superamento dei metodi staliniani. Osserviamo, incidentalmente che la parola «quanto» dovrebbe essere messa tra virgolette, giacché il ripensamento ideologico del mondo borghese ha una struttura, una dinamica ecc. differenti da quello marxista. Ma, per limitarci soltanto all’essenziale, quanto più coerentemente questo nuovo orientamento viene attuato sul piano pratico, tanto più viene a trovarsi in aspro contrasto con la generica manipolazione oggi imperante e basata sul neopositivismo. Infatti, essa considera lo stato odierno già, ed erroneamente, come un dominio degli interessi collettivi della società. Alcuni ideologi vanno tanto oltre da negare addirittura il carattere capitalistico dell’economia. Ma per quanto abilmente si possano manipolare i problemi che qui emergono – ad esempio, usare soltanto tra virgolette parole come imperialismo, colonialismo, ecc. – i fatti rimangono tali, e i reali mutamenti di struttura della realtà finiscono sempre per imporsi, prima o poi, direttamente o indirettamente, in modo adeguato o deformato. I contrasti che determinano in modo decisivo l’azione pratica non possono essere eliminati totalmente neppure dal pensiero. Questa potenza dell’essere sociale è tale che le conseguenze concettuali e sentimentali dei suoi mutamenti qualitativi possono essere avvertite assai prima della sua comparsa decisiva, anche se ciò avviene soltanto da parte degli ideologi nei quali la routine non ha soffocato la comprensione delle trasformazioni capillari, e il timore di un non-conformismo sostanziale – e perciò impopolare – non è diventato il motivo conduttore del pensiero. Numerose sono oggi queste affermazioni isolate, e senza dubbio aumenteranno in numero e in intensità acquistando sempre maggiore influenza, anche se ci vorrà molto tempo prima che possano diventare la voce dominante. Naturalmente, questo sviluppo sul piano economico-politico e ideologico non è limitato agli Usa, dove però assume, oggettivamente e soggettivamente, un’espressione fenomenica di particolare rilievo.

IV.

Queste due grandi tendenze del nostro tempo conferiscono alla coesistenza culturale il suo significato peculiare. Sono ben lontano dal sottovalutare le forme iniziali già esistenti, dalle manifestazioni sportive e gare di scacchi alle rappresentazioni di balletti e ai concerti di virtuosi. Data la manipolazione generale dell’opinione pubblica, che può avere per conseguenza che ampie masse di un sistema giudichino gli appartenenti all’altro sistema dei barbari della cultura, esse possono essere utili e istruttive, spianando la via a contatti più profondi, ma in esse manca assolutamente il motivo, da noi indicato come motivo centrale, del «Chi a chi?» Allo stesso modo, anche l’internazionalizzazione, sempre più necessaria, della scienza, soprattutto di quella applicata, non può costituire una svolta decisiva in questo problema. Quanto più essa si verifica, tanto maggiore diviene di necessità l’abitudine straordinariamente importante all’internazionalità di tutti i campi di attività dell’uomo, teorici e pratici; tuttavia nessuno per ciò stesso vede minato il sentimento di appartenere al proprio sistema o viene attratto dall’altro perché magari in esso è stato inventato un medicinale migliore o uno strumento più efficace. Tutto ciò costituisce la base insostituibile della coesistenza tra sistemi culturali che vicendevolmente si negano, ma non può essere la cosa essenziale.

Quando parliamo di questa, dobbiamo innanzi tutto rammentare ciò che abbiamo indicato in precedenza come la funzione della concezione del mondo nella vita umana, e anche all’interno di questo complesso innanzi tutto quei momenti che portano all’accettazione o al rifiuto dell’ambiente sociale di volta in volta dato. Vi è un nesso intimo tra la validità storica di una concezione del mondo e l’intensità con cui essa serve alla conservazione della sua formazione sociale. Abbiamo detto: validità storica, perché in determinate situazioni storico-sociali, ad esempio, certe teorie ontologiche possono conferire una grande solidità alla concezione del mondo, del tutto indipendentemente dal fatto che in seguito la scienza ne dimostri l’insostenibilità. Ciò deriva dal fatto che in questo contesto l’elemento fondamentale è il legame ideologico dell’individuo col suo sistema sociale, e l’ontologia ha la funzione di rafforzare questo legame. Naturalmente, lo stimolo a dissolvere la vecchia concezione del mondo può anche venire dal lato ontologico; in tali casi, si tratta sempre dell’incontro tra trasformazioni sociali e scoperte teoriche, come, ad esempio, nel caso di Galilei.

Così la lotta di classe è anche sempre una lotta tra diverse concezioni del mondo. Ma sarebbe una volgarizzazione troppo semplicistica ritenere che esse rivestano qui il ruolo di un epifenomeno. In pratica, non lo crede nessuno. Appunto per questo, l’epoca staliniana mirò a mantenere tutta la sua intelligentsia – intesa nel senso più ampio – lontana dalla conoscenza di altre concezioni del mondo. Formalmente, un atteggiamento simile è estraneo alla cultura occidentale, tuttavia non si dimentichi che proprio su questo terreno è possibile una manipolazione quanto mai raffinata, che spesso è più efficace di una manipolazione brutale. Infatti, mentre nel mondo socialista, dopo la crisi della teoria staliniana, concezioni del mondo fino allora tenute lontane stanno vivendo un periodo di prestigio acritico, la raffinata manipolazione che predomina a Occidente è ampiamente riuscita a diffondere nell’opinione pubblica la credenza che il marxismo sia una dottrina e un metodo totalmente superati, di cui non è affatto il caso di occuparsi seriamente; abbiamo già accennato, peraltro, alle eccezioni costituite dai migliori.

Io credo dunque che le due grandi trasformazioni, provocate dallo sviluppo economico, di cui abbiamo parlato sopra, porteranno a conoscere la concezione del mondo – le concezioni del mondo – dell’avversario, per poter realmente confutare il reale avversario di classe. La gran maggioranza delle lotte fra concezioni del mondo nel nostro tempo avviene ancora in modo tale che – nel migliore dei casi – viene «persuaso» soltanto chi è già persuaso. E perfino un obiettivo tanto modesto come quello di rafforzare in una certa misura i seguaci della propria concezione del mondo, viene raggiunto in modo assai problematico. Quando si verifica una perturbazione sociale, queste difese artificiali si dimostrano quanto mai incapaci di opporre una resistenza.

Per giustificare la necessità dell’esigenza da noi formulata sopra, basti accennare al fatto che un discorso impostato meramente sull’entusiasmo e la fede potrebbe essere forse in grado di infiammare gli ascoltatori per un breve scontro, ma anche se fosse ripetuto più volte non riuscirebbe a suscitare la forza di resistenza spirituale e morale necessarie per una vera guerra. Applicando questo paragone alle lotte tra concezioni del mondo, si vedrà che la differenza tra una singola battaglia e una guerra prolungata non è che quest’ultima sia una sintesi meramente quantitativa di molteplici ripetizioni di quelle, bensì qualcosa di differente qualitativamente e strutturalmente. Per passare dall’immagine alla cosa: quando due ampi sistemi sociali sono reciprocamente in lotta sulla concezione del mondo, i singoli dibattiti, che per lo più hanno come oggetto immediato campi differenti, erigono «fronti» assai differenti l’uno dall’altro; colui che è alleato su un campo può facilmente essere un avversario su un altro campo e viceversa, anzi, è possibile che la stessa teoria, applicata o interpretata in modi diversi, serva di sostegno ora all’uno o all’altro partner della discussione. Si pensi, ad esempio, alla seconda metà del secolo scorso, quando il darwinismo nelle sue linee principali appoggiava gli ideologi progressisti, ma contemporaneamente – ad esempio, nel cosiddetto darwinismo sociale – poteva costituire un ausilio per la reazione ideologica, e così via.

Date le circostanze, obbiettivamente non è contraddittorio che noi da un lato partiamo dal fatto che tutta la coesistenza culturale sia una grande lotta tra la concezione del mondo socialista e quella borghese, ma dall’altro, e contemporaneamente, nei singoli dibattiti che costituiscono gli elementi concreti di questa totalità, ammettiamo che la funzione volta per volta attuale di singole dottrine, teorie, metodi ecc. sia del tutto diversa, anzi possa operare in senso opposto. Una concezione monolitico-univoca della lotta di classe tra concezioni del mondo di sistemi sociali in concorrenza conduce ad una incomprensione totale della sua essenza. Questo non è meramente il risultato di singole innovazioni scientifiche ecc., estremamente complesse, ma scaturisce piuttosto dall’essenza di ciascuna trasformazione sociale. Già nel 1916, Lenin si faceva beffe dei seguaci di una teoria così monolitica. «Le cose starebbero così – scriveva: – da una parte si raduna un esercito e dichiara: “Noi siamo per il socialismo”, e da un’altra parte si raduna un altro esercito e dichiara: “Noi siamo per l’imperialismo”, e questa è poi la rivoluzione sociale!» Giustamente egli definiva questo «un punto di vista ridicolo e pedante». È evidente che quanto più un fenomeno ideologico è lontano dalla lotta di classe immediata, tanto maggiormente conferma con i suoi effetti l’esattezza di queste parole di Lenin.

Ma ciò ha conseguenze di grande importanza per la lotta ideologica all’interno della coesistenza culturale. Per poterle anche soltanto scorgere, è necessario che in entrambi i sistemi vengano superati vecchi e stantii pregiudizi la cui essenza consiste nel fatto che le manifestazioni culturali dell’altro campo vengono monoliticamente considerate come ostili. Ciò è senz’altro evidente per le tradizioni staliniste. Qui – come assai spesso – snaturando un’affermazione di Lenin è stato messo in circolazione un termine peculiare, «oggettivismo», per bollare coloro che osano criticare i fenomeni ideologici del mondo borghese in modo reale, giusto e non unilaterale. In proposito, posso forse richiamarmi ad esperienze personali. Quando, alla fine degli anni quaranta, pubblicai un’aspra critica dell’esistenzialismo francese, cercai di dimostrare come alcuni aspetti, non certo trascurabili, di questa filosofia derivassero dalla situazione ideologica della «résistance». Ciò parve a Fadeev una manifestazione di «oggettivismo», giacché equivaleva a trovare delle scusanti per pensatori idealisti, per agenti della borghesia. Naturalmente, vi fu anche un’eccezione a questa regola critica: alcuni ideologi che avevano firmato determinati manifesti politici furono dichiarati tabù per qualsiasi critica. Anche qui, mi permetto di rifarmi alla mia esperienza personale. Prima del viaggio di André Gide nell’Unione Sovietica, scrissi un saggio teorico-letterario, nel quale criticavo in modo rispettoso ma nella sostanza aspro alcune sue concezioni. La redazione della rivista pretese che questa parte del mio saggio fosse eliminata. Il lavoro uscì soltanto dopo il ritorno di Gide a Parigi e dopo la pubblicazione del suo libro contro l’Unione Sovietica. Il direttore mi chiese, disperato: «Perché mai abbiamo soppresso dal suo articolo quel passo su Gide?»

Ma sarebbe una pericolosa illusione credere che una simile prassi sia estranea al «mondo libero». Il fatto che – spesso – essa si presenti in modo non centralizzato ma spontaneo, non muta proprio nulla alla sostanza del fatto. Al rifiuto monolitico, alle conseguenze che se ne traggono – spesso tacitamente ma spesso addirittura in modo aperto – importa soprattutto che l’ideologia del socialismo possa essere «spiritualmente» distrutta anche senza studiarne le fonti più importanti, che contro di essa non si osservino le regole della correttezza scientifica e letteraria, che si possa polemizzare con essa falsificandone le citazioni, deformandone i concetti, tacendo o inventando fatti. Per rifarmi ancora una volta a esperienze personali, Adorno mi rimproverò di aver trattato semplicisticamente Freud da fascista nel mio libro La distruzione della ragione, sebbene, conforme agli obiettivi di quell’opera, io non avessi in essa esaminato né criticato le teorie di Freud. Se qui respingiamo questi metodi di lotta letteraria, in primo luogo lo facciamo non per motivi di correttezza letteraria – per quanto anche questa sia importante – ma perché una vera lotta tra concezioni del mondo, che scaturisce di necessità dalla coesistenza culturale, viene resa obbiettivamente impossibile da questo metodo di concepire l’avversario in modo volgarmente monolitico.

La concezione monolitica è cieca tanto di fronte allo sviluppo ineguale dei differenti campi di cultura quanto alle controversie reali all’interno di un sistema particolare. Soltanto respingendola si può arrivare a comprendere come le posizioni da noi sostenute possano sempre trovare alleati totali o parziali, anzi, che può accadere addirittura di assimilare criticamente la dottrina o il metodo di un ideologo dell’altro sistema. Così, ad esempio, Marx ha incorporato Darwin o L. H. Morgan nella sua concezione del mondo, che ne è risultata arricchita e concretizzata. Ovviamente, oggi non si riesce a scorgere un’analogia con questo esempio, ma ciò non significa affatto che un marxista possa ignorare i contrasti ideologici esistenti in Occidente, per esempio le posizioni assai controverse sul problema dell’alienazione, la coraggiosa posizione di Sartre in tutte le questioni coloniali, i suoi tentativi di assimilare il materialismo storico, l’onesto comportamento di N. Hartmann verso le questioni ontologiche della filosofia della natura, verso i problemi della teleologia, le ricerche di Werner Jaeger sulla vita spirituale greca, le concezioni archeologiche di Gordon Childe, ecc., che rivelano in modo assai chiaro alcuni di questi contrasti. Ma non si deve dimenticare che antitesi di questo genere non di rado possono essere presenti anche all’interno di una stessa opera: così, in A. Gehlen troviamo, da un lato, preziose e feconde osservazioni antropologico-sociologiche e dall’altro, miti del tutto correnti e alla moda. Paragonando ad esempio N. Hartmann con Heidegger o con i neopositivisti, Werner Jaeger o Gordon Childe con gli sproloqui mistificatori di Jung o di Kerényi, appare chiaro da quale parte stiano gli avversari reali e da quale altra i possibili alleati su problemi particolari.

Per l’ideologia occidentale, il superamento del giudizio culturale monolitico si concentra intorno alla comprensione della vera essenza della dottrina e del metodo marxisti. Indubbiamente, anche su questo terreno sono in atto tentativi che dimostrano una onesta volontà di comprendere, anche se ancor oggi sono, com’è naturale, sporadici e per lo più assenti negli ideologi più influenti. Tuttavia è sintomatico e significativo che mentre alcuni decenni or sono i freudiani «di sinistra» cercavano di correggere Marx, con iniezioni di teorie del loro maestro, oggi invece assistiamo al tentativo di rendere attuale Freud integrandolo con Marx. Fenomeni analoghi sono visibili anche in altri campi anche se, senza dubbio, attualmente sono assai scarsi; infatti, domina ancora quella compiaciuta ignoranza alla quale abbiamo già accennato. Ma non si deve dedurne che l’impostazione dei problemi sia sempre ed esclusivamente monolitica, giacché contrasti esistono ovunque in tutti i problemi; ad alcuni abbiamo accennato nell’ultima parte.

Se la coesistenza economica e politica continuerà a progredire, questo processo di differenziazione, e con esso la presa di posizione differenziata, dall’assimilazione di certe teorie all’alleanza su singoli problemi fino a un rifiuto radicale basato però sulla conoscenza, acquisteranno ampiezza e profondità. Allora soltanto la vera coesistenza potrà verificarsi come lotta reale tra concezioni del mondo. Per comprenderla rettamente, dobbiamo sapere soprattutto che ogni concezione del mondo corre dei rischi sia che soddisfatta di sé rimanga chiusa in se stessa, sia che sia pronta ad accogliere quanto viene dall’esterno. Che il primo di questi comportamenti conduca all’inaridimento e quindi – in situazioni di crisi – all’incapacità a resistere, può essere facilmente confermato in base alle esperienze storiche. Del resto, oggi lo possiamo riscontrare come fenomeno largamente diffuso sia nel capitalismo sia nel socialismo. Nell’altro caso, si dimostra che ogni concezione del mondo, proprio perché scaturisce sempre da un determinato essere sociale, è internamente assai sensibile. Per rifarci ad un esempio meno recente: l’assimilazione di L. Morgan da parte di Marx ed Engels rafforzò grandemente il materialismo storico, mentre l’assimilazione di Kant da parte di Bernstein e Max Adler ha largamente e lungamente paralizzato il materialismo dialettico. Ma poiché questo rischio si basa su un’alternativa reale, è impossibile sfuggire ad esso. Ogni fatto importante scoperto, ogni apertura di un nuovo terreno metodologico, perfino ogni «scoperta» sensazionale, anche se inesatta, pone ciascuna concezione del mondo di fronte a una tale alternativa, e spesso le decisioni apparentemente ovvie, comode o radicali sono proprio le più pericolose. Così, molti socialisti, nei quali l’irrigidimento contro l’Occidente ha indebolito la capacità critica di autodifesa del marxismo, negli ultimi tempi assai spesso hanno accettato acriticamente tutto ciò che viene dall’Occidente, come se il marxismo avesse perduto tutti i suoi poteri di immunizzazione.

Questo saggio non intende pronunciare dei giudizi sui problemi ideologici, anche se l’autore non ha mai nascosto di essere un deciso seguace del marxismo. Ciò che qui si è voluto tentare è piuttosto di indicare la funzione sociale e la sorte sociale delle concezioni del mondo nel campo delle formazioni sociali. Tale funzione consiste nella valutazione orientativa all’interno di un mondo sociale dato; la conoscenza della realtà concreta attuale e della prospettiva del suo sviluppo in questo caso non è per l’individuo fine a se stesso ma uno strumento per una vita vissuta pienamente. La verità dell’immagine del mondo, la giustezza della prospettiva, la forza liberatrice di contenuto dell’orientamento etico decidono della capacità di resistenza o della fragilità di una concezione del mondo. Perciò le crisi nella vita personale o nel sistema sociale sono i criteri ultimi di ciò che una concezione del mondo è in grado di fare. La coesistenza culturale preme in direzione di queste prove, in particolare quando entrambi i sistemi sono in procinto di superare le loro odierne inadeguatezze interne sul piano economico, sociale e ideologico, quando l’aumento universale del tempo libero rivela il vuoto della sua realtà attuale sempre più chiaramente e ad un numero sempre maggiore di uomini e li spinge a cercare da sé un senso da dare alla propria vita.

Nessuno può oggi prevedere quali forme concrete assumeranno le lotte ideologiche nella coesistenza culturale. Ci troviamo oggi agli inizi di un processo lungo e complesso. Ma ci sembra certo che la loro importanza sarà maggiore che nei precedenti passaggi da una forma sociale all’altra. Vi contribuisce, innanzi tutto, la scomparsa della guerra, e il fatto che con ciò non siano ancora eliminate in linea di principio le guerre civili non muta nulla questa crescente importanza sociale delle questioni che concernono la concezione del mondo, anzi può ulteriormente rafforzare tali tendenze. Le forme concrete di questi passaggi sono oggi ancora così imprevedibili che non è il caso di parlarne. Infatti proprio l’acuirsi dei contrasti interni di classe è un fatto che fa emergere alla superficie della vita umana la capacità di resistenza o la fragilità, l’elasticità e la rigidezza delle concezioni del mondo. Naturalmente, l’agire reale degli uomini – in ultima analisi – viene determinato dal loro essere sociale. Ma il passaggio dall’essere alla coscienza è non soltanto inevitabile e significativo ma anche assai complesso, dialetticamente contraddittorio, ineguale. E in questo passaggio, a nostro giudizio, il ruolo delle concezioni del mondo nella futura coesistenza sarà maggiore che mai prima nella storia.

V.

Infine, alcune osservazioni sul ruolo dell’arte, soprattutto della letteratura in questo complesso di problemi della coesistenza culturale. Se vogliamo ottenere un quadro fedele della realtà dobbiamo guardarci, e con maggiore attenzione che mai, dalle generalizzazioni monolitiche. Ancor oggi esse sono dominanti in entrambi i sistemi, soprattutto per il fatto che si tende a ignorare le lotte interne di tendenza nel campo dell’avversario. Non si poté evitare che ciò avvenisse nell’epoca di Stalin, ed ho già accennato altrove ad alcune conseguenze, ancora oggi operanti. La più importante, e la più pericolosa per lo sviluppo della letteratura socialista, è che non si tiene conto della lotta mai interrotta, anzi sempre più intensa, che si svolge in Occidente tra realismo e antirealismo. In Occidente, tali pregiudizi riguardo al realismo socialista sono del resto dominanti. Si dimentica che il periodo prestaliniano della Rivoluzione, i cui effetti perdurarono nella letteratura fino alla metà degli anni trenta, hanno prodotto non soltanto films ma anche scrittori come Šolochov e Makarenko, opere come gli ultimi drammi di Gor’kij, ad esempio Klim Samgin. E non si dimentichi che l’opposizione contro i metodi stalinisti, anche se fino a ora è soltanto agli inizi, ha rivelato scrittori come Solženitsyn o Nekrasov, le cui opere non significano affatto una rottura con il realismo socialista bensì il suo interno rinnovamento adeguato alle esigenze attuali. Questa è la via per la quale la letteratura socialista potrà riconquistare la sua importanza.

Non trattiamo tutti i problemi che scaturiscono da questa situazione, e dal suo futuro superamento da un osservatorio meramente estetico, ma soltanto come parti di quel complesso che abbiamo cercato in precedenza di intendere come lotta tra concezioni del mondo. Non per questo viene escluso il fattore estetico, al contrario. Esso sostiene un ruolo decisivo, giacché un’influenza generale, profonda e durevole sul piano della concezione del mondo scaturisce assai di rado da opere artisticamente minori. Proprio dove, come qui, si considerano gli effetti dell’arte come una parte – assai importante – delle lotte fra concezioni spirituali del mondo analizzate in precedenza, la loro capacità di penetrazione spirituale-sensibile è della massima importanza, ed in essa sono contenuti momenti decisivi dell’estetica. Ciò che, da questo punto di vista, distingue gli effetti artistici da quelli scientifici e ideologici è soprattutto il fatto che i limiti di classe nell’assimilazione vengono superati assai più di frequente e con maggiore intensità di quanto non avvenga di solito. Allorché un confronto intellettuale comincia ad influenzare il comportamento ideologico degli uomini, è quasi inevitabile che sorga nell’uomo una controversia interna, anche socialmente consapevole. Se invece l’influenza nasce attraverso la rappresentazione artistica di uomini e destini umani, la sua immediatezza può spezzare con maggiore facilità i limiti o gli ostacoli di classe. Dal Figaro di Beaumarchais al film La corazzata Potëmkin, la storia presenta numerosissimi esempi di questo tipo di influenza, che la riserva, tuttavia – dal punto di vista della lotta tra concezioni del mondo – che tali impressioni vengono nuovamente incorporate nel vecchio sistema di persuasione – e per ciò stesso rese socialmente «innocue» – assai più facilmente che non le influenze direttamente intellettuali e ideologiche.

In ogni caso, non si debbono sottovalutare gli effetti dell’arte, sia che sconvolgano o plachino, producano rivolta o apatia, entusiasmo o cinismo, sul piano della concezione del mondo. Noi crediamo anzi che le grandi e decisive emozioni che da essa scaturiscono abbiano le più profonde radici proprio nel terreno del contenuto umano della concezione del mondo. Quando l’aspetto puramente formale dell’arte viene posto in modo quasi esclusivo al centro dell’interesse, questo è generalmente il segno di un sostanziale affievolimento del rapporto tra arte e pubblico, ovvero il convergere dei suoi effetti in un accomodamento cinico-apatico dalle forme di vita volta per volta date, mentre il vero realismo – in modi sempre differenti – suole esercitare un’influenza stimolante, liberatrice per la conservazione dell’integrità morale dell’uomo. In tutto ciò, bisogna naturalmente considerare che qui si parla soltanto degli effetti dell’opera stessa, non delle intenzioni dell’autore. Ovviamente, anche nel campo della teoria esiste un legame diseguale e contraddittorio tra l’intenzione soggettiva e la tendenza e il peso oggettivi riguardo all’influenza sugli uomini. Tuttavia, questa contraddittorietà nel campo dell’arte si accresce qualitativamente. Ed è per essa una tendenza negativa il fatto che oggi si trascuri questo momento della dialettica di intenzione e realizzazione. Soprattutto il periodo staliniano negò la possibilità di raffigurazioni artistiche che fossero in contraddizione con le loro intenzioni consapevoli. Perciò, una direzione intellettuale che parta da tali premesse eserciterà per forza un’influenza paralizzante. Quando poi tale direzione arriva fino a imporre divieti, assai facilmente porterà a conferire a tendenze in sé superficiali e passeggere un’eccessiva forza di attrazione, a rendere la loro influenza più profonda e durevole di quel che non sarebbe stata nella sua spontaneità. In ultima analisi, anche i tentativi che compiono in Occidente per diffamare il realismo da un punto di vista estetico opereranno allo stesso modo.

Queste brevi osservazioni non hanno certo la pretesa di prendere posizione esteticamente sull’arte del nostro tempo e sulle prospettive del suo sviluppo nello svolgimento della coesistenza culturale. Si è inteso soltanto accennare ad alcuni tratti essenziali che precisano il peculiare ruolo dell’arte entro le lotte ideologiche della coesistenza culturale.

In generale, abbiamo cercato, al di là delle difficoltà attuali, specifiche e prevedibilmente condannate ad essere superate dallo sviluppo futuro, di accennare alle sue prospettive, che – eliminate le meschine polemiche attuali – annunciano, a quel che è dato di vedere, una sostanziale e aspra lotta ideologica tra i due sistemi. L’autore di questo saggio non vuole nascondere la sua persuasione che in questa gara tra concezioni del mondo nella coesistenza culturale il marxismo, che avrà ritrovato se stesso e sarà ridiventato autentico, risulterà vittorioso.

Sul dibattito fra Cina e Unione Sovietica

14 sabato Nov 2015

Posted by György Lukács in I testi, Traduzioni italiane

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di György Lukács

[Zur Debatte zwischen China und der Sowjetunion. Theoretisch-philosophische Bemerkungen (1963), traduzione di Fausto Codino in «Nuovi Argomenti», nn. 61-66, 1963-64, ora in G.L., Marxismo e politica culturale, Einaudi, Torino 1968].


Sia chiaro, innanzi tutto, che le presenti considerazioni hanno un carattere meramente teorico e anzi, sotto vari aspetti, filosofico; ma senza che ciò significhi neutralità o riserva di giudizio.

La controversia è di per sé un fatto politico estremamente importante, le cui future conseguenze oggi sono difficilmente prevedibili. Ma in queste considerazioni non ci proponiamo di dare e neppure semplicemente di accennare risposte a questioni di natura politica immediata.

Ciò non implica, s’intende, che si sottovalutino minimamente i momenti reali del processo effettivo, col suo necessario andamento a zigzag. Anche l’autore di queste pagine, come chiunque altro, sa che i principî del XX Congresso del PCUS si sono attuati in maniera contraddittoria, che i contrasti cino-sovietici sono sorti e sono arrivati all’asprezza attuale per vie complicate.

Anche il futuro, naturalmente, non potrà avere una struttura diversa dal passato. L’autore è ben lungi – anche come filosofo – dal sottovalutare il peso di questi alti e bassi nella realizzazione di tendenze rilevanti; egli sa, con Lenin, che l’«astuzia» del processo reale, che supera qualsiasi previsione, appartiene per necessità alla concretezza del mondo; sa che, non tenendone conto, non si può capire il mondo stesso con la sua mobilità.

Il limitarsi alle questioni teoriche di principio comporta inevitabilmente il pericolo di lasciarsi sfuggire anche nessi decisivi del contenuto centrale. Ma si presentano situazioni – e l’attuale, mi pare, è una di quelle – in cui la limitazione deliberata è utile se nel pieno di un dibattito, che necessariamente porterà all’accumularsi di accuse e controaccuse particolareggiate, si vuole enucleare la sostanza del contenuto ancor prima che esso emerga storicamente con tutti i suoi contorni. Si deve dunque prendere atto della possibilità di errori cui abbiamo accennato.

I.

Se consideriamo le lettere dei due Comitati centrali, ci colpisce subito un contrasto, nella struttura e nel tono dell’esposizione, in cui si esprime anche, implicitamente, il contrasto della sostanza. La lettera cinese rivela la maniera formalmente chiusa, pseudoteorica, del periodo staliniano. La lettera sovietica si fonda sul richiamo sincero a grandi esperienze comuni del momento attuale, che oggi toccano profondamente milioni di persone.

Indico soltanto le principalissime. In primo luogo il fatto che il Partito comunista dell’Unione Sovietica ha abolito la prassi, propria del periodo staliniano, che si fondava sul disdegno arrogante per le leggi. Il dire che così si mette fine al «culto della personalità» è troppo poco, per definire l’estensione e la profondità della realtà.

Si tratta della garanzia necessaria e sicura di una vita umanamente vissuta, offerta dallo Stato socialista, dopo che il regime di Stalin aveva annullato con disprezzo sistematico anche un minimo di umanità. Con ciò non soltanto si distruggeva la sicurezza indispensabile per una vita ragionevole, non solo si trasformava in illusione insostenibile la realtà, altrettanto necessaria, delle prospettive di esistenza di tutti gli uomini, non solo si privavano tutte le attività umane del senso della loro attuabilità, ma si toglieva anche ogni vera coerenza allo sviluppo politico, mentre si pretendeva di servirlo con questi provvedimenti, ed esso degenerava nel terrore e nell’ipocrisia.

Qui non possiamo descrivere, neppure per accenni, gli estesi e profondi effetti di liberazione che si sono avuti nei paesi socialisti in cui si è realmente compiuta questa resa dei conti col passato stalinista. Né siamo in grado, qui, di accennare alle conseguenze funeste che questo modo di agire di Stalin ha provocato nel movimento operaio internazionale, per non dire d’altro. Se oggi i comunisti di alcuni paesi capitalistici, operando con spirito di sacrificio, riescono ad esercitare un certo influsso nelle questioni economiche delle aziende, esso si dilegua subito appena si viene a parlare di decisioni politiche. Ancora oggi – a sette anni dal XX Congresso – il processo di distacco dal socialismo di stile staliniano è una tendenza viva e operante. Perché si fa prima a perdere che a riconquistare. Soprattutto quando soltanto una rottura completa e radicale con i metodi staliniani potrebbe far riottenere la fiducia.

Ancora più profonda, e di maggiore risonanza sul terreno internazionale, è la seconda esperienza di cui parla l’appello del Comitato centrale sovietico: il richiamo all’ansia provocata in tutto il mondo dalla possibilità della guerra nucleare. È superfluo citare a prova dati di fatto. Speriamo che molti conoscano le lettere sconvolgenti di Claude Eatherly, il pilota di Hiroshima; molti sapranno di certo come su questo problema ci sia stata una svolta nel pensiero di Bertrand Russell, ecc. ecc. Anche più importante di queste reazioni è il fatto che il XX Congresso fu la prima potenza reale che abbia mostrato al mondo le prospettive di una vita senza guerra atomica. Ma forse non è del tutto superfluo ricordare che quanto oggi appare già ovvio, in un primo momento aveva l’apparenza del paradossale. Paradossale soprattutto per il comunismo internazionale.

Al tempo della prima guerra mondiale Lenin aveva giustamente messo in luce il nesso fra l’imperialismo e la guerra, nella nuova ripartizione del mondo. Il discorso del 1956 di Chruščëv rifiuta la tesi leniniana sull’inevitabilità delle guerre mondiali, ormai superata dalla storia, e non meno nettamente di quanto Lenin a suo tempo rifiutò la tesi di Marx secondo cui le rivoluzioni proletarie potrebbero avere inizio e successo internazionale solo nei paesi più evoluti.

Lenin rifiutava una tesi di Marx fondandosi sul metodo marxiano, così come Chruščëv, mezzo secolo più tardi, ha superato la tesi di Lenin sulla base del metodo leninista. In entrambi i casi si ha il riconoscimento dello sviluppo storico, il quale ha trasformato ciò che prima era giusto in qualche cosa di falso, ciò che prima era progressista in una forza che ostacola il presente modificato.

Naturalmente qui non si tratta soltanto della guerra nucleare, considerata isolatamente. Questa svolta non sarebbe potuta intervenire se un terzo del mondo non fosse diventato socialista, se l’insurrezione dei popoli coloniali non si fosse estesa fino a diventate un fenomeno generale, oggi evidente, togliendo ogni senso, pertanto, all’idea di una nuova ripartizione del mondo. Se nel 1914, per esempio, Guglielmo II, Clemenceau e Lloyd George avessero disposto di bombe atomiche, con tutta probabilità le avrebbero usate. Ma col XX Congresso il dileguarsi dell’incubo nucleare è diventato una reale via di scampo per tutto il mondo.

La lettera sovietica si richiama con buon diritto ai pensieri e ai sentimenti che ne derivarono. Dopo che Chruščëv, in sette anni di attività abile e tenace, ha fatto della risoluzione del XX Congresso una speranza universale di tutto il mondo, di fronte a questo appello appaiono sbiaditi, anzi si dissolvono nel nulla, quei sofismi burocratici, a volte abilmente costruiti, con cui l’appello cinese parla dell’«inevitabile» guerra mondiale come unica via per il socialismo mondiale.

II.

Diamo un’occhiata al contenuto «unitario» e «logicamente» dedotto della lettera cinese.

Se si vuole riassumere in breve il contenuto, e in pari tempo assegnargli un posto nella storia del movimento operaio rivoluzionario, si può dire soltanto che esso è l’ultimo compendio di una tendenza, vecchia e nuova insieme, che torna sempre ad emergere fin dagli inizi del movimento operaio: il settarismo.

Essa si manifesta subito all’inizio del periodo di depressione che seguì alla sconfitta della rivoluzione del 1848, nel movimento di Willich e Schapper all’interno della Lega dei comunisti londinese; prende una nuova forma – per illustrare con pochi esempi la sua continuità – nell’opposizione dei «giovani» in Germania dopo la revoca della legge contro i socialisti (1889); ha una parte di primo piano nella questione del boicottaggio alla Terza Duma (1907), nel dibattito sulla firma della pace di Brest-Litovsk (1918), ecc. ecc. Non intendiamo affatto, ovviamente, tracciare la storia del settarismo; citiamo questi casi soltanto per indicarne in breve alcuni dei tratti comuni più caratteristici.

Innanzi tutto: esso ignora sempre tutta la ricchezza della realtà, la riduce a un dilemma fra estremi che si escludono assolutamente. Lo si vede sempre, sul piano teorico come su quello pratico. Già nel 1850 Marx caratterizzava così questa mentalità fondamentale del settarismo:

«La minoranza sostituisce una visione dogmatica alla visione critica, una visione idealistica a quella materialistica. In luogo delle condizioni reali, la pura volontà diventa per essa la ruota motrice della storia. Mentre noi diciamo agli operai: dovete passare attraverso 15, 20, 50 anni di guerre civili e di lotte di popoli, non soltanto per mutare le condizioni, ma per mutare voi stessi e rendervi capaci di esercitare il potere politico, voi dite al contrario: dobbiamo arrivare subito al potere, o possiamo andare a dormire!»

Questa Weltanschauung ha conseguenze di estrema importanza per la teoria e la psicologia del settarismo. Per quanto riguarda la psicologia, prevale in esso da un lato il dilemma astrattamente falso di una scelta fra tutto o niente, dall’altro la rinuncia pessimistica e disfattista ad ogni azione, dal momento che l’attuazione dell’ideale artefatto, respinto in un estremo inattuabile, resta comunque esclusa.

Nella discussione sulla pace di Brest-Litovsk, tenendo conto che l’esercito russo si trovava in pieno disfacimento, Lenin definiva «stato d’animo del disfattismo più profondo e più disperato, sentimento di completa disperazione» il punto di vista dei suoi avversari, sostenitori di una «guerra rivoluzionaria» contro la Germania che in quel momento era ancora militarmente forte. (Sia detto di passaggio: se la posizione cinese suscita simpatia in certi piccoli gruppi d’intellettuali occidentali, varrebbe la pena di vedere da vicino se si tratta sempre di un fatto soltanto politico, o non anche di quell’atteggiamento verso la realtà che di solito sta alla base della popolarità di scrittori attuali del tipo di Beckett. Qui non possiamo soffermarci su questa questione, in sé interessante).

Questo disfattismo, questa disperazione pessimistica, provoca spesso un deprezzamento delle conquiste già fatte dal movimento, per quanto esse possano essere importanti e anche storicamente decisive. A suo tempo, per esempio, i sostenitori settari della «guerra rivoluzionaria» contro la Germania, affatto assurda, erano disposti in compenso a mettere in gioco l’esistenza della prima potenza sovietica del mondo, appena conquistata.

Se osserviamo un poco più da presso la struttura intellettuale di questa posizione, troviamo principî di un’astrattezza estrema, che si converte in vacuità. Qui sia detto chiaramente, per evitare malintesi, che queste considerazioni sono lontanissime dalle esigenze di un’azione «realpolitica», di un’azione politica fondata su basi pragmatiche. La generalizzazione, il richiamo ai principî sono inevitabili per una prassi giusta e lungimirante. Tuttavia i principî devono innanzi tutto essere fondati nella realtà dinamica dello sviluppo sociale, cioè devono essere «astrazioni intelligibili», per usare le parole di Marx; e poi è indispensabile riconoscere le mediazioni dialettiche fra i principî generali e singoli obiettivi concreti.

Una caratteristica del settarismo è proprio l’esclusione – di principio, si potrebbe dire – di tutte le categorie intermedie. Per il settarismo l’attuazione dei principî ultimi, generali, non è il risultato di uno sviluppo storico-sociale, in cui avvengono incessanti mutamenti di forme, scambi di funzioni, in cui sorgono continuamente mediazioni nuove, mentre le vecchie perdono il loro valore, subiscono modifiche più o meno sostanziali, ecc. Il settarismo connette sempre e dovunque i principî ultimi del movimento (che pertanto sono necessariamente astratti) direttamente alle singole azioni; vuole «dedurre» immediatamente queste da quelli.

Quando si esclude ogni mediazione dialettica fra principio, strategia e tattica, sorgono deduzioni vuote e astratte o tutt’al più, se nonostante tutto non si dimentica la realtà, mere deduzioni analogiche. Anche i singoli fatti perdono il loro carattere individuale e il loro nesso indissolubile con le circostanze concrete dalle quali sono sorti e sulle quali a loro volta agiscono. Una somiglianza (o opposizione) meramente astratta collega una possibilità di azione attuale ad una «analoga» del passato.

Anche qui gli esempi sono a portata di mano. Nel 1905 i bolscevichi silurarono con un riuscito boicottaggio attivo la cosiddetta Duma di Bulygin: gli scioperi di massa e le insurrezioni riuscirono – provvisoriamente – a impedire che la reazione zarista si consolidasse e canalizzasse secondo i suoi intenti il movimento rivoluzionario. Nel 1907 la reazione aveva vinto e si era già consolidata: alle elezioni per la Terza Duma, quindi, per il movimento rivoluzionario si trattava soltanto di avere un organo di propaganda legale tra il generale soffocamento delle sue possibilità di espressione. Eppure i settari di allora, richiamandosi proprio al successo del boicottaggio del 1905, anche nel 1907 facevano appello al boicottaggio della Terza Duma, in circostanze affatto mutate.

È sempre lo stesso: prima di un’azione non si fa «l’analisi concreta della situazione concreta», come voleva Lenin, ma si risponde alla questione del «che fare?» sotto forma di una deduzione astratta di principî astratti.

Prendo come esempio la discussione che ebbe luogo in seno al movimento comunista internazionale negli anni venti, quando io stesso ero impegnato dalla parte dei settari, sulla partecipazione al parlamento e alle elezioni parlamentari. Noi facevamo presente che in seguito alla rivoluzione del 1917, considerato lo stato di sconvolgimento rivoluzionario di tutta l’Europa, il parlamentarismo era superato in senso storico-universale. Lenin rispondeva:

«Il parlamentarismo è “sopravvissuto storicamente” a se stesso in senso storico-universale, cioè l’epoca del parlamentarismo borghese è finita, l’epoca della dittatura del proletariato è cominciata. Ciò è incontestabile. Ma la storia universale si misura a decenni. Dieci o dodici anni prima o dopo, sono indifferenti per la misura storico-universale, dal punto di vista storico-universale sono un’inezia che non si può calcolare neppure per approssimazione. Ma proprio per questo l’appellarsi alla misura storico-universale per una questione di politica pratica è un errore teorico raccapricciante. Il parlamentarismo è “sopravvissuto politicamente” a se stesso? Questa è una questione affatto diversa».

Se esaminiamo queste posizioni dal punto di vista gnoseologico, se ne scopre subito l’estremo soggettivismo. Per questa via, in ultima analisi, la fedeltà ai principî socialisti si tramuta in un fichtiano «Tanto peggio per i fatti». Ma se un siffatto soggettivismo vuol passare da quelle sue parole d’ordine alle azioni, questo carattere gnoseologico comporta che le parole d’ordine volute si trasformino in semplici frasi rivoluzionarie. Anche su questo punto Lenin parlò molto chiaro al tempo del dibattito sulla pace di Brest:

«Non si deve trasformare in una semplice frase la grande parola d’ordine “Puntiamo sulla vittoria del socialismo in Europa!” Questa è una verità se non s’ignora la via lunga e difficile che porta alla vittoria completa del socialismo. È una verità storico-filosofica incontestabile se si prende nel suo complesso tutta “l’era della rivoluzione socialista”. Ma ogni verità astratta diventa una semplice frase se la si applica a qualsiasi situazione concreta».

Tuttavia qualsiasi analisi storico-sistematica del settarismo, se applicata al presente, sarebbe non soltanto incompleta, ma anche artificiosa e falsa se non si tenesse conto del modo in cui esso si manifestò, con enormi effetti teorici e pratici, sotto Stalin. Dato che ho studiato più volte diffusamente proprio il metodo di Stalin – contrapponendolo a quello di Marx, Engels e Lenin – posso qui contenermi in uno spazio relativamente ristretto.

L’aspetto decisamente nuovo che Stalin rappresenta per la storia del settarismo è soprattutto di carattere sociale: mentre prima il movimento era composto da piccoli gruppi o anche gruppetti, uniti volontariamente, ossia aveva certe caratteristiche «sociologiche» delle sette originarie (in senso storico-ecclesiastico), con Stalin il settarismo diventa la tendenza dominante di un grande partito, di una grande potenza. Ciò presuppone innanzi tutto un gigantesco apparato centralizzato che le sette, trovandosi quasi sempre all’opposizione, non avevano mai; dicevo nel 1956: una piramide formata da tanti Stalin che verso il basso diventano sempre più piccoli.

Mediante questo apparato il soggettivismo della frase rivoluzionaria si trasformò in un dogma, anch’esso soggettivo, cioè fatto di frasi al modo che abbiamo detto, ma realizzabile attraverso la violenza. La frase rivoluzionaria è diventata bensì onnipotente, nel quadro delle possibilità oggettive, ma non per questo ha perduto la sua vacuità soggettivistica.

Ciò risulta logicamente dal mutamento strutturale dei rapporti fra teoria e organizzazione, da Lenin a Stalin. Con Lenin i principî dell’organizzazione erano ricavati di volta in volta dalla nuova analisi di nuove situazioni e tendenze; con Stalin i principî dell’apparato dominante sono prestabiliti, e l’esposizione propagandistica dei fatti serve a rafforzare la necessità dell’apparato. (Si pensi al teorema, confutato dal XX Congresso, del necessario inasprimento della lotta di classe).

In tutto ciò avevano una grande funzione – e l’hanno ancora presso i cinesi – le citazioni dei classici. Entrambe le forme di settarismo trattavano i fatti con sovrana superiorità, ma intanto davano un’etichetta marxista-leninista agli atti del più arbitrario burocratismo. Un fattore importantissimo della deformazione staliniana del marxismo-leninismo era proprio che la terminologia marxista veniva conservata, mentre la realtà alla quale essa era riferita non aveva più niente a che fare col suo significato originario e autentico. Per vedere chiaro questo punto basta pensare a categorie sociali come discussione o autocritica.

Qui naturalmente parliamo dei principalissimi aspetti soggettivistico-settari, dominanti in molti campi, della politica e dell’organizzazione staliniana. Se, infatti, questo fosse rimasto il suo contenuto esclusivo, il regime di Stalin non si sarebbe potuto reggere per decenni. Ma qui non vogliamo dare una valutazione storicamente ponderata del suo regime; quel che m’interessa è di mostrarne i tratti settari. I quali si manifestano chiaramente anche in decisioni di per sé giuste.

Cito solo un esempio, la cui sostanza ho già trattato a fondo in altri contesti. A suo tempo ho spiegato che per me il patto del 1939 era politicamente giusto, ma che fu un grave errore l’impegnare i partiti comunisti occidentali a vedere nella guerra hitleriana d’aggressione contro i loro paesi una guerra imperialistica di vecchio stile, e quindi a vedere il nemico reale nei propri governi e non in Hitler. Abbiamo qui, come «in vitro», la frase rivoluzionaria, il dogma soggettivistico: il momento particolare (il regime hitleriano) scompare del tutto, lo schema della prima guerra mondiale nasconde completamente la realtà della seconda, l’applicazione del dogma contraddice rudemente tutti i fatti della nuova guerra, tutti gli interessi e i sentimenti delle masse dirette dal dogma.

Così il dogmatismo staliniano deforma anche rivendicazioni dedotte da premesse in sé giuste. Il rapporto fra teoria e realtà è completamente turbato e proprio per questo reagisce anche sul soggetto autocritico del dogma. Si ha qui la conversione del disfattismo settario, che è una delle caratteristiche generali del metodo staliniano: la sfiducia disfattista nella capacità d’azione autonoma delle masse, la convinzione che da esse non si possa imparare nulla. Stalin non crede che i lavoratori dei paesi occidentali possano restare fedeli al socialismo, all’Unione Sovietica, anche se si difendono contro l’aggressione di Hitler.

Attorno al soggetto del dogmatismo settario, che ormai si trova solo, sorge allora un’atmosfera soffocante di diffidenza; solo questa atmosfera può spiegare – almeno psicologicamente – il periodo dei grandi processi. Ma, se i desideri soggettivi sono molto forti, questa diffidenza, che per la sua struttura interna è un soggettivismo esasperato, si converte in una credulità non meno soggettivisticamente infondata; ed ecco che Stalin, nonostante i molteplici avvertimenti, nell’estate del 1941 non voleva credere all’attacco hitleriano contro l’Unione Sovietica.

Questa contraddittorietà interna del settarismo soggettivistico divenuto sistema dominante produce nella sua prassi non solo questa contraddizione, ma anche tutta una serie di contraddizioni simili. Lo stesso disfattismo di fondo, di cui abbiamo detto più volte, converte per esempio la prassi propagandistica in un ottimismo politico. È facile capirne la ragione. Il soggettivismo dogmatico del metodo staliniano non può fare della prassi, come facevano Marx e Lenin, il giudice della teoria. Al contrario, la prassi deve confermare in tutte le circostanze i dogmi soggettivistici. Se le cose stanno diversamente, l’apparato deve provvedere alle apparenze. Così, come ho dimostrato già molto tempo fa a proposito della letteratura, gli obiettivi e le prospettive sono sempre rappresentati come realtà. Questa è una delle ragioni principali che sotto Stalin hanno provocato la stagnazione delle scienze marxistiche, la perdita di prestigio subita dal realismo socialista negli stessi paesi socialisti.

Da questa struttura del pensiero e dell’azione deriva anche la profonda inumanità dell’età staliniana. L’umanesimo di Marx – un umanesimo assai diverso dagli umanesimi soggettivi e passivi alla Stefan Zweig; un umanesimo che ammette il sacrificio e che anzi in certe circostanze concrete lo esige – trova espressione teorica nelle sue analisi fondamentali del rapporto fra uomo e società; e non solo negli scritti giovanili, ma soprattutto nella parte del Capitale sulla feticizzazione. Queste analisi mostrano che dietro la superficie delle formazioni economiche, con la sua apparenza feticistica, stanno sempre come realtà autentica relazioni fra uomini, che l’uomo, l’uomo reale, socializzato, è in ultima istanza (pur se la sua potenza non è affatto illimitata) il soggetto del divenire sociale.

Secondo questa concezione il periodo del socialismo deve essere un periodo di grandiosa liberazione interiore. L’abolizione delle forme di sfruttamento che costituivano le classi spinge ad assegnare all’azione umana responsabile il massimo peso sociale reale che essa abbia mai avuto. Solo così, come riconosceva Lenin, l’eredità etica dello sviluppo umano diventerà praticamente attuale. Egli prevedeva che «liberati dalla schiavitù capitalistica, dagli innumerevoli orrori, barbarie, assurdità, ignominie dello sfruttamento capitalistico, gli uomini si abitueranno a poco a poco a osservare le regole elementari della convivenza sociale, da tutti conosciute da secoli, ripetute da millenni in tutti i comandamenti, a osservarle senza violenza, senza costrizione, senza sottomissione, senza quello speciale apparato di costrizione che si chiama Stato».

Il dogmatismo soggettivistico del periodo staliniano, con la sua unità contraddittoria di diffidenza e credulità, di occulto disfattismo e di ostentato ottimismo politico, ecc., non può quindi trasformare le costrizioni meramente giuridiche in spontanei obblighi morali. Col permanere delle sanzioni burocratiche, esso avrà piuttosto la tendenza a ritrasformare in un rapporto giuridico tanto la morale socialmente tramandata quanto la nuova morale che sorge. (Anche qui, come sempre, parliamo di tendenze fondamentali, divenute tipicamente operanti, suscitate per necessità dai metodi staliniani. È ovvio che il carattere socialista dell’essere sociale dà anche prodotti diversi, opposti, sul terreno etico, estetico, ecc. Ma queste tendenze opposte tutt’al più erano tollerate. Se apparivano alla luce del sole, di solito ciò avveniva in forma partigiana semilegale).

Qui non ci proponiamo di mostrare come i comunisti cinesi siano legati al metodo staliniano e alla sua origine storica. Ci basta osservare che dopo il breve episodio dei «cento fiori» che dovevano fiorire, lo spirito del settarismo staliniano si manifesta con chiarezza crescente in tutti i documenti dei comunisti cinesi.

Il «grande balzo in avanti» fu già progettato e attuato in tutto e per tutto secondo questo modello; al suo necessario fallimento seguì solo una radicalizzazione dello stesso metodo. Non per caso la presa di posizione sulla questione centrale del nostro tempo, quella della pace e della guerra, quando non è un’aperta accettazione della guerra atomica in nome di una frase rivoluzionaria attualizzata, si ricollega al discorso tenuto da Stalin al XIX Congresso. Dopo un paio di riserve, secondo cui in date circostanze alcune singole guerre potrebbero essere evitate, segue, sostanzialmente senza riserve, l’affermazione dell’inevitabilità delle guerre mondiali, fintanto che esiste l’imperialismo. Soltanto la vittoria del socialismo sul capitalismo su scala mondiale potrebbe impedire con sicurezza le guerre mondiali. La posizione della lettera cinese supera quindi largamente Stalin, per il radicalismo della frase rivoluzionaria.

Non si può ripeterlo abbastanza: l’appello sovietico alla grande svolta avvenuta nella vita dei popoli dopo il XX Congresso, la cessazione della paura dell’illegalità, la prospettiva di evitare la morte atomica del genere umano, a lungo andare sono più efficaci delle frasi rivoluzionarie dei pur abili funzionari cinesi. Ma questo modernissimo settarismo può subire una sconfitta teorica realmente distruttiva soltanto se la teoria marxista confuta fino in fondo non solo le argomentazioni pratiche che esso ricava dalla vita, ma anche le sue premesse e i suoi metodi deduttivi.

Questo attacco risolutivo non c’è ancora stato perché l’eredità teorica di Stalin non è ancora realmente e completamente superata. Questo dissidio resterà aperto fintanto che lo sviluppo dell’economia, della filosofia, ecc., arrestato e respinto indietro da Stalin, non riprenderà realmente la sua marcia, fintanto che, pur avendo un senso chiaro e sicuro per i problemi decisivi del presente, si continuerà per esempio a «chiarire» fatti e situazioni economici attuali con citazioni vecchie di quarant’ anni, invece di condurre un’indagine spregiudicata dei tratti specifici del presente sulla base del metodo marxista-leninista depurato dalle deformazioni staliniane.

III.

I contrasti si acuiscono, praticamente, sulla questione della coesistenza.

Nel vivo sentimento di larghissimi strati dei due campi si può avvertire una chiarissima propensione per lo stato di coesistenza. Ma ad essa è sempre legata la sensazione che le conseguenze comporterebbero qualche cosa di funesto. Essa è naturalmente alimentata, nei due campi, dagli avversari estremisti della coesistenza. Così nella stampa occidentale si può leggere continuamente che le proposte sovietiche per la coesistenza non sono sincere finché i comunisti non abbiano rinunciato al loro scopo finale, all’instaurazione di un socialismo su scala mondiale. Dall’altra parte i cinesi rimproverano i dirigenti sovietici perché essi affermano di avere trovato negli uomini politici occidentali, su alcune questioni, una valutazione sanamente spregiudicata della situazione; e pertanto i dirigenti sovietici non vedono in questi dirigenti occidentali ciechi cospiratori fanatici, che preparano giorno e notte, senza tregua e con tutti i mezzi, la distruzione immediata dello Stato socialista.

La verità è che tanto il capitalismo quanto il socialismo sono sistemi economici universalistici, che per logica interna tendono a sottomettere il mondo intero al loro modo di produzione. Questo è un fatto economico elementare e ineliminabile, che deve restare sempre operante come base ultima delle relazioni reciproche. Ma se ne deve concludere – come fanno non solo comunisti settari, ma anche enragés capitalistici – che una guerra fredda, da cui alla prima occasione potrebbe scaturire la guerra calda, debba essere l’unico rapporto possibile fra i due sistemi mondiali, la cui lotta caratterizza i nostri tempi? Io credo che tutti i fatti della storia degli ultimi decenni parlino chiaramente contro simili astrazioni.

Basta pensare alla guerra comune contro Hitler. I contrasti decisivi erano operanti anche a quel tempo, emergevano più o meno chiaramente in ogni discussione sui piani militari, le prospettive di pace, ecc. Cioè: essendo stato impossibile, negli anni 1918-21, abbattere il nuovo potere sovietico con interventi armati, queste forme dirette di lotta di classe internazionale furono più volte sostituite da forme indirette (fino all’alleanza).

La novità, nella situazione attuale, è «semplicemente» che le tendenze a sospendere le forme dirette di guerra si fanno sempre più forti, i periodi di respiro, dapprima decisamente temporanei e transitori, convergono sempre più nettamente nella direzione di uno stato permanente. La guerra fredda, senza dubbio, è pur sempre la forma prevalente nei rapporti internazionali fra Stati capitalisti e socialisti; ma quanto più le circostanze oggettive tendono ad escludere lo scoppio di conflitti armati, la guerra fredda perde sempre più le sue funzioni preparatorie, diventa a poco a poco insensata, anzi nociva, e a lungo andare – solo a lungo andare, sia pure – è condannata a scomparire.

Questi mutamenti della situazione hanno un’importanza decisiva per il successo politico dei due grandi antagonisti. Ma non possono cambiare nulla nel dato di fatto sociale di fondo: la coesistenza come forma specifica della lotta di classe internazionale. Ripetiamo: tale particolarità della situazione attuale è stata prodotta da una combinazione di circostanze storico-sociali. La guerra atomica con le sue necessarie conseguenze è soltanto una – certo importantissima – componente di questa totalità concreta. Se non fosse sorta una grande potenza socialista, appoggiata da una serie di Stati socialisti, se la liberazione dei popoli ex coloniali non avesse un corso impetuoso e irresistibile, probabilmente la guerra atomica avrebbe una funzione diversa nella politica internazionale.

Ma se in questa situazione internazionale, per la tenace iniziativa della politica sovietica, interviene di fatto un periodo di pace permanente, entrambi i campi devono spostare energicamente le loro prospettive storiche.

Dato che qui c’interessa soprattutto il contrasto cino-sovietico, si deve ricordare che dalla prima e breve conquista del potere da parte del proletariato (Comune di Parigi, 1871) fino a Cuba ogni vera rivoluzione è scoppiata in seguito ad una guerra: così in Russia nel 1905 e nel 1917; così nel 1945 (nascita delle democrazie popolari nell’Europa centrale); così nel 1948 (Cina). Non sorprende affatto, dunque, che l’atteggiamento di tanti comunisti (e anche avversari dei comunisti) sia orientato verso il nesso «organico» fra guerra e rivoluzione. Quindi un merito durevole del XX Congresso è quello di avere avuto la perspicacia e il coraggio di definire in chiari termini storicamente superata questa situazione.

L’affermazione della possibilità – della semplice possibilità, sia pure – di un passaggio al socialismo senza guerra e senza guerra civile è un importante passo avanti nell’adattamento del pensiero rivoluzionario alla nuova situazione internazionale. Qui dobbiamo limitarci ad accennare ai nessi con la coesistenza. Il punto più essenziale è che la competizione pacifica in tutti i campi della vita umana, nella sua spontaneità semplice e immediata, è una gara per conquistare l’animo degli uomini: attirarli dalla parte di uno dei grandi sistemi mondiali, preparare la loro decisione, intervenire attivamente a favore dell’ordinamento sociale prescelto.

Se ciò è vero per i paesi civili, che hanno già attuato l’una o l’altra formazione economica, a maggior ragione deve essere vero per i paesi in via di sviluppo, che per lo più hanno ancora un’economia precapitalistica e che ora devono scegliere la via del loro sviluppo futuro. Qui naturalmente ha una funzione decisiva, come contenuto della coesistenza, la competizione economica.

Ma, per quanto il potenziale economico dei sistemi sociali concorrenti possa essere importante, esso non è l’unico fattore decisivo. Oggi gli Usa sono senza dubbio il paese economicamente più progredito. Ma qualsiasi osservatore dei fatti può accorgersi che il loro aiuto ai paesi in via di sviluppo è incomparabilmente maggiore di quello che sarebbe senza la competizione con I’Unione Sovietica e gli Stati socialisti. La loro semplice esistenza – anche senza tener conto degli aiuti reali che essi forniscono – è un fattore importante che induce i paesi capitalistici a compiere sforzi superiori ai propositi che avrebbero nutrito se non ci fosse stata questa concorrenza.

Ma la stessa esistenza, il crescente potenziale economico e militare degli Stati socialisti, esercita effetti anche più importanti sulla situazione. Ogni colonizzazione, e anzi ogni rapporto di dipendenza capitalistica disgrega in una certa misura l’originaria struttura sociale dei paesi dipendenti. Vengono innestate in essi certe tendenze di sviluppo – basta pensare alle monoculture di certi paesi – che spesso diventano ostacoli reali per una crescita realmente sana e organica. Il neocolonialismo dei paesi imperialistici, fattosi «puramente economico», tende ancor oggi a mantenere economicamente in piedi queste false strutture. Peggio ancora: di regola ogni dominazione coloniale si è appoggiata agli strati socialmente reazionari dei paesi del tutto o in parte sottomessi. Questa politica non è ancora cessata: basta ricordare la politica praticata dagli Usa nella Corea del Sud o nel Vietnam del Sud.

In queste condizioni l’aiuto degli Stati socialisti può essere di estrema importanza. Esso può diventare il sostegno per uno sviluppo normale verso la civiltà, fondato su giuste basi economiche e sociali; naturalmente con lo scopo finale di aprire e facilitare agli Stati liberati il cammino verso il socialismo. È evidente, qui, che per queste lotte di liberazione il settarismo cinese, la frase rivoluzionaria cinese, rappresenta un grande pericolo.

Appare altresì evidentissimo che la radicale resa dei conti teorica con le deformazioni settarie del metodo marxista comporta importanti conseguenze politiche. Forse oggi pochi pensano che il primo grande documento politico-teorico del marxismo, il Manifesto dei comunisti, impostava la questione politico-teorica delle forme di transizione attraverso le quali la Germania, allora arretrata sul terreno economico-sociale, poteva trovare la sua via particolare verso il socialismo. E pochi oggi pensano che nel 1905 Lenin, svolgendo originalmente a fondo le idee di Marx ed Engels e applicandole alle condizioni particolari della Russia, anch’essa arretrata, arrivò alla forma di transizione della «dittatura democratica degli operai e dei contadini»; e che al tempo della fondazione della Terza Internazionale egli si applicò intensamente a formulare in modo nuovo questa teoria della transizione per l’incipiente lotta di liberazione dei popoli coloniali. Con la morte di Lenin, col regime di Stalin, cessò la rielaborazione originale di questi problemi della transizione.

Questa mancanza di ricerca teorica, economica e storica, ha conseguenze molto gravi nella presente situazione internazionale. Infatti il movimento dei paesi sottosviluppati verso l’indipendenza pone una molteplicità sconfinata di problemi. Ci sono paesi in cui si deve cominciare col distruggere rapporti agrari feudali; altri con una struttura sociale anche più primitiva di una struttura feudale. L’aiuto politico reale dei marxisti dovrebbe dunque essere un’analisi concreta delle condizioni della transizione: solo partendo di qui si possono indicare le vie concrete dello sviluppo ulteriore. A poco può servire una Realpolitik meramente pragmatica, che naturalmente è stata dedotta da esperienze di paesi con strutture affatto diverse.

Perciò oggi, nei paesi arretrati e in via di liberazione, la piattaforma cinese con la frase rivoluzionaria di un socialismo di attuazione immediata può esercitare un momentaneo influsso tattico e provocare molti danni. Perciò esiste il pericolo, proprio su questa questione, che nella scelta fra la frase rivoluzionaria e una Realpolitik meramente pragmatica possa trovare eco la frase rivoluzionaria, e che i popoli dei territori in via di sviluppo, posti di fronte all’alternativa astratta fra sfruttamento coloniale e socialismo immediato, imbocchino strade sbagliate.

Proprio qui la necessità pratico-politica attuale sarebbe di condurre un’offensiva teorica contro il settarismo cino-staliniano. Ma essa presuppone assolutamente una radicale resa dei conti teorica col settarismo in quanto sistema di pensiero. Nella politica pratica l’Unione Sovietica ha riportato un successo con la sua difesa risoluta e insieme saggia di Cuba contro la possibilità di un intervento a scopo di restaurazione, e con ciò essa si è guadagnata e ha consolidato la fiducia di molti popoli. Qui la piattaforma cinese introduce teoricamente nella vita internazionale uno dei lati più funesti della prassi staliniana: l’esaltazione astrattamente dogmatica dello stato di guerra civile come unica alternativa all’opportunismo e alla capitolazione.

Oggi bisognerebbe confutare sul piano teorico l’astrattezza irrealistica di questa alternativa artificiosa e settaria, proprio per vedere con chiarezza quali problemi possano essere risolti con i metodi della guerra civile e quali soltanto con i mezzi di una lenta evoluzione.

Al tempo del comunismo di guerra e della NEP, Lenin si occupò spesso di questi problemi; i suoi metodi, i suoi risultati e i suoi impulsi potrebbero oggi, se appoggiati di volta in volta a un’analisi concreta del presente, concretamente concepito, confutare efficacemente quella alternativa astratta. Chiunque non sia del tutto accecato dalla concezione staliniana sa anzi che un fenomeno tipico delle guerre civili è che esse prendono dalle profondità delle masse e innalzano al vertice, per esempio, uomini politici o capi militari, talvolta anche di grandi qualità; ma in nessuna guerra civile operai non qualificati sono diventati d’un tratto specialisti esperti del loro ramo.

Che la frase rivoluzionaria della guerra civile ha effetti funesti nella normale scelta dei quadri della pacifica vita quotidiana, noi ungheresi lo abbiamo visto a nostre spese al tempo di Rákosi. Ma ancora oggi la frase rivoluzionaria, diventata feticcio, è ben lungi dall’appartenere al passato. Tanto più importante, dunque, qui come sempre, è la radicale resa dei conti con la frase rivoluzionaria, affinché si trovi finalmente la definizione reale, corrispondente alle nuove forme della realtà, della lotta di classe che di volta in volta necessariamente sorge: gli obiettivi e i metodi realmente rivoluzionari nella lotta su due fronti contro il vero opportunismo (qui: effettiva capitolazione di fronte al colonialismo anche nella sua forma nuova) e contro la frase rivoluzionaria.

IV.

Ma anche la competizione pacifica, puramente economica, fra paesi capitalistici e socialisti è per sua essenza molto meno puramente tecnico-economica e quindi – dal punto di vista classista – meno «pacifica» di quanto appaia immediatamente alla superficie, dove si può fare soltanto la constatazione negativa che la guerra resta esclusa dal confronto economico. Ma qui si manifesta una contraddizione importante e feconda. Ciò che qui conta – alla lunga – è soltanto la superiorità tecnica ed economica reale. Al livello attuale non solo dei rapporti reciproci, non solo dei mezzi d’informazione, ma anche della capacità di decifrare statistiche, rendiconti ecc., molto difficilmente le affermazioni puramente propagandistiche possono reggere per molto tempo. Ciò che si mette a confronto, nella competizione, è il livello di vita reale della popolazione, non le proclamazioni propagandistiche.

Se in tal modo la competizione economica annulla le assicurazioni meramente propagandistiche di ambo le parti, in pari tempo la realtà economica nel suo insieme diventa uno strumento di propaganda unitario e monumentale; ogni successo significa all’interno un rafforzamento del proprio sistema, all’esterno un aumento della sua forza d’attrazione. Questa competizione decide – in ultima istanza – chi vincerà nella lotta internazionale di classe della coesistenza.

Anche qui, senza dubbio, bisogna evitare di presumere che lo sviluppo sia troppo rettilineo. Se infatti in questo agone dei sistemi sociali la decisione dipendesse soltanto dalla superiorità tecnico-economica, la superiorità del sistema capitalistico non sarebbe mai stata messa in pericolo e anche oggi la sua egemonia sarebbe incontestata. Tuttavia ogni uomo pensante sa che non è così. Si pensi, per citare un caso estremo, gli anni venti. In Russia c’erano le carestie, e a Vienna mi è capitato di vedere più di una volta che per esempio nel pomeriggio si partecipava a un’azione per raccogliere viveri per le regioni affamate, e la sera ci si riuniva in assemblea con non-socialisti, molti dei quali propendevano apertamente a riconoscere la superiorità del sistema socialista. Se oggi fatti simili accadono più di rado, benché la distanza economica si sia molto ridotta, anche questo dipende dalle ripercussioni ideologiche internazionali del periodo staliniano.

Così l’esame della competizione economica passa inavvertitamente a quello della competizione culturale. Mi pare che il punto di passaggio sia costituito dal problema del tempo libero, la cui importanza sociale deve crescere sempre più con la progressiva limitazione del tempo di lavoro. Sebbene, a causa della trascuratezza in cui per decenni la ricerca economica indipendente è stata abbandonata, al tempo di Stalin, non si afferri con sufficiente chiarezza teorica la dinamica concreta e regolare del capitalismo odierno, sebbene ci siano ancora seguaci ortodossi delle dottrine staliniane che al posto dei fatti esattamente osservati mettono citazioni, per esempio, sull’«impoverimento assoluto», il fatto della crescente riduzione del tempo di lavoro non può essere messo in dubbio.

È noto che Marx vedeva proprio nel tempo libero la base del regno della libertà, dello «sviluppo della forza umana che si considera fine a se stesso». Sorge così, indipendentemente dalle idee e dalle decisioni dei singoli individui, una sfera sempre crescente del tempo libero, e questo processo crea uno spazio sempre più ampio per la cultura, ne aumenta il peso sociale. (Naturalmente parliamo dell’aumento del peso sociale; in questa sede non possiamo discutere questioni di valore).

Nel quadro di queste considerazioni non ci possiamo proporre neppure di tentare una contrapposizione dei due sistemi con riguardo alle questioni della cultura. Osserveremo soltanto che anche la coesistenza culturale – pur prescindendo dagli effetti negativi di un intervento da parte della costrizione statale o sociale – non è affatto pacifica; che anche qui deve essere operante il principio della lotta di classe del «chi e da chi?» leniniano.

I prodotti della cultura, in particolare quelli dell’alta cultura, hanno naturalmente particolarità speciali molto nette, che influiscono decisamente sul modo della lotta che qui si combatte, sul suo esito. Le oggettivazioni culturali di alto valore, per loro natura, pretendono l’egemonia assoluta nel loro campo e respingono rudemente tutto ciò che da esse si discosta. Goethe, che personalmente aveva un’indole pacifica, si esprimeva così su questo punto fondamentale:

«Quando sento parlare di idee liberali, mi sorprende sempre il vedere come la gente si fermi volentieri su vuote espressioni verbali; un’idea non deve essere liberale. Sia essa vigorosa, solida, per assolvere l’incarico divino di essere produttiva; ancor meno liberale deve essere il concetto, avendo un incarico affatto diverso».

Nelle opere d’arte, a un esame immediato, questo esclusivismo è forse meno chiaramente percepibile, ma nel caso di violente lotte di tendenza questa caratteristica interna si rivela anche in questo campo. Si aggiunga che la genesi di ogni opera d’arte è bensì soggetta a un condizionamento sociale, di classe, ma essa rompe queste originarie restrizioni sociali – tanto più decisamente quanto più alto è il suo valore – ed è capace di raggiungere un’efficacia universale, anche presso persone ostili per sentimenti di classe.

Quindi il disconoscere il condizionamento sociale e classista delle oggettivazioni culturali – come si fa di solito nel mondo capitalistico – è fonte di giudizi unilaterali e falsi non meno che il seguire l’opinione settaria secondo cui la genesi classista delimita strettamente ed esattamente anche l’efficacia; anzi, tale efficacia dovrebbe essere oggetto di prescrizioni istituzionali. Fra queste due concezioni estreme, che oggettivamente valgono due errori uguali, indubbiamente la seconda è più pericolosa per l’impulso di una produzione originale e progressista.

Il suo predominio, al tempo di Stalin, ha avuto un effetto paralizzante per la scienza e l’arte. Essa ha certo la sua parte di colpa nel fatto che l’influsso potente e dominatore, che negli anni venti si diffondeva dalla Russia sovietica, ancora oppressa da tanti problemi economici, più tardi perse molto di estensione e d’intensità.

Naturalmente le risoluzioni del XX e XXII Congresso hanno avuto un’influenza molto positiva anche sull’opinione pubblica dei paesi capitalistici, ma la precedente influenza sulla cultura mondiale non è stata ancora restaurata. Senza dubbio ci sono già eccezioni, come il breve romanzo di Solženitsyn sui campi di concentramento, come le ultime novelle di Tibor Déry. È da sperare che la necessità di reagire con efficacia anche culturalmente al sistema settario ora instaurato e divulgato aggressivamente dai cinesi della linea del XX e XXII Congresso, e quindi ad andare oltre questi inizi.

Qui non possiamo assumerci il compito di fare profezie, e meno che mai di quelle che con la loro pretesa preveggenza vogliono scendere ai particolari. Tocchiamo soltanto una questione di principio, e anche questa da un punto di vista puramente teorico: quella della manipolazione delle opinioni e dei comportamenti degli uomini. Nel mondo capitalistico la sua natura e i suoi effetti per lo più sono giudicati falsamente. Soprattutto si sottovaluta l’importanza della sua genesi, o anche la si trascura del tutto. Alludo all’applicazione staliniana, inammissibile, dei metodi di governo del periodo delle guerre civili al consolidamento interno ormai pacifico.

Ciò non è accaduto per caso. Tutti conoscono l’effetto terrificante che i metodi staliniani hanno provocato in tutti coloro che avevano simpatia per il socialismo, e anche su molti che erano comunisti convinti. In tali circostanze era molto vantaggioso per l’ideologia borghese, dal punto di vista della lotta di classe, l’identificare i metodi di Stalin con Lenin o addirittura col marxismo in generale, il presentare i peggiori eccessi del regime staliniano come conseguenze necessarie della concezione di Marx e di Engels.

Il fatto che questa opinione sia del tutto falsa, il fatto che i classici del marxismo abbiano sempre considerato la guerra civile come un momento di transizione, talvolta assolutamente necessaria, ma sempre come mero momento di transizione, tutto ciò infirma poco l’efficacia di quella propaganda fintanto che il mondo socialista offre pretesti per sostenere che i metodi staliniani non possono essere ancora considerati come del tutto appartenenti al passato. Lo scontro col settarismo cino-stalinista offre la più splendida possibilità (e la più urgente necessità) di arrivare a una radicale resa dei conti in questo campo.

In tal modo l’avanzata ideologia del marxismo riacquista ampie prospettive teoriche e pratiche; allora si vede, infatti, che le dure forme della manipolazione nel rivolgimento socialista, preso nel suo complesso, rappresentano un corpo estraneo che ha potuto acquistare l’apparenza di una parte integrante solo a causa dell’immissibile generalizzazione staliniana dei metodi della guerra civile, trasformati in una condizione permanente.

In quest’opera di depurazione si presentano senza dubbio problemi difficili da risolvere a breve scadenza, e senza dubbio in molti casi non è facile seguire la via dalla brutale manipolazione staliniana fino alla democrazia proletaria voluta da Lenin; ma seri tentativi in questo senso possono già bastare per far apparire il tipo di manipolazione staliniana come un elemento estraneo che può e deve essere rimosso dall’edificazione socialista.

La manipolazione blanda, formalmente non violenta del sistema capitalistico ha invece la sua base nella sostanza economica del sistema stesso. Dato che il capitalismo ha afferrato totalmente i settori del consumo e dei servizi e li ha trasformati in grande industria e in produzione di massa, per esso la manipolazione della massa dei compratori è diventata una necessità economica. I fatti di questa determinatezza economica non mutano, a dispetto di altre interpretazioni affatto diverse e molto «più profonde». Queste non sono vere spiegazioni; come quando, per esempio, il famoso libro di D. Riesman, La folla solitaria, descrive l’essenza di questa manipolazione sostenendo che essa trasforma tipi «inner directed» in tipi «outward directed». Ogni esatta descrizione della normale vita quotidiana negli Usa – come ideale e modello per il mondo capitalistico – rivela la sopra accennata struttura economica di questa manipolazione.

Naturalmente la manipolazione non resta limitata alla vendita delle merci. Essa diventa anche il modello per il modo di esercitare l’influenza politico-sociale e culturale sulle masse. Anzi, è interessante osservare come le correnti politiche borghesi decisive, che all’inizio dell’«epoca della massa» – cioè dell’antagonismo svelato fra visione borghese del mondo e democrazia – erano state prese da uno scetticismo rassegnato (evidente per esempio in Stuart Mill), al sorgere di questi nuovi metodi di manipolazione della massa abbiano riconosciuto subito le grandi possibilità offerte dal loro impiego.

La struttura onnicomprensiva di questo sistema di manipolazione è nota a tutti e non occorre descriverla. Esso non solo si estende quantitativamente, ma non cessa neppure mai di raffinarsi. (Per esempio le organizzazioni di vendita di articoli di massa fanno studiare scientificamente da specialisti i motivi psicologici che inducono all’acquisto, per incrementare la voglia di comprare mediante manipolazioni psicologiche non direttamente percepibili, ma praticamente tanto più efficaci).

Così la manipolazione diventa in pari tempo sempre più blanda e più efficace, sempre più universale. Ciò, peraltro, solo quando essa funziona normalmente e senza attriti; le resistenze sociali sono schiacciate con ingenua naturalezza. Un grande merito di Sinclair Lewis è di averci rappresentato artisticamente, a un livello relativamente più primitivo di questo sviluppo, il passaggio insensibile dalla manipolazione sottile, funzionante senza consapevolezza, a una repressione brutale, più o meno aperta, della resistenza in molti settori della vita. Il vero fenomeno, infatti, può essere definito adeguatamente solo come un movimento incessante fra questi poli.

Poiché con ogni probabilità il tempo libero acquisterà sempre più importanza, per necessità economica, come campo della battaglia fra la razionalità e l’assurdità della vita umana, era necessario cercare di definire in breve, secondo la loro natura economica, le forze che qui esercitano un’azione decisiva. Il presente articolo non era certo la sede adatta per approfondire tutto l’insieme di questi problemi. Ma i cenni sporadici che abbiamo dato erano necessari per additare nel campo del tempo libero – terreno internazionale della competizione internazionale fra i due grandi sistemi sociali – l’importanza della lotta risoluta contro il settarismo cino-stalinista. La forza d’attrazione internazionale del socialismo, veicolo della sua vittoria nella lotta di classe internazionale della coesistenza pacifica, dipende largamente dal radicalismo con cui esso farà i conti col settarismo del passato e del presente.

La lotta fra progresso e reazione nella cultura d’oggi

14 sabato Nov 2015

Posted by György Lukács in I testi

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di György Lukács

[A haladas és reakció harca a mai kulturabán, in «Társadalmi Szemle», giugno-luglio 1956; G.L., La lotta fra progresso e reazione nella cultura d’oggi, trad. it. Giorgio Dolfini, Feltrinelli, Milano 1957,  ora in G.L., Marxismo politica culturale, Einaudi, Torino 1968].


I.

Quando parliamo di un problema che divide tutta un’epoca in due campi opposti, dobbiamo chiederci qual è, nella teoria e nella prassi, il principio che agisce qui, vale a dire la forza che stabilisce questa scissione in due campi.

Sembra evidente, anche a prima vista, che ci troviamo di fronte a due mondi: quello del capitalismo e quello del socialismo. Una contrapposizione, questa, indubbiamente giusta, in quanto rispecchia la contraddizione fondamentale della nostra epoca. Tuttavia il problema che si pone è questo: se si possa trasporre una tal contraddizione su un piano concreto direttamente e senza alcuna mediazione.

È molto interessante notare che Lenin ha posto questo problema già all’inizio dell’espansione internazionale del movimento comunista: egli si chiedeva infatti fino a che punto una opposizione storica universale possa trasferirsi direttamente ed immediatamente in una opposizione politica. Lenin parlava allora in modo significativo, nella sua opera Estremismo malattia infantile del comunismo, di un problema di settarismo. Egli accennava al fatto che molti comunisti consideravano il parlamentarismo storicamente superato ed opponevano ad esso il mondo dei soviet. Ecco ciò che scrive Lenin:

«Il parlamentarismo “storicamente ha fatto il proprio tempo”. Affermazione giusta in senso propagandistico. Ma ognuno sa che da ciò al superamento pratico ci corre ancora moltissimo. Il capitalismo, lo si può considerare già da molti decenni, ed invero con pieno diritto, “storicamente superato”; ciò però non dispensa affatto dalla necessità di una lotta molto lunga e dura sul terreno del capitalismo. Il parlamentarismo ha fatto “storicamente il proprio tempo” in senso storico universale, vale a dire che l’epoca del parlamentarismo borghese è finita e che è cominciata l’epoca della dittatura del proletariato. Questo è indiscutibile. Ma la storia universale si misura a decenni. Dieci o vent’anni prima o dopo, misurati col metro storico son del tutto indifferenti, guardati dal punto di vista della storia universale sono un’inezia, che neppure si può computare per approssimazione. Ma appunto per questo è un errore teorico che grida vendetta al cielo quello di richiamarsi al metro storico universale in una questione di politica pratica».

Come sempre Lenin s’appoggia anche qui ai principi fondamentali del marxismo. Il marxismo ha posto già da lungo tempo la questione del progresso e della reazione e tale questione sta in stretto rapporto con il problema del quale ci occupiamo oggi. Ricordo che Marx ed anche Engels hanno sempre violentemente polemizzato contro la teoria di Lassalle, secondo la quale le altre classi rappresentano di fronte al proletariato una massa reazionaria unitaria.

Sappiamo che questa questione più volte è riaffiorata dal tempo della Critica del programma di Gotha e che Engels ha formulato acutamente le sue obbiezioni teoriche in una delle sue lettere a proposito del programma di Erfurt. Che cosa condannava Engels nella teoria di Lassalle che la socialdemocrazia di allora voleva includere nel programma di Erfurt? Rilevo due questioni principali: l’una è che Lassalle trascura la differenza fra tendenza e fatto compiuto: qualcosa che esiste soltanto come tendenza viene trattato da questa teoria come fatto compiuto. Tendenza è il verificarsi di una legge in condizioni sfavorevoli, favorevoli, ritardatrici, ecc.: la legge non si attua mai per via diretta, mai senza il superamento di contraddizioni dialettiche, anzi può avvenire perfino, in certi casi, che non proceda nella sua direzione fondamentale, ma che addirittura sia temporaneamente sopraffatta dalle condizioni sfavorevoli.

In polemica coi sostenitori di Lassalle, Engels porta come esempio l’impossibilità di sostenere che tutte le altre classi formino una massa reazionaria, poiché anche in Germania può avvenire che singoli partiti borghesi si contrappongano alle sopravvivenze feudali e nella misura in cui lo fanno, il loro ruolo, lungi dall’essere reazionario, è anzi progressivo.

La seconda importante questione è quella della differenza che esiste fra situazione rivoluzionaria e non rivoluzionaria. Nella critica al programma di Gotha, come pure in numerosi altri passi, Engels sostiene che nel momento più acuto di una situazione rivoluzionaria tutti i partiti borghesi si alleeranno contro la rivoluzione proletaria; Engels afferma giustamente che in questa situazione rivoluzionaria acuta i partiti borghesi mostreranno di essere una massa reazionaria, vale a dire la tendenza diverrà fatto, realtà. Tuttavia dopo la rivoluzione – e Lenin nei suoi discorsi ne ha parlato innumerevoli volte – mutano di nuovo le circostanze; divengono possibili situazioni paradossali, come quella all’inizio dell’epoca della NEP, cui Lenin spesso si richiamava, quando il proletariato fu indotto a fare concessioni di vario genere al suo maggior nemico, alla borghesia. Tuttavia questo capitalismo condizionato avrebbe potuto favorire lo sviluppo delle forze produttive trasformando l’arretrata struttura piccolo-borghese della Russia. In tal modo il nemico, il vero e proprio rappresentante della reazione di allora, avrebbe potuto assumere temporaneamente un ruolo progressivo.

Negli articoli che Lenin ha scritto durante la guerra egli ha polemizzato più volte – e credo che ora il rapporto fra le singole citazioni divenga chiaro ad ognuno – contro la concezione per cui la società si dividerebbe anzitutto in due campi: in quello del progresso, in questo caso quello della rivoluzione socialista, e in quello della reazione, vale a dire l’imperialismo. In uno di tali articoli Lenin diceva che queste false rappresentazioni portarono quasi a credere che in un luogo si raggruppasse un esercito e dicesse: noi vogliamo il socialismo, e in altro luogo si raggruppasse un altro esercito e affermasse: noi vogliamo l’imperialismo, e così si arrivasse alla rivoluzione socialista. Lenin considera questo modo di pensare «ottuso e ridicolo»: «Chi afferma principi simili, – egli dice, – rinunzia alla rivoluzione socialista».

Fra le molte affermazioni di Lenin di questo tipo, vogliamo citarne ancora una che si riallaccia a questo problema. Secondo l’opinione di Lenin le singole istanze democratiche si trovano di fronte alle istanze del movimento mondiale genericamente democratico (oggi: generalmente socialista) come la parte di fronte al tutto; ma anche qui la parte non è meccanicamente subordinata al tutto. Fra parte e tutto possono sorgere un’infinità di contraddizioni. È possibile che in determinati casi la parte si trovi in opposizione al tutto.

Un esempio quanto mai evidente di una tale situazione l’abbiamo sperimentato nelle lotte di classe degli anni venti. Quando discutevamo con i socialdemocratici ci sentivamo accusare di incoerenza: Voi affermate che Kautsky ed i socialdemocratici indipendenti sono dei reazionari, ma al tempo stesso lodate la presa di posizione dell’emiro afgano. A tale obiezione noi rispondevamo nello spirito di Lenin: Sì, oggi la questione decisiva nel mondo è la lotta contro l’imperialismo. Se Kautsky e i socialdemocratici indipendenti appoggiano l’imperialismo attivamente o passivamente essi hanno allora una funzione reazionaria; se l’emiro afgano si oppone all’imperialismo inglese e lo contrasta, egli, ad onta della struttura allora reazionaria dell’Afganistan, ad onta di ogni ideologia religiosa, svolge nella prassi, nella vita reale, un ruolo progressivo.

Se da tutto ciò vogliamo tirare conseguenze valide per la nostra problematica attuale, dobbiamo dire che le verità storiche universali del marxismo si affermano dialetticamente in modo tale che è possibile non soltanto una opposizione fra una qualsiasi azione tattica assolutamente necessaria e i principî teorici generali e storico-universali, ma addirittura che ciò può accadere nella nostra stessa strategia. In seguito faremo notare come in questioni strategiche decisive questo caso non sia sempre eccezionale, ma anzi possa verificarsi molto frequentemente.

Per considerare l’intera questione dal punto di vista teorico, dobbiamo tenere presente che uno dei tratti più caratteristici del settarismo e del dogmatismo consiste nel mettere in immediato rapporto i fondamenti della teoria con i problemi del giorno. Secondo questo modo di vedere, ogni problema quotidiano, qualunque ne sia la natura, deve dedursi direttamente e senza mediazioni dai più alti principi del marxismo-leninismo. Credo che non sia necessario addurre esempi a questo proposito; la storia degli ultimi decenni ne è piena.

Che, se questa storia vogliamo comprendere – mantenendo fermo il punto di vista che l’opposizione storica fondamentale della nostra epoca è quella fra capitalismo e socialismo – dobbiamo riconoscere che dalla morte di Lenin si son succeduti due periodi nei quali la strategia della lotta per il progresso non fu direttamente condizionata da questo problema. Poco dopo la morte di Lenin si formò in tutto il mondo il fronte del fascismo e dell’anti-fascismo. Non voglio qui trattare di questioni particolari, ma credo che alla luce della nostra conoscenza marxista attuale sia chiaro che innumerevoli errori strategici del nostro partito sono derivati dal fatto che noi abbiamo semplicemente assunto, senza alcuna critica e senza riprova della nuova situazione, le verità del 1917 e del periodo rivoluzionario immediatamente seguente il 1917 (verità emerse nell’Unione Sovietica sia dalla lotta fra borghesia e proletariato per l’immediata conquista del potere sia dalle lotte determinate dall’intervento straniero), calandole in un periodo il cui problema strategico fondamentale non era la lotta immediata per il socialismo, ma una prova di forza tra fascismo e antifascismo.

A tal genere di errori appartengono le affermazioni di Stalin alla fine degli anni venti sui socialdemocratici come fratelli gemelli dei fascisti, che furono ancora fino al VII Congresso del Comintern un ostacolo ad ogni politica di fronte popolare; il grande errore di Stalin conseguiva senza dubbio dal fatto che egli non riconosceva la contradditorietà di questi grandi problemi strategici.

Dopo la seconda guerra mondiale, dopo la caduta del fascismo, ecco sorgere un problema analogo. Anche in questo caso non intendo entrare in particolari. Sappiamo ad ogni modo che si tratta di pace e di guerra, di contrastare la guerra, del problema della coesistenza. Di qui, le questioni strategiche fondamentali della nostra epoca.

II.

Ho dovuto tratteggiare almeno sommariamente questi problemi affinché si riconosca il criterio teorico, per mezzo del quale noi dobbiamo giudicare della lotta fra progresso e reazione nel campo della cultura ai nostri giorni. Ed anche qui si presenta una fruttuosa contraddizione dialettica. Una contraddizione nel senso di Marx, vale a dire nel senso che la contradditorietà esprime proprio l’essenza del movimento.

Questo significa ormai, per la nostra impostazione, che noi non dobbiamo dimenticare nemmeno per un momento i veri grandi principî teorici, quei principî di significato storico universale. Dimenticarli sarebbe revisionismo, opportunismo, spirito liquidatorio. D’altra parte però dobbiamo al contempo fare attenzione a come si manifestano in concreto i fenomeni reali e talvolta persino contradditori di questa grande opposizione storica della nostra epoca, che contradditori possono permanere anche per lungo tratto dello sviluppo storico. Tralasciare tali connessioni è tipico del settarismo, che rappresenta per il nostro movimento un grande pericolo, poiché è proprio la reazione che tenta di distrarci dalle concrete contraddizioni, di cui è intessuta la realtà politica. È essa che tenta di ridurre tutti i problemi attuali a quella grande opposizione storica, l’opposizione tra capitalismo e socialismo.

Sappiamo che così ha fatto la propaganda antibolscevica di Hitler, che così ha fatto e continua a fare ancor oggi la reazione americana. E possiamo ricordare che qui da noi, in Ungheria, nelle elezioni del 1945, non noi, ma proprio il partito dei piccoli proprietari lanciò la parola d’ordine di una scelta ideologica fra capitalismo e socialismo.

E perché i nostri nemici lo vogliono? Perché vogliono decidere anzitempo della lotta fra capitalismo e socialismo; essi vorrebbero provocare questo scontro decisivo proprio quando le condizioni sono ancora sfavorevoli per il socialismo. Ma quando invece nella tattica dei comunisti – come accadde dopo il VII Congresso del Comintern – la lotta di fascismo e antifascismo fu portata alla ribalta e divenne il momento determinante nella politica dei comunisti, quando con questo schieramento scoppiò la guerra mondiale, questa guerra portò a una straordinaria espansione del socialismo. In Europa si ebbe la costituzione delle democrazie popolari; in Cina la gloriosa rivoluzione. Ciò significa quindi che la contraddizione per la quale la nostra strategia e la nostra tattica non erano determinate dall’opposizione fondamentale dell’epoca, vale a dire dalla opposizione fra capitalismo e socialismo, ma da quella fra fascismo e antifascismo, era una vera contraddizione dialettica, espressione del movimento storico reale. E così, risultato concreto di questa lotta poté essere una grande affermazione del socialismo.

In questo nostro tempo, a mio avviso, identico ruolo ha la lotta per la guerra e la pace, la lotta per la coesistenza. Naturalmente non si può mai parlare di una semplice ripetizione nella storia, ma anche qui si tratta di un problema strategico che interessa un intero periodo, problema che, ne sono convinto, vedremo felicemente risolto.

L’epoca che si è chiusa con la morte di Stalin sotto questo riguardo non fu conseguente e non poteva esserlo, poiché l’assioma principale che determinava la politica staliniana, e cioè l’inevitabilità di un continuo rincrudimento dei contrasti, non solo dominava la politica interna sovietica, ma necessariamente implicava la prospettiva di una terza guerra mondiale.

Fortunatamente Stalin non trasse da questa teoria le ultime conseguenze; in quanto nella sua politica erano insiti anche gli elementi di un effettivo riconoscimento della nuova epoca. Certo soltanto gli elementi. Una politica veramente conseguente in questo senso poteva essere condotta soltanto dopo la morte di Stalin. Non voglio qui discutere degli aspetti singoli di questa contraddizione, ricordo solo il discorso di Stalin al XIX Congresso del partito, nel quale egli da una parte precisò il posto del movimento della pace nell’epoca odierna (cioè la possibilità di evitare certe guerre), dall’altra però espresse certe riserve sulla possibilità di realizzare questa politica finché esiste l’imperialismo. Non c’è alcun dubbio che a questo proposito dopo la morte di Stalin sia intervenuto un grande mutamento. Lo si può facilmente riconoscere dal fatto che è finita la guerra coreana e quella vietnamita e che siamo entrati in un’epoca in cui sono divenute possibili pace e coesistenza. Il XX Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica – in ciò superando il punto di vista del XIX Congresso – ha affermalo che nella nostra epoca la guerra è evitabile e che la politica deve partire da questa premessa. Ciò significava una rottura con le inconseguenze del periodo precedente.

La coesistenza, il pacifico convivere di entrambi i sistemi sociali deve intendersi in senso letterale, nel senso cioè che ambedue i mondi possono esistere nell’ambito delle proprie leggi di sviluppo interno. E questo ogni parte riconosce all’altra. Noi rimaniamo quindi ciò che siamo: marxisti, comunisti; come tali vogliamo vivere in pace con voialtri, del mondo borghese, quanto più è possibile, vogliamo stabilire dei contatti con voi, che vivete secondo le vostre leggi, secondo il vostro particolare ordinamento sociale, la vostra particolare concezione del mondo. E su questa base può allora aver luogo il dialogo, la discussione, il contatto costante ad un livello il più alto possibile, a cominciare dalla politica e dall’economia per arrivare fino alla cultura.

Ma dicendo che il capitalismo può vivere ed evolversi secondo le sue proprie leggi, non dimentichiamo affatto che Marx ha formulato queste leggi meglio che i teorici della società borghese. Marx vide che la dialettica di quelle leggi spingerà irresistibilmente il capitalismo verso il socialismo. Ciò non vuol dire che interferiremo in alcun modo nella vita di un qualche Stato capitalista – ogni popolo è padrone del proprio destino. Vuol dire solo che siamo profondamente convinti che ogni paese capitalistico – in conseguenza della dialettica interna della sua evoluzione, attraverso contraddizioni, anzi grazie alle contraddizioni, marcia necessariamente in direzione del socialismo.

Che cosa significa, quali compiti ci pone, tutto questo? Se crediamo che una terza guerra mondiale porterà il socialismo per lo meno ad una grande parte del mondo, potremo allora affidare sicuramente la diffusione del socialismo al conflitto armato e alla superiorità delle armi del campo socialista. Ma se siamo convinti che ci aspetta un lungo periodo di pace e che ogni stato capitalista sarà condotto al socialismo solamente dalla dialettica del suo proprio sviluppo, ne consegue allora che noi, comunisti di altri paesi, possiamo influire su tale dialettica esclusivamente con mezzi ideologici, cioè anche con discussioni, dialoghi, scambi di informazioni ecc. – naturalmente senza che ciò comporti un qualsiasi compromesso circa i principi del marxismo-leninismo. E potremo anche influire nella misura in cui, aiutati dall’attività politica del nostro paese, renderemo desiderabile il socialismo anche per le larghe masse degli altri paesi. L’affermazione del principio di coesistenza è quindi intimamente legata alla nostra ferma convinzione nella vittoria finale del socialismo. Quanto più sul serio prenderemo la coesistenza, vale a dire, quanto più umanamente costruiremo il socialismo – più umanamente per noi, a nostro vantaggio, dal punto di vista del nostro proprio sviluppo – tanto più contribuiremo alla vittoria finale del socialismo su scala internazionale.

Allo stesso risultato si giunge se si afferma: quanto più intimi, molteplici ed intensi saranno i rapporti fra il mondo capitalista e quello socialista, tanto meglio potremo servire, nell’ambito della coesistenza, a quel grande scopo che è la vittoria del socialismo. Infatti se ci riesce di rendere il socialismo desiderabile, esso allora non sarà più per le masse uno spauracchio. Non alludo alla ristretta cerchia dei capitalisti imperialisti, per i quali l’espropriazione sarà sempre un orrore. Ma siamo onesti: in occidente ci sono ancora numerosissimi operai che arretrano spaventati di fronte al socialismo nella sua forma attuale, per non parlare della grande massa dei contadini e degli intellettuali, la cui avversione e le cui reazioni di spavento possono essere scongiurate dai fatti, e attraverso la propaganda chiarificatrice del vero marxismo.

Per questo motivo – e credo che ciò risulti chiaro da quanto ho detto fino ad ora – progresso e reazione devono essere misurati con metro diverso da quello che ci può offrire la loro astratta opposizione, ed al tempo stesso la contraddizione che qui si manifesta è in strettissimo rapporto con il nostro obiettivo finale – in altre parole essa si rivela una feconda contraddizione dialettica.

III.

Permettete che ora illustri in breve la nuova situazione in alcuni campi della cultura mondiale; si tratterà piuttosto di un rapido disegno che non di un’organica esposizione, la quale è impossibile nei limiti di una conferenza.

Comincerò con una sfera che da noi è pochissimo indagata nelle sue manifestazioni concrete, cioè la sfera della vita religiosa. Anche qui dobbiamo richiamarci in primo luogo al fondamentale insegnamento del marxismo-leninismo e precisamente là dove si afferma che la religione non è un’ideologia astratta ed isolata, ma un concreto fenomeno sociale, cosa questa che moltissimi compagni sogliono dimenticare.

Affermando ciò noi non neghiamo in alcun modo l’opposizione di fatto, anzi fissiamo con precisione le condizioni sociali nelle quali sole è possibile l’estinguersi della religione. E in questo è contenuto anche il nostro compito ideologico, vale a dire come possiamo accelerare l’adempimento di queste condizioni, in quanto ciò è possibile con mezzi puramente ideologici. Lenin mostrava, seguendo Marx, che l’elemento fondamentale della religiosità odierna è l’insicurezza della vita sotto il capitalismo. Perciò non può costituire meraviglia per nessun marxista il fatto che il dopoguerra e l’epoca della guerra fredda e della paura di un conflitto atomico abbiano rafforzato il sentimento religioso in moltissimi uomini. Al tempo stesso però i grandi problemi del tempo agivano su una grandissima parte delle masse orientate in senso religioso; decisivi avvenimenti storici non potevano lasciarli indifferenti. Infatti, come abbiamo notato, la religione in definitiva non è un’ideologia astratta, predicata da un professore solitario dall’alto della cattedra: i fedeli che prendono parte alla vita storico-sociale e sui quali agiscono incessantemente gli avvenimenti maggiori e minori di questa vita storica, si contano a milioni.

Qui c’imbattiamo subito in una singolare contraddizione. Già nel decennio fra il venti e il trenta si sviluppò in seno al protestantesimo la cosiddetta scuola di Barth, la quale teoricamente si richiama ad un filosofo profondamente reazionario, al danese Kierkegaard. Non accenno ai particolari: chi s’interessa del problema può trovare nella mia Distruzione della ragione un ampio capitolo su Kierkegaard. La scuola di Kierkegaard si trovò a dover affrontare un problema di straordinario interesse. Una delle tesi fondamentali del luteranesimo più dannose per il progresso del mondo, era quella secondo cui ogni governo è di emanazione divina, a prescindere dalla sua natura: è quindi dovere dei protestanti di sostenere con tutte le forze tale governo. La scuola kierkegaardiana guidata da Barth, già al tempo del governo di Hitler, si dichiarò contraria al fascismo hitleriano e con ciò respinse l’insegnamento di Lutero in quanto sarebbe stato per essa dovere religioso sottomettersi al fascismo hitleriano e sostenerne la politica. Credo che ci siano molti fra noi che conoscono il nome di Niemöller; egli fu qui a Budapest alla seduta del Consiglio mondiale della pace. Fra i seguaci di Niemöller si trovarono centinaia e centinaia di pastori protestanti che furono rinchiusi nei campi di concentramento poiché non erano disposti a porsi ideologicamente al servizio del fascismo hitleriano. E lo stesso contrasto esiste anche oggi, poiché i seguaci di Barth e Niemöller si trovano in opposizione alla politica imperialistica del governo Adenauer, appoggiano la politica di pace e sono anche fra i più strenui ed energici sostenitori della politica di pace. È chiaro che essi in tal modo servono la causa della coesistenza, e lo fanno consapevolmente, come risulta dai loro numerosi scritti e discorsi. È dunque evidente che abbiamo a che fare con una contraddizione rilevante, interessantissima e feconda, la contraddizione fra l’ideologia fondamentale – la concezione reazionaria kierkegaardiana – e l’atteggiamento pratico, determinato dalle circostanze concrete dell’epoca attuale, la coesistenza, le parole d’ordine e le tendenze della lotta fra la guerra e la pace.

Questo rapporto naturalmente non è sempre così chiaro. In una chiesa che, come la cattolica, sottosta ad una gerarchia così monolitica, così unitaria, questo rapporto risulta assai più complesso. E tuttavia l’opinione settaria (che appare con molta frequenza sulla nostra stampa) che l’intera Chiesa e la religione cattolica, l’intero clero altro non siano che una filiale di Wall Street con sede, a Roma, naturalmente non è sostenibile. Non c’è alcun dubbio che sussistano legami del genere con Wall Street e con il cattolicesimo americano, ma ciò tuttavia non esaurisce ovviamente tutti i problemi dell’attuale situazione del cattolicesimo.

Comincio con un caso limite. Poco tempo fa in Francia sorse un conflitto perché il papa aveva proibito l’attività dei cosiddetti preti-operai. Chi erano costoro? Zelanti sacerdoti cattolici che erano profondamente commossi ed indignati dalla miseria del proletariato francese e convinti che la parola del prete che se ne sta tranquillamente rintanato nella sua curia e che solo di domenica predica agli operai, ai disoccupati e ai senzatetto, doveva necessariamente restare senza eco tra le masse lavoratrici. Perciò questi preti entrarono nelle fabbriche come operai, e operai essi stessi, andarono propagando la loro fede fra i lavoratori. Ed è molto interessante il fatto che non furono i comunisti a preoccuparsi di questa propaganda, ma i prelati ed il papa, e proprio perché questi preti-operai potevano entrare agevolmente in contatto con il comunismo ed in tal modo giungere con molta facilità alla convinzione che all’etica cristiana s’addicesse assai di più l’appoggio del comunismo che non quello del capitalismo imperialistico.

Perciò il papa proibì l’attività dei preti-operai e permise soltanto la normale missione sacerdotale.

Non è difficile riconoscere l’essenza profondamente contraddittoria di questo problema. Ed affinché a questo punto non sorga alcun malinteso vorrei subito accennare al fatto che la lotta contro il socialismo non è una novità per il cattolicesimo. Negli anni precedenti la prima guerra mondiale sorse in Austria il cosiddetto movimento cristiano-sociale, che con metodi demagogici intendeva influire sulle masse; movimenti simili ci furono anche in Italia, in Francia, in Germania, ecc… Ma se da una parte essi caddero sempre più sotto l’aperto influsso del grande capitalismo, dall’altra – ed è questione molto importante per il giudizio dell’attuale situazione – dopo lo storico crollo della demagogia sociale (non religiosa) hitleriana, dopo il grande slancio del socialismo e del movimento operaio durante e dopo la seconda guerra mondiale, l’impiego della demagogia sociale diveniva sempre più un rischio eccessivo. I cosiddetti partiti cristiano-sociali si trasformano perciò sempre più in partiti puramente capitalistici.

Ma proprio l’esempio dei preti-operai prova la costante presenza di movimenti che procedono in senso contrario, anche a costo di urtarsi con gli espressi divieti ecclesiastici. E con il veto all’attività dei preti-operai non è cessata l’esistenza di aspirazioni socialistiche all’interno del cattolicesimo. L’origine di ciò sta nel fatto che dei novecento milioni di uomini che vivono nel socialismo moltissimi sono i cattolici praticanti, ed è fondato il timore che il loro legame con la Chiesa cattolica possa, col tempo, cessare completamente. La stessa conseguenza può avere, in altro senso, il movimento di liberazione dei popoli coloniali. Ma anche i grandi mutamenti socialisti verificatisi nel mondo prima, durante e dopo la guerra, non sono passati inosservati alle masse dei fedeli, poiché esse sono composte di operai, contadini o intellettuali.

Non è un caso che proprio in Italia, dove il movimento operaio è il meno settario che ci sia, questi problemi acquistino particolare spicco. Credo che voi tutti abbiate letto – ed è una questione interessante, sui cui particolari non mi posso dilungare in questo luogo – che il sindaco di Firenze, La Pira, che appartiene alla sinistra della Democrazia cristiana, nega il legame del cristianesimo con il capitalismo e all’interno del vero cattolicesimo ricerca la possibilità di porre fine alla miseria delle masse e di migliorare la loro situazione economica e culturale. È naturale – e durante la recente battaglia elettorale lo si è potuto constatare infinite volte – che La Pira sia tacciato dai suoi oppositori di inconseguenza, di dilettantismo economico ecc. Ma nonostante tutto a Firenze ha vinto La Pira, e quando il Partito democratico cristiano volle conquistare Bologna, tradizionalmente roccaforte dei comunisti, portò improvvisamente alla ribalta come candidato un uomo politico del genere di La Pira, il democristiano Dossetti – che già da anni era stato messo in disparte dall’ala capitalistica del suo partito –, e se la Democrazia cristiana lo presentò come proprio candidato fu perché s’era accorta che la lotta può essere vinta soltanto ricorrendo a simili parole d’ordine. Però a Bologna il gioco non le riuscì.

Ora non c’è cosa più facile e semplice che accusare La Pira di inconseguenza sia teoretica che in campo politico-economico. Ma credo che così facendo finiremmo per trascurare i tratti essenziali di questo fenomeno. Gli avvenimenti storici odierni provocano anche nelle masse cattoliche un forte fermento, che si rispecchia nella presa di posizione di chi tenta di risolvere in un qualche modo all’interno della fede, attraverso una reinterpretazione della fede, il contrasto fra i dogmi del cattolicesimo e le condizioni di vita degli operai, dei contadini e degli intellettuali.

È mia convinzione che ci si trovi appena all’inizio di un tale movimento. Tutti i marxisti devono riconoscere, come già hanno fatto i nostri compagni italiani, che sta forse per sorgere un larghissimo movimento con il quale è assolutamente necessario prendere contatto, per poter poi influire su esso e istituire rapporti di cooperazione. Tutti sanno che uno dei cardini della politica di Togliatti consiste proprio nel trovare un legame con quest’ala del Partito democristiano e rafforzarla contro l’ala puramente capitalistica. Non possiamo sapere se ci si trova di fronte ad un movimento di grande portata, di cui oggi non ci è ancor dato di scorgere i futuri sviluppi.

Ma questa situazione della Chiesa cattolica si manifesta anche ai massimi livelli gerarchici e perfino nella teologia e nella filosofia cattolica ufficiali. Il papa, che, come sappiamo, si è già espresso contro la guerra atomica, ha inoltre fatto due importanti dichiarazioni. Da un lato egli si dissocia da chi identifica senz’altro la Chiesa cattolica con la cosiddetta civiltà occidentale; si vede che il papa in questo caso è praticamente più elastico di numerosi uomini politici americani che identificano semplicemente la cultura occidentale con il cristianesimo ed oppongono meccanicamente ambedue all’ateismo orientale. Il papa dice che il cattolicesimo non si lega ad alcuna singola civiltà, nemmeno la civiltà medievale secondo la sua opinione può definirsi tout court come la civiltà cattolica. La Chiesa è nella sua essenza immutabile, ma accoglie sempre ciò che essa reputa utile per sé, quindi anche forze politiche ed idee sociali.

In una dichiarazione posteriore, d’altro lato, il papa afferma che la coesistenza deve essere realizzata senza paura e senza sbandamenti. In questa dichiarazione egli accenna anche alla critica del diritto naturale. Permettete che richiami brevemente la vostra attenzione sull’importanza di questo problema, che non si presenta solo nella polemica ecclesiastica. La lotta filosofica e giuridica contro l’ordine socialista parte spesso dall’affermazione che la vita individualistica, la libertà individuale ecc., quindi la base dell’ideologia capitalista, non è una particolarità sorta dalla base economica di un’epoca determinata, bensì un assioma del diritto naturale. Ora il papa in questa questione va oltre numerosi rappresentanti della parte borghese, perché afferma che l’individuo non deve dissolversi completamente nella comunità, ma nello stesso tempo mette in guardia contro il pericolo che l’individuo reso completamente autonomo venga troppo sopravvalutato dal punto di vista teoretico e pratico. Ciò significa però, sia pure con molte riserve, che vengono respinte le argomentazioni «giusnaturalistiche» a sostegno di una incondizionata apologia del capitalismo.

In tutto ciò si manifestano i primi segni dell’aspirazione alla coesistenza: al timore della Chiesa di perdere definitivamente i milioni di persone che vivono nel socialismo si aggiunge la pressione esercitata in tutte le direzioni possibili dalle masse che desiderano la pace. Questa situazione si riflette anche in una corrente teorica dell’odierna teologia cattolica: vi sono alcuni notevolissimi teologi che non vogliono più liquidare il marxismo semplicemente con un gesto, come se si trattasse di una sottospecie del materialismo volgare, ma sentono ormai la necessità di discutere seriamente i problemi marxisti. Il padre gesuita Brokmüller scrive per esempio che non bisogna abbattere il bolscevismo, ma si deve battezzarlo, riplasmarlo nel senso del cristianesimo. Wetter, professore all’Università pontificia, indica alcune somiglianze tra tomismo e marxismo. Egli sostiene per esempio che il materialismo del marxismo è molto vicino al tomismo e al realismo della visione medievale del mondo.

Quello stesso Brokmüller, citando Wetter, dice che san Paolo, se avesse trovato così numerosi spunti nella filosofia pagana del suo tempo, non avrebbe esitato a servirsene a sostegno del cristianesimo. Fra i rappresentanti del marxismo e quelli dell’ideologia ecclesiastica, sono dunque possibili quel dialogo, quelle discussioni che negli anni scorsi erano ancora impensabili. Possiamo persino dire che tale dialogo si è già realizzato in un caso. Un professore di teologia di Graz, il Reding, portando avanti la concezione del Wetter, afferma che le analogie logiche che egli crede di trovare fra marxismo e tomismo avrebbero radici storiche e filosofiche comuni: san Tommaso si rifà ad Aristotele, il marxismo a Hegel, ma attraverso la mediazione di Hegel sarebbe presente l’influsso aristotelico. Questa teoria ha suscitato grandi discussioni, e non soltanto nella cerchia dei teologi. Reding è andato a Mosca, dove è stato ricevuto dal compagno Mikojan; egli ha persino preso parte, all’istituto filosofico dell’Accademia delle scienze moscovita, ad una discussione sulla questione dell’ateismo.

Ora, se vogliamo dare un’esatta valutazione, di questi problemi, non dobbiamo naturalmente partire dal presupposto che la filosofia cattolica adesso voglia «avvicinarsi» a noi. Al contrario, da una parte questi teologi intendono usare quelle concordanze che hanno trovato per trattenere i seguaci incerti e dubbiosi e per conquistarne dei nuovi; dall’altra parte non c’è alcun dubbio che tutte queste analogie e tutti questi argomenti a sostegno della loro tesi sono obiettivamente insostenibili. Il papato ed i teologi fondano le loro argomentazioni su una analogia storicamente falsa. Nel XVI secolo il cattolicesimo in seguito alla Riforma entrò in una profonda crisi. Sembrava allora che il cattolicesimo, basato sull’ideologia feudale, dovesse perdere la lotta contro le diverse chiese protestanti, originate dall’avvento del capitalismo. Il significato sociale della Controriforma consistette appunto nel fatto che la Chiesa cattolica volle liberarsi ad ogni costo dei legami con il feudalesimo e creò, aiutata dai gesuiti, un tenace legame col nascente capitalismo e con la sua forma statale di allora, la monarchia assoluta: il papato non solo riuscì così a superare la crisi del XVI-XVII secolo, ma addirittura a creare le premesse per una nuova ripresa.

Sebbene la nuova problematica cominci a svilupparsi solo adesso, io sono convinto che nel cattolicesimo moltissimi sentono che è pericoloso per la Chiesa aggrapparsi in tutte le circostanze, per la vita e per la morte, al carro del capitalismo imperialistico. Così cominciano i tentativi esplorativi per giungere, all’interno della religione, a un’altra soluzione.

Vorrei sottolineare che l’analogia storica, cui ho accennato, è obiettivamente falsa e vorrei aggiungere che alcuni scrittori cattolici, come il già nominato Brokmüller, si riferiscono proprio a questa analogia e si rifanno al successo riportato dalla trasformazione della Controriforma, delle cui radici sociali si rendono più o meno conto. L’analogia, lo ripeto, è sbagliata, perché il passaggio dal feudalesimo al capitalismo è qualitativamente diverso dal passaggio dal capitalismo al socialismo. Non si può quindi parlare di un qualsiasi «avvicinamento» come se noi considerassimo queste teorie in qualche modo sostenibili e legittime. Tuttavia, questo movimento cattolico è interessante come sintomo di una crisi incipiente ed offre la possibilità di stabilire contatti e di aprire discussioni, che ancor cinque o dieci anni fa non avrebbero potuto avvenire.

Come in ogni problema, così anche in questo caso sorge la domanda leniniana: chi agisce? chi subisce? Qui noi ci troviamo di fronte a una questione teorica fondamentale, che Lenin ha sovente precisato in varie occasioni, ma che solo molto raramente è stata formulata con quella nettezza con cui io vorrei ora formularla: io credo che dietro ogni settarismo sia celato un profondo disfattismo. Si può dire che abbiamo un disfattismo del genere quando, per rimanere nel caso testé citato, si crede che se noi ci misurassimo con quei teologi cattolici in libere discussioni, senza aver dietro di noi alcuna forza organizzata e senza poter contare su null’altro che il nostro sapere e le nostre argomentazioni, saremmo irrimediabilmente sconfitti. È per questo motivo che ai settari pare più semplice che noi si rimastichi tutte le vecchie frasi dei nostri giornali sulla religione e nello stesso tempo si eviti così di entrare in contatto e di aprire un libero dibattito con i rappresentanti delle ideologie opposte alla nostra. Non voglio esaminare quanto siano adatti a questo scopo i metodi, che noi abbiamo dogmaticamente irrigiditi durante quel periodo di tempo che arriva fino alla morte di Stalin. È certo comunque che con quel tipo di «rivelazioni» a cui ci eravamo abituati, non andremmo molto lontani in un libero dibattito. Se vogliamo discutere con successo con teologi del tipo di Wetter o di Reding, se vogliamo argomentare in modo tale da rendere i loro incerti seguaci ancor più incerti e suscitare negli altri una qualche incertezza, dobbiamo assolutamente avere una conoscenza sostanziale, approfondita e valida da opporre all’avversario, della dialettica aristotelica e di quella hegeliana, e della loro applicazione creativa ed originale.

A questo punto vorrei chiedermi, per inciso, come si sarebbe comportato in un ipotetico dibattito che si fosse svolto nel periodo di tempo appena trascorso, un filosofo il quale non avesse mai letto le opere di Hegel, e tanto meno di Aristotele, dal momento che aveva appreso dai decreti di Ždanov che Hegel è un filosofo reazionario e parimenti reazionaria la sua dialettica. L’unico dialogo possibile in tali condizioni avrebbe visto da un lato le argomentazioni del teologo cattolico in possesso di una solida conoscenza delle antiche dialettiche, e dall’altro la impreparazione sprovveduta del suo avversario, il comunista settario. Ma se noi avremo combattuto e vinto il settarismo, allora potremo rispondere alla domanda: chi agisce? chi subisce? secondo lo spirito leninista. L’obiettiva situazione mondiale ci offre in questo campo la possibilità di grandi offensive; eppure noi ci troviamo ancora, in generale, in una posizione difensiva molto debole.

Che ci sia un movimento che si sviluppi e si diffonda spontaneamente lo dimostrano l’incontro degli amici della pace, avvenuto anni fa a Helsinki, e la seduta di quest’anno a Stoccolma del Consiglio mondiale della pace, cui parteciparono i rappresentanti delle diverse correnti religiose in numero maggiore che in qualsiasi altro precedente incontro, fatto che è stato giustamente sottolineato, in particolare dai delegati italiani. Il movimento della pace, che ne prese atto con viva soddisfazione, non tralasciò di farsi l’autocritica riconoscendo che in questo campo ancora troppo poco è stato fatto per avvicinare e guadagnare alla nostra causa quegli strati che ora si son posti in movimento.

IV.

Il fermento di cui ho parlato non si limita naturalmente alla religione, anzi, in un certo senso, è proprio nella religione che esso per il momento si manifesta più debolmente. C’è del fermento anche nella filosofia; e a questo proposito vorrei portare come esempio il fenomeno particolarmente rilevante e noto a tutti della posizione sostenuta da Sartre in questi ultimi anni. Alcuni mesi fa, quando Hervé è stato espulso dal Partito comunista francese, Sartre ha scritto un articolo molto interessante, soprattutto per ciò che egli afferma circa le possibilità e la realtà del marxismo. L’opinione di Sartre – e, badate, non è uno di noi che parla ma un eminente pensatore borghese – è che tutta la scienza borghese si trova in crisi, che la filosofia borghese non è più in grado di creare nuovi concetti né di promuovere fruttuosamente il progresso scientifico. In questo senso l’unica concezione del mondo che possa svolgere un’azione feconda è – cito di nuovo Sartre – il marxismo. Egli usa l’espressione, comune in Francia, di «marxisant» con cui indica i pochi scienziati da cui ci si può attendere certi risultati, certe ricerche e certe prospettive per il futuro. Ognuno, dice Sartre, si aspetta dal marxismo il rinnovamento della scienza e della cultura, ma, continua nello stesso articolo, il marxismo attuale non ha prodotto alcun lavoro scientifico che abbia potuto soddisfare in qualche modo questa aspettativa.

Credo che il quadro che Sartre dà della situazione in generale sia esatto. Egli ricorda ripetutamente le infinite possibilità che sono sorte per noi con il crollo della guerra fredda. Il dogmatismo staliniano pensava all’inevitabilità della guerra, e lo diceva non chiaramente, ma con un certo ammiccare abbastanza scoperto. Pensava quindi che in tal caso le ideologie sarebbero cadute senz’altro di per sé, oppure erano liquidabili con la forza. Quindi non prendeva nemmeno in considerazione il fatto che in questa nuova situazione solo i marxisti e nessun altro avrebbe potuto influire ideologicamente sulle masse non marxiste (la massa è qui presa in senso relativo) e condurre su nuove vie gli intellettuali non marxisti; non pensava infine, quel dogmatismo, che soltanto queste azioni sarebbero state in grado di mostrare l’effettiva superiorità della nostra ideologia.

Il significato di questa presa di posizione di Sartre è veramente rilevante dato che il suo esistenzialismo è stato, si può dire, l’unica nuova ideologia borghese che abbia avuto dopo la fine della guerra una larga influenza oltre l’ambito di una filosofia accademica. Dopo di esso l’ideologia borghese non fu più in grado di dar vita a una concezione del mondo di tale portata. Il fatto quindi che sia proprio Sartre a proclamare, la crisi della filosofia borghese, che sia proprio lui a indicare nel marxismo la via risolutiva della crisi, non può non avere un grande significato di risonanza internazionale. E se pensiamo che Sartre neppure per la propria crisi ha ancora trovato una soluzione, allora ci saranno ancora più chiare le nostre possibilità ed i nostri doveri.

Ma ci ostacola, nello sfruttamento delle nostre possibilità, la tradizione settaria e dogmatica del periodo che s’è appena chiuso. Voglio accennare soltanto a due questioni importanti in cui essa si rivela in modo lampante. Una è la questione della cosiddetta critica immanente. Con questa espressione intendiamo un metodo, seguendo il quale noi partiamo dalle premesse del pensatore da criticare, accettandole sub condicione, le pensiamo conseguentemente fino in fondo e quindi riusciamo a provare che il punto di partenza e le conseguenze che ne derivano sono errati. Solo sulla base di un tal modo d’argomentare è possibile aprire un dibattito fecondo fra rappresentanti di diverse ideologie. Sebbene i classici del marxismo abbiano costantemente applicato la critica immanente, coloro che l’hanno usata ai nostri giorni sono stati accusati di «oggettivismo» dai dogmatici del periodo chiusosi con la morte di Stalin.

Molti di questi dogmatici riconoscono solo, ed è questo l’altro problema, quel metodo di critica che scopra in qualsiasi ideologia le radici di classe. Senza dubbio anche questo è un elemento importante della critica marxista. Ma prima di tutto non è affatto l’unico, e poi, finiva per essere anch’esso deformato dal settarismo, il quale, equivocando sul concetto di partiticità, manipolava l’indagine delle origini di classe sicché ne usciva sempre e soltanto un marchio dì infamia. Permettete che illustri questa situazione con un esempio tratto dalla mia esperienza. Quando nel 1947 io scrissi sull’esistenzialismo, tentai di derivare il suo astratto concetto di libertà dall’ideologia degli intellettuali borghesi della resistenza francese, dall’astratto «no» opposto all’oppressione fascista, ed accennavo al fatto che quando, dopo la liberazione, fossero sorti i problemi concreti della società, allora l’esistenzialismo avrebbe dovuto entrare in crisi. Una crisi di cui, nel mio libro, indicavo i segni premonitori e che l’evoluzione dell’esistenzialismo, mi pare, ha confermato completamente. Quando uscì questo mio libro, apparve sulla stampa internazionale la critica di un sedicente scrittore comunista il quale affermava che io volevo giustificare questo basso idealismo controrivoluzionario rintracciandone le radici nella resistenza francese.

Risulta qui chiaramente dove ci porti, nelle competizioni internazionali e naturalmente anche nelle lotte nel nostro stesso campo, quella deformazione e quella restrizione dogmatica del materialismo dialettico che è stata introdotta negli ultimi decenni sotto il pretesto della partiticità. Ogni analisi viene eliminata; e le succedono vuote frasi e ingiurie del tutto immotivate. Insomma, per riassumere in un’unica frase le conseguenze di ciò che ho detto, quel settarismo partiva sempre dal concetto che la lotta di classe o la rivoluzione dovesse spazzar via il pensiero borghese, e che la filosofia borghese si trovasse ormai allo stadio di un crollo automatico.

Se riesaminiamo questo periodo, credo che dobbiamo necessariamente concludere applicando anche al campo ideologico la critica che Lenin fece alle teorie economiche di Rosa Luxemburg secondo le quali la società capitalistica sarebbe crollata per necessità economica. Lenin diceva: no, non crollerà, bisogna abbatterla. Nella sfera ideologica è pressappoco la stessa cosa. L’ideologia borghese non crollerà automaticamente: la filosofia borghese e la scienza borghese sono sì entrate in una crisi ideale, ma siamo noi che dobbiamo abbatterle; abbatterle però non con le armi dell’Armata Rossa, ma con le armi del marxismo-leninismo, del vero sapere e della conoscenza dei fatti.

V.

Permettetemi ora poche parole sulle questioni della letteratura e dell’arte.

È indubbio che in questo campo realismo ed antirealismo si trovano l’uno di fronte all’altro. L’arte decadente – e questo è un problema straordinariamente interessante – ha mostrato negli ultimi anni i segni di una crisi interiore. Lo può confermare, ad esempio, il fatto che uno dei maggiori critici e teorici musicali tedeschi, l’Adorno, già sostenitore della musica decadente, non molto tempo fa abbia scritto un articolo sul declino di quella musica: per dare una ragione di questo declino egli, da pensatore qual egli è, non si rifà a questioni formali di teoria musicale, ma alla constatazione che una delle esperienze fondamentali di questa musica fu l’angoscia, l’espressione esacerbata dello spavento. Per chiarire ulteriormente questi concetti ricorderò che Hanns Eisler, illustre musicista comunista tedesco, considerò Schönberg come il compositore che aveva espresso lo spavento degli uomini nei rifugi antiaerei molto tempo prima dell’avvento dei bombardamenti. Credo che ora sia abbastanza chiaro di che cosa si tratti. Adorno dice: la musica, cioè la musica dell’avanguardia decadente, è ora in declino perché l’autenticità, la sincerità di questa paura e di questo spavento per i nostri compositori stanno scomparendo. Una affermazione, questa, che io considero molto importante.

Gli ultimi anni, analogamente, hanno visto nella pittura astratta tedesca la ferma presa di posizione antiastrattista di Karl Hofer, uno dei migliori rappresentanti della pittura tedesca (recentemente scomparso) mentre anche da parte della borghesia conservatrice si muovono attacchi all’arte astratta. Per finire, un altro esempio: uno scrittore così decisamente di destra come Camus (alcuni di voi avranno forse seguito la sua polemica con Sartre), uno scrittore che in letteratura appartiene all’avanguardismo, un modernista, non molto tempo fa ha scritto una introduzione alle opere di Roger Martin du Gard, nella quale egli nota: mentre noi, e cioè gli scrittori d’avanguardia, possiamo evocare soltanto ombre patetiche o caricaturali, in Roger Martin du Gard si tratta di persone vive, di figure tipiche.

Affermazioni come questa se ne possono citare quante se ne vogliono. Esse confermano che nell’arte decadente d’avanguardia, proprio come negli altri campi della cultura, è in corso una crisi. Il problema, ora, è il modo in cui può aver inizio anche nell’arte la lotta fra progresso e reazione. Non starò ad esporvi nei dettagli questa evoluzione, ma siccome dal punto di vista pratico mi sembra la cosa più importante, accennerò piuttosto a quei momenti che abbiamo ereditato dall’epoca staliniana e che ostacolano ogni efficace partecipazione alla lotta fra progresso e reazione.

In primo luogo, dominava da noi e, credo, domina tuttora in parte nella nostra teoria letteraria, l’idea che con l’affermarsi del realismo socialista si è esaurito il periodo del realismo critico.

In secondo luogo noi formuliamo i criteri della decadenza in modo straordinariamente dogmatico e formalistico. So che vi è ancora chi annovera Thomas Mann fra gli scrittori piccolo-borghesi e decadenti: dimostrazione, questa, che la nostra continua polemica contro il formalismo riposa su basi del tutto banali e puramente formalistiche, senza riuscire a centrare i reali contrasti. In tal modo naturalmente essa non convince nessuno, nemmeno chi sta dalla nostra parte.

In terzo luogo noi giudichiamo le opere letterarie e gli autori con criteri politici meschini e grossolani. Mi vien fatto di pensare ad un episodio avvenuto nella Unione Sovietica: il realista borghese Sinclair Lewis, dichiaratamente progressista, una volta in un suo romanzo, per nulla eccezionale, ha tratteggiato la caricatura di una funzionaria comunista, parodiando il suo modo di esprimersi settario e artificioso. Ciò nonostante essa è rappresentata dallo scrittore come una brava donna, onesta e convinta delle sue idee. Ma quella parodia costò a Sinclair Lewis l’esclusione dal novero degli scrittori progressivi, e le sue opere vennero sistematicamente ignorate… Rientra infine in quest’ordine di fatti la ripulsa preconcetta di ogni obiettività, la concezione rigida e dogmatica della partiticità corrispondente al soggettivismo economico; tutto ciò insomma favorisce nella nostra letteratura l’affermarsi dello schematismo, della prospettiva come rappresentazione della realtà, errori che ho già ripetutamente criticato nei miei scritti.

In relazione a questi errori c’è da fare un’osservazione: sebbene anche nel campo della letteratura e dell’arte la giusta lotta ideologica, la scoperta e la critica in senso marxista delle reali opposizioni sociali sia straordinariamente importante (e resa possibile soltanto sulla base del marxismo-leninismo), tuttavia anche qui il momento decisivo dev’essere la prova concreta della nostra superiorità creativa.

Non c’è dubbio che romanzi come Il placido Don di Šolochov od opere cinematografiche come La corazzata Potëmkin susciteranno sempre forti emozioni in migliaia e migliaia di uomini anche al di fuori del nostro partito. Ma quando, acriticamente, noi lodiamo opere mediocri, così come abbiamo fatto per decenni e purtroppo continuiamo a fare, non siamo certo i migliori propagandisti del valore del realismo socialista: anzi ne siamo gli affossatori, perché viene allora a formarsi un’opinione pubblica secondo la quale il realismo socialista è costituito proprio da quelle opere mediocri e schematiche che i nostri critici han l’abitudine di portare alle stelle. Anche questo porre ogni cosa sullo stesso piano è tipico del settarismo e siccome si estende all’intera politica culturale internazionale (e quindi anche alla nostra), non c’è da stupirsi che nei riguardi della nostra produzione artistica non ci si sia mai presentati con quella forza che avremmo dovuto possedere. Ritengo quindi necessario tornare brevemente dalle questioni internazionali a quelle del nostro paese; ma anche qui si tratta naturalmente di problemi internazionali. Ho detto che non ci siamo mai presentati con quella forza che avremmo dovuto possedere. Durante i miei numerosi viaggi all’estero, mi sono spesso incontrato con scrittori e critici stranieri coi quali ho sovente parlato: ebbene, posso dire che l’apparizione in tutte le lingue dei grandi romanzi del compagno Tibor Déry avrebbe significato per il realismo socialista una battaglia vinta. Viceversa abbiamo fatto di tutto per impedire ad arte la pubblicazione di queste opere in lingua straniera.

Ritorno ora alle questioni generali. Oggi nella letteratura e nell’arte, contrariamente a quanto accade in epoche acutamente rivoluzionarie, in cui le differenziazioni sono nette e amici e nemici stanno di fronte in due avversi campi, ci si trova piuttosto dinanzi a transizioni straordinariamente complicate, per cui vi sono poeti che, pur essendo dei formalisti, giungono ai problemi fondamentali della nostra epoca e aspirano nel loro intimo al mantenimento della pace e al progresso, mentre, al contrario, vi sono scrittori realisti la cui inclinazione al naturalismo fa sì che non abbiano quelle prospettive. È compito del marxismo di esaminare l’intero campo, di giudicare le opere senza prevenzione, dal punto di vista della coesistenza, della strategia odierna, e di sostenere e aiutare per mezzo della critica marxista ogni movimento di vero ed attuale progresso. Sostenere, sì, proprio sostenere, poiché la svolta contro l’arte e l’ideologia decadente può portare in numerosi paesi capitalistici gli scrittori o gli artisti all’isolamento, cosicché il nostro aiuto e la nostra comprensione possono prestar loro un appoggio veramente efficace.

La nostra critica, cosiddetta marxista, che era sempre su posizioni estreme e non prendeva altro atteggiamento se non di lode o di totale condanna, non favoriva certo il processo di mediazione già in atto, ma anzi spingeva ancor più di prima nel campo della reazione chi forse era ancora animato dalla intenzione di avvicinarsi a noi.

Questa all’incirca, in un sommario abbozzo, è la situazione nel campo della cultura, ed è chiaro che le conseguenze del XX Congresso del partito sono in tale situazione d’importanza e significato eccezionali, anche se v’è chi non è ancora in grado di riconoscerlo, sia perché la propaganda della borghesia tenta di ridurre l’intero problema al livello degli scandali, delle rivelazioni e del romanzesco, sia perché anche nelle nostre file non è ancora conseguito dal XX Congresso alcun cambiamento così inequivocabile da permetterci di rintuzzare con successo ed ovunque gli attacchi reazionari.

Ma il prevalere sull’elemento sensazionale non può che essere passeggero. Il tentativo della borghesia di utilizzare contro di noi i risultati del XX Congresso del PCUS non avrà alcun successo. Tuttavia la possibilità che i risultati del XX Congresso divengano realmente efficaci si fonda sulla loro esatta comprensione da parte nostra. Dobbiamo cioè fare definitivamente i conti col settarismo e col dogmatismo; è questa non soltanto la premessa per una nostra comprensione degli avvenimenti mondiali, ma anche perché ci sia possibile influire sul nuovo mondo che va lentamente e contraddittoriamente caratterizzandosi. Dobbiamo sapere che ogni reale elevamento del tenore di vita (non millantato soltanto sulla stampa), che ogni successo reale (e non soltanto decantato dalla burocrazia della cultura) della nostra scienza e della nostra arte, che il completo espandersi della democrazia è rafforzamento e non liquidazione della dittatura del proletariato ecc.: insomma dobbiamo sapere che questo progresso ci aiuterà a rafforzare la coesistenza e a favorire quel processo di differenziazione che sta attuandosi nel mondo borghese, anche all’interno della stessa borghesia. Oggi noi ci troviamo soltanto all’inizio di questo processo, le cui prospettive sono però immense.

Riassumendo: i fronti spesso così difficilmente delimitabili del progresso e della reazione attuali sono i fronti della guerra e della pace, della guerra fredda e della coesistenza, dell’oppressione coloniale e dell’autodeterminazione dei popoli. Dopo le rivelazioni fatte pubblicamente dal compagno Chruščëv la borghesia ha intrapreso di nuovo il disperato tentativo di costituire una linea frontale facendo leva sull’opposizione tra capitalismo e socialismo: noi riconosciamo che nella situazione attuale questa loro manovra rappresenta un serio pericolo, e aggiungiamo che quei compagni che persistono nel dogmatismo staliniano recano, involontariamente ma obbiettivamente, aiuto alla borghesia, e la confermano nell’opinione che la dittatura del proletariato sia incompatibile con la democrazia, con la libertà, con la legalità, che il marxismo sia una collezione di dogmi, che sulla base dell’ideologia socialista non possa realizzarsi alcuna scienza né alcuna arte e così via. Sappiamo che i compagni che da decenni sono prigionieri del settarismo e del dogmatismo non vogliono questo. Ma come marxisti sappiamo anche che non importa ciò che vogliono gli uomini; importano le conseguenze obbiettivamente dialettiche del loro punto di vista.

È probabile che la fase di passaggio in cui ci troviamo ora in seguito al XX Congresso del PCUS sarà abbastanza breve. La sua durata dipende in gran parte da noi. In questa situazione io ritengo importante che fra i comunisti abbiano inizio discussioni internazionali e che queste discussioni si estendano anche alla borghesia e alla socialdemocrazia. La durata di questo periodo di transizione, il successo o l’insuccesso della lotta dipenderà dal momento in cui noi, con l’ausilio dei nuovi metodi dettati da questo nuovo periodo, cominceremo a intraprendere azioni inizialmente forse modeste, ma reali, così da riuscire ad influire sul fermento e sull’evoluzione ideologica del mondo, non solo con la pura e semplice presenza del socialismo, ma anche con lo sviluppo concreto del nuovo indirizzo.

Tutto ciò getta una luce sulle responsabilità dei comunisti dopo il XX Congresso. È nostro dovere fare decisamente i conti con il periodo da poco trascorso. Il nostro non è soltanto un dovere di fronte alla patria e al partito, ma è anche – ed è ciò che volevo illustrare in questa conferenza – un contributo importante all’evoluzione del mondo, alla vittoria del progresso sulla forma attuale della reazione.

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