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György Lukács

~ il primo blog in progress dedicato a Lukács

György Lukács

Archivi tag: realismo

Astrazioni per spiegare la realtà: “Saggi sul realismo” di Lukács

26 martedì Ott 2021

Posted by nemo in Bibliografia in italiano

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Tag

Croce, realismo


di Francesco Cerutti

«La Fiera letteraria» V,  n. 37, settembre 1950.

[Il peggiore articolo mai scritto su L.]


Una gustosa presa in giro della metodologia marxista applicata alla critica letteraria, si legge, fra sparse annotazioni, in un breve scritto del Croce, pubblicato di recente, Cose nuove che son vecchie, ed è l’interpretazione, appunto condotta secondo i rigidi canoni del materialismo storico, d’un canto dantesco, quello di Paolo e Francesca, che per la singolarità dell’impostazione rivela, diciamolo pure con le parole del Croce, «profondità ed abissi inesplorati e sembianze affatto nuove che i critici borghesi non vedevano o non volevano vedere». La bonaria ironia del Croce, non di rado più efficace della sua stessa stringente dialettica, e come tale maggiormente temibile, è nota, epperò d’interpretazione e suggerimenti di tal natura è naturale si finisca con il sorrider divertiti. Ma il sorriso sparisce ben tosto e cede a dubbiosa incredulità, ad accorata meraviglia, quando quegl’argomenti s’odan ripetere e bandire ex cathedra, non più per celia ma con la serietà che si conviene a chi fa professione di critico e d’insegnante, e i problemi della letteratura e dell’arte, ha l’esplicito dovere di conoscere. Intendere, dichiarare altrui. E questo è il caso di György Lukács, professore di estetica nell’università di Budapest, autore di svariate monografie letterarie fra cui spicca un celebrato saggio sul Goethe tradotto anche in italiano, che ha raccolto in volume alcuni suoi studi sui realisti francesi e russi dell’ottocento, e la cui opera, tradotta non sappiamo da chi, è uscita da poco in veste italiana per iniziativa dell’Einaudi, infaticabile divulgatore di quel che chiamasi – con qualche ottimismo – il pensiero marxista contemporaneo.

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Lukács chi? Dicono di lui

28 martedì Set 2021

Posted by nemo in Bibliografia in italiano

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Tag

Estetica, Hegel, Lenin, Lukacs, Marx, ontologia, realismo, stalinismo, Storia e coscienza di classe


I carteggi con Elsa Morante, le indicazioni politiche di Togliatti, i giudizi critici di Croce e Fortini e le citazioni lukacsiane negli scritti di Che Guevara. Queste e altre autorevoli voci, assieme a documenti e materiali poco noti, e riunite dal sapiente lavoro storico-critico di Lelio La Porta, ci aiutano a ripercorrere la vita e il pensiero di György Lukács (1885-1971), intellettuale marxista fra i più influenti del secolo scorso. Uno strumento puntuale e affidabile per conoscere la vita turbolenta e tempestosa del pensatore ungherese e il suo impianto storico-filosofico, ancora oggi saldo punto di riferimento per la scienza politica. Contributi di Nicola Abbagnano, Cesare Cases, Carlos Nelson Coutinho, Benedetto Croce, Franco Fortini, Antonio Gramsci, Ferdinando Gueli, Ernesto Che Guevara, Ágnes Heller, Antonino Infranca, Janos Kelemen, Guido Liguori, István Mészáros, Elsa Morante, Zoltán Mosóczi, Aldo Rosselli, Pier Aldo Rovatti, Palmiro Togliatti, Miklós Vásárhelyi.

Carteggio Lukács-Morante

27 lunedì Set 2021

Posted by nemo in Bibliografia su Lukács, Carteggi e lettere

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Tag

Angela Davis, Elsa Morante, realismo, umanesimo


Introduzione e note di Antonino Infranca

in Lukács chi? a cura di L. La Porta, Bordeaux, Roma 2021.


L’interesse di György Lukács per le opere della Morante è ben anteriore al periodo in cui i due si scambiarono le lettere che qui presentiamo. In una lettera dell’8 novembre 1957, indirizzata a Cesare Cases, Lukács chiedeva che gli fossero inviati i libri della Morante, tradotti in lingua a lui accessibile. È noto, infatti, che Lukács non parlasse affatto l’italiano e che lo leggesse, per altro, con grande difficoltà – come confessa in una delle lettere spedite alla Morante. Fu Cesare Cases che gli diede per la prima volta notizia delle opere di Elsa Morante; e Lukács lo invitò anche a scrivere saggi su di lei – lettera del 26 febbraio 1958. Il nome della Morante ricorre spesso nella corrispondenza tra Cases e Lukács. In un’altra lettera del 12 gennaio 1958, Cases riporta a Lukács l’emozione che la Morante provò, apprendendo dall’Unità che Lukács, durante il periodo di deportazione in Romania nel 1956-57, avrebbe trovato persino il tempo di leggere Menzogna e sortilegio.

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A proposito di letteratura e marxismo creativo

14 sabato Mar 2020

Posted by nemo in I testi, interviste

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Tag

avangaurdia, formalismo, Joyce, Kafka, libertà, Makarenko, Mann, monologo interiore, naturalismo, O'Neil, partiticità dell'arte, Proust, realismo, realismo socialista, stalinismo, Styron, Wolfe


di György Lukács

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.

a cura di A. J. Liehm

Intervista rilasciata al giornalista cecoslovacco A. J. Liehm nel dicembre 1963 e pubblicata nel n. 3 della rivista Literární noviny, Praga, gennaio 1964. Qui ripubblichiamo la traduzione italiana apparsa nel n. 69 de Il contemporaneo, febbraio 1964, Roma. Non ci sono indicazioni del nome del traduttore. Si sono apportate alcune rare correzioni.


Lukács – Ecco, di un libro m’interessa sempre se ciò che in esso è detto, non sarebbe stato possibile raccontarlo nella medesima dimensione, diciamo, del reportage, se vi si pongono questioni oppure si risolvono problemi a un livello realmente artistico e non nelle dimensioni della sociologia. A tal riguardo sono un conservatore ed esigo che per tutto quanto vi è di importante nell’arte, si trovi una forma corrispondente. Questo vale da Omero sino a Kafka. Allo stesso modo, sono contro la forma senza contenuto e senza un problema poeticamente concreto, all’interno e viceversa. Per il resto vi sono altri mezzi e strumenti, per esempio la stampa. Credo che un buon lavoro sociologico sia più importante e, dal punto di vista della conoscenza, più redditizio, forse, dell’Homo Faber di Frisch. Affinché un ingegnere si renda conto della propria alienazione nella società capitalistica, non deve necessariamente avere un rapporto con la propria figlia. Questa è un’aggiunta poeticamente inorganica per il lettore modernista. Il problema della alienazione ci viene rappresentato in modo molto più suggestivo da ogni buon sociologo. Compito dell’artista è scoprire il problema mediante la forma artistica. Continua a leggere →

La teoria lukacsiana del rispecchiamento estetico

08 domenica Mar 2020

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

≈ Commenti disabilitati su La teoria lukacsiana del rispecchiamento estetico

Tag

antirealismo, antiumanesimo, Aristotele, astrazione, avanguardia, azione, Balzac, catarsi, Cervantes, classico, Dante, Dickens, dramma, Eschilo, espressionismo, essenza, fantastico, fenomeno, fiaba, Goethe, Hauptmann, Ibsen, Jocyce, Kafka, Mann, Molière, musica, naturalismo, Orazio, piuttra, prospettiva, realismo, realtà empirica, realtà oggettiva, rispecchiamento artistico, romanzo, Shakespeare, Sofocle, soggettivismo, spazio, stile, Strindberg, Tempo, tipo, Tolstoj, unità, Virgilio, Zola


di Béla Királyfalvi

da Lukács negli scritti di..., a c. di G. Oldrini, ISEDI, Mondadori, Milano 1979.


Béla Királyfalvi, di origine ungherese, insegna letteratura drammatica alla Wichita State University del Kansas.
Diamo qui di seguito la versione integrale di un capitolo, il IV («The Theory of Aesthetics Reflection»), del suo volume The Aesthetics of Gydrgy Lukacs, Princeton University Press, Princeton-London, 1975, pp. 54-70.

* * *

Una volta che Lukács comincia a dare contributi sistematici all’estetica marxista (dall’inizio degli anni trenta), la teoria del rispecchiamento estetico acquista un’importanza centrale nelle sue opere. Quattro decenni di scritti contengono innumerevoli esempi, illustrazioni, chiarificazioni, definizioni negative, analogie e riferimenti alle precedenti e contemporanee autorità in argomento, mai però l’ultima definizione conclusiva al modo, poniamo, di Aristotele. Il motivo è semplice: la dialettica materialistica non permette definizioni conclusive (che sono statiche), bensì soltanto «determinazioni» flessibili. La teoria continua a evolversi in lui fino all’Estetica (1963) e, mentre il concetto di rispecchiamento estetico è, nel suo nocciolo, semplice, la sua interrelazione con altri importanti principi estetici è notevolmente complessa. A causa della complessità del problema, quanto qui segue è un che di mutilo, benché speriamo non di distorto, senza il beneficio del contenuto dei tre capitoli successivi. Eppure è necessario, per amor di chiarezza, iniziare con una discussione relativamente isolata del concetto, perché la teoria del rispecchiamento estetico forma senza dubbio l’ossatura e la spina dorsale dell’intero sistema estetico di Lukács. Continua a leggere →

Lukács dal dramma moderno al romanzo storico

03 martedì Mar 2020

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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Tag

alienazione, Dostoevskij, dramma moderno, epica, Estetica, Hegel, irrazionalismo, Lenin, Manzoni, marxismo, realismo, romanzo storico, teoria del rispecchiamento, Teoria del romanzo, Tragedia


di Guido Lucchini

«Strumenti critici» XXVI, n. 3, ottobre 2011


Quando nel 1965 Cases presentò al pubblico italiano Il romanzo storico, scritto negli anni 1936-37 durante l’esilio moscovita, con una breve introduzione1, non erano state ancora pubblicate opere fondamentali, da Storia e coscienza di classe, all’incompiuta Estetica di Heidelberg, al giovanile Dramma moderno, per non dire la voce “romanzo” della Literaturnaja enciklopedija (1935)2, che sarebbe uscita da Einaudi soltanto nel 1976, quando le fortune del pensatore e critico ungherese in Italia cominciavano a declinare. Opere tutte che modificavano sensibilmente l’itinerario intellettuale di Lukács. Infatti nel decennio 1950-60 era stato l’autore degli studi della maturità (da Goethe e il suo tempo a La distruzione della ragione, a Il giovane Hegel) a destare l’interesse in Italia e ad esercitare una certa influenza, con ogni probabilità sopravvalutata, sulla cultura di orientamento marxista. All’inizio degli anni Sessanta si cominciò a conoscere un altro Lukács, quello anteriore alla conversione al marxismo (nel 1962 usci la Teoria del romanzo, preceduta da una lunga introduzione di Lucien Goldmann, nel 1963 L’anima e le forme). Il romanzo storico, col suo intento dichiarato di leggere «il presente come storia», per usare un’espressione del libro divenuta famosa, completava là conoscenza del Lukács successivo alla svolta del 1930, piuttosto che contribuire a un riesame complessivo della sua opera. A distanza di oltre quarant’anni risultano però chiari non solo i grandi meriti del critico e filosofo ma anche i limiti, politici e culturali. Non accenno ai primi, perché d’immediata evidenza. Alla luce di quanto accaduto negli ultimi decenni mi sembra invece inevitabile soffermarmi, sia pure rapidamente, sul secondo punto. Se vi è un elemento di continuità fra il primo e il secondo Lukács, questo deve ravvisarsi anzitutto nella convinzione che i tratti più significativi e le contraddizioni di un’epoca si esprimono principalmente nella cultura. Con un ovvio corollario: gli intellettuali, che siano intesi come categoria dello spirito o della società non è in questo caso di primaria rilevanza, ne sono i legittimi depositari. Ora, nell’ultimo quarto del Novecento la figura dell’intellettuale è di fatto scomparsa. E ci sono fondati motivi per dubitare che il terreno della cultura sia ancora l’ambito privilegiato nel quale si esprimono le contraddizioni e le trasformazioni del presente. Continua a leggere →

LINKS – Rivista di letteratura e cultura tedesca – Zeitschrift für deutsche Literatur- und Kulturwissenschaft

14 mercoledì Dic 2016

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia in tedesco, Bibliografia su Lukács, segnalazioni

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Tag

Brecht, Classici, epistolario, lavoro, letteratura tedesca, Marx, realismo


Si segnalano i seguenti articoli su Lukács dalla rivista

LINKS – Rivista di letteratura e cultura tedesca – 
Zeitschrift für deutsche Literatur- und Kulturwissenschaft
Anno XVI, 2016

links

* Georg Lukács, Brief an Hans Mayer vom 19. Juni 1961. Realismus-Debatte und Politik

* Mauro Ponzi, Die “Eingleisigkeit” der Dialektik. Ein Rückblick auf die Auffassung des Verhältnisses Kunst-Politik bei Brecht und Lukács

* Konstantin Baehrens, “[D]en ganzen menschen”. Lukács’ Humanistische Anthropologie und die literatur der Deutschen Klassik

* Matteo Gargani, “L’intero segreto della concezione critica”. Sul lavoro in Lukács e Marx

 

L’Ungheria e l’oblio di Lukács. Intervista a János Kelemen

06 mercoledì Apr 2016

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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Tag

Archivio Lukács, Kelmen, marxismo, realismo, ungheria


di Ferdinando Gueli

da La città futura, 25 marzo 2016

Un rapporto da sempre tormentato quello tra il grande pensatore marxista ed il suo Paese natale, tanto che pochi giorni fa le autorità accademiche ungheresi hanno annunciato la revoca dei finanziamenti all’archivio Lukács di Budapest, che rischia pertanto la chiusura. Ne parliamo con János Kelemen, professore emerito di filosofia e linguistica dell’Università di Budapest, nonché direttore dell’Accademia d’Ungheria a Roma dal 1990 al 1995, e conoscitore del pensiero di Lukács.

Quello tra György Lukács ed il suo paese natale, l’Ungheria, è sempre stato un rapporto tormentato, per lui vale sicuramente l’antico detto latino nemo propheta in patria. Dalla rivoluzione bolscevica del 1919 guidata da Béla Kun e che lo vide giovane protagonista, all’esilio in Unione Sovietica negli anni tra le due guerre, durante il regime autoritario dell’Ammiraglio Horthy, dal periodo stalinista di Rákosi al governo Nagy e alla rivoluzione del 1956, e infine negli anni successivi fino alla sua morte, avvenuta nel 1971. Ma anche dopo la morte di Lukács le classi dirigenti ungheresi, politiche ed accademiche, non hanno mai visto di buon occhio questo intellettuale che, invece, a livello internazionale, è riconosciuto come uno dei più grandi e brillanti filosofi marxisti del XX secolo. Nell’ultimo ventennio, dopo la caduta del socialismo reale ed il ritorno dell’Ungheria nel sistema capitalistico, si è assistito ad una vera e propria opera di rimozione sistematica della presenza e del lascito culturale di Lukács, potremmo definirla “operazione oblio”.

L’ultimo recente episodio è particolarmente significativo: si è avuta notizia che l’Accademia Ungherese delle Scienze sta revocando, per addotti motivi di bilancio, il finanziamento dell’archivio Lukács, l’unica piccola struttura rimasta, quasi ai margini, che raccoglie documentazione di fondamentale interesse scientifico per lo studio del pensiero lukacsiano, e che rischia così la definitiva chiusura.

Abbiamo intervistato, nella sua Budapest, a poche centinaia di metri dall’archivio Lukács, János Kelemen, filosofo e linguista, professore emerito dell’Università di Budapest, già direttore dell’Accademia d’Ungheria a Roma dal 1990 al 1995, nonché studioso del pensiero di Lukács, per comprendere cosa stia accadendo in questo momento in Ungheria e cosa rimanga del passaggio di Lukács nella memoria culturale del popolo magiaro.

DOMANDA: János, o meglio Jimmy, come ti fai chiamare da compagni e amici, in questi giorni si è avuta la notizia della possibile chiusura dell’archivio Lukács a Budapest. Cosa sta succedendo e qual è l’importanza scientifica di questo archivio?

RISPOSTA: Circolavano già da anni notizie sulla possibile soppressione dell’Archivio Lukács. Nel 2012 gli venne tolto lo statuto di centro di ricerca e, malgrado le proteste internazionali, i suoi collaboratori scientifici furono espulsi. In questo momento si sta compiendo l’ultimo atto che, secondo i progetti pubblicati ufficialmente, consisterebbe, da una parte, nello smantellamento del materiale, separando e collocando la biblioteca e i manoscritti del filosofo in diversi dipartimenti dell’accademia, e, dall’altra, nella liquidazione del suo appartamento, che è la sede dell’Archivio, come luogo di memoria. Una tale decisione comporta un’enorme perdita culturale della nazione e del mondo scientifico internazionale. Lukács ha scritto uno dei libri più importanti del XX secolo. Le note marginali nei suoi libri, o la sua corrispondenza con alcuni giganti della cultura del secolo scorso come, per fare solo due o tre nomi, Thomas Mann, Ernst Bloch, Jean-Paul Sartre, costituiscono un inestimabile tesoro intellettuale.

D: Possiamo interpretare questa vicenda come l’ultimo passaggio di un lungo percorso storico di progressiva rimozione storica della figura di Lukács dalla cultura nazionale ungherese?

R: Sì, certamente! Lukács è oggi colpito da una sorta di anatema culturale. La biblioteca dell’Università di Budapest ospitava, nel cortile di ingresso, una sua statua, che venne subito rimossa nel 1990, subito dopo la caduta della democrazia popolare. C’era una strada che portava il suo nome ed oggi non più, come d’altronde accadde a quella dedicata a Marx, e diversamente da quanto invece è accaduto a Berlino. La figura di Lukács, già da allora, è stata sistematicamente rimossa dalla coscienza pubblica del popolo ungherese, ed in questo non hanno fatto eccezione neanche i governi a guida del partito socialista post-regime. Un’opera di rimozione che ha coinvolto anche gli ambienti accademici. Oggi l’OSA (Open Society Archive), istituzione culturale privata che fa capo alla Fondazione Soros, con la Central European University, università privata da lui fondata e finanziata, si sta di fatto monopolizzando, con la sua presenza e con la continua espansione tramite investimenti immobiliari, uno dei quartieri centrali di Budapest. Ebbene, all’ingresso di questa istituzione, appare oggi il basamento della vecchia statua di Lukács, ritrovato nei magazzini durante i lavori di ristrutturazione dell’immobile, ma esso appare spoglio non soltanto della statua ma anche dell’iscrizione in bronzo del nome di Lukács, di cui è possibile vederne l’impronta. Esiste una fondazione Lukács ma rimane ai margini della vita culturale ufficiale ed accademica. L’insegnamento di Lukács non è vietato ma osteggiato e marginalizzato. Si fanno alcuni corsi, con pochi studenti, che vengono ufficialmente etichettati come “neomarxisti”.

D: Spiegaci meglio come sei arrivato, nel corso della tua carriera accademica, a Lukács e quanta parte dei tuoi studi gli hai dedicato?

R: Era difficile non arrivare a Lukács, il suo appartamento era a cinque minuti da casa mia…scherzi a parte, la motivazione principale è che nel corso della mia attività universitaria, negli anni ’60, quando ero docente di filosofia all’Università di Budapest, usare Lukács era una maniera di risvegliare l’interesse dei giovani verso la filosofia come tale ed ai temi attuali, alla situazione del mondo di allora. Nella mia generazione molti hanno condiviso questa esperienza. Io però non facevo parte del cosiddetto “kinder garten” (giardino, nda) di Lukács, cioè un circolo di allievi e assidui frequentatori che venivano definiti i suoi “nipoti”, ma avevo rapporti amichevoli con molti degli appartenenti a questo circolo ristretto. Lukács non insegnava ufficialmente, ma il suo appartamento era molto frequentato, era una specie di “università volante”, ma non clandestina, la cosa era perfettamente tollerata dal regime. Nel ‘63 ci fu poi una svolta nella politica del regime, alcuni discepoli di Lukács vennero espulsi dal partito e dall’insegnamento. Alcuni addirittura scapparono all’estero, ad esempio Agnes Heller, che insegnò negli Stati Uniti, ed è tuttora attiva. Io ho quindi insegnato filosofia sui fondamenti del pensiero di Lukács, in particolare partendo dall’estetica, anche perché i primi capitoli dell’Estetica si possono utilizzare per un’introduzione generale per una teoria delle forme della coscienza, e che ancor oggi sarebbe di grande attualità. La mia formazione precedente non era basata su Lukács, ma mi avvicinai al suo pensiero durante i miei studi di linguistica, quindi i miei studi lukacsiani si sono sovrapposti alla mia formazione precedente. Io ritengo che Lukács sia ancora di straordinaria attualità, merita di essere letto e studiato oggi per comprendere la realtà odierna.

D: L’attualità di Lukács e la sua opera: in quali aspetti ha sviluppato il pensiero di Marx attualizzandolo nel ‘900?

R: Secondo la mia opinione, Lukács è da considerarsi il più importante filosofo marxista del ‘900 dopo Antonio Gramsci, per il grande respiro culturale che c’è nella sua opera. Ancora oggi avvince la sua visione generale di un anticapitalismo non profetico, non escatologico, ma che si inserisce nella storia della cultura. È stata una figura veramente straordinaria.

In Storia e Coscienza di Classe, apparso in lingua ungherese alla fine degli anni ’60, Lukács ancora in vita, scrisse una postfazione in cui lui rinnegava l’opera, nonostante questa rimane un acquisito del pensiero marxista. Nel testo, che è del 1926 e poi scritto negli anni successivi, si può individuare, secondo me, un “kantismo” marxiano, c’è una rielaborazione straordinaria della critica della ragione, la ragione borghese ovviamente. Non è un autore di facile lettura, la sua analisi è più profonda e universale, ma questo livello di pensiero è necessario. Lui rinnegò queste sue basi kantiane, ma sicuramente, nella sua formazione giovanile, rimase molto influenzato dalla filosofia neokantiana che nei primi due decenni del XX secolo era molto diffusa. Questo libro ha fatto storia due volte; negli anni ‘20 tutti, senza eccezione, nella sinistra occidentale, divennero marxisti attraverso questo libro. C’è un aspetto da non trascurare: quello della ricezione. Quindi, negli anni ‘60 il testo venne riscoperto in tutto il mondo, ebbe una sua seconda vita, influenzando molto anche la generazione dei sessantottini, che erano alla ricerca di nuovi maestri, anche se Lukács arrivò a loro attraverso una mediazione (nota bene, mediazione era un termine molto caro allo stesso Lukács).

D: Quali sono, a tuo parere, i concetti teorici più originali che caratterizzano il contributo di Lukács allo sviluppo del pensiero marxista?

R: Direi, ad esempio, il tema della vita quotidiana, una vera e propria teoria della vita quotidiana, di cui il polo opposto è l’essere generico. La sfera quotidiana è la sfera della riproduzione, è anche il medium della nostra vita, ma bisogna anche collegarsi all’essere generico. Quindi l’arte, la scienza, sono una forma di mediazione tra noi, la nostra quotidianità, e l’essere generico, che danno senso alla nostra vita, perché siano animati da questa tensione. C’è quindi una funzione escatologica, ma ciò non è in contraddizione con il materialismo dialettico. Lukács cerca, in realtà, attraverso questi concetti, di formulare una teoria ontologica e questa è una grande novità per il pensiero marxista. Questa ricerca di una teoria ontologica ha caratterizzato in particolare l’ultima fase del pensiero di Lukács, ma egli non riuscì a portare a compimento questa ricerca. Nell’Estetica possiamo individuare delle anticipazioni di questa elaborazione, si capisce che c’è l’intenzione di elaborare un’ontologia dell’essere sociale, ma la teorizzazione rimane incompleta.

In questa elaborazione lukacsiana è centrale, poi, la categoria del lavoro, come attività umana, e della riproduzione sociale. A tal proposito, ti racconto un piccolo aneddoto: partecipando a conferenze in giro per il mondo, conobbi un semiologo italiano, Ferruccio Rossi Landi, che insegnava all’Università di Trieste, e scrisse il volume La lingua come mercato e lavoro, che sviluppa concetti lukacsiani, pur non conoscendo il pensiero di Lukács. Quindici anni dopo incontrai Hillary Putnam, un filosofo americano, uno degli idoli della filosofia analitica, che mi espose la sua teoria della divisione, partecipando ad una sua conferenza, e condusse un’analisi della teoria di Ferruccio Rossi Landi. Tutto questo conferma quello che affermava lo stesso Marx, cioè ci sono, nelle scienze umanistiche, dei concetti che si possono scoprire e riscoprire, perché emergono, in un certo senso, “spontaneamente” dalla cultura di quel tempo.

D: Come interpreti la problematica sul realismo in Lukács che tanto ha animato un certo dibattito tra gli studiosi?

R: Rileggendo i suoi scritti letterari lui era un teoretico del realismo senza aggettivi, perché il realismo con aggettivi non ha senso…questa ovviamente è la mia opinione, ma lo leggo nel pensiero di Lukács. Il realismo critico è stato creato un po’ artificiosamente per salvaguardare alcuni autori borghesi, come ad esempio Balzac (molto letto anche dallo stesso Marx), Stendhal e altri autori, soprattutto quelli del grande romanzo dell’800. Lukács, se non è stato lui stesso ad inventarlo, lo utilizzò ampiamente con l’obiettivo pratico di recuperare, in ambito marxista, l’interesse per quegli autori non classificabili come socialisti. La sua visione però è quella del realismo nel senso generale e senza limitazioni artificiose. È comunque una questione filosofica complessa: possiamo riassumere affermando che il realismo critico sarebbe nelle mani di Lukács il romanzo dell’800 e, in secondo luogo, quei grandi autori del’ 900 che, pur non essendo comunisti, vanno inseriti nell’ambito del realismo, quali ad esempio Thomas Mann, autore da lui molto amato.

D: Come valuti oggi l’ interesse per Lukács a livello internazionale?

R: Siamo ad un punto morto, ma la mia previsione è che la figura e il pensiero di Lukács andranno riscoperti. Io tendo a fare questo parallelismo: il declino della figura di Lukács è da collegarsi con l’emergenza continua di Heidegger, il cui pensiero filosofico viene costantemente recuperato. Il comunista Lukács non è riabilitabile, mentre lo è il nazista Heidegger. Questo accade soprattutto in Europa, mentre in America Latina, ma anche negli Stati Uniti, c’è una maggiore attenzione e considerazione di Lukács, basti pensare ad Agnes Heller, la sua ex-allieva più nota, che oggi insegna a New York ed è una personalità di grande prestigio.

D: Una piccola digressione: la cosiddetta rivoluzione dell’ottobre 1956. Oggi che sono trascorsi ormai quasi sessant’anni, sarebbe possibile darne una chiave di lettura marxista, ed in termini più sereni?

R: Ma in realtà quegli uomini, soprattutto i membri della classe dirigente, che furono protagonisti di quegli eventi non possono definirsi degli autentici marxisti, né da una parte né dall’altra. Imre Nagy era, per formazione politica, uno stalinista, ma non era un ideologo, un intellettuale. Era sicuramente un grande politico, che ad un certo punto capì che la situazione dell’Ungheria era irrisolvibile con i metodi adottati durante la fase staliniana. Aveva il senso della politica. D’altronde anche Kádár era un politico ma non un teorico. Lukács faceva parte di quella classe dirigente, ma si collocava ad un livello diverso. Un personaggio molto influente e meno conosciuto era József Révai, che è l’unico che si possa definire un marxista, ortodosso. Gli altri non si possono considerare dei marxisti, erano dei comunisti, formatisi come quadri di partito, ma non avevano una formazione intellettuale solida dal punto di vista del pensiero marxista. Rákosi era intellettualmente più formato, ma non era un teorico. La cosiddetta trojka, Rákosi, Révai e Farkas, erano i tre personaggi che di fatto dominavano le scelte politiche. Ma le categorie del marxismo non possono essere utilizzate per interpretare una fase storica determinata esclusivamente da fattori prettamente politici.

D: Il socialismo reale ha messo le radici e quanto la società ungherese è cambiata in questi 25 anni?

R: Bisogna distinguere tra processi sociali e processi mentali. In questi giorni è di moda affermare che Orbán sta restaurando un regime di socialismo reale. Ma questa analogia è solo apparente. La società ungherese è profondamente trasformata da allora, si è sviluppata in una struttura fortemente di classe, bada bene quando dico classe e non strati. La società di allora non era paragonabile a quella odierna, la trasformazione in senso capitalista si è completata ormai. D’altra parte, sul piano economico si assiste ad una forte tendenza alla centralizzazione delle strutture produttive e di quelle politico-istituzionali. Si potrebbe tracciare una sorta di analogia tra l’Italia fascista degli anni ’20, quella fase precedente l’affermazione del regime totalitario propriamente inteso. L’Ungheria attraversa quindi un processo di fascistizzazione della società e dell’economia. Non è un’analogia astorica, ma pienamente storica, quindi con le differenze di contesto e di fase.

D: Ci sono gli anticorpi nella società ungherese che possano far pensare che questo processo si possa arrestare?

R: Purtroppo, questa è ovviamente la mia sensazione, non si intravedono questi sintomi. Esistono delle forme di resistenza, ma sono fatti isolati, movimenti e gruppi incapaci di organizzarsi, che emergono a livello di società civile ma non sanno esprimersi a livello politico. C’è una sorta di resa da parte di quelle forze politiche che avrebbero potuto contrastare questa fascistizzazione della società e dello Stato.

D: Quanto ti rimane della tua esperienza italiana, in particolare del periodo in cui eri direttore dell’Accademia Ungheria a Roma, quali elementi della cultura italiana hanno influenzato la tua attività?

R: La mia passione per la cultura italiana nasce da quando ero ragazzo, studente liceale, e trovai nella libreria di mio padre alcuni volumi di letteratura italiana, Manzoni, Leopardi, Pirandello. C’era anche un Dizionario Italiano-Ungherese, ma lui non sapeva una parola di italiano. Non gli ho mai chiesto di questa presenza di testi italiani, non l’ho mai saputo. Io, all’età di 16 anni, quasi per gioco, decisi di leggere Il Fu Mattia Pascal, aiutandomi con il dizionario e trascrivendo la traduzione delle singole parole sul testo italiano. In qualche modo compresi il significato del romanzo, o almeno questo è ciò che credetti allora. Questo è un aneddoto, ma è anche grazie a quell’esperienza che decisi di studiare italiano all’università, e da lì è cominciata la mia carriera di linguista e di italianista, che, accanto ai miei studi di filosofia, divenne una sorta di attività accademica parallela, coltivata per pura passione. Mi interessai molto a Croce, poi ho fatto degli studi su Vico e anche su Gentile. Questo non faceva parte del mio mestiere di direttore dell’Accademia d’Ungheria, ma ciononostante, in quel periodo, organizzai nel 1992 un convegno su Croce, con la partecipazione di grandi studiosi da varie parti del mondo. Conobbi anche Umberto Eco, che da poco ci ha lasciati, ed al quale vorrei rendere omaggio attraverso un personale ricordo: lo intervistai nei primi anni ’70 per la TV ungherese in occasione di una sua visita a Budapest e anni dopo lui mi riconobbe per strada a Roma. Aveva una grande memoria, segno di una mente straordinaria e di una cultura veramente profonda e coltivata.

Georg Lukács e a literatura do século XX

25 venerdì Mar 2016

Posted by nemo in Bibliografia in portoghese, Bibliografia su Lukács

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di Carlos Nelson Coutinho

da Lukács, Proust, Kafka, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, 2005.

[Questo testo rappresenta il capitolo 1 del libro, la cui Appendice contiene uno scambio di lettere tra l’autore e L., e una rassegna dei passi di testi lukacsiani in cui l’ultimo L. parla di Kafka. Come si capirà leggendo il capitolo qui proposto, il libro nel suo complesso vuole condurre un’analisi dell’opera dei due autori citati nel titolo, partendo da tarde categorie lukacsiane criticando quelle espresse da L. medesimo in L’attualità del realismo critico, in particolare l’opposizione realismo/avanguardia – specie per i due autori in oggetto – e la posizione di fronte al socialismo quale criterio di valore per giudicare un’opera del XX secolo. L’importanza di questo scritto ci sembra risiedere non solo nella serietà dell’argomentazione – la cui validità è oggetto del giudizio del lettore – ma anche nell’aver affrontato testi lukacsiani non tradotti in italiano e – per quel che ne sappiamo – per niente letti dai critici italiani].


1.

Uma análise das obras de Marcel Proust e de Franz Kafka — ainda que sumária e parcial, como a que pretendo esboçar nos capítulos seguintes deste livro — requer sempre uma justificativa prévia. Poucos autores, contemporâneos ou não, mereceram uma similar atenção por parte da crítica. Quase todos os pensadores importantes do século XX sentiram a necessidade de acertar contas com a obra destes dois autores, sobretudo com aquela de Kafka. Cabe assim uma pergunta: restará algo a dizer sobre Proust e Kafka? Não terá essa vasta literatura crítica, ou pelo menos sua parte mais significativa, indicado e explicitado a totalidade dos possíveis ângulos de abordagem e, sem naturalmente esgotar o conteúdo da produção destes dois autores (que, como o de toda grande obra de arte, é sempre em certo sentido inesgotável), fornecido o máximo de conhecimento possível — na etapa histórica em que vivemos — sobre o seu significado essencial?

Não se trata, evidentemente, de propor uma resposta radicalmente negativa. Nessa massa de análises críticas de variada orientação, podem-se indicar alguns pontos firmes essenciais, ou seja, conquistas que se incorporaram definitivamente à compreensão do significado do mundo estético de Proust e de Kafka. Mas, ao mesmo tempo, também é possível observar que a descoberta de tais pontos e a fixação dessas conquistas ocorreram freqüentemente no interior de visões de conjunto problemáticas, que, em muitos casos, lançaram um denso véu de equívocos sobre a verdadeira natureza estético-ideológica dos relatos destes dois notáveis escritores.

No caso de Proust, tais equívocos dizem respeito, essencialmente, ao lugar ocupado por sua obra na evolução da literatura e, em particular, do romance. Embora À la recherche du temps perdu tenha, na época do seu aparecimento, despertado forte oposição nos meios “vanguardistas”, tornou-se depois moeda corrente na crítica mais recente a inclusão de Proust, juntamente com Joyce e Kafka, entre os iniciadores da “revolução formal” que caracterizarla a chamada “literatura de vanguarda”. Apontada como exemplo de superação da “anacrônica” estrutura romanesca tradicional, a obra proustiana aparece assim desligada da herança realista que, no plano da arte narrativa, alcançou sua máxima expressão no romance do século XIX.

Ainda que dominante, esta leitura “vanguardista” de Proust está longe de ser unânime. Thomas Mann, por exemplo — que jamais se limitou, em suas análises literárias, a uma abordagem puramente estilística dos autores e das obras —, incluiu Proust entre os romancistas do século XIX, colocando-o expressamente ao lado de Balzac, Stendhal, Flaubert, Tolstoi e Dostoievski. Além disso, desde o aparecimento dos primeiros tomos da Recherche, houve críticos franceses que, como Jacques Rivière — cuja análise, de resto, mereceu a aprovação do próprio Proust —, insistiram sobre o caráter antimodernista de sua obra, ou seja, sobre a estreita ligação déla com a “tradição clássica”.1 Estamos diante de duas avaliações radicalmente contrapostas, as quais, precisamente por sua unilateralidade, levam a equívocos. Mas me parece também que, malgrado esta unilateralidade, ambas colocam problemas reais: com efeito, como tentarei demonstrar no capítulo sobre Proust, a melhor chave para entender a obra do romancista francês é mostrar que, embora se situé na tradição do romance do século XIX, ela já antecipa algumas características da literatura própria do século XX, com todas as implicações conteudísticas e formais que disso decorrem.

Já no caso de Kafka, a polêmica não girou sobre a natureza inovadora ou não da forma estética por ele criada: ao que eu saiba, ninguém pos em discussão o caráter vanguardista e inovador de seus relatos. O que aqui esteve em discussão foi, quase sempre, a natureza da visão do mundo que Kafka expressou em sua obra, discussão que deu lugar à criação de inúmeros equívocos. Com seu costumeiro radicalismo, Theodor W. Adorno observou em 1953: “Do que se tem escrito sobre ele [Kafka], pouca coisa conta; a maior parte é existencialismo.”2 E já bem antes, em 1934, Walter Benjamin dissera: “Há dois mal-entendidos possíveis com relação a Kafka: recorrer a uma interpretação natural e a uma interpretação sobrenatural. As duas, a psicanalítica e a teológica, perdem de vista o essencial.”3

No núcleo dessas interpretações equivocadas, parece-me residir, antes de mais nada, um falso conceito de arte, que se expressa, no caso concreto de Kafka, na tentativa de transformar sua obra em “expressão” ou “ilustração” de uma visão do mundo preexistente à construção dos seus relatos. Mais precisamente: o erro fundamental dessas interpretações (existencialistas, psicanalíticas, religiosas, sociológicas) não depende tanto do conteúdo da visão do mundo que em cada oportunidade se atribui a Kafka, conteúdo que — conforme a ideologia do intérprete ou o ambiente cultural do momento — pôde ser indicado como “ilustração” da mística judaica, do complexo de Édipo, da “derrelição” ontológica do homem num mundo absurdo e irracional, das contradiçoes paralisadoras da ideologia pequeno-burguesa de nosso tempo, etc., etc. O problema é que desse modo, implícita ou explicitamente, nega-se o fato de que a obra kafkiana — como toda obra de arte significativa — é representação mimética da realidade social objetiva e não expressão direta de uma subjetividade individual (consciente ou “profunda”) ou pseudo-universal (religiosa ou classista).

Minha convicção — que tentarei expor nos capítulos seguintes deste livro — é que o significado das obras de Proust e de Kafka não reside na “expressão” de uma idéia abstrata qualquer, nem tampouco tem sua gênese na biografia do autor ou na “psicologia social” de uma classe ou de uma nação. Se quisermos alcançãr esse significado em sua riqueza concreta, deveremos analisar estes dois excepcionais escritores à luz de uma poética do realismo, ou seja, de uma teoria da arte como representação (ou figuração mimética) da essência de uma realidade social e humana históricamente determinada. Nos capítulos seguintes, portanto, tentarei definir, por um lado, o conteúdo histórico-humano-social que serve de pressuposto às objetivaçõs estéticas de Proust e de Kafka; e, por outro, o modo pelo qual esse pressuposto é reposto artisticamente na estrutura de seus relatos. Somente a partir desse critério histórico-materialista será possível definir a visão do mundo imanente à obra dos dois autores (única que interessa numa análise estética materialista), bem como os peculiares problemas formais e técnicos que o modo de reposição estética por eles adotado indiscutivelmente coloca.

2.

O leitor informado terá percebido que o método de abordagem acima proposto é aquele formulado e quase sempre aplicado ñas obras da maturidade de Georg Lukács. E aqui se coloca uma questão: esse mesmo leitor saberá também que o juízo de Lukács sobre Proust e, em particular, sobre Kafka, embora tenha sofrido alterações nos últimos anos da sua longa vida, pôde ser considerado — ao contrário daquele que resulta de minhas análises — como essencialmente negativo.

Sobre Proust, Lukács falou muito pouco em sua vasta obra. Ao longo das quase duas mil páginas de sua Estética, por exemplo, o criador da Recherche é mencionado apenas três vezes, e nunca em função de sua obra narrativa, mas de uma incidental observação que ele fez acerca da presença do reflexo da realidade na obra de Mallarmé.4 É também apenas de passagem que Lukács se refere a Proust em duas outras obras, em ambos os casos para indicar que a visão do mundo do narrador francês inspira-se na concepção do tempo de Bergson, que Lukács considera expressão de um intenso subjetivismo irracionalista.5 Já no fim da vida, contudo, num momento em que se dispunha a algumas revisões de seus juízos críticos anteriores sobre a literatura contemporânea (como veremos mais amplamente no caso de Kafka), Lukács afirma, numa entrevista ao poeta inglês Stephen Spender: “O caso de Proust é muito diferente do de Joyce. Em Á la recherche du temps perdu existe um retrato real do mundo, não uma fotomontagem naturalista (pretensiosa e grotesca) de associações [como em Joyce]. O mundo de Proust pôde parecer fragmentário e problemático. De muitas maneiras, ele preenche a situação do último capítulo de L’éducation sentimentale [de Flaubert], em que Frédéric Moreau volta para casa depois do esmagamento da revolução de 1848; ele já não tem nenhuma experiência da realidade, apenas a nostalgia de seu passado perdido. O fato de que esta situação constitua, com exclusividade, o conteúdo da obra de Proust é a razão de seu caráter fragmentario e problemático. Não obstante, estamos diante da figuração de uma situação verdadeira, produzida com arte.”6 Trata-se, a meu ver, de uma fecunda indicação, que — como o leitor poderá comprovar — tento desenvolver no capítulo sobre Proust.

Ao contrário, pelo menos a partir de 1957, foram inúmeras as vezes em que Lukács se referiu a Kafka. Não é difícil perceber que a obra kafkiana provocou no filósofo húngaro uma sincera admiração, ainda que ele a visse como expressão do vanguardismo que tão duramente combatia. Com efeito, Kafka ocupa um posto decisivo na estrutura da obra que, em 1957, Lukács dedicou aos problemas da literatura contemporânea. Contrapondo Thomas Mann e Kafka como a alternativa típica no seio da literatura “burguesa” do século XX, Lukács afirmava nesta obra que, enquanto Mann construíra “um realismo crítico verdadeiro como a vida”, Kafka seria nada mais do que a expressão de “uma decadência artisticamente interessante”.7 A obra kafkiana aparece como a manifestação mais típica da tendência vanguardista, que Lukács rejeitava pelo menos desde os anos 1930. Embora insistisse sobre o talento realista revelado por Kafka na seleção e composição dos detalhes, Lukács afirmava que esse realismo parcial estaria a serviço de uma construção essencialmente alegórica e, como tal, anti-realista: o objetivo final de Kafka seria indicar o “nada” (o absurdo do mundo) como a essência da realidade. Lukács sintetiza de modo bastante claro sua visão da obra kafkiana: “Uma imagem da sociedade capitalista com um pouco de cor local austríaca. O alegórico consiste no fato de que toda a existência dessa camada e de seus dependentes, bem como de suas indefesas vítimas, não é representada como uma realidade concreta, mas como reflexo atemporal daquele nada, daquela transcendência que — não existindo — deve determinar toda a existência.”8

O aparente brilho da análise lukacsiana — que retomava as idéias sobre a alegoria desenvolvidas por Benjamin nos anos 1920 e, desse modo, emprestava um caráter mais sofisticado à sua já antiga condenação sumaria da arte de vanguarda —9 não deve ocultar sua essencial inadequação. Embora com sinal avaliativo invertido, o que Lukács escrevia em 1957 sobre Kafka era também “existencialismo”. Decerto, a interpretação “existencialista”, como veremos no capítulo III, dá conta de parte das produções kafkianas, em particular do romance inacabado O desaparecido (ou América) e de muitos relatos curtos construídos explicitamente como parábolas alegóricas. Mas tal interpretação deixa de lado, por insuficiência ou mesmo por deformação, aquilo que de mais significativo e duradouro foi criado pelo autor de O processo. Em minha opinião, a linha de demarcação entre alegoria e símbolo — tão bem traçada por Lukács em nivel teórico — passa no interior da obra de Kafka e, de modo mais geral, no interior daquilo que o filósofo húngaro chama de “modernismo” ou (como nas línguas neolatinas) “vanguardismo”. Deve-se observar que Lukács, em algumas passagens de escritos posteriores a Realismo crítico hoje, formulou juízos sobre Kafka (assim como o já mencionado sobre Proust) que alteravam objetivamente os formulados em 1957. Todavia, na medida em que ele jamais voltou a tratar sistemáticamente (como fizera em 1957) da obra do autor tcheco, esses juízos fragmentários — ainda que por vezes iluminadores — não podem, por seu caráter tópico, elevar-se a uma nova avaliação global que funcione efetivamente como uma autocrítica.10

3.

Durante algum tempo, estive convencido de que Lukács cometera certamente um “erro de avaliação”, que envolvia Proust e Kafka, mas que tal erro não alterava a justeza essencial de sua teoria sobre a arte e a literatura do século XX.11 Não concordo mais com essa visão simplista, embora recuse igualmente o simplismo oposto, que consistiría em manter a alternativa formulada por Lukács mas com sinal trocado, ou seja, optando por Kafka (pela vanguarda) contra Thomas Mann (contra o realismo).12 São precisamente estas alternativas radicáis que devem ser postas em questão, como tentarei demonstrar em seguida.

O que eu considerava “erros de avaliação” localizados me parecem hoje o índice de certas conexões problemáticas na própria teoria lukacsiana da literatura do século XX, que decorrem em última instancia da concepção geral de Lukács acerca da evolução histórica posterior à Revolução de Outubro de 1917. Desde sua adesão ao marxismo (ocorrida em 1918) até pelo menos meados dos anos 1920, Lukács — como tantos outros comunistas — esteve firmemente convencido de que a época histórica inaugurada pela revolução bolchevique se caracterizava pelo que ele chamou de “atualidade da revolução”, ou seja, pelo fato de que estaría em curso uma rápida expansão aos países ocidentais da revolução socialista concebida segundo o modelo bolchevique. Como se sabe, foi sob a égide desta convicção que Lukács escreveu seus primeiros escritos marxistas.13 Contudo, já no final dos anos 1920, quando havia se tornado evidente o refluxo da onda revolucionária iniciada em 1917, Lukács elaborou uma nova avaliação do presente, cuja primeira expressão aparece em suas Teses de Blum.14 Esta avaliação — que se apoiava essencialmente, como veremos, em dois pressupostos, um bastante problemático e outro inteiramente falso — se manteria pelo menos até meados dos anos 1960, quando o pensador húngaro esboça algumas tardias e quase sempre tímidas tentativas de revisão de suas antigas posições.

O primeiro dos pressupostos a que aludi era a idéia de que uma aliança entre o socialismo e a democracia radical — a grande herança do “período heroico” da burguesia — seria o melhor antídoto contra as tendências reacionárias e fascistas que o capitalismo vinha gestando como resposta à revolução russa. Tal aliança se expressaria, no terreno da ideologia e da arte, por meio de uma aproximação entre os intelectuais burgueses progressistas e os intelectuais socialistas, com base, respectivamente, na defesa da razão e da arte realista. A aliança militar entre as “democracias” ocidentais e a “pátria do socialismo”, ocorrida na luta comum contra o nazifascismo durante a Segunda Guerra Mundial, parecia confirmar plenamente essa idéia, que Lukács partilhou então com a maioria do movimento comunista. Não me parece casual que tenha sido no período das frentes populares — que buscaram e muitas vezes conseguiram criar esta aliança já antes da guerra — que Lukács redigiu algumas de suas principáis obras, não só os belíssimos ensaios sobre o realismo do século XIX (Balzac, Stendhal, Dostoievski, Tolstoi, etc.), mas também as excepcionais monografias sobre O romance histórico e sobre O jovem Hegel, nas quais ele busca precisamente valorizar o legado humanista da burguesia, respectivamente nos terrenos da arte e da filosofia.15

De resto, a enfática defesa desta aliança entre democracia e socialismo permitiu a Lukács evitar o dogmatismo sectario que colocava uma muralha chinesa entre a herança da cultura burguesa (considerada em bloco como reacionária) e uma pretensa cultura socialista “radicalmente nova”. Com isso, ele pôde elaborar uma política cultural relativamente aberta, centrada na valorização da herança democrática que se expressaria no realismo crítico e na defesa da razão, política que se distinguia radicalmente do sectarismo dominante na época de Stalin e mesmo depois dela.16

Não se trata de contestar a validade deste projeto estratégico. É indubitável que Lukács percebeu a problemática essencial do período que se inicia com o refluxo da onda revolucionária iniciada em 1917, ou seja, a necessidade de encontrar um novo modo de articulação entre democracia e socialismo.17 No terreno dos princípios, este projeto era válido não apenas nos anos 1930 e no segundo após-guerra, mas continua a sê-lo — mutatis mutandis — ainda hoje. O que o tornou problemático foram as novas condições geradas precisamente neste segundo após-guerra, quando se tornou evidente que ele não mais poderia ser realizado nos termos em que fora formulado na época das frentes populares. Lukács, contudo, continuou a insistir em sua exeqüibilidade, o que o fez assumir um ponto de vista fortemente “otimista”, cada vez mais negado pelos fatos.

Este “otimismo” transparece em vários escritos lukacsianos imediatamente sucessivos ao fim da guerra. Assim, por exemplo, numa conferência pronunciada em 1946, em um encontro do qual participaram importantes intelectuais da Europa Ocidental, Lukács afirmou com ênfase que estava ocorrendo naquele momento “o começo de um restabelecimento da aliança entre a democracia e o socialismo”.18 Ora, na verdade, o que estava então para se iniciar não era tal aliança, mas sim a “guerra fria”, que consolidaria nos dois lados do mundo um poderoso déficit tanto de democracia quanto de socialismo. O segundo após-guerra, portanto, impôs cada vez mais a necessidade de rever alguns dos conceitos implícitos na estratégia das frentes populares, o que Lukács não quis ou não pôde fazer. Com efeito, tornou-se então evidente que a contradição no seio do mundo burguês não se dava apenas entre a herança da democracia radical e a aberta reação fascista ou belicista, mas também — e agora talvez sobretudo — entre esta herança democrática (cada vez mais fragilizada) e a irrupção de novas formas de dominação e de alienação que já se apresentavam (e iriam se apresentar cada vez mais) sob a cobertura de regimes formalmente democráticos.19

4.

Se esse primeiro pressuposto da visão lukacsiana do presente tornou-se problemático pelas razões apontadas, o segundo revelou-se inteiramente falso: Lukács estava firmemente convencido de que a União Soviética dos anos 1930 e seguintes na qual ele julgava já se ter realizado a transição para o socialismo, ou seja, para uma etapa superior da humanidade continuava a ser um farol seguro e não problemático a indicar o caminho do futuro aos pensadores e artistas que se mantivessem fiéis à herança democrática. Ora, ao contrário do que Lukács supunha, a URSS — que, já em 1932, Gramsci dizia estar dominada pela “estatolatria” — estava longe de se apresentar como expressão de uma humanidade emancipada: a regressão stalinista (iniciada no final dos anos 1920) minimizou, terminando mesmo por extinguir, o fascínio que a Revolução de Outubro certamente exerceu por algum tempo sobre os intelectuais e artistas ocidentais, inclusive sobre muitos daqueles que Lukács considerava “vanguardistas”. De ambos os lados do mundo, portanto, cresceram novas formas — mais sofisticadas porém não menos inumanas — de alienação e de manipulação burocrática da vida. A aliança entre democracia e socialismo, nos moldes em que Lukács a imaginava, não se cumpriu, por escassez tanto de democracia como de socialismo.

Cabe ainda lembrar que somente depois de 1956, ou seja, depois das denúncias dos crimes de Stalin no XX Congresso do PCUS, é que Lukács começou a tomar publicamente distância — e, mesmo assim, quase sempre timidamente — em face das formas sociais e políticas dominantes não só na ex-União Soviética, mas também nos demais países do chamado “socialismo real”, surgidos no segundo após-guerra. Em ambos os casos, a projetada aliança de democracia e socialismo era patentemente desmentida pelos fatos. Esta tomada de distância assume talvez seu ponto mais alto num pequeño livro escrito em 1968, no qual, apesar de indiscutíveis avanços, as formulações do pensador húngaro me parecem ainda insuficientes.20 Neste livro, com efeito, Lukács considera que as deformações do “socialismo real” — que são agora claramente identificadas na ausência de democracia, em particular do que ele chama de “democracia da vida cotidiana” — poderiam ser resolvidas com um simplista e utópico “retorno a Lenin”, a cujo pensamento, diga-se de passagem, Lukács se manteve fanaticamente fiel até o fim da vida. Além disso, as duras críticas contidas neste livro não anulam o fato de que Lukács, malgrado tudo, continuou a se identificar até o fim com o “socialismo real”, como se pôde constatar numa enfática afirmação que ele repetiu reiteradamente em muitas de suas últimas entrevistas: “Do meu ponto de vista, mesmo o pior socialismo é preferível ao melhor capitalismo. Estou profundamente convencido disso e vivi todo este tempo com tal convicção”.21

Por tudo isso, parece-me assim no mínimo problemática a afirmação do pensador húngaro, feita em 1957, de que um dos pontos de discriminação entre o realismo crítico e a “vanguarda” seria a diversa atitude destas duas correntes artísticas em face de uma perspectiva socialista. Para Lukács, o realista crítico “não precisa situar-se no terreno do socialismo, mas basta que o socialismo não seja eliminado a priori dos seus interesses de homem e de artista, que o socialismo não se choque com uma previa recusa do escritor; caso contrário, este escritor privar-se-ia de toda visão orientada para o futuro”.22 Quando se refere à vanguarda, ao contrário, Lukács sente-se “no direito de denunciar, como traço real por trás do cinismo e do niilismo, por trás do desespero e da angústia mais mistificados, a recusa do socialismo”.23 Antes de mais nada, caberia perguntar: mas de que socialismo se trata? Se lembrarmos os traços concretos assumidos pelo chamado “socialismo real”, o único efetivamente existente — que se caracterizava, mesmo depois de Stalin, pela presença de novas formas de alienação e de manipulação burocrática, quando não mesmo pela permanência do uso aberto do terrorismo de Estado —, poderíamos objetar a Lukács que a “recusa do socialismo” nem sempre foi injustificada, nem sempre foi expressão de “cinismo” e de “mistificação”.

Certamente, Lukács tem razão quando afirma que uma perspectiva artística realista deve tomar distância em relação ao presente, ou seja, deve considerar que a realidade da alienação e da manipulação não constitui a condição eterna da vida humana. Mas essa distância pôde não apenas assumir a forma de uma recusa do “socialismo realmente existente” (como ocorre, por exemplo, nos primeiros escritos de Soljenitsin), mas também se fundar numa perspectiva crítica não necessariamente baseada numa abertura para o socialismo em geral (como é o caso, entre outras, da notável obra, de William Styron). A contraposição ao mundo alienado do capitalismo atual de certos valores gerados na época revolucionária da burguesia, como é o caso da luta pela realização da autonomia do indivíduo, pôde funcionar como meio de crítica historicista à aniquilação do indivíduo no presente burocratizado e reificado. Caberia mesmo examinar até que ponto uma perspectiva anticapitalista romântica — que Lukács define univocamente como reacionária — pôde servir de base a construçõs artísticas realistas.

Este novo “estado geral do mundo”, para usarmos uma expressão hegeliana, fez com que um certo pessimismo em face do futuro da humanidade não só encontrasse ampia difusão, mas também se tornasse relativamente justificado. Essa nova modalidade de “consciência infeliz”, para continuarmos com a terminologia de Hegel, era uma “figura do espírito” cuja validade relativa não podia ser prevista no itinerário otimista da “fenomenologia” lukacsiana do presente.24 Uma tal consciência pessimista não era apenas, como parecía supor Lukács, expressão da “decadência”, ou seja, mera resposta reacionária ou desesperada em face das tendências históricas predominantes, as quais, na opinião do filósofo húngaro, apontavam necessariamente para o socialismo — e um socialismo que ele identificava com sua caricatura vigente na União Soviética e nos demais países de modelo soviético. Este pessimismo assinalava também, pelo menos em seus melhores representantes, um justo sentimento de indignação em face do endurecimento burocrático promovido pelo novo capitalismo monopolista, inclusive em suas formas pseudodemocráticas, endurecimento diante do qual o “socialismo realmente existente” estava longe de aparecer como uma alternativa válida. Não foram assim poucos os pensadores e artistas progressistas — alguns abertamente de esquerda — que, com justificadas razões, negaram-se a aceitar a idéia de que “o pior socialismo é preferível ao melhor capitalismo”.

Decerto, a relativa justificação desse pessimismo não anula o fato de que ele frequëntemente expressa uma forma de “falsa consciência”, precisamente na medida em que muitas vezes se coagula na aparente insolubilidade das contradições do período e não é capaz de adotar diante délas um distanciamento crítico. Como Lukács viu corretamente, ainda que com alguns excessos, esta “falsa consciência” pessimista é deletéria no caso da reflexão filosófica, cujo objetivo é precisamente a descoberta das mediações e sua conceituação universalizadora.25 Na arte e na literatura, contudo, as coisas podem se dar diversamente, já que estas últimas têm como meta a figuração de uma particularidade concreta.26

É certo que, em muitas criações artísticas do período — como Lukács apontou corretamente —, as contradições sociais foram transpostas numa abstração falsamente “ontológica”, ou seja, em exemplos de uma pretensa insensatez da realidade enquanto tal, recebendo assim uma configuração formal alegórica e, como tal, anti-realista. Contudo, houve também artistas e escritores de vanguarda — o que Lukács freqüentemente ignorou — que, mesmo sem superarem sua “consciência infeliz” e seu pessimismo, foram capazes de plasmar tais contradições em sua figura social-concreta, apresentando a sua aparente insolubilidade como condição contraria à essência do homem e criando assim autênticos símbolos realistas que expressavam os impasses concretos do homem contemporâneo. Com isso, foram capazes de denunciar esteticamente em suas obras os mitos ideológicos (a “segurança”, o “bem-estar”, o “fim dos conflitos”, etc.) através dos quais se tentou e ainda se tenta legitimar as manifestações aparentemente “democráticas” do capitalismo tardio. Este modo simbólico-realista de expressar artísticamente a “consciência infeliz” contemporânea deu lugar a obras particularmente bem realizadas no terreno da lírica, onde a subjetividade como fator estruturante dispensa claramente a figuração da totalidade. Este me parece ser o caso, por exemplo, de poetas como T. S. Eliot e Rilke (que Lukács avaliava de modo negativo), mas também de outros que ele não conheceu, como Fernando Pessoa e Carlos Drummond de Andrade. E essa possibilidade se apresenta também no caso da arte narrativa, particularmente da novela, como veremos ao examinar mais de perto a obra de Franz Kafka.

5.

Durante os anos 1930 e 1940, como vimos, foi possível a Lukács defender, com relativo apoio nos fatos, sua perspectiva “otimista” de uma aliança estratégica entre a democracia (que ele sempre teve a lucidez de distinguir do liberalismo) e o socialismo realmente existente. Contudo, com a derrota militar do nazifascismo e a imediata eclosão da guerra fria (que pôs por térra as ilusões de uma convergência duradoura entre as “democracias” ocidentais e o “socialismo” de tipo soviético), esta perspectiva “otimista” perdeu seus vínculos com os fatos, convertendo-se em nada mais do que generosa utopia.

Malgrado isso, nos anos 1950 e no inicio dos 1960 — e, em particular, em Realismo crítico hoje —, Lukács continuou a insistir na necessidade desta aliança, que se expressaria artísticamente na convergência entre realismo crítico e “realismo socialista”, isto é, na comum oposição de ambos ao vanguardismo.27 Mas, enquanto ñas décadas de 1930 e 1940 a base política e ideológica de tal aliança era a concreta frente antifascista, que crescera a partir da própria realidade, esta base é agora apontada por Lukács no chamado “Movimento dos Partidarios da Paz”, uma iniciativa soviética de pouquíssimo impacto entre os intelectuais e artistas ocidentais.28 Se a proposta de articular a polaridade entre fascismo e antifascismo com aquela entre irracionalismo e defesa da razão, ou até mesmo entre vanguarda e realismo, podia aparecer (ainda que muitas vezes forgadamente, sobretudo no segundo caso) como parcialmente justificada no período situado entre os anos 1920 e 1940,29 tornava-se agora impossível — sem cometer uma clara violência contra os fatos — colocar a vanguarda ao lado dos que defendiam a guerra ou a julgavam inevitável e o realismo ao lado dos defensores da paz. Mas é precisamente isso o que faz Lukács em 1957: “O nosso fenômeno de base, portanto, é essa convergência de dois pares de elementos contrastantes: por um lado, realismo ou anti-realismo (vanguardismo, decadência); por outro, luta pela paz ou guerra.”30 Basta, entre muitos outros, o expressivo exemplo de Picasso — o criador de Guernica — para demonstrar a falsidade desta correlação.

A angústia dissolutora que Lukács percebe corretamente em autores como Beckett não se liga somente ao temor de uma hecatombe bélica considerada como inevitável, mas reflete também o horror e a desorientação de “consciências infelizes” (coaguladas fetichisticamente nesta infelicidade) diante das formas vitáis assumidas tanto pelo capitalismo monopolista como pelo “socialismo” burocrático. Lukács está certo ao indicar que Beckett e muitos outros escritores e artistas do século XX constroem suas obras numa forma alegórica, ou seja, transformando experiências vitais históricamente concretas da alienação capitalista ou “socialista” em “condição eterna do homem”. Mas, quando ele afirma que “o nada de Beckett é um mero jogo com abismos ficticios, aos quais não mais corresponde algo de essencial na realidade histórica […]”,31 provavelmente porque o perigo da guerra teria sido superado gragas à ação dos “partidarios da paz”, certamente não faz jus nem à sua aguda inteligência nem ao seu espírito crítico.

Por outro lado, não deverá ter escapado ao leitor de Realismo crítico hoje a dificuldade em que se encontrava Lukács para apontar exemplos contemporâneos de um grande realismo crítico nos moldes em que ele o concebía na época. Thomas Mann, morto em 1955, aparece como um gigante isolado (incidentalmente são citados como realistas Federico García Lorca, Sinclair Lewis, Alberto Moravia e pouquíssimos outros), enquanto na outra margem “vanguardista” do rio se situava, junto com Kafka, a grande maioria dos escritores realmente significativos do século XX. Subsumindo ao conceito de alegoría a totalidade da chamada “vanguarda”, Lukács impedia-se de realizar a única operação capaz não só de salvar a justeza essencial de sua teoria estética e de sua poética realista, mas também, como conseqüência, de lhe permitir uma compreensão mais adequada da arte e da literatura do século XX. Esta necessária operação, a meu ver, consistiría num reexame da produção da vanguarda à luz das novas experiencias históricas acima aludidas e, desse modo, numa distinção — no seio desta produção — entre os autores que, por um lado, apontavam no sentido de uma nova floração do realismo crítico (evidentemente transformado em suas estruturas formais por causa do novo “estado geral do mundo”) e, por outro, aqueles que, “ontologizando” os impasses da época, adotavam efetivamente a alegoría como base formal e ideológica da configuração estética do real.

6.

Contudo, seria um equívoco reduzir apenas a essa avaliação problemática do presente as razões dos limites contidos em Realismo crítico hoje, limites que o próprio Lukács reconheceu no fim da vida.32 Essa avaliação problemática se traduz também numa questão de método, cuja elucidação poderá ajudar o leitor a avaliar melhor o objetivo prioritário deste livro, que consiste precisamente em analisar Proust e Kafka à luz das teorías estético-filosóficas de Lukács, mas em contradição com muitas de suas observações concretas sobre estes dois autores e em parcial discordancia com sua análise das alternativas da literatura no mundo contemporâneo.

Uma leitura atenta de Realismo crítico hoje revela que nele Lukács se afasta, em aspectos essenciais, do método estético-crítico que ele mesmo formulou em suas obras teóricas da maturidade e que aplicou com sucesso na maioria de suas análises concretas de períodos e autores singulares, em particular dos romancistas do século XIX. Façamos um rápido paralelo entre Realismo crítico hoje e O romance histórico. Nessa última obra, escrita em 1936-37 — ou seja, em plena época das frentes populares e da luta antifascista —, a preocupação essencial de Lukács consiste em mostrar como uma determinada constelação histórica objetiva, gerada pela Revolução Francesa e pelas guerras napoleónicas, obrigou o romance a renovar sua forma, no sentido de introduzir a historicidade concreta como elemento determinante na caracterização literária dos personagens e das situações. Esse movimento de renovação formal, que tem seu inicio em Walter Scott e se explícita no grande realismo do século XIX (que, como diz Lukács, aprendeu a “tratar o presente como história”33), é apresentado como a reposição estética de concretos pressupostos histórico-sociais, um processo que o pensador húngaro analisa tanto pelo ângulo da gênese quanto por aquele do resultado artístico-formal. O romance histórico, sobretudo em seus tres primeiros capítulos — entre os quais se destaca a belíssima digressão sobre o romance e o drama enquanto estruturas formais que refletem constelações histórico-universais da vida humana, digressão que é certamente a maior contribuição de Lukács a uma teoría marxista dos gêneros literários34 —, aparece assim como um paradigma, talvez o mais alto na obra lukacsiana, de aplicação criadora do método histórico-sistemático no terreno da literatura. Trata-se precisamente de um método que articula orgánicamente as determinações histórico-sociais com as determinações estruturais imanentes (no caso, as determinações estéticas) das objetivações humanas. Faz parte deste método a utilização por Lukács, não só em O romance histórico
mas também na maior parte de sua obra, da fecunda categoría engelsiana da “vitória do realismo”:35 essa renovação formal do romance, essa capacidade de narrar o presente como história, entra freqüentemente em contradição com a concepção do mundo explicitamente professada pelos romancistas da época, como ocorre sobretudo no caso dos conservadores Walter Scott e Balzac.

Realismo crítico hoje funda-se numa diferente abordagem metodológica. Em vez de partir de uma análise da sociedade contemporânea — ou seja, das transformações sofridas pelo capitalismo em sua etapa monopolista e da involução “estatolátrica” da União Soviética stalinista e pós-stalinista —, Lukács toma como pressuposto de sua investigação o que ele chama de “concepção do mundo subjacente à vanguarda”.36 Tal concepção, que se identificaria essencialmente com aquela formulada em nível teórico pelas várias filosofias irracionalistas, teria seu núcleo central na afirmação de que o homem é um ser ontologicamente solitário, afirmação que se choca frontalmente com a velha noção aristotélica de que o homem, ao contrário, é um “animal social”. Além disso, esta concepção vanguardista se caracterizaria por asseverar que o mundo real não tem um sentido imanente, que tal sentido só poderia provir de uma transcendência que na verdade não existe e que, portanto, se identificaria com o nada. Num processo abstrativo pouco dialético, já que não se apresenta como etapa inicial de uma elevação ao concreto, Lukács subsume sob essa concepção do mundo a totalidade dos autores de vanguarda, em particular Proust e Kafka, afirmando que suas obras não passariam de ilustrações alegóricas deste “nada”.

Em Realismo crítico hoje, portanto, não se trata de deduzir dialeticamente as características formais das obras analisadas a partir das determinações histórico-sociais do seu hic et nunc, como ocorre em O romance histórico, mas de demonstrar que tais obras são ilustração alegórica de uma visão do mundo anterior e transcendente ao produto artístico. Mais grave ainda: para tal demonstração, Lukács não recorre a uma análise imanente, estético-formal, dos autores de vanguarda, através da qual se evidenciasse que a concepção do mundo imanente às suas obras é efetivamente similar áquela visão irracionalista que eles ilustrariam alegóricamente.37 O que ele chama de “concepção subjacente à vanguarda” é definida em termos filosóficos gerais, de modo apriorístico em relação à obra concreta dos escritores; e, quando a produção de tais autores é chamada a corroborar a suposta adesão deles a tal concepção, Lukács freqüentemente se vale de suas declarações conceituais, expostas em ensaios teóricos, cartas, diarios, etc., ou mesmo, como no caso de T. S. Eliot, a fragmentos de poemas que, enquanto fragmentos, tornam-se puramente descritivos e não são capazes de evidenciar com que pathos emocional o ego lírico do poeta norte-americano vivencia na criação poética os eventos que descreve. Portanto, Lukács não parte dos autores para determinar a concepção do mundo que eles expressam em suas obras específicamente estéticas, mas comega por expor os traços gerais abstratos desta suposta concepção “vanguardista”, e só num segundo momento busca subsumir a eia os autores de que trata, em particular Kafka. É evidente que este procedimento lhe facilita defender sua tese, afirmada repetidas vezes ao longo do livro, segundo a qual os autores de vanguarda apenas ilustrariam alegóricamente esta abstrata concepção irracionalista do mundo.

Procedendo desse modo, Lukács abandona o emprego de seu próprio método histórico-sistemático, ou genético-estético, impedindo-se ao mesmo tempo de utilizar a fecunda categoria da “vitória do realismo”, que seria particularmente operatoria — como veremos — nos casos de Proust e, sobretudo, de Kafka. Se, como Lukács diz em Realismo crítico hoje, é “a imagem do mundo que deve ser representada na obra”, ou se o esforço do artista passa a ser o de “reproduzir adecuadamente, com meios poéticos, essa visão do mundo”,38 então desaparece o conceito básico da poética lukacsiana, ou seja, o de que a arte é representação mimética da realidade histórico-social objetiva e não expressão direta da visão do mundo do artista. Em conseqüência, desaparece a possibilidade do cotejo entre a objetivação estética e o mundo histórico-social que lhe serve de pressuposto, cotejo que está na base do mencionado conceito de “vitória do realismo”.

O exemplo maior deste equívoco metodológico transparece precisamente na análise de Kafka. Se, em vez de subsumir o autor tcheco a uma concepção do mundo irracionalista, Lukács tivesse buscado efetuar uma análise imanente de sua obra, certamente veria que a “imagem da sociedade capitalista com cor local austríaca”, que para ele é apenas o substrato inessencial de uma fuga na transcendência alegórica, contém na verdade uma reposição estética das conseqüências humanas mais profundas das novas modalidades de alienação geradas pelo capitalismo em sua fase monopolista.39 O método que o filósofo húngaro utiliza em Realismo crítico hoje está mais próximo do método de Lucien Goldmann (que vê a obra de arte como expressão direta de uma “visão do mundo”)40 do que do método teorizado e aplicado em outros inúmeros casos pelo próprio Lukács (o que concebe a arte como representação mimético-evocativa da realidade). A adoção deste “novo” método prejudica boa parte das análises contidas em Realismo crítico hoje, impedindo Lukács até mesmo de utilizar com maior profundidade (como viria a fazê-lo na Estética de 1963) o conceito benjaminiano de alegoria.

7.

O emprego deste “novo” método — ou, se preferirmos, o temporário abandono do autêntico método histórico-sistemático por ele mesmo elaborado — não permitiu que Lukács aplicasse adequadamente à literatura contemporânea uma de suas mais brilhantes teses, ou seja, a de que “a obra de arte autêntica (e somente essa pôde se tornar a base de uma fecunda universalização histórica ou estética) satisfaz as leis estéticas apenas na medida em que, ao mesmo tempo, as amplia e aprofunda”.41 De que modo, na verdade, se daria essa ampliação e esse aprofundamento na literatura do século XX? Durante os anos 1930 e 1940, Lukács subestimou esse problema, parecendo supor que o realismo de nosso tempo — pelo menos o realismo crítico ocidental — seria uma simples continuação formal do realismo do século XIX. Uma primeira tentativa de resposta, todavia, aparece já nos anos 1960, quando o pensador húngaro formula a idéia de que o realismo crítico é compatível com o uso de técnicas criadas pela vanguarda. Referindo-se a seus ensaios da década de 1930, num prefacio escrito em 1965 para uma reedição dos mesmos, Lukács comentou: “Naquele tempo, quando do primeiro choque (de certo modo) com o modernismo, a prioridade da inovação técnica foi radicalmente negada. Todavia, depois se tornou cada vez mais claro para mim, ao analisar artistas e obras particulares, que — embora essa inovação técnica enquanto principio de julgamento estético merecesse certamente uma total repulsa — certas inovações técnicas podiam se converter, enquanto reflexos de relações humanas realmente novas e independentemente das teorias e intenções de seus inventores e propagandistas, em elementos de figurações verdadeiramente realistas.”42

Graças a essa nova formulação, Lukács pôde não apenas avaliar melhor as produções da maturidade de Thomas Mann, mas também apresentar depois de 1957, ou seja, depois da redação de Realismo crítico hoje, sobretudo em muitas das numerosas entrevistas que concedeu no final de sua vida, uma aitude bem mais aberta diante da produção literária de autores mais recentes, como Jorge Semprun, Heinrich Böll, William Styron, Rolf Hochhutt, etc. Além disso, em algumas páginas acrescentadas em 1963 à edição em inglês de Realismo crítico hoje, Lukács apresenta também como autores realistas não só os norte-americanos Thomas Wolfe e Eugene O’Neill, mas também Elsa Morante e Bertolt Brecht.43 Sobre este último, aliás, cabe lembrar que, em 1945, Lukács ainda o considerava como um autor que “reduz a desejada renovação social da literatura a um experimento formal, certamente interessante e inteligente”; já em 1963, depois de conhecer as obras brechtianas mais tardias, em particular Os fuzis da Senhora Carrar e A vida de Galileu, ele afirma enfaticamente que “o Brecht da maturidade, superando suas anteriores teorias unilaterais [o ’efeito de distanciamento’], tornou-se o maior dramaturgo realista de sua época”.44

Mas esta idéia de que técnicas de vanguarda podem servir ao realismo era insuficiente, precisamente na medida em que não passava de uma solução de compromisso. Um esboço de resposta orgánica viria à luz somente em 1969, no belo ensaio que Lukács, dois anos antes da sua morte, dedicou aos primeiros romances de Alexander Soljenitsin, O primeiro círculo e O pavilhão dos cancerosos.45 Com um esforço teórico digno do maior respeito (Lukács atingira os 84 anos e estava empenhado, ao mesmo tempo, em resolver os complexos problemas teóricos surgidos quando da redação de sua grande obra da velhice, a Ontologia do ser social),46 o filósofo húngaro esboça, na primeira parte desse ensaio, as bases para uma reformulação de sua teoria da literatura contemporânea.

Esse ensaio de 1969 assinala, antes de mais nada, um retorno ao método histórico-sistemático que, como vimos, está na base da poética do realismo elaborada pelo Lukács da maturidade. Em vez de ver na narrativa realista de nosso tempo uma simples continuação formal das velhas tradições do século XIX (ainda que “atualizadas” pelo emprego de técnicas de vanguarda), Lukács indica o modo pelo qual os novos pressupostos sociais e ideológicos do capitalismo tardio conduziram a uma modificação formal da estrutura romanesca, cujo centro não mais seria, como no romance tradicional, a figuração de uma “totalidade de objetos” — segundo a formulação hegeliana recolhida por Lukács —,47 mas a de uma “totalidade de reações”. Lukács observa que “a inovação reside no fato de que a unidade de lugar torna-se o fundamento imediato da composição”, graças à criação de uma especie de “teatro social” que agrupa homens diversos e os obriga a definições que eles não tomariam normalmente em sua vida cotidiana. E o filósofo húngaro continua: “Esse ’teatro’ aparece, portanto, como o desencadeador efetivo e imediato de problemas ideológicos existentes por toda parte em estado latente, mas dos quais só se toma consciência, em sua totalidade contraditória, precisamente neste lugar. […] Desapareceu a necessidade de uma fábula épica homogénea. […] Porém, malgrado a ausência de fábula homogénea, e mesmo em conseqüência dessa ausência, reina uma excepcional intensidade de emoção épica, uma dramática interna. […] Relações épicas coerentes podem nascer de cenas particulares de natureza dramática, mas desprovidas aparentemente de laços internos entre si. E essas relações podem igualmente se ordenar numa totalidade de reações a um vasto complexo de problemas de natureza épica”.48

Lukács não viveu o suficiente para extrair todas as conseqüências desta sua nova formulação, o que teria implicado certamente a reavaliação de boa parte dos seus juízos sobre a literatura do século XX. De qualquer modo, tal reavaliação ocorreu efetivamente em alguns casos concretos, mesmo diante de autores que Lukács já avaliara anteriormente de modo positivo. Neste sentido, dois exemplos são particularmente significativos. Um autor como Thomas Mann, por exemplo, não mais lhe aparece — pelo menos a partir de A montanha mágica — como um continuador da narrativa tradicional, mas, ao contrário, como iniciador da nova forma do romance centrada na “totalidade de reações”; Lukács não hesita mesmo em chamá-lo de “inovador formal”.49 Também o Poema pedagógico do soviético Antón Makarenko deixa de ser visto como precursor da “epopéia socialista” (numa época em que Lukács ainda enxergava “elementos de comunismo” na URSS dos anos 1920)50 e passa a ser tratado como um romance, mas também construido tendo como eixo a “totalidade de reações”. Por outro lado, muitas productes literárias até então condenadas como vanguardistas aparecem agora como exemplos realistas da nova forma romanesca (o caso mais vistoso, mencionado pelo proprio Lukács, é o do romance O homem sem qualidades de Robert Musil)51. E, além disso, a descoberta desse novo tipo de figuração romanesca permite a Lukács explicar de modo mais adequado alguns autores que ele antes considerava como híbridos (ou seja, como realistas clássicos que empregavam técnicas de vanguarda); é o caso, sobretudo, de Heinrich Böll. Esse texto tardío de Lukács, apesar de seu caráter mais indicativo do que sistemático, abre um vasto campo para novas pesquisas e, antes de mais nada, para uma reavaliação das próprias posições lukacsianas diante da literatura de nosso tempo. Não posso fazer aqui mais do que chamar a atenção para a sua importância.

As análises de Proust e de Kafka que empreenderei em seguida orientam-se em duas direções convergentes: por um lado, visam a avaliar estes autores à luz do método histórico-sistemático elaborado por Lukács, mas abandonado por ele em Realismo crítico hoje; e, por outro, como conseqüência, tentam dar uma forma relativamente sistemática às indicações fornecidas pelo filósofo em seus últimos anos de vida, não só em referência direta a produção destes dois autores, mas também no que diz respeito aos problemas histórico-sistemáticos da literatura do século XX como um todo. Muitas de minhas formulações — e, em particular, a que considera Kafka um precursor novelístico da nova forma de romance centrada na “totalidade de reações” e não mais na “totalidade dos objetos” — não se encontram nos textos de Lukács, nem mesmo depois do que eu considero como suas últimas “autocríticas” no campo literário.52 Mas estou convencido de que, em última instância, minha pesquisa pode ser considerada “ortodoxamente” lukacsiana, se considerarmos o conceito de “ortodoxia” precisamente no sentido que o próprio Lukács lhe atribuiu, ou seja, no sentido da fidelidade ao método e não necessariamente às afirmações particulares concretas de um autor.53 Creio que esse fato — o desafio de tentar compreender à luz de Lukács dois autores que o próprio Lukács não compreendeu adequadamente — justifica, pelo menos subjetivamente, que eu acrescente um novo título à já ciclópica bibliografia sobre Proust e Kafka.

1 J. Rivière, “Marcel Proust et la tradition classique” [1920], in Vários autores, Les critiques de notre temps et Proust, Paris, Garnier, 1971, p. 25-31.

2Theodor W. Adorno, “Anotações sobre Kafka”, in Id., Prismas. Crítica cultural e sociedade, São Paulo, Ática, 2001, p. 239.

3W. Benjamin, “Franz Kafka. A propósito do décimo aniversario de sua morte”, in Id., Obras escolhidas, São Paulo, Brasiliense, vol. 1, 1985, p. 152.

4G. Lukács, Estetica, Turim, Einaudi, 1970, 2 vols., p. 745-747 e 749. A edição alemã original é de 1963.

5G. Lukács, La distruzione della ragione, Turim, Einaudi, 1959 (ed. alemã original, 1953), p. 24; Id., Realismo crítico hoje, Brasília, Coordenada, 1969, p. 63. Neste segundo livro, partindo de uma citação de Benjamin, Lukács chega mesmo a dizer que Proust radicalizou ainda mais o subjetivismo irracionalista de Bergson: “Mas, enquanto em Bergson, sob a abstração filosófica, existe a aparência — enganadora — de uma totalidade cósmica, em Proust, ao contrário […], esta concepção do tempo é levada às suas extremas conseqüências, de modo que não resta nenhum vestígio de objetividade”.

6Stephen Spender, “Lukács: o homem sem idade”, in Cadernos brasileiros, ano VII, n° 1, 1965, p. 77-78. Trata-se da tradução para o português de “With Lukács in Budapest”, publicada em Encounter, dezembro de 1964.

7G. Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 133. No prefácio a este livro, datado de abril de 1957, Lukács diz que comegou a redigilo no “outono de 1955”. Cabe lembrar que também Bertolt Brecht expressou um juízo negativo sobre Kafka. Embora tenha apontado corretamente a figuração antecipadora do “Estado-formigueiro” na obra kafkiana, Brecht afirma — em conversa com Walter Benjamin, em 1934 — que “ele [Kafka] não encontrou solução e não despertou do seu pesadelo”, que era “um espírito impreciso, quimérico” e que, portanto, devia “ser deixado de lado” (cf. W Benjamin, “Entretiens avec Brecht”, in Id., Essais sur Bertolt Brecht, Paris, Maspero, 1969, p. 132 e 135).

8G. Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 73.

9Lukács voltaria a utilizar amplamente as teses de Benjamin, formuladas em Origem do drama barroco alemão (São Paulo, Brasiliense, 1984 [ed. original, 1928], p. 181 e ss.), no belo capítulo sobre “Alegoria e símbolo” da sua Estetica, cit., vol. 2, p. 1473-1516. Cabe observar, porém, que Kafka não é jamais citado nesse capítulo seminal, embora boa parte do mesmo trate da arte contemporânea. Pode-se ainda lembrar que Kafka tampouco aparece na obra que Lukács dedicou à história da literatura alemã (Breve storia della letteratura tedesca, Turim, Einaudi, 1956 [ed. original, 1945]), uma ausência que não pôde ser explicada pelo fato de Kafka não ser alemão, já que Lukács trata amplamente neste livro de um conterráneo de Kafka, o poeta tcheco — mas, como Kafka, de expressão alemã — Rainer Maria Rilke. Isso parece indicar que Lukács ainda não havia tomado conhecimento da obra de Kafka em 1945. Ao que eu saiba, a primeira menção do filósofo húngaro ao narrador tcheco aparece em La distruzione della ragione (cit., p. 792), no “epílogo” datado de Janeiro de 1953; neste epílogo — ainda que afirme não estar tratando do “valor estético” das obras, mas analisando-as apenas como “índice das correntes sociais” —, Lukács se permite o seguinte despropósito: “Hoje, as manifestações literárias paralelas à economia da apologética direta [do capitalismo] e à filosofia semântica são os representantes do desespero niilista, os Kafka ou os Camus”.

10Para tais juízos, cf. “Kafka na obra do último Lukács”, infra, Apêndices, 2, p. 215-219.

11 Cf., por exemplo, a “Introdução” que escrevi para a edição brasileira de Realismo crítico hoje, cit., p. 7-20.

12Também não concordo com a posição dos que subestimam a importância da categoria do realismo na análise das obras de arte, em particular daquela de Kafka. Uma posição deste tipo aparece em Michael Löwy, Franz Kafka: rêveur insoumis, Paris, Stock, 2004, onde há um capítulo intitulado ironicamente “Digression anecdotique: Kafka était-il réaliste?” (p. 149-159). Trata-se certamente de uma anedota (que Löwy repete) a atribuição a Lukács, quando esteve preso num castelo romeno após o esmagamento da rebelião húngara de 1956, da afirmação de que ele agora estaria convencido de que “Kafka era um realista”. É evidente que a questão do realismo em Kafka (e na arte em geral) não se esgota em anedotas deste tipo.

13Cf., em particular, G. Lukács, Scritti politici giovanili 1919-1928, Bari, Laterza, 1972, p. 3-174; là.,”Kommunismus”1920-1921, Pádua, Marsilio, 1972; Id., História e consciência de classe [1923], São Paulo, Martins Fontes, 2004; Id., Lenin. Unità e coerenza del suo pensiero [1924], Turim, Einaudi, 1970. Para um balanço autocrítico deste período, cf. Id., “Prefácio” [1967] a História e consciência de classe, cit., p. 1-50.

14Trata-se do informe que Lukács apresentou, em 1928, a um congresso do clandestino PC húngaro, no quai antecipava idéias que, embora condenadas na época por seu partido e pela Internacional Comunista, seriam mais tarde retomadas por esta última na estratégia da “frente popular” (cf. G. Lukács, “Teses de Blum”, in Temas de ciências humanas, São Paulo, n° 7, 1980, p. 19-30).

15G. Lukács, Le roman historique [1936-1937], Paris, Payot, 1965; e Id., Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica [1938], Turim, Einaudi, 1960. Os principais ensaios de Lukács sobre o realismo do século XIX estão reunidos em Saggi sul realismo [1934-1943], Turim, Einaudi, 1950, mas também em Goethe et son époque [1934-1940], Paris, Nagel, 1949, e em Realisti tedeschi del XIX secolo [1935-1940], Milão, Feltrinelli, 1963.

16Entre os muitos textos que buscam mostrar as divergências entre a obra lukacsiana e o stalinismo, cf. sobretudo Nicolas Tertulian, “G. Lukács e o stalinismo”, in Praxis, Belo Horizonte, n° 2, setembro de 1994, p. 71-108.

17Não é aqui o local para tratar do assunto, mas me parece indiscutível que Gramsci foi além de Lukács na compreensão das novas tarefas teórico-políticas que se colocavam ao marxismo em conseqüência deste refluxo da onda revolucionária no Ocidente e da involução “estatolátrica” que o pensador italiano apontou na URSS staliniana. É nesse contexto que se inscreve a renovaçâo gramsciana da teoria marxista de Estado e revolução, uma renovação que inutilmente procuraríamos na obra de Lukács. Sobre isso, cf., entre outros, C. N. Coutinho, Gramsci. Um estudo sobre seu pensamento político, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, 2003, sobretudo p. 119-164.

18Cf. G. Lukács, in O espírito europeu, Encontros Internacionais de Genebra [1946], Lisboa, Europa-América, 1962, p. 178. O texto desta conferência foi depois publicado com o título “A visão do mundo aristocrática e democrática” (cf., por exemplo, Lukács Gyòrgy, “Arisztrokratikus es Demokratikus Világnezet”, in Id., A polgári filozófia válsága, Budapeste, Hungária, s.d. [mas 1947], p. 107-128). Nesse Encontró, Lukács discute, entre outros, com Julien Benda, Georges Bernanos, Stephen Spender, Karl Jaspers e Maurice Merleau-Ponty.

19Também aqui Gramsci viu mais longe do que Lukács: em seus apontamentos carcerários, o revolucionario italiano previu — já no inicio dos anos 1930 — que o “americanismo” seria um novo modo de ser do capitalismo, dotado de uma expansividade e de uma capacidade de universalização bem maiores do que aquelas do fascismo (cf. A. Gramsci, Cadernos do carcere, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, vol. 4, 2001, p. 217-321). Trata-se de uma previsão que o mundo resultante da Segunda Guerra só fez confirmar.

20G. Lukács, L’uomo e la democrazia, Roma, Lucarini, 1987. Embora escrito em 1968, este pequeño livro — por imposição do PC húngaro, ao qual Lukács (depois de ter sido dele expulso logo após os eventos húngaros de 1956) retornara um ano antes — só foi publicado cerca de quinze anos depois da morte do filósofo, com o título Demokratisierung heute und morgen [Democratização hoje e amanhã], Budapeste, 1985.

21Cf., por exemplo, “En casa con György Lukács” [1968], in Id., Testamento político y otros escritos sobre politica y filosofia, Buenos Aires, Herramienta, 2003, p. 121. Os impasses e aporias que esta identificação entre socialismo e “socialismo realmente existente” (ainda que considerado “o pior socialismo”) provocou no pensamento político e mesmo teórico de Lukács, inclusive em seus escritos posteriores a 1956, foram quase sempre convincentemente analisados pelo seu ex-discípulo István Mészáros, Para além do capital, São Paulo-Campinas, Boitempo-Editora da Unicamp, 2002, sobretudo p. 469-514.

22G. Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 97.

23Ibid., p. 102-103.

24Ainda que com unilateralismo oposto, este caráter relativamente justificado do pessimismo foi visto e analisado pelos integrantes da Escola de Frankfurt em sua fase “clássica” (Horkheimer, Adorno, Benjamin, Marcuse, etc.). O problema é que alguns deles, sobretudo os dois primeiros, terminaram por transformar este pessimismo relativamente justificado num imobilismo resignado diante do que chamavam de “mundo administrado”. Em outras palavras: não souberam seguir a recomendação de Gramsci no sentido de articular “pessimismo da inteligência” com “otimismo da vontade”.

25Cf. G. Lukács, La distruzione della ragione, cit., mas também Id., Existencialismo ou marxismo? [1948], São Paulo, Ciências Humanas, 1979.

26É esta, precisamente, a lição lukacsiana. Cf., por exemplo, G. Lukács, Introdução a uma estética marxista. Sobre a categoria da particularidade, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, 1970 [ed. italiana original, 1957]; e Id., Estetica, cit., vol. 2, sobretudo p. 984-1052.

27Embora criticasse duramente o esquematismo vigente em boa parte da literatura soviética, Lukács continuou a crer até o fim na possibilidade de um “realismo socialista”, cujas maiores expressões seriam, segundo ele, Gorki, Cholokhov e Makarenko (cf. Realismo critíco hoje, cit., p. 135-200).

28Sobre a importância atribuida pelo filósofo húngaro ao “Movimento dos Partidarios da Paz”, cf. G. Lukács, La distruzione della ragione, cit., p. 772 e ss.; e Id., Realismo crítico hoje, cit., p. 27-31. Para a permanência de ilusões sobre uma aliança entre “democracias” ocidentais e socialismo soviético, cf. — entre muitos outros textos e entrevistas do inicio dos anos 1960 — G. Lukács, “Problemi della coesistenza culturale” [1964], in Id., Marxismo e politica culturale, Turim, Einaudi, 1968, p. 163-186.

29Não se deve esquecer, por exemplo, a clara adesão dos principais futuristas italianos ao fascismo, as simpatias de alguns expressionistas alemães e de Ezra Pound pelo nazismo ou os vínculos entre o surrealista Salvador Dalí e o franquismo. No Brasil, os modernistas Menotti del Picchia e Plinio Salgado estiveram entre os criadores do integralismo, a versão tupiniquim do fascismo. Mas são pelo menos tão expressivos quanto estes os casos em que vanguardistas no terreno da arte aderiram a posições progressistas e mesmo revolucionárias no terreno da política: basta evocar aqui os casos de Maiakovski, dos surrealistas franceses, do primeiro Brecht ou de Pablo Picasso. E, também neste caso, cabe lembrar os brasileiros Mário e Oswald de Andrade.

30G. Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 30.

31Cf. G. Lukács, Solschenitzyn, Neuwied e Berlim, Luchterhand, 1970, p. 27. Este pequeño livro conheceu uma imediata edição francesa (Soljénitsine, París, Gallimard, 1970).

32Cf. “Lukács a Coutinho”, 26 de fevereiro de 1968, infra, p. 211.

33G. Lukács, Le román historique, cit., p. 106.

34Ibid., p. 96-189.

35“Quanto mais as opiniões do autor permanecerem ocultas, tanto melhor para a obra de arte. O realismo a que me refiro deve se manifestar a despeito das opiniões dos autores. Permita-me dar um exemplo, o de Balzac, que eu considero um grande mestre do realismo, maior do que todos os Zolas passados, presentes e futuros […]. Balzac era politicamente legitimista; suas simpatias estão com a classe [a aristocracia] destinada à extinção […]. Que Balzac tenha sido obrigado a ir de encontró às suas próprias simpatias de classe e a seus preconceitos políticos; que ele tenha visto e necessidade do colapso dos aristocratas com os quais simpatizava e os tenha descrito como gente que não merecia um destino melhor; que ele tenha visto os verdadeiros homens do futuro no único lugar em que, naquela época, eles podiam ser vistos — eis o que considero uma das maiores vitórias do realismo e uma das maiores realizações do velho Balzac” (Engels a M. Harkness, abril de 1888, in K. Marx e F. Engels, Sobre el arte, Buenos Aires, Estudio, 1967, p. 41-42).

36G. Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 33-75.

37Uma análise desse tipo, a meu ver, poderia confirmar a natureza alegórica e, como tal, anti-realista de alguns significativos autores de vanguarda, como, por exemplo, Beckett, Camus e o Joyce do Ulisses e do Finnegans Wake. No caso de Joyce, valeria um outro discurso para seu primeiro período, em particular para Dublinenses e O retrato do artista quando jovem.

38Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 36. É certo que Lukács insiste em que seu interesse volta-se para a visão imanente à obra; mas o desdobramento da sua argumentação, como se pode facilmente comprovar (cf. p. 37, 44, 45, etc.), não confirma essa cautela metodológica.

39Lukács parece ter percebido isso em 1963, quando faz um paralelo entre Kafka e Swift. Cf. “Kafka na obra do último Lukács”, infra, Apêndices, 2, p. 218.

40Cf., em particular, L. Goldmann, Sociologia do romance, Rio de Janeiro, Paz e Terra, 1967, p. 7-28.

41Lukács, Estetica, cit., vol. 1, p. 579. O grifo é meu.

42G. Lukács, Marxismo e teoria da literatura, Rio de Janeiro, Civilizacao Brasileira, 1968, p. 5.

43Cf. G. Lukács, Realism in Our Time, Nova York, Harper Torshbook, 1971, p. 83-89, que reproduz Id., The Meaning of Contemporary Realism, Londres, Merlin, 1963. Estas páginas estão ausentes ñas edições italiana (Il significato attuale del realismo critico, Turim, Einaudi, 1957) e alemã (Wider den missverstandenen Realismuis [Contra o realismo mal compreendido], Hamburgo, Claassen, 1958), bem como na edição francesa (La signification présente du réalisme critique, Paris, Gallimard, 1960) que serviu de base para a edição brasileira que venho citando.

44Cf., respectivamente, G. Lukács, Breve storia della letteratura tedesca, cit., p. 212; e Id., Realism in Our Time, cit., p. 89.

45Cf. G. Lukács, “Solshenitzyns Romane”, in Id., Solschenitzyn, cit., p. 31-85.

46Alguns desses problemas — que levaram Lukács, em 1969, a abandonar o manuscrito já concluido e a empreender a redação de um novo texto — são historiados por Alberto Scarponi e Nicolas Tertulian em seus prefácios às edições italianas do primeiro e do segundo manuscritos (cf., respectivamente, G. Lukács, Per l’ontologia dell’essere sociale, Roma, Riuniti, 1976, vol. 1, p. VII-XV; e Id., Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, Milão, Guerrini, 1990, p. IX-XXVII). É particularmente interessante o fato de que Lukács tenha chegado a pensar em escrever “O Capital do presente”, projeto que abandonou por causa da idade. Mas foi precisamente a descoberta, ainda que parcial e fragmentaria, das formas tardías do capitalismo monopolista (que, a partir da segunda metade dos anos 1960, ele designa repetidas vezes com o termo “capitalismo manipulatório”) que permitiu a Lukács empreender as “revisões” de sua concepção geral do marxismo (com a compreensão da necessidade de fundá-lo numa ontologia do ser social, em contraste com o irracionalismo e o epistemologismo neopositivista) e — o que aqui nos interessa mais de perto — de sua visão da literatura do século XX. Contudo, mesmo neste periodo derradeiro, permanecem limites na concepção lukacsiana do marxismo, como tentei mostrar sumariamente em C. N. Coutinho, “Lukács, a ontologia e a política”, in Id., Marxismo e política, São Paulo, Cortez, 1996, p. 143-160; e em L. Konder e C. N. Coutinho, “Presença de Lukács no Brasil”, in M. O. Pinassi e S. Lessa (orgs.), Lukács e a atualidade do marxismo, São Paulo, Boitempo, 2002, p. 157-183.

47G. W. F. Hegel, Estética, Lisboa, Guimarães, vol. VII: Poesia, 1964, p. 182 e ss. Quanto à apropriação crítica deste conceito hegeliano por parte de Lukács, cf. não só a segunda parte de Le roman historique, cit., mas também os ensaios “Rapport sur le roman” e “Le roman”, escritos também nos anos 1930, recolhidos em G. Lukács, Écrits de Moscou, Paris, Editions Sociales, 1974, p. 63-78 e 79-140.

48 G. Lukács, Solschenitzyn, cit., p. 34-35.

49Ibid.

50G. Lukács, “Makarenko, Il poema pedagogico” [1951], in Id., La letteratura sovietica, Roma, Riuniti, 1955, p. 169-233.

51G. Lukács, Solschenitzyn, cit., p. 36.

52Lukács, por exemplo, ainda que concorde com a importância do elemento novelístico na obra de Kafka, mencionando explícitamente A metamorfose, é contrário à avaliação positiva de O processo, que ele não considera uma novela. Cf. “Lukács a Coutinho”, 26 de fevereiro de 1968, infra, p. 211-212.

53G. Lukács, História e consciência de classe, cit., p. 64.

Lukacs sui problemi del realismo

06 domenica Mar 2016

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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Balzac, condizione umana, Croce, Goethe, Hölderlin, realismo, Serge, situazione


di Rosario Assunto

«Tempo Presente»,  I, n. 2 – maggio 1956

Una conferenza di Lukács sui problemi del realismo nella letteratura contempora­nea. Aula assai grande, gremita di ascoltatori; il pubblico traboccava dalla porta, si accalcava nei vani delle finestre; esaurite le sedie, quelli che non si rassegnavano a rimanere in piedi si contendevano due tavoli disposti in fondo alla sala. Dobbiamo chiederci che cosa cercas­sero, che cosa si aspettassero gli ascoltatori professionalmente e ideologicamente disponibili, che prestarono attenzione per due ore filate. Non credo che il nome di Lukács fosse, di per sé solo, un richiamo così potente, e nemmeno ritengo che la parola realismo basti da sola a spiegare un interesse così diffuso.

In termini opinabilissimi Lukács parlava di letteratura decadente e letteratura realista, e con­cluse indicando le condizioni alle quali deve sottostare uno scrittore che oggi voglia fare let­teratura realista, non senza collegare tutte le sue proposizioni a riferimenti politici, alla guer­ra, alla pace, alla lotta per la pace, al mondo borghese e al mondo socialista. Non cera molto di nuovo, per chi già conosceva, in tutto o in parte, l’opera di Lukács, le sue pagine felici e le sue pagine infelici (infelicissime fra tutte, forse, quelle sul Werther di Goethe, il saggio su Hölderlin…); e non possiamo dire che, ad ascoltarlo, la sua immagine si modificasse ri­spetto al ritratto che di lui traccia Victor Serge nelle Memorie di un rivoluzionario. Più di una volta, soprattutto verso la fine, la sua maniera di argomentare faceva tornare alla mente quel professore di filosofia del quale racconta, mi pare, il Croce, che usava dedurre i romanzi di Balzac a colpi di tesi antitesi e sintesi. Ma il pubblico era numeroso e prestava attenzione.

Se i ragionamenti di Lukács erano, e rimangono, opinabili, non meno opinabile è la nozione di realismo, che tanto inchiostro ha fatto versare. Letteratura della realtà, realtà della let­teratura? E quale realtà, quale letteratura? So­no questioni estremamente complesse, che ad affrontarle si rischia di perdersi dentro una spugna. Ma nessuno può negare che siano questioni importanti, se tanta gente accorre ad una conferenza nella quale esse vengono affrontate. Importanti, soprattutto, nella misura in cui l’in­teresse che esse suscitano va oltre il tema ri­stretto di realismo o no e investe quello dei rapporti fra letteratura e condizione umana.

La letteratura come interpretazione della condizione umana, uno sforzo dì capire e di aiutare a capire la condizione umana; e di capire aiutando a modificare. Uno sforzo di intervenire nella condizione che è sempre condizione situata, e attraverso la comprensione aiutarla a situarsi diversamente. Questo chiedono oggi i lettori, e non è improbabile che l’avvertenza più o meno esplicita di questa esigenza abbia condotto tanta gente, pubblico autentico, ad accalcarsi entro la sala in cui Lukács parlò così a lungo, il cinque maggio millenovecentociquantasei, a Roma. Non è azzardato supporre che se lo stesso oratore, o un altro ancora più noto di lui, avesse parlato intorno al bello e al brutto della letteratura contemporanea, proponendo un ulteriore criterio di antologizzazione, gli ascoltatori sarebbero stati un decimo di quelli
che erano. Lukács parlava da filosofo e da uomo interessato alla situazione, e come tale decifrava, a suo modo, la letteratura contemporanea. Per questo la gente era andata a sentirlo, e sopportava anche le soperchierie da lui usate agli autori e ai libri, il suo modo di tirare il collo a uno e di allungare le gambe a un altro, per farli corrispondere alle sue misure di realismo e di decadentismo.

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