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György Lukács

~ il primo blog in progress dedicato a Lukács

György Lukács

Archivi tag: rispecchiamento

L’inafferabile Lukács

28 venerdì Feb 2020

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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lavoro, marxismo, ontologia, rispecchiamento, teoria della conoscenza, teoria della storia


di Stefano Petrucciani

«il manifesto», 22 ottobre 1982


L’interrogativo Lukács: hanno visto giusto Ferruccio Masini e Mario Valente nell’intitolare così la parte monografica dell’ultimo fascicolo della rivista Metaphorein, che raccoglie molti contributi utili a ripensare, a più di dieci anni dalla sua morte, l’opera del grande pensatore ungherese. Di Lukács ancora oggi, sembra non si possa parlare che appunto in termini di interrogativo, di problema; sarà per la statura gigantesca del personaggio, che mal si presta ad una rapida digestione storiografica; sarà per gli usi molteplici che ne sono stati fatti, nelle nostre instabili stagioni culturali (vedi il saggio di Valente su Lukács e l’ideologia italiana); sarà, da ultimo, per la ricchezza di articolazioni, di veri e propri rovesciamenti che segnano, in modo singolarissimo, le tappe decisive del suo pensiero vissuto (così s’intitola appunto l’autobiografia di questo grande marxista). Continua a leggere →

Le basi ontologiche del pensiero e dell’attività dell’uomo

27 sabato Ott 2018

Posted by nemo in I testi

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anelli della catena, arte, categorie, causalità, coscienza, domanda, dover essere, essere sociale, Evoluzione, genere, ideologia, individualità, lavoro, libertà, materialismo, memoria, necessità, ontologia, personalità, prassi, rispecchiamento, risposta, salto, scelte alternative, socializzazione, società, teleologia, valore


György Lukács

La conferenza sulle Basi ontologiche del pensiero e dell’attività dell’uomo fu redatta nei primi mesi del 1968 e doveva essere letta al congresso mondiale di filosofia che si sarebbe tenuto a Vienna nel settembre di quell’anno. Tuttavia, non avendo poi Lukács partecipato a quel congresso, il testo della conferenza fu reso pubblico nel 1969 sia in traduzione ungherese, sia nella stesura originale tedesca. Quanto al contenuto, la conferenza si fonda sulla cosiddetta «grande» Ontologia, il cui manoscritto era allora praticamente già terminato.

Originariamente apparso in italiano in L’uomo e la rivoluzione, Editori Riuniti, Roma 1973, ora Edizioni Punto Rosso, Milano 2013.


I. Chi voglia illustrare in una conferenza, anche soltanto entro certi limiti, almeno i principi più generali di questo complesso problematico, si trova di fronte a una duplice difficoltà. Da un lato bisognerebbe dare un panorama critico dello stato attuale della discussione su tale problema, dall’altro occorrerebbe porre in luce l’edificio concettuale di una nuova ontologia, perlomeno nella sua struttura fondamentale. Per essere in qualche modo esaurienti almeno sulla seconda questione, che è in concreto quella di fondo, dovremo rinunciare a soffermarci, per quanto brevemente, sulla prima. Continua a leggere →

Lukács

06 domenica Mar 2016

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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Adorno, antistalinismo, Bloch, essenza-fenomeno, Estetica, genere, Goldman, Hegel, individuo-genere, L'anima e le forme, Mannheim, Marx, Mimesis, particolarità, rispecchiamento, stalinismo, Storia e coscienza di classe, Teoria del romanzo, vita quotidiana


di Agnes Heller

da Morale e rivoluzione, Savelli, Milano, 1979.

Veniamo ora ai tuoi rapporti intellettuali col tuo maestro György Lukács. Una discussa opera lukacsiana fortemente presente nei tuoi libri (sia in quello sulla vita quotidiana che nell’Uomo del Rinascimento) è l’E­stetica del 1963. Come giudichi, non solo sul piano del tuo debito intellettuale verso il maestro, ma anche sul piano storico-critico, quest’opera matura di Lukács, che non ha trovato molta comprensione in occidente?

Fin dal 1956, nelle discussioni del Circolo Petöfi sulla filosofia, era stata lanciata da parola d’ordine di affrontare i cosiddetti «problemi fondamentali della filosofia» come via per la rifondazione del marxismo. Proprio in un’epoca in cui la prassi politica era tutto per noi abbiamo sentito fortemente la mancanza di una base teorica, la «cecità» della nostra azione. Come ho già detto, le esperienze della «dialettica negativa» della rivoluzione ungherese non hanno fatto che accen­tuare questa consapevolezza.

L’Estetica fu per noi una rivelazione simile a quel­la vissuta dal giovane Lukács nel suo incontro con Ernst Bloch: sentivamo che la grande filosofia è pos­sibile, anche nella nostra epoca. Non solo il fatto che fosse stato scritto, ma anche la struttura e il contenuto del libro esercitarono su di noi un profondo influsso. L’avevo letto attentamente in manoscritto e dopo l’ho letto e riletto più volte. L’aspetto che ha inciso di più su di me, e che ritengo ancora oggi fondamentale, è la teoria delle oggettivazioni, affrontata nel libro in una prospettiva specifica, quella dell’oggettivazione artistica. In effetti, la concezione e la trattazione del mondo dell’arte come mondo di oggettivazioni ci fornì una metodologia generale. Da allora non si può fare a meno di comprendere la continuità storica attraverso la teoria dell’oggettivazione. Nel mio libro, La vita quotidiana, mi sono proposta di elaborarne una ver­sione generale. Decisiva non fu però soltanto la teoria dell’oggettivazione, ma anche il tentativo lukacsiano, di enorme importanza per me, di fornire attraverso di essa, una risposta al problema della validità dei valori. Sebbene nel libro di Lukács tale problema fosse for­mulato mediante le categorie di «memoria» e «auto­coscienza dell’umanità» e la parola «valore» non ve­nisse esplicitata, non si trattava che di questo. In fondo, l’Estetica era una filosofia della storia alterna­tiva a Storia e coscienza di classe. Sotto molti aspetti, Lukács ritornava qui alla sua giovinezza, riprendendo e riformulando categorie fenomenologiche ed erme­neutiche centrali dell’Estetica di Heidelberg. La cate­goria di «genere», messa in secondo piano nell’opera del ‘23, veniva di nuovo valorizzata e inserita nella teoria dell’oggettivazione. È un fatto estremamente importante, anche in relazione alle questioni epistemo­logiche. Su questa base, infatti, si può superare l’an­titesi di olismo e individualismo e risolvere il cattivo dilemma del soggetto-oggetto isolato e del soggetto collettivo, senza fare appello al soggetto trascendentale e senza intendere la sfera dell’oggettivazione come totalmente estraniata.

Sono vari i motivi per cui il libro, nonostante la sua enorme importanza, non è stato capito in occi­dente. Il primo e più rilevante è che non è stato as­solutamente letto. Posso portare tre testimoni: Goldmann, Bloch e Adorno. Tutti e tre hanno ammesso che non ce l’hanno fatta a leggerlo. E all’unisono hanno addotto questa motivazione: non si possono scrivere libri così lunghi, nessuno li legge più, non c’è tempo. Gli uomini nel mondo occidentale sono costretti a tenere il passo con le ideologie più recenti, e anche per i migliori è molto difficile opporre resistenza a tale pressione. Si tratta perlopiù di fenomeni di moda ohe vengono sostituiti da altri nel giro di breve tempo, ma tutti i pensatori, dovendo partecipare quotidiana­mente a pubbliche discussioni, sono tenuti a essere sempre up to date per poter reagire, sia pur critica­mente, alle «nuove ideologie». Non se ne parla nem­meno di occuparsi per quattro mesi, tutto il giorno, di un solo libro. Lukács raccontava di aver chiesto una volta a Mannheim perché citasse Marx da Storia e coscienza di classe invece di andarselo a leggere (o rileggere) direttamente. Mannheim rispose: devo leg­gere tutti i giorni i libri dei miei colleghi, come posso occuparmi per mesi di Marx? Per evitare ogni equi­voco: sono favorevole al dibattito delle idee e sono ben consapevole dell’essenzialità, per esso, della «reat­tività». Al tempo stesso, penso però che, pur inter­venendo nel dibattito, si dovrebbe opporre resistenza nella forma di una rigida selezione.

So bene che il punto di vista di Lukács: «Chi non conosco non può essere un uomo rispettabile», per quanto formulato ironicamente, ma con un contenuto profondamente serio, è irrilevante. Non credo però che lo sarebbe altrettanto se, di fronte a fenomeni di moda molto influenti (per esempio, i nouveaux philosophes francesi) si dicesse: «Non li conosco, ho stu­diato per quattro mesi l’Estetica di Lukács». Ma quando Ferenc Fehér ne preparò un’edizione ridotta e neppu­re questa trovò alcuna eco reale, fui costretta a cer­care le ragioni della mancata ricezione in questioni più di sostanza.

Un primo motivo è forse che il lettore in occidente si è abituato a un’iperriflessività della filosofia. Da lungo tempo le questioni metodologiche sono al centro della riflessione filosofica. Ciononostante, l’Este­tica è un’opera che non riflette sul proprio metodo, ne crea uno nuovo, senza tuttavia averne la coscienza. È un libro «ingenuo», che si avvicina direttamente al mondo dell’arte, alla «cosa», come diceva Hegel. L’oggettiva strutturazione del mondo in «fenomeno» e «essenza» viene presupposta come qualcosa di evi­dente, e lo stesso avviene per l’oggettività delle cate­gorie.

Il secondo motivo è forse che il libro è discontinuo, presenta parti deboli e altre efficaci. Importanti tesori teorici o si trovano in concezioni fondamentali, spesso nascoste da particolari, o in particolari formulati però a loro volta come materiale dimostrativo di argomentazioni inessenziali. Per fare un esempio: nel capitolo più brutto del libro, quello sul sistema di segnali, dove Lukács considera quella di Pavlov «la psicolo­gia» in generale, troviamo l’analisi del tatto, una delle più belle e convincenti che mi è capitato di leggere. Sì, qui bisogna veramente passare per il Purgatorio per arrivare al Paradiso. Ma ne vale la pena.

Veniamo ora all’ultimo motivo. Un uomo an­ziano che dopo trent’anni affronta di nuovo con disin­voltura i problemi filosofici fondamentali, non si po­teva liberare del tutto da tradizioni acquisite proprio in quei trent’anni. Lukács ha accettato durante lo sta­linismo il Diamat come interpretazione filosofica del mondo. Anche se avesse voluto, non avrebbe potuto abbandonarlo d’un tratto: la sua coscienza della con­tinuità era troppo forte per fare una cosa di questo genere. Perciò nell’Estetica egli si serve in diversi con­testi di categorie antidiluviane pur volendo, non sem­pre coerentemente, riempirle di nuovo contenuto. Que­sto avviene, per esempio, con i concetti di «rispecchia­mento» o di «realismo». Il rispecchiamento viene perlopiù identificato con l’antica categoria della mimesi (imitazione dei costumi, dell’ethos e non della cosid­detta «realtà»). Ma anche l’«imitazione della realtà» non sparisce del tutto, anzi, riemerge spesso. Il realismo viene identificato con l’unità di genere e indi­vidualità, e compreso attraverso la categoria della par­ticolarità. Ma questa concezione non si può legitti­mare completamente con la vecchia categoria di ri­specchiamento. Le dicotomie «essenza»-«fenome­no», nella realtà, e «genere»-«individuo», nel mondo delle oggettivazioni, non si possono coerente­mente mettere sullo stesso piano, perlomeno non sem­pre. Ma questo rientra anche nell’effetto-Purgatorio. Tuttavia ripeto: vale la pena passare attraverso questo Purgatorio.

Che cosa pensi del modo in cui la cultura marxista orientale ha in genere valutato l’opera di Lukács? Ti sembra che si possa parlare di una sufficiente assimi­lazione critica? Quanto possono aver pesato, sul pia­no critico, riserve e pregiudizi di tipo ideologico (re­lativi al tanto discusso «stalinismo» o «antistalini­smo» di Lukács)? Pensi che essi siano operanti an­cora oggi, in tutto o in parte?

Il destino dell’opera di Lukács è comune a tutti i pensatori significativi. Certamente non possiamo par­lare di una valutazione unitaria da parte della cultura marxista. Oggi ci sono diverse scuole marxiste e tra di esse alcune che rifiutano le idee di Lukács, o per­lomeno non hanno alcun interesse per la sua opera e molte altre che le attribuiscono invece una grande ri­levanza, appropriandosene e sviluppandola. Ma anche nel secondo caso non si tratta di una ricezione unitaria. Tutti noi abbiamo avuto il «nostro Lukács», così come abbiamo il «nostro Marx». Per l’uno è cen­trale Storia e coscienza di classe, per l’altro la sua so­ciologia della letteratura, per un terzo l’Estetica, per un quarto ancora la sua concezione della decadenza. Volendo delineare delle tendenze generali, se ne pos­sono tuttavia distinguere due principali. Per la prima, Lukács è il simbolo del radicalismo politico, per la se­conda, è il patriota della cultura europea. Per la pri­ma, egli rappresenta l’idea della rivoluzione totale, del­la redenzione attraverso il proletariato e dell’avanguar­dia rivoluzionaria, per la seconda, la convinzione che il socialismo raccoglie l’eredità dell’intera cintura uma­na, di una cultura che rappresenta lo sviluppo del ge­nere stesso. Entrambe le interpretazioni sono ad un tempo il frutto di un corretto intendimento e di un insostenibile fraintendimento, cosa del resto inevitabi­le, se vogliamo mediare la teoria di un pensatore con i problemi del nostro tempo.

Lukács ha parlato una volta (nel ‘19) del muta­mento di funzione del materialismo storico[1]. Lo stes­so si può dire del suo pensiero. Fanno già parte del patrimonio scientifico le molte (e diversissime) fun­zioni adempiute per esempio da Storia e coscienza di classe nel movimento socialista degli ultimi 50 anni. Ma è forse meno noto che anche la teoria del reali­smo ha mutato di funzione più volte. Dapprima era stata formulata contro il Proletkult, come difesa del­la ricezione democratica dell’arte contro un settarismo estremamente aristocratico, elitario. Successivamente divenne il bastione della tradizione culturale contro il «romanticismo rivoluzionario» staliniano. Più tardi ancora divenne un’ideologia conservatrice di rifiuto to­tale dell’arte moderna. Sebbene tutti e tre i momenti fossero presenti e intrecciati fin dall’inizio, la funzio­ne fondamentale della teoria è sempre stata, come ho detto, diversa.

Il mutamento di funzione comprende sempre l’ele­mento temporale. Il destino di alcune opere è stato di essere totalmente dimenticate (o, eccezionalmente, di essere sostenute da alcuni outsiders) per conoscere solo più tardi una ricezione di massa. Per esempio, il radicalismo di L’anima e le forme e di Teoria del ro­manzo per decenni è stato capito solo da Goldmann, mentre è diventato oggi «patrimonio comune».

Mi avete chiesto di dire qualcosa sull’assimilazione di Lukács nei movimenti marxisti. Vorrei però aggiun­gere che negli ultimi decenni Lukács, l’eterno out­sider, è diventato un accademico in Occidente, ed è assurto al rango di personaggio «ufficiale» in Oriente.

Il primo è un destino al quale nessun pensatore può sfuggire. Se uno viene letto, le sue opere diven­tano materia di insegnamento anche nelle università. Le idee vengono considerate «sapere» e vengono ap­prese come sapere obbligatorio alla stregua di qual­siasi altro. Numerosi studenti scriveranno le loro tesi su Lukács. Talcott Parsons o Lukács: entrambi po­tranno essere un biglietto d’ingresso nel mondo acca­demico. Può succedere benissimo con Lukács ciò che è avvenuto con Marx, o, per citare Kierkegaard, con Gesù Cristo, ossia di diventare materia di tesi attra­verso i dolori, e talvolta il martirio della propria vita.

Si può parlare di una sua innocenza anche per quan­to riguarda la sua postuma carriera ufficiale all’Est, soprattutto in Ungheria?

La questione, che avete ricordato, del suo «stali­nismo» o «antistalinismo» è attuale e lo rimarrà fino al giorno beato, e non mi aspetto che sia doma­ni, in cui l’ombra di Stalin si eclisserà definitivamente nel regno dell’Ade, nella storia passata. Solo allora potremo considerare l’opera di Lukács in sé, senza do­ver sollevare la questione della responsabilità.

Lukács fu entrambe le cose, stalinista e antistali­nista. Il suo è stato un costante confronto del proprio ideal tipo con la società e il partito sovietici. Era uno stalinista poiché sosteneva questo idealtipo, ed era un antistalinista, poiché non vide mai «realizzato» il pro­prio ideale nella società in cui viveva, e di conseguen­za si trovò sempre all’opposizione, anche contro la pro­pria volontà. Fu messo ai margini, misconosciuto, perseguitato, e persino incarcerato e deportato da un si­stema che riteneva «sostanzialmente» giusto. È un segno di alta moralità che la sua propria persecuzio­ne non lo abbia condotto ad abbandonare l’«ideale del regime»; ma fu un delitto morale che la perse­cuzione in massa di altri non lo abbia scosso nella sua fede.

I posteri non hanno alcun diritto di giudicarlo. E non perché può essere comprensibile la via che lui ha percorso, muovendo dal passato e in relazione al pe­riodo storico in cui è caduta la sua scelta esistenziale, il periodo della prima guerra mondiale. È stato Lukács a dire che l’anima non ha preistoria, ma nel pronun­ciare questa frase era mosso dalla più elementare istan­za morale: ha infatti pronunciato un giudizio su se stesso. Fin dal 1956 ha incominciato questo ripensa­mento e gradualmente, attraverso dure battaglie, ha compreso, nonostante tutte le incoerenze, la propria responsabilità. Nel suo ultimo anno di vita, ci diceva: «Sono un’esistenza fallita». Non lo era di certo lui, già un classico. Era troppo vecchio, così prossimo al­la morte che la sua catarsi non poteva attuarsi in vita. Tuttavia l’ha vissuta.

Quando ho letto l’intervista postuma di Heidegger un anno e mezzo fa, in cui non si scorge traccia di un sentimento di responsabilità, ho appreso ancora una volta ad apprezzare l’uomo che ha avuto il coraggio di dire: «Sono un’esistenza fallita», sciogliendoci in questo modo dall’obbligo del giudizio.

Lukács adesso è un santo nel Pantheon del regi­me ungherese. Ma anche così deve tener la bocca a posto. Questa collocazione gli viene da un aspetto del suo passato: la consacrazione insieme alla censura. Sì, insieme alla censura, poiché il ruolo svolto nel 1956 è stato messo sotto silenzio e la sua protesta contro l’intervento sovietico in Cecoslovacchia è stata nasco­sta e le sue ultime interviste non sono state pubblicate. Dopo gli avvenimenti del 1968 ha scritto un saggio, Sulla democrazia, in cui esponeva il punto di vista che l’Unione Sovietica è un paese «oggettiva­mente» ma non «soggettivamente» socialista. Que­sto scritto dopo la sua morte è stato «archiviato» dal partito per 50 anni. Tutto ciò mostra che questo po­sto nel Pantheon non gli spetta, egli contesta, contesta dalla tomba.

La questione del suo stalinismo o antistalinismo rimane comunque attuale.

Lukács ha scritto una volta un libro sulla «re­sponsabilità degli intellettuali». La sua vita esempla­re ci deve aiutare a pensare fino in fondo le implica­zioni di questa responsabilità.

[1] Cfr. G. Lukács, Il mutamento di funzione del materialismo storico, in Storia e coscienza di classe, Milano, Sugar, 1968, pp. 277-316.

Rileggendo Lukács

28 domenica Feb 2016

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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Tag

arte, concreto, Croce, essenza, fenomeno, generalizzazione, particolarità, rispecchiamento, scienza, Thomas Mann


di Rosario Assunto

«Tempo presente», II/n.1 – gennaio 1957

Dove si trova, in quoti giorni, Giorgio Lukács? E le conclusioni del suo saggio Zur Konkretisierung der Besonderheit als Kategone der Aesthetik, di cui abitiamo letto la prima pane nella berlinese (Berlino-Est) Zeitschrift für Philosophie, sono state pubblicate? Queste domande sono oramai il contrappunto inevitabile di quel nec tecum nec sine te che è nota costante di tutte le nostre letture lukacsiane: anche, e particolarmente, quando ci troviamo di fronte ai saggi su Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna, recentemente pubblicati dall’editore Feltrinelli nella traduzione di Giorgio Dolfini. Per quello che può dipendere da noi, c’è da augurarsi che Concretizzazione della particolarità come categoria dell’estetica trovi presto un solerte traduttore; come vorremmo lo trovasse anche quelli Theorie des Romans che fece epoca, a suo tempo, nello spazio culturale centro-europeo e venne favorevolmente recensita da Karl Mannheim in un articolo, ancora oggi tutto da leggere, apparso su Logos, la rivista che una volta usciva a Tubinga sono l’autorità, fra gli altri, dello Husserl e del Vossler.

In più di una occasione ci è capitato di motivare il nostro dissenso da Lukács per certe sue inadempienze rispetto a quella che il Mannheim lodava nel 1920 (e che di recente ha lodata, con parole analoghe, e riserve da sottoscrivere, il nostro Garetti): una forza che non procede per deduzione da alcuni principi, ma intende quello che vi è di più essenziale e profondo in una forma d’arte e nello spirito da cui essa deve avere avuto origine… Questo dissenso, e la inadempienza che lo giustifica, sono patenti quando si aprano alcune pagine, davvero deduttive, del volume su Goethe e il suo tempo. Ma il volume su Mann è forse l’opera più indicativa a questo riguardo, nella misura in cui il lettore viene portato a meditare sulle doti e sui limiti di Lukács, sull’entità del suo apporto al pensiero contemporaneo, e sulla necessità di appropriarcene appunto prr accrescere le nostre difese contro gli errori nei quali uomini del talento di Lukács sono incorsi non certo per capriccio, ma per effetto di condizioni del nostro tempo e della nostra cultura delle quali, e dei conseguenti errori di Lukács e di altri, noi stessi portiamo una responsabilità che va investigata e chiarita.

La chiave di tutta l’estetica e del procedere critico di Lukács è nella costante ricerca di un rapporto, intrinseco all’opera d’arte e non ad essa artificiosamente imposto, fra qualità e significato. Di questa ricerca, il saggio berlinese recentissimo propone alcune premesse teoriche che ogni lettore di Croce non potrà non compiacersi di trovare in ambiente marxista-leninista, mentre gli scritti su Mann ne additano una puntuale applicazione concreta.

Il problema che Lukács affronta nello studiare Thomas Mann è quello di interpretare Mann pensatore e politico partendo dalla sua opera e non, come spesso si usa, viceversa. Non si tratta dunque di un problema di critica, nel senso di giudizio sul valore estetico dell’opera manniana, ma di un problema che diremmo di filosofia dell’arte: problema la cui legittimità è condizionata dal suo non gabellarsi, nemmeno per sottinteso, come ricognizione di valore, che in ultima analisi farebbe dipendere la qualità dal significato; e dal fatto che la ricerca del significato viene condotta nella regione che unicamente può autorizzarla in arte, nella regione della forma e dello stile, fuori della quale quello che Lukács chiama il rispecchiamento della realtà non avrebbe carattere artistico ma scientifico, dal momento che, come lo stesso Lukács scrive in Zur Konkretisierung der Besonderheit, oggetto della formazione artistica non è il pensiero in sé, nella sua immediata e oggettiva verità, bensì il modo come esso entra in opera in situazioni concrete di uomini concreti, quale concreto fattore di vita. Non c’è bisogno di attardarsi su certi crudi giudizi che Fadcev ebbe ad esprimere su Lukács: «…Molte cose della sua attività suscitano seri dubbi… nega la possibilità che il Partito diriga le cose dell’arte… egli cerca una giustificazione per la ideologia borghese e per la sua coesistenza con la nostra ideologia… Lukács tenta di disarmare i costruttori della cultura socialista nei Paesi di democrazia popolare… ».

A noi interessa qui rilevare, per meglio comprendere e discutere Lukács, come la politicità che egli sostiene sia di tutt’altra natura da quella di Fadeev: politicità, per lui, è la presa di posizione, plasmata nell’opera con mezzi artistici, rispetto al mondo rappresentato. E questa politicità egli cerca di individuare nell’opera di Thomas Mann, scrittore che effettivamente non è possibile leggere e apprezzare se non si tiene presente il nesso strettissimo, nella sua opera, fra qualità e significato: non certo nel senso che il significato determini dall’esterno la qualità, e il nostro apprezzamento qualitativo dipenda dalla misura maggiore o minore in cui accettiamo il significato, bensì nel senso più veritiero che qualità è la presentazione del significato nell’atto formale, creativo, in seguito al quale esso entra in opera, per ripetere qui le parole di Lukács, in situazioni concrete, di uomini concreti, quale concreto fattore di vita.

Dei cinque saggi che il volume comprende (oltre a un’introduzione e a una premessa), il più significativo, dal nostro punto di vista, è forse quello dedicato alla Tragedia dell’arte moderna, dove Lukács prende in esame il romanzo Dottor Faustus, nel quale la raffigurazione plastica e chiara del processo creativo di Adriano Leverkühn viene interpretata dal Lukács come raffigurazione dell’arte contemporanea in quanto espressione concentrata di decadenza. Una interpretazione plausibile, anche se, come suole accadere in simili casi, vuol essere integrata con altre che guardino da vicino altre facce della complessa realtà di questo romanzo.

«Dietro la musica di Leverkühn — osserva Lukács — si cela la disperazione più profonda di un vero artista nella socialità dell’arte, anzi addirittura nella società borghese del nostro tempo… Per quanto si possano decisamente rifiutare gli esperimenti nati in quest’epoca, spesso completamente vuoti, puramente artificiosi, quasi fossero escogitati in un laboratorio, pur è chiaro che questa tendenza… non è affatto stata una semplice stravaganza di letterati, bensì il rispecchiamento artistico (spesso deformato, di maniera, divenuto addirittura un giuoco) del rapporto dell’individuo, della sua vita personale, con il proprio ambiente sociale, più precisamente con l’epoca storica, con quel decorso storico, di cui una frazione, un momento è costituito da questo curriculum vitae individuale… quelle correnti oggettive che economicamente e culturalmente… preparano le due guerre mondiali, prendono, secondo il loro intimo modo di essere, la via verso la trasformazione del mondo in un caos sanguinoso, verso lo sfiguramento dell’umano nell’individuo singolo, nelle classi e nelle nazioni…». Il curriculum di Adriano Leverkühn mostra qui il suo significato, che si traduce, per Lukács, in una possibilità di comprendere l’arte cosiddetta della decadenza, invece di svillaneggiarla e metterla al bando alla maniera di quel Parsadanov per il quale (e si veda La lotta per il realismo in arte in Letteratura e arte nell’URSS) il compito dell’estetica e della critica letteraria si poneva come un analogo della polizia politica.

Ma questo significato trasformerebbe il romanzo in un saggio filosofico, se esso non emergesse nella qualità, in quanto fattore della qualità stessa che trasforma in soggettività individua e non ripetibile l’universalità oggettiva del senso dell’opera: le pagine nelle quali Lukács analizza la struttura temporale del Faustus, la duplicazione della prima persona – Zeitblom e della terza persona – Adriano, il differente caratterizzarsi dei due personaggi, il rapporto interno all’opera fra piccolo mondo e grande mondo come maniera di soggettivarsi del contenuto oggettivo dell’opera sono fra le più persuasive di tutto il libro, anche se non esauriscono la ricognizione della qualità — proprio in quanto metamorfosi estetica del significato — che per esser completa richiederebbe una investigazione stilistica come indagine portata alla presenza reale della qualità in linguaggio e parola.

Dicevamo, le inadempienze di Lukács. Ecco, quando Lukács nel saggio sul Dottor Faustus si appella alla risoluzione del Comitato centrale del partito comunista dell’Unione Sovietica sulla musica moderna, e saluta il romanzo di Thomas Mann come « un’amplissima fondazione artistica e spirituale di quella risoluzione», proprio allora viene al pettine la preminenza del significato sulla qualità, che revoca quasi per intero la finezza delle sue analisi e delle premesse sulle quali esse riposano. Lukács, come tanti altri, ha creduto che fosse possibile difendere e salvare la socialità dell’arte di fronte all’irrompente isolamento accettando una prevaricazione del significato, ed una riduzione della qualità ad appariscenza esteriore, che in ultima istanza equivaleva all’annientamento della qualità come tale. Certe sue successive prese di posizione, la stessa incertezza che oggi avvolge il suo destino, sono la dimostrazione più esauriente che la crisi del rapporto fra arte e società investe tutto intero il mondo contemporaneo, e se da una parte l’attenzione alla qualità fa dimenticare qualche volta che la qualità è tale in quanto significante, sul versante opposto il significato divora la qualità, per la quale potrebbe anche non esserci più posto.

La condizione dell’arte, in quanto arte è qualificazione del significato, potrebbe davvero essere insostenibile in un mondo tutto scientificizzato, fondato sul culto della verità oggettiva, vale a dire sulla preminenza di quella forma scientifica della quale Lukács scrive che «è tanto più elevata quanto più è generale e onnicomprensiva», mentre la categoria estetica è secondo lui quella che, determinando da un lato una generalizzazione della semplice immediata individualità delle apparenze viventi, dall’altro lato risolve in sé quella generalità che se non fosse risolta toglierebbe via l’unità artistica dell’opera. L’essenza, potremmo dire, verrebbe in quest’ultimo caso a ingoiare il fenomeno (sono termini, anche questi, adoperati da Lukács). E forse nel conflitto fra essenza-significato e fenomeno-qualità è da indagare il dramma dell’opera e del destino di Lukács. Un paradigma, probabilmente, della situazione in cui tutti versiamo, di questi tempi, qualunque sia il posto che per se stesso uno abbia scelto.

Tra Hegel e Marx l’estetica di Lukács

28 lunedì Dic 2015

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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Brecht, contenuto, Estetica, estetica normativa, forma, Hegel, idealismo, particolare, partiticità, realismo, rispecchiamento, tipico


di Ferruccio Masini

«Il Contemporaneo-Rinascita», n. 6, 5 febbraio 1971.


Pubblicato in italiano il fondamentale studio del filosofo ungherese

«(…) Soltanto apparentemente la storia della cultura rappresenta un balzo in avanti della comprensione, e nemmeno apparentemente un balzo in avanti della dialettica. Ciò che le manca è il momento distruttivo, il quale garantisce l’autenticità del pensiero dialettico come l’autenticità dell’esperienza del dialettico. Certo, essa accresce il peso dei tesori che gravano sulle spalle dell’umanità. Ma non dà a quest’ultima la forza di scuoterseli di dosso e quindi di farli suoi. Lo stesso vale del lavoro culturale socialista verso la fine del secolo, che seguiva appunto la guida della storia della cultura»1. Questo pensiero di Walter Benjamin potrebbe essere assunto come l’espressione più matura, nell’avanguardia, di una dialettica marxista rivoluzionaria volta a rovesciare quella autocomprensione del fenomeno estetico in termini di giustificazione storicistica della cultura e quindi dei momenti eterni, «classici», dello sviluppo umano, alla quale approda la gigantesca costruzione lukacsiana della prima parte (Die Eigenart des Aesthetischen) dell’Estetica (1963)2.

A chi conosce le importanti prese di posizione teoriche, di critica e di scienza della letteratura del filosofo marxista ungherese – dalla lontana discussione epistolare con Anna Seghers (1938-1939) ai Contributi a una storia dell’estetica (1952) fino ai Prolegomeni ad una estetica marxista e ai Significato attuale del realismo critico (1957) – non potrà passare inosservato il fatto che le linee maestre del pensiero estetico di Lukács confluiscono nella imponente architettura sistematico-concettuale dell’Estetica senza sostanziali squilibri e ulteriori ripensamenti, raggiungendo una integrazione d’analisi che tradisce, nel vecchio filosofo, un’ambizione costruttiva di vasto respiro. Quella cioè di elaborare, sulla base dei materialismo storico, e dialettico, una sintesi fondativa delle categorie strutturali e dei processi genetici propri di un’estetica normativa marxista. Va da sé che per quanto si possano avanzare non poche riserve sulle ambiguità e sulle contraddizioni dell’estetica lukacsiana (basti rinviare ai giudizi accentuatamente critici di Galvano della Volpe, ripresi e arricchiti con finezza d’osservazioni da Giuseppe Bedeschi nella sua recente Introduzione a Lukács), un’opera tanto vasta e impegnativa come questa non può non costituire un indispensabile polo di riferimento per chi voglia misurare le tappe di tutta quella vasta elaborazione teorico-scientifica delle categorie estetiche marxiste che dalle tesi engelsiane sul «realismo» dell’opera letteraria e sulla sua distinzione dal concetto di «tendenza», dalla polemica di Marx-Engels contro Lassalle sul concetto rivoluzionario dell’eroe tragico alla, nozione leninista di «particità» e di «rispecchiamento» (Tolstoj specchio della rivoluzione russa) rappresenta lo sfondo su cui si muove la problematica di questo libro.

Pur tuttavia, il limite più evidente della trattazione sta nella preoccupazione sistematica d’inverare e di superare, in una sorta di sintesi hegeliana, gli elementi peculiari di un’eredità storica singolarmente e anche fecondamente ricca di contrasti, e quindi nella funzione frenante che esercita il modello «teoretico» nell’ambito per sé dinamico di una metodologia marxista. Privilegiare i problemi categoriali, per cui la sfera estetica è vista come «un caso di rispecchiamento unico nel sistema delle relazioni tra l’uomo e la realtà oggettiva»3 potrebbe far nascere, infatti, il sospetto di uno slittamento della dialettica della coscienza, sia pure materialisticamente interpretata come Widerspiegelung (rispecchiamento) dell’essere sociale, sul piano ontologico-fondativo, con il rischio di una possibile identificazione strutturale di coscienza ed essere4 e quindi con la riemergenza dell’elemento quietistico-contemplativo che si annida in ogni ontologia, sia essa о no di carattere immanentistico. Prima ancora di questo «sospetto», già il confronto con Hegel sembra orientare sul piano di un transfunzionamento piuttosto che di un rovesciamento delle categorie hegeliane la stessa articolazione storico-sistematica dell’opera. La quale appunto si muove in vista di una fondazione della «verità» dell’opera d’arte concepita piuttosto che sulla base dialettica degli antagonismi di classe e della demistificazione anti-ideologica della catarsi e dell’«universale» estetico, come astratta autocoscienza dell’umanità proiettata nell’eterno presente di un’immanenza dei valori (le «qualità categoriali essenziali dell’opera d’arte»: «il carattere definitivo, l’autonomia, la perfezione immanente, l’ubiquità»)5 articolati come concrezioni tipiche della «particolarità». Ma proprio perché il momento della rottura, della tensione creativa interna al divenire storico della lotta di classe e della stessa costruzione del socialismo vengono spostati sullo sfondo delle operazioni genetico-categoriali si direbbe che per Lukács sia l’arte (al posto della filosofia, come accade invece in Hegel) la nottola di Minerva che si leva nell’ora del crepuscolo, quando la realtà è giunta al suo compimento e quello che «doveva» essere fatto è già dietro le nostre spalle e può quindi essere «pensato» (nel senso del theorein). Non a caso tutta la ricchezza estremamente pregnante e non di rado esemplare, dal punto di vista critico-letterario, delle esemplificazioni storiche è profusa da Lukács con preminente riguardo al passato e ai suoi autori classici prediletti, da Goethe a Balzac a Tolstoj.

In questo senso, sebbene densa di articolazioni, specie per quanto attiene la individuazione genetica dei modi di rispecchiamento all’interno dell’orizzonte immanente della storia, la «posizione estetica» teorizzata da Lukács non riesce a sottrarsi all’ipnosi di una superiore «conciliazione» già presente in Hegel nella forma di saldatura speculativa tra componente idealistico-conservatrice e dialettico-storicista potenzialmente rivoluzionaria. Indubbiamente in Lukács questa «conciliazione» – trasferita, come ovvio, in una problematica ideologica interna al marxismo – corrisponde all’importante fase di passaggio (e anche di crescita) dell’estetica marxista dopo il XX Congresso, allorché alla rigida antitesi tra le prospettive ottimistico-dogmatiche di una rappresentazione «positiva» della realtà e i processi dissolutivi-nichilisti della letteratura d’avanguardia subentrava una mediazione sul terreno concreto di esperienze difformi e pluralistiche, sia in campo «occidentale» che in campo socialista, capace di restituire alla riflessione estetica quella tensione dialettica tra il politico e l’artista, tra il realismo dell’arte e il realismo della politica da cui scaturisce il fermento espansivo di una cultura socialista egemone nel senso gramsciano.

Quando Lukács afferma che il realismo «(…) non è uno stile speciale tra molti altri», ma è «la base artistica di ogni creazione valida», in quanto esso soltanto vale come perfetto rispecchiamento dei «momenti essenziali della realtà, riferiti al contenuto di umanità», o meglio come coincidenza della «forma estetica» con «la forma di un contenuto concreto determinato»6, viene riconfermata, a mio parere, l’assunzione di un concetto, quello appunto di realismo, che nella sua estrema genericità potrebbe benissimo essere accolto in quella estetica desanctisiana-crociana per la quale «la forma non è a priori, non è qualcosa che stia da sé e diversa dal contenuto, quasi ornamento o veste e apparenza o aggiunta di esso; anzi è essa generata dal contenuto, attivo nella mente dell’artista: tal contenuto, tal forma»7.

L’equivoco di Lukács sta nel vedere il realismo come polo opposto all’avanguardia e cioè nel collegare a determinati mezzi espressivi, che vengono poi ipostatizzati, la possibilità o meno di uno stile realistico. Nell’avanguardia si ha la decomposizione dell’«essere per sé dell’opera d’arte» e cioè una visione mutila o deformata della realtà, appunto perché sono abbandonati quei determinati mezzi espressivi su cui si impianta la categoria normativa del «tipico», che sono i soli, secondo Lukács, a consentire uno stile realistico. Si ha così la riduzione di una nozione «aperta» del realismo (Brecht) alla cristallizzazione categoriale di un modello che pur nel mutare dei mezzi espressivi – come riconosce lo stesso Lukács – taglia fuori tutti quegli approcci alla realtà che non passano attraverso la sua intelaiatura storicamente esemplare. La mancata problematizzazione del concetto di realismo inteso come fedeltà statica all’essere e all’essenza dell’oggetto, dalla quale è escluso il momento della rottura e quindi della sperimentazione delle possibilità dialettiche operanti nel divenire di quello (compresa dunque la benjaminiana politicizzazione dell’arte), riflette lo scotto pagato da Lukács alla sua giusta lotta contro il formalismo degli estetologi borghesi (W. Kayser, Ingarden), ma anche al suo fraintendimento delle ragioni storiche (crollo dei contenuti borghesi) che spingevano l’avanguardia a radicalizzare l’inimicizia borghese contro l’arte rivolgendola, per così dire, contro se stessa, a questo punto si comprenda come solo attraverso la liquidazione di una Kulturgeschichte borghese-occidentale, capace d’infiltrarsi negli stessi procedimenti storico-deduttivi di una fondazione materialista dell’opera d’arte, è possibile il ricupero di quell’autenticità del pensiero dialettico di cui parlava Benjamin come di uno strumento necessario per integrare la soggettività in una totalità in progress; non predeterminata in configurazioni categoriali offerte dal passato come «immagine eterna». In tal modo anche il momento della riflessione estetica potrà risolvere la sua specificità nella nuova dimensione storica di un’esperienza per la quale le stesse opere d’arte «divengono», cioè nel continuo confronto creativo della coscienza rivoluzionaria del proletariato e delle sue realizzazioni politico-sociali con i movimenti contraddittori e diversi, una pur sempre carichi di futuro, della realtà.

1 W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. it. di E. Filippini, Torino 1966, p. 92.

2 György Lukács, Estetica, 2 voll., trad. it. di A. Marietti Solmi e F. Codino, Torino, Einaudi, 1970, pp. XLII-1612 (Biblioteca di cultura filosofica).

3 Ivi, II, p. 1564.

4 Si vedano a questo proposito le aspre accuse d revisionismo mosse a Lukács, non senza ingiustificata malevolenza, da Wilhelm R. Beyer, «Marxistische Ontologie – eine idealistische Modeschöpfung», in Deutsche Zeitschrift für Philosophie, 17 (1969), II, p. 1310 e ss.

5 Estetica, it., II, p. 1564.

6 Ivi, pp. 1573-1574.

7 La citazione desanctisiana (dai Nuovi saggi critici) sta in B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione, ecc. Bari 1928, II, p. 409.

György Lukács inattuale? Una teoria politica del romanzo

22 martedì Dic 2015

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di Emanuele Zinato

L’immaginario politico. Impegno, resistenza, ideologia, Eds. S. Albertazzi, F. Bertoni, E. Piga, L. Raimondi, G. Tinelli, Between, V.10 (2015), http://www.Betweenjournal.it/ 30/11/2015


I rapporti sociali sono sfuggiti al controllo degli uomini stessi assumendo la forma di cose.
G. Lukács, Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale

I. Il termine inattuale, presente nel titolo del mio intervento in forma interrogativa, vorrebbe risultare doppiamente sibillino. Al suo significato più comune, di segno negativo, che sta per “invecchiato”, come si sa, si affianca un senso orgogliosamente apologetico e irriverente, quello delle Considerazioni inattuali di Nietzsche o dell’inattualità come valore paradossale del saggismo frammentario di Karl Kraus.

In questo mio intervento, per azzardare delle risposte, cercherò innanzitutto di mettere a fuoco alcuni punti di forza di Lukács, limitatamente alla teoria del romanzo, degni di considerazione nel campo teorico attuale.

Come ha osservato Vittorio Strada (Strada, 1986: 21), i due maggiori teorici novecenteschi del romanzo, Lukács e Bachtin, si potrebbero leggere come una delle coppie oppositive su cui si fondano le Vite parallele di Plutarco. Lukács, infatti, è noto come il fautore di un’estetica normativa del marxismo ufficiale; Bachtin è stato viceversa una vittima, deportato e costretto al silenzio dallo stalinismo.

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Lukács fra Marx e marxismo

17 martedì Nov 2015

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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di Tom Rockmore

da Karl Marx. Rivisitazionie e prospettive, Mimesis, Milano 2005.

Se Marx deve sopravvivere come fonte di ineguagliata penetrazione della natura del mondo moderno, bisogna recuperarlo. Questo mio contributo comincerà con l’esame di alcune difficoltà che si incontrano quando si tenta di recuperare Marx, la prima delle quali è costituita dalla necessità di liberare Marx del marxismo.

Marx è stato sempre conosciuto e studiato attraverso il marxismo, quindi in una maniera che deforma profondamente il suo pensiero filosofico. Se si elimina il “filtro” marxista, si scopre un pensatore alquanto diverso da quello cui siamo stati abituati, più interessante dal punto di vista filosofico e cioè l’allievo più importante di Hegel, un esponente a pieno titolo dell’idealismo tedesco, che più di chiunque altro coglie la natura del mondo industriale moderno.

Max e il marxismo

Il marxismo nasce da Engels, il primo marxista, che rivendica un legame privilegiato con Marx. Per varie ragioni, il marxismo deriva direttamente da Engels ma solo dire indirettamente da Marx. In virtù del lungo periodo di collaborazione tra Marx ed Engels, sembrò normale fare riferimento ad Engels per presentare la loro supposta concezione comune, che da parte sua lo stesso Engels rivendicò più volte.

Quest’uso non era del tutto immotivato, dato che gli scritti di Engels erano diffusi ovunque, mentre molti scritti di Marx erano per lo più inaccessibili, sicché parve più agevole fare riferimento ad Engels. Il fatto che molti degli scritti più importanti di Marx, fra cui i Manoscritti economico-filosofici del 1844, L’ideologia tedesca e i Grundrisse, siano stati pubblicati postumi comportò che il marxismo, di fatto, si fossi già interamente costituito allorché vennero pubblicati dei testi essenziali per la comprensione delle teorie di Marx. Del resto, la semplicità stilistica di Engels pareva una ragione di più per fare affidamento su di lui. I lettori di Engels raramente si trovano di fronte ad argomentazioni astruse, mentre Marx, pensatore notoriamente complesso, usava il terribile stile accademico dei professori tedeschi1. A ciò si aggiunge il ruolo di Engels editore e amministratore del lascito letterario di Marx, un ruolo che gli consentì di redigere per la pubblicazione il II e il III volume del Capitale, di apportare cambiamenti nella quarta edizione del primo volume in base alle presunte intenzioni di Max, di modificarne il testo per la traduzione inglese e così via2.

Marx morì nel 1883 quando non era ancora per nulla chiaro quale direzione avrebbe preso il movimento che si ispirava alle sue teorie. Dodici anni dopo, nel 1895, quando Engels amori, stava già prendendo forma il movimento politico che avrebbe portato alla rivoluzione russa e il gruppo di uomini che preparava la rivoluzione era sicuramente più incline a far politica che a condurre uno studio accurato delle opere di Marx. Non sorprende quindi che Lenin, che orientò in modo decisivo il marxismo nel periodo bolscevico, tenesse presente soprattutto Engels, e non Marx, fra i suoi scritti autorevoli3. Nella maggior parte dei casi, i marxisti sovietici, compresi politici come Stalin e esponenti della filosofia “ufficiale” sovietica come T. I. Oizerman4, svilupparono ed elaborano, senza tuttavia deviare mai da essa, la linea marxista ufficiale basata sull’interpretazione e l’adattamento leninano di Engels alla situazione russa.

Se la questione dell’origine del marxismo in Engels è rilevante, ciò dipende dal fatto che le differenze tra Marx e Engels sono profonde e, insieme, bene individuabili5. Queste differenze riguardano anche il loro rispettivo approccio alla filosofia, che Marx, il quale aveva conseguito il dottorato, aveva studiato approfonditamente, mentre Engels era, nel migliore dei casi, un dilettante dotato ma senza studi regolari. Perciò Marx fu incomparabilmente più sensibile alle sfumature filosofiche, qualità, questa, che mancò ad Engels.

Un’ulteriore differenza fondamentale è costituita dalla conoscenza di Hegel, le cui opere Marx, come egli stesso attesta, lesse da cima a fondo quando non era ancora neppure ventenne; non pare invece che Engels, che pure scrisse su Hegel, le padroneggiasse. E poi c’è la cosiddetta teoria della conoscenza come rispecchiamento (Widerspiegelungtheorie), introdotta da Engels e adottata dal marxismo ufficiale, che è del tutto assente negli scritti di Marx e che, in effetti, è incompatibile con le sue idee intorno alla conoscenza. Infine c’è la questione delle loro rispettive posizioni filosofiche. In proposito basterà dire che Marx resta un hegeliano e quindi si mantiene all’interno dell’idealismo tedesco inteso in senso lato, mentre Engels sostiene una forma di anti-idealismo molto prossima al positivismo. Queste e le altre differenze che potrebbero essere menzionate creano una situazione insostenibile: ogni marxista che conosca bene Marx si trova nella posizione schizofrenica di doversi riconoscere in due teorie incompatibili. Le teorie di Marx, come quelle di Hegel nei cui riguardi egli ha un forte debito, sono teorie storiche; le teorie di Engels sono molto distanti da quelli di Hegel – che non ha mai conosciuto bene e di cui diffidava – e profondamente antistoriche. Provocatoriamente, ma senza discostarmi dal vero, dico che non è possibile dichiarare di seguire Marx, che è soprattutto un filosofo idealista tedesco – una tesi, questa, che certamente esige una motivazione più ampia di quella che posso dare in questa occasione – e, al tempo stesso, dirsi seguaci anche di Engels, che è un anti-idealista, con chiare ed evidenti inclinazioni positiviste.

Lukács filosofo marxista

Credo che l’approccio filosoficamente più interessante a Max sia quello che privilegia il suo complesso rapporto con Hegel e, dal momento che l’interpretazione marxista del rapporto di Marx con Hegel culmina in Lukács, ogni tentativo di recuperare Marx dovrà evidenziare i limiti della lettura lukacsiana del rapporto di Max con Hegel.

All’inizio del nuovo secolo due cose appaiono evidenti: da un lato, tra tutti gli scrittori di talento Lukács si distingue come il più importante filosofo marxista. Nella vita lunga del marxismo “ufficiale” ci sono stati scrittori marxisti molto interessanti, in Occidente autori come Kosík, il primo Kołakowski, Schaff, Petrović, Kojève, Althusser, l’ultimo Sartre, Gramsci e così via. Per ovvie ragioni politiche Engels, Lenin, Stalin, Mao e altri furono abitualmente ma erroneamente definito i filosofi di rango mondiale. Gli abusi connessi a quest’uso non soltanto impoveriscono immaginazione, ma rendono anche difficile prendere sul serio il marxismo come movimento attuale. P. es., nonostante i recenti tentativi di riabilitarlo come filosofo6, Lenin non ha ovviamente alcuna credibilità filosofica se lo si paragona ad un Lukács. Per secoli, sin dall’antichità greca, la mente filosofica enciclopedica per antonomasia è stata Aristotele, per «il maestro di color che sanno». Ed Hegel è stato giustamente detto il moderno Aristotele. Come Hegel, anche se ad un livello inferiore, Lukács è stato uno di quei rari uomini capaci di cultura enciclopedica. Le sue competenze specialistiche in diversi campi del sapere lo resero comunque più interessante di molti in possesso di credenziali solamente o principalmente ideologiche. I suoi testi testimoniano, infatti, le straordinarie capacità intellettuali dell’autore.

Dall’altro lato, non si dovrebbe mai perdere di vista che, quando si convertì al marxismo nel 1918, Lukács vi rimase estremamente fedele, fino al punto di ripudiare ben presto Storia e coscienza di classe (1923)7 – il libro più importante della sua immensa bibliografia8 – quando esso sembrò in conflitto con la dottrina marxista che allora passava per ortodossa. I suoi scritti letterari, politici e filosofici sono concentrati sulle analisi della relazione di Marx con la tradizione filosofica non marxista, segnatamente con la filosofia classica tedesca e soprattutto con Hegel.

Quest’opera straordinaria soprattutto il suo lungo e complesso saggio centrale – il giustamente celebrato capitolo La reificazione e la coscienza del proletariato attorno al quale ruota l’intero discorso – è tipico dell’approccio di Lukács a Marx, al marxismo ed alla filosofia classica tedesca; al tempo stesso, è una pietra miliare fra i suoi scritti di filosofia che in seguito non riuscì ad eguagliare. Qui, come in altre opere, l’ambivalenza di Lukács nei confronti di Engels, il primo marxista, è la chiave del suo marxismo e dunque della sua visione della filosofia classica tedesca, della sua interpretazione rapporto di Marx con essa e della sua lettura di Max.

Questo saggio è importante perché contiene una critica della posizione engelsiana che, nel clima dell’ortodossia marxista, risultò essere assai poco ortodossa ma senz’altro utile. In seguito Lukács la ritrattò, per esempio nell’Ontologia dell’essere sociale, il suo ultimo studio incompiuto sull’ontologia sociale9. Ma persino in Storia e coscienza di classe la sua interpretazione della filosofia classica tedesca, e dunque anche di Marx, è indebolita dal suo atteggiamento ambivalente nei confronti di Engels e, di conseguenza, del marxismo. Pur criticando a buon diritto interpretazione superficiale di Kant data da questi, egli sbaglia quando basa la propria lettura di Marx ed del milieu filosofico in cui si formò sulla non meno superficiale interpretazione engelsiana di Hegel (e della filosofia classica tedesca in generale).

“Reificazione e coscienza di classe del proletariato”

Lo sforzo aporetico di Lukács di mantenersi fedele tanto a Marx quanto al marxismo dette luogo ad una difficoltà insormontabile che per tutta la lunga fase marxista della sua ancor più lunga carriera di intellettuale ne indebolì costantemente la posizione teorica, minandone le fondamenta ed infine vanificandone gli sforzi. Come molti altri prima e dopo di lui, egli non fu in grado di servire due padroni. Se i suoi scritti ora ci sembrano datati, non è tanto perché egli fu un brillante ed assai colto teorico marxista, quanto perché egli, attento e competente conoscitore di Marx, tentò, senza riuscirvi, di mantenersi fedele sia al Moro sia il marxismo. La difficoltà non risiedeva negli sforzi di Lukács, ma dipendeva piuttosto dalla natura stessa del suo programma, che, come la quadratura del cerchio, era palesemente irrealizzabile.

Questa difficoltà è evidente in Storia e coscienza di classe, soprattutto nel suo saggio centrale. Il marxismo ha sempre voluto essere un’alternativa praticabile alla filosofia tradizionale ed ortodossa. Il marxismo, che pretende di distinguersi non soltanto nel grado ma anche nel genere dalla filosofia ordinaria o borghese, pretende altresì di “risolvere” o di “risolvere in modo nuovo” i problemi filosofici che non possono essere “risolti” o di “risolti in modo nuovo” dai filosofi non marxisti.

È ovviamente più facile screditare determinate concezione dicendo che esse rappresentano il cosiddetto pensiero filosofico borghese, piuttosto che fare i conti con esse; è più facile trovare ragioni per non discutere invece che discutere teorie avversarie. Un certo numero di scrittori marxisti, in pratica quelli non informati sulle concezioni avversarie, preferiscono considerarle, in linea di principio, errate in quanto appartenenti a chi le professa. Questa strategia, che non è stata inventata dal marxismo, risale tutta ai tempi biblici; per esempio all’idea di San Paolo che lo spirito del Cristianesimo possa essere compreso soltanto da chi lo accetta, creando così una cerchia chiusa di interpreti autorizzati che esclude tutti gli altri. Invece Lukács si distingue per la profondità del suo approccio e per il suo desiderio di confrontarsi con i cosiddetti filosofi borghesi.

In Storia e coscienza di classe, lo scopo principale del saggio menzionato è duplice: mostrare che il problema della filosofia classica tedesca, cioè del movimento che inizia con Kant e che riflette sulla conoscenza della cosa in sé, non è risolto da quella filosofia ma lo è da Marx e dal marxismo. Poiché ho discusso ampiamente altrove questo punto, non c’è bisogno che ritorni a farlo10. Basterà dire che rispetto ad altri scrittori, marxisti e non marxisti, l’analisi di Lukács si distingue per una conoscenza eccezionale – veramente enciclopedia – di tutti i più importanti autori della filosofia classica tedesca e per la sua capacità argomentativa, che gli consente di non limitarsi ad affermare semplicemente le sue convinzioni.

Il saggio di Lukács è ricco di idee e a tratti brillante. Due punti fondamentali sono la nozione di totalità, che Lukács riprende da Hegel e l’efficace interpretazione del concetto di reificazione (Verdinglichung) in Marx. L’attenzione alla totalità è importante specialmente in quanto dà rilievo all’approccio olistico di Hegel al problema della conoscenza. Non si tratta soltanto di un’importante novità rispetto a Kant, ma anche di un argomento all’ordine del giorno nella discussione corrente11. La celebre esposizione della reificazione si basa sulla confusione fra le nozioni di oggettivazione e alienazione, che Lukács corresse non appena ebbe la possibilità di leggere i manoscritti marxiani del 1844. Così facendo egli richiamò l’attenzione sulla profonde base filosofica della critica dell’economia politica di Marx, dando vita, insieme a Karl Korsch, al cosiddetto marxismo hegeliano, che si è rilevato fecondo per la comprensione di Marx.

Nonostante sia molto acuto, ove lo si consideri complessivamente, il ragionamento esposto nel saggio centrale ed in altri testi mi sembra errato per due ragioni fondamentali. Da un lato, Lukács non è in grado di mostrare che la supposta inadeguatezza della filosofia borghese è dovuta al suo “carattere borghese”12 né che questa filosofia è incapace di “risolvere” o di “risolvere in modo nuovo” la questione della cosa in sé. Dall’altro, egli non riesce a dimostrare che Marx e il marxismo “risolvono” o “risolvono in modo nuovo” questo problema né che la loro pretesa capacità di farlo dipenda dalla loro collocazione sociale, che è “non-borghese” o, forse, “proprietaria”.

Il ragionamento di Lukács

Ho già osservato altrove13 che la principale difficoltà del ragionamento di Lukács dipende dal suo rapporto ambivalente con Engels.

Nel Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca e in altri scritti, Engels sostiene che coni Hegel ha termine la filosofia, che Hegel ci indica la via d’uscita dalla filosofia e che la concezione marxista della storia espelle la filosofia dal regno della storia. Con alcune varianti, e nonostante la sua critica della carente lettura engelsiana di Kant, Lukács fa sua questa impostazione relativa al rapporto di Marx con la filosofia classica tedesca in un brillante ma inutile tentativo di svolgere nei particolari quanto Engels si era limitato ad affermare. Lukács non va molto oltre il modo in cui Engels concepisce il marxismo ovvero come la scienza che supera l’idealismo, che, in Hegel, aveva raggiunto il suo culmine e la sua fine e che, pertanto, supera anche la filosofia, risolvendone così i problemi. Dunque Lukács, nel saggio sulla reificazione, non si discosta molto dall’impostazione di Engels14.

La sortita più avanzata del saggio di Lukács è costituita dalla complessa triplice asserzione che si può sintetizzare come segue: in primo luogo, il tentativo di Kant di conoscere la cosa in sé fallisce; in secondo luogo, questo problema attraversa tutta la filosofia tedesca fino a Hegel che lo affronta, senza però riuscire a risolverlo; in terzo luogo, questo problema viene risolto alla fine da Marx. Credo che tutte e tre le parti della complessa argomentazione di Lukács siano errate.

Esaminiamo queste asserzioni. L’intento di Kant non è, chiaramente, quello di conoscere la cosa in sé, che è pensabile ma, dal momento che non può essere data nell’esperienza, non è conoscibile. Il problema di Kant, come egli stesso ribadisce nella famosa lettera a Herz del 21 luglio del 1772, è piuttosto quello di comprendere la relazione della rappresentazione con l’oggetto (Vorstellung zum Gegenstand)15. La rappresentazione di qualcosa è molto diversa della sua conoscenza. La rappresentazione di un oggetto inconoscibile, situato al di là di ogni possibile esperienza, non è identica alla conoscenza di quell’oggetto. È possibile rappresentare, in linea di principio, ciò che esiste fuori dell’esperienza; ma non è possibile conoscere in che modo le rappresentazioni stiano in rapporto con ciò che rappresentano, se ciò che è rappresentato non può essere dato nell’esperienza. Quindi è sbagliato sostenere che Kant fallisce nel suo tentativo di conoscere la cosa in sé.

L’affermazione che il problema della cosa in sé attraversi la filosofia classica tedesca è soltanto parzialmente corretta. La cosa in sé è invocata nel contesto del tentativo di Kant di cogliere le condizioni della possibilità di esperienza e conoscenza degli oggetti a partire dal presupposto che la conoscenza inizi con l’esperienza, ma non si limiti ad essa. La soluzione di Kant sta nella posizione che spesso viene definita “rivoluzione copernicana” in filosofia, benché Kant non abbia usato questa espressione16. La svolta copernicana di Kant consiste nella tesi “costruttivista” per la quale possiamo conoscere soltanto ciò che in un qualche senso “poniamo”, “produciamo” o “facciamo”17. La Critica della ragion pura e poi gli scritti di personalità come Hegel, Marx e Dilthey furono dedicati all’approfondimento ed allo sviluppo di questa concezione.

Lukács, che correttamente mette in evidenza l’influenza della rivoluzione copernicana di Kant nella filosofìa posteriore, eccede quando afferma che tutta la filosofia moderna sta sotto il segno di questa questione. La forma anti-cartesiana del costruttivismo di Vico, Kant, Hegel, Marx ed altri ancora è contrastata dall’anti-costruttivismo cartesiano, ossia, semplificando, dall’idea che la conoscenza consista in una presa cognitiva del mondo come è in sé, indipendente dalla mente, un’idea che oggi ha continuatori non solo in Davidson, McDowell, Putnam e Quine ma anche in Husserl, Heidegger e Sartre.

Il copernicanismo di Kant ha influenzato in modo decisivo la filosofia tedesca posteriore18. Ma i filosofi tedeschi dopo Kant voltano le spalle alla cosa in sé concepita alla maniera di Kant. Tipica è la posizione di Jacobi, che, in uno scritto su Hume, sostiene, come è ben noto, che senza la cosa in sé egli non sarebbe entrato nella filosofia critica di Kant, ma che la cosa in sé non gli consentì di restarci.

Lukács ha ragione nel considerare enorme l’influenza di Kant sulla filosofia posteriore, ma sbaglia riguardo alla dottrina della cosa in sé. Kant non fece mai un tentativo non riuscito di conoscere la cosa in sé, né dopo Kant lo fecero altri. Diversamente da Kant, la filosofia classica tedesca non s’è occupala della conoscenza della cosa in sé, ma, piuttosto, del problema della conoscenza in generale. A Marx, questo problema non interessa e tanto meno lo “risolve” nella sua analisi delle merci, anche se ci aiuta a capire un problema più interessarne, forse più difficile, relativo alla natura del mondo moderno nato in seguito alla Rivoluzione Francese,

Con l’analisi delle merci Marx ci dà una visione profonda e valida della struttura economica della moderna società industriale. Se la concezione di Marx è la chiave per comprendere la società moderna, ciò non vuol dire che egli risolva il problema centrale della filosofia classica tedesca o, addirittura, il problema di Kant. E sarebbe un errore capitale equiparare la cosa in sé ad una merce19. Infatti la cosa in sé si riferisce alla realtà indipendente dalla mente, che possiamo pensare ma mai conoscere; la merce si riferisce invece all’elemento chiave della moderna società industriale, che,come Marx dimostra, non soltanto può essere pensata, ma può anche essere conosciuta.

Marx hegeliano

Il rapporto ambivalente di Lukács con Engels, cui egli muove alcune obiezioni su questioni particolari, ma col quale è e sarà d’accordo sui principi per tutta la sua lunga fase marxista, e dunque il suo rapporto ambivalente col marxismo è una costante delle opere composte nei lunghi anni in cui fu marxista. Se in Storia e coscienza di classe criticò Engels, in seguito divenne meno critico e nell’Ontologia dell’essere sociale revocò molte delle sue obiezioni.

Si potrebbero dire molte cose sul suo rapporto problematico col marxismo. Se egli non avesse ammesso la prevalenza degli imperativi politici sull’analisi filosofica e fosse stato meno ortodosso, avrebbe ovviamente potuto sviluppare assai meglio le sue idee. E tuttavia non ha senso porsi il problema di ciò che avrebbe potuto essere. Basterà esaminare quel che egli è stato in grado di fare.

Per quanto riguarda Marx, Lukács indica e al tempo stesso ostacola una prospettiva importante. Heidegger amava dire che ciò che svela nasconde. Forse questo principio non vale in tutti i casi, ma si applica bene alla lettura lukacsiana di Marx. La proposta di leggere Marx alla luce di Hegel, fatta da Lukács quando erano ancora inediti i Manoscritti economico-filosofici ed i Grundrisse, fu un’idea assiai importante che aiutò il suoi lettori a cogliere la grande influenza di Hegel sulla formazione delle teoria di Marx. Ciononostante quella proposta occultò, al tempo stesso, l’importanza di Hegel per Marx, poiché, seguendo Engels ed il marxismo dopo Engels, essa sostiene che Marx è estraneo e avverso alla filosofia classica tedesca. In questo modo, l’approccio di Lukács indica ed insieme impedisce decisamente una corretta considerazione dell’influenza che Hegel ebbe su Marx, non consentendo pertanto che Marx sia considerato un filosofo tedesco.

In effetti, il rapporto di Marx con Hegel, e dunque con la filosofia, è diverso dal modo in cui lo ha rappresentato il marxismo ed è filosoficamente più interessante. La filosofia classica tedesca, che non si conclude con Hegel, ovviamente continua con Marx. Gli idealisti tedeschi post-kantiani sono separati da Kant dalla grande Rivoluzione Francese. Questa serie di eventi, che rivelarono che la realtà umana è fondamentalmente storica, provocò una svolta in direzione della storia nei tentativi idealisti post-kantiani di continuare e portare a compimento la rivoluzione copernicana di Kant in filosofia.

La principale differenza ira Kant e Hegel sta nell’attenzione che quest’ultimo presta alla storia. Hegel si differenzia da Kant nel suo modo decisamente storico di concepire la conoscenza, la filosofia e la società. Hegel scrisse dopo la Rivoluzione industriale e ne ebbe profonda consapevolezza. Nella sua Filosofia del diritto egli traccia i contorni di una concezione storicistica della moderna società industriale, includendo espressamente le sue basi economiche nella famosa trattazione del “sistema dei bisogni”20. Secondo Hegel, che in ciò segue gli economisti ortodossi come Adam Smith, gli uomini soddisfano i loro bisogni entro le strutture economiche della moderna società industrializzata.

A cominciare dal suoi primi testi filosofici del 1843 e, comunque, sia nella sua prima fase sia in quella più tarda, Marx è un critico di Hegel. Ciò non significa però che sia un anti-hegeliano, dal momento che la posizione di Hegel, che in questo è assimilabile a pochi altri grandi filosofi, è talmente ampia che il criticarne un aspetto è spesso affatto compatibile con un’adesione al suo pensiero visto nel suo complesso.

Le scissioni nella scuola hegeliana dopo la morte di Hegel nel 1831 provocarono una serie di interpretazioni erronee del suo pensiero che persistono ancora oggi. Come chiunque altro, e come Hegel stesso, anche Marx appartenne al suo tempo. Come altri giovani hegeliani, come Feuerbach, la critica marxiana di Hegel si rivolge contro un’interpretazione teologica, per lo più di destra, di posizioni che, come è ben noto, è difficile ritrovare nei testi hegeliani. Appunto col rifiutare ogni forma di interpretazione teologica della storia, insistendo sulla spiegazione storica in quanto fondata sull’agire degli uomini e delle donne, Marx respinge una diffusa deformazione di Hegel, mentre si mantiene nell’ambito generale del pensiero di Hegel. Egli critica Hegel ma non per questo abbandona la filosofia. Anzi egli fa proprie, sviluppa e trasforma una lunga serie di idee di Hegel, ivi compresa la concezione che gli uomini soddisfano i loro bisogni nel quadro della moderna società industriale, una concezione che Marx porrà alla base della propria critica dell’economia politica e della sua teoria della moderna società industriale.

Mettendo in evidenza l’hegelismo di Marx, Lukács anticipa una riconsiderazione di Marx fondamentalmente non-marxista. Egli non attuò una simile riconsiderazione, ma, dopo l’irreversibile declino del marxismo, egli è indispensabile per recuperare le teorie di Marx. Indiscutibilmente Lukács aveva tutti gli strumenti per elaborare un’interpretazione completa di Marx come hegeliano, alternativa all’interpretazione che vuole che Marx sia colui che abbia risolto i problemi lasciati insoluti da Hegel. Non credo che sia stato un caso che Lukács non ci abbia dato questa interpretazione. Egli non ce la ha data non perché non lo abbia voluto ma, piuttosto, a causa del suo marxismo.

L’apertura di Lukács al marxismo hegeliano avvenne nel contesto del fervore rivoluzionario che si ebbe immediatamente dopo la Prima Guerra Mondiale; esso corrispondeva alla situazione prevalente negli anni in cui Hegel pubblicò la Fenomenologia dello spirito, apparsa nel 1807, cioè subito dopo la Rivoluzione Francese. È ovvio che i tempi cambino. L’оsservazione tarda di Hegel, fatta negli anni della Restaurazione, che la situazione non pareva più matura per un radicale cambiamento sociale21 sembra adattarsi perfettamente al momento storico che viviamo. Il repentino declino del marxismo ufficiale significa che il capitalismo è ora e rimarrà nel prossimo futuro probabilmente l’unico sistema dominante nel mondo industrializzato. La particolare forma del marxismo rivoluzionario che ispirò Lukács ha perso la sua presa su di noi.

Lukács resta oggi importante non per il suo tentativo di sviluppare il marxismo ortodosso, che oggi appartiene al passato, ma per il suo contributo alla comprensione di Marx nel contesto della filosofia classiсa tedesca. Chiarisco in breve: i grandi filosofi non vengono compresi subito, ma soltanto dopo l’avvicendarsi di più generazioni, spesso molto tempo dopo la loro uscita di scena. Marx appartiene al ristretto gruppo dei più importanti pensatori moderni. Le sue teorie presero forma nel momento storico in cui il contesto intellettuale era dominato da Hegel. Se Marx è hegeliano, allora l’importanza, oggi, della scoperta di Lukács di un marxismo hegeliano e di un libro come Storia e coscienza di classe sta nel fatto che egli ci indica la direzione giusta per intendere Marx, ossia non in contrapposizione alle teorie di Hegel sullo stato moderno, ma secondo una linea di sviluppo nella continuità.

Hegel è un filosofo moderno, un nostro contemporaneo, il primo grande pensatore che abbia capito come e perché gli uomini e la realtà umana siano in tutto e per tutto storici. Ritengo che il lavoro di questo nuovo secolo consisterà in buona parte nel ripensare i problemi filosofici più importanti su una base storica.

Recentemente ci si è accalorati molto li proposito della modernità, senza però contribuire al chiarimento di questo concetto. L’analisi di Lyotard della cosiddetta condizione postmoderna ci dice in maniera caratteristica che la modernità è quell’età nella quale non sono più possibili le spiegazioni narrative (méta-récits)22. Dietro questa affermazione c’è un profondo scetticismo su quello che siamo in grado di conoscere e addirittura il dubbio antiscientifico che, al massimo, possiamo giungere a sapere di non sapere, il che equivale ad una ritirata al di qua delle posizioni del pitagorismo greco arcaico, che, agli inizi, insegnava che la realtà poteva esser colta mediante il numero. Io credo che l’inverso si avvicini di più al vero. Come Hegel già sapeva, gli uomini soddisfano i loro bisogni entro la matrice della moderna società industriale. La Rivoluzione Industriale e la crescita della componente economica hanno creato una situazione nuova e senza precedenti. Nell’analisi del capitalismo Marx applica, critica, approfondisce, modifica e completa le implicazioni dell’analisi di Hegel. In tal senso, Marx è e rimane hegeliano, il principale fra i numerosi allievi di Hegel e ancora, forse, il teorico più importante per la comprensione della natura del mondo moderno.

In virtù dell’ascesa del moderno capitalismo, la vita moderna stessa si rivolge alla sua componente economica. Il recente dibattito sulla cosiddetta globalizzazione non è altro che una tacita ammissione dell’estensione della moderna società industrializzata ai paesi sviluppati e a quelli sottosviluppati del mondo. Ovviamente le teorie di Marx presentano molte difficoltà, come la teoria del plusvalore, che dovrebbero essere riconosciute anche dai lettori che più apprezzano Marx. Ma le teorie di Marx sono ancora le migliori esistenti per comprendere la moderna società industrializzata, sono ancora la migliore spiegazione di ciò che noi siamo. Il marxismo ha ormai fatto il suo tempo e dovrebbe essere abbandonato, ma, finché vi sarà una società industriale avanzata, Marx è e sarà sempre un essenziale punto di riferimento.

1 Per una recente discussione di Engels non impacciata dall’ideologia marxista, cfr. Engels after Marx, ed. Manfred B. Steger and Terrell Carver, University Park, Pennsylvania State University Press 1999.

2 I mutamenti introdotti da Engels nella traduzione del Capitale, che egli curò, sono importanti e non sono mai stati corretti. Si possono fare numerosi esempi: nel I volume, capitolo XV, sezione 9, viene aggiunta una proposizione dalla quarta edizione tedesca, che fu pubblicata dopo la morte di Marx. Un altro esempio è costituito dalle pagine (circa 3) che furono aggiunte ad alcune, ma non a tutte le versioni della edizione inglese per uniformarla alla stessa quarta edizione tedesca. Cfr. K. Marx, Capital, vol. I, ed. F. Engels, trans. S. Moore and E. Aveling, New York, International Publishers 1975, pp. 584-587. Ancora un altro esempio è costituito dalla divisione in 33 capitoli, nella traduzione inglese, dei 25 capitoli dell’originale tedesco.

3 È noto che Lenin cia spesso Engels e solo raramente Marx. Cfr. in proposito Bertram D. Wolfe, Marxism: 100 years in the Life of a Doctrine, New York, Delta Books 1968.

4 Cfr. p.es. T.I. Oizerman, Naučno-filosofkoe mirovocrenie Marksizma, Moskva, Nauka 1989.

5 Per la discussione della differenza fra le idee filosofiche di Marx e quelle di Engels cfr. L. Kolakowski, Main Currents of Marxism, 3 voll., Oxford, Clarendon Press 1978, vol. I, pp. 399-421.

6 Cfr. Kein Anderson, Lenin, Hegel, and Western Marxism, Urbana, University od Illinois Press 1995.

7 Cfr. G. Lukács, History and Class Consciousness, trans. Rodeney Livingstone, Cambridge, MA, MIT Press, 1971 [trad. it. Storia e coscienza di classe, Milano, Sugarco 1991].

8 Cfr. F. H. Lapointe, Georg Lukács and His Critics: An International Bibliography with Annotations (1910-1982), Westport, CT, Greenwood Press 1983.

9 Cfr. G. Lukács, Zur Ontologie des gesellschaftlichen Seins, 2 volumi, Neuwied, Luchterhand, 1984, 1986 [tr. it. Ontologia dell’essere sociale, 2 voll., Roma, Editori Riuniti 1976-1981]

10 Sul punto cfr. T. Rockmore, Engels, Lukács, and Kant’s Thing-In-Itself, in Steger and Carver, Engels after Marx, cit., pp. 145-162.

11 Intendo ad es. il dibattito fra i pensatori analitici, come Quine e molti altri, sulle varietà dell’olismo epistemologico. Cfr. J. Fodor and E. LePore, Holism: A Shopper’s Guide, Cambridge, Blackwell 1992.

12 Il mito secondo il quale v’è una differenza decisiva fra il marxismo e la cosiddetta filosofia “borghese” è una delle illusioni fondanti della filosofia marxista. Cfr., p.es., K. Korsch, Marxism and Philosophy, trans. F. Haòòiday, London, New Left Books 1979.

13 Cfr. T. Rockmore, Irrationalism: Lukács and the Marxist View of Reason, Philadelphia, PA, Temple University Press 1992.

14 Per la ritrattazione posteriore di quell’errore, come anche per la valutazione retrospettiva del libro, si veda la Prefazione alla nuova edizione (1967) in Lukács, History and Class Consciousness cit. , pp. IX-XL.

15 Cfr. la lettera a Herz del 21 luglio 1772 in I. Kant, Philosophical Correspondence, 1759-1799, trans. A. Zweig. Chicago, IL, University of Chicago Press 1967. pp. 71 -76.

16 Si avvicina di più a questa espressione in una celebre nota a pie di pagina. Cfr. I. Kant, Critica detta ragion pura, Rorna-Bari, Laterali 1983, pp. 23s.

17 Il locus classicus per la enunciazione di questa tesi, che è l’idea centrale della filosofia critica, si troverà in op. cit., p. 19.

18 Cfr. la lettera di J. S. Beck a Kant del 20 giugno 1797, in Philosophical Correspondence cit. p. 229.

19 Cfr. Lukács, History and Class Consciousness, cit., p. 83. (tr. it. cit., 107 s.)

20 Cfr. G. W. K Hegel, Lineamenti della filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza detto Stato in compendio, a. c. di G. Marini, Roma-Bari, Laterza 19902, §§ 189-208, pp. 159-169.

21 “Per dire ancora una parola a proposito del dare insegnamenti su come dev’essere il mondo, ebbene, per tali insegnamenti, in ogni e caso la filosofia arriva sempre troppo tardi”. Cfr. Hegel, Lineamenti della filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello Stato in compendio, cit., p. 17.

22 Cfr. J-F. Lyotard, La Condition postmoderne, Paris, Editions de Minuit 1979.

Il centenario lukacsiano

23 venerdì Ott 2015

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Adorno, Bloch, Cases, centenario, Faust, Giovane Lukács, Goeghe, Holz, Lenin, Lukacs, Mazzone, Nicolas Tertulian, ontologia, Perlini, Prestipino, rispecchiamento, Simmel, Tragedia


di Gian Mario Cazzaniga

«Rivista di Storia della Filosofia», 1, 1986.

La stagione di convegni che sembra aprirsi in occasione del centenario della nascita di Lukács può agevolare la ripresa del dibattito su una figura culturale, certamente importante, alla cui estese influenza passata in campo filosofico e nella critica letteraria ha corrisposto negli ultimi anni una attenzione tutto sommato scarsa.

Il convegno «György Lukács nel centenario della nascita 1885-1985», svoltosi ad Urbino il 13-15 febbraio 1985 per iniziativa dell’Istituto di scienze filosofiche e pedagogiche della Facoltà di Magistero e dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, ha costituito una interessante occasione di confronto fra studiosi di orientamento diverso, realizzando quindi l’obiettivo di un primo bilancio sullo stato presente degli studi.

Hai iniziato Guido Oldrini (Università di Bologna) con una relazione su «Giovane Lukács o Lukács maturo?», in cui viene sottolineata l’importanza della svolta teorica degli anni Trenta, sotto l’influenza delle letture moscovite dei Quaderni filosofici Lenin e dei manoscritti giovanili marxiani, svolta che pone le premesse teoriche per la futura Ontologia. In questo quadro viene esaminata criticamente la letteratura recente, in particolare anglosassone, che esaltando l’idealismo soggettivo giovanile ignora o misconosce la produzione della maturità, con una operazione storiograficamente infondata. Il recupero della distinzione fra le alienazione e oggettivazione nella centralità del concetto di lavoro permette infatti a Lukács di cogliere una genesi e costituzione ontologica degli strati del reale che ne consente una distinta autonoma lettura. Il terreno sociale e la sfera culturale risultano quindi dotate di proprie leggi, non riducibili meccanicamente a quelle della struttura materiale.

Nicolae Tertullian (Ecole Pratique des Hautes Etudes, Parigi) ha sviluppato la sua relazione su «Adorno e Lukács: la conciliazione impossibile». La tensione fra i due teorici, che giunge alla sprezza della Conciliazione sforzata di Adorno (1958) e della risposta di Lukács nella Prefazione del 1962 a Teoria del romanzo, ha finito per celare i fondamenti comuni delle due teorie estetiche, individuabili nella tradizione classica di Goethe e Hegel. L’obiettivo polemico per Adorno è la teoria del rispecchiamento, cui oppone la distanza della forma estetica dall’empirico, pur senza negarne la natura di fatto sociale. Il ruolo della mediazione soggettiva, in quanto costitutiva del fatto artistico, è tuttavia presente e sottolineata in tutta l’estetica lukacsiana. La stessa polemica contro le avanguardie viene motivata dalla insufficiente qualità del filtro soggettivo, non dalla soggettività in quanto tale, come mostra il riguardo di Lukács per Bartók e Kafka. Ciò che viene respinto in Adorno è piuttosto l’immersione nel negativo, l’assunzione del momento antirealistico come espressione condivisa del disincanto del mondo. In questo senso Lukács parlerà in una lettera del 1968 di un ruolo «schopenauriano» di Adorno, certo agli antipodi con le sue posizioni militanti sul terreno della politica culturale.

La relazione di Luciano Amodio (Milano) su «Lukács e la fiaba infinita» ha analizzato Sette fiabe, una recensione di Lukács a Bela Balázs del 1918. Abbiamo qui un frammento di una teoria dei generi letterari in cui la fiaba, in quanto equivalenza di possibilità e realtà, si costituisce come genere a sé. Si pone tuttavia una ulteriore distinzione fra mondo della fiaba antica, molteplicità di realtà possibili che è piuttosto ritrovamento che invenzione, e forma della fiaba moderna in quanto allegoria, non coincidenza col mondo che è tuttavia anche nostalgia di un mondo possibile. Di qui l’antinomia fra forma tragica, in cui la possibilità originaria viene elevata a destino, e forma fiabesca in cui domina piuttosto una scelta originaria da porre in questione. L’attenzione per la fiaba assume perciò per Amodio un carattere paradigmatico. Nel momento della crisi (1917), Lukács sceglierà di andare incontro alla rivoluzione non come a utopia, in quanto weberiana possibilità oggettiva, ma come a fiaba, possibilità esistenziale e istanza di novità assoluta.

Pasquale Salvucci (Università di Urbino) nella sua relazione «Lukács e la filosofia classica tedesca (Fichte)» ha ripreso criticamente la lettura lukacsiana di Fichte, con particolare riferimento a Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica. Mentre Fichte rappresenta nel suo giacobinismo il momento più radicale dell’idealismo soggettivo, il suo limite è costituito per Lukács dal contrasto assoluto fra libertà e realtà, contrasto colto dal giovane Hegel che, riconducendo la storia della libertà sul terreno sociale, ne concretizza il manifestarsi e lo sviluppo delle realizzazioni possibili. Questo tema di una hegeliana «fame di realtà» ritornerà più tardi nell’Ontologia. Ma il contrasto fra libertà e realtà è per Salvucci già presente in Fichte, sia pure con una strumentazione debole individuata nel ruolo degli intellettuali e dello stato pedagogo. Né la tesi fichtiana della natura come regione della coscienza risulta infirmata dalle critiche di Schelling ed Hegel, il cui idealismo oggettivo finisce per costituire una «autoillusione filosofica», peraltro secondo Lukács storicamente necessaria affinché il farsi della coscienza storica possa essere riportato dalla successiva critica materialistica su un diverso e vincente terreno.

Domenico Losurdo (Università di Urbino) nella relazione «Lukács e la distruzione della ragione» ha cercato di ricollocare nel suo reale significato storico questo testo controverso. La stesura nasce dalla lotta antifascista, contro i recuperi nazisti di Hölderlin ed Hegel, completandosi nel dopoguerra con un duplice obiettivo polemico contro la Norimberga storiografica che riportava le origini del Terzo Reich da Lutero a Hegel, col rischio di una condanna-assoluzione generale, e contro la tesi zdanoviana che riconduceva lo stesso Hegel al filone della reazione feudale. La classica coppia materialismo-spiritualismo diventa perciò qui contrapposizione tra idealismo e irrazionalismo, nel tentativo di recuperare all’interno della tradizione marxista un filone borghese progressista. Abbiamo qui una difesa della soggettività come cardine del razionalismo moderno, mentre il limite va piuttosto individuato nella tesi della continuità tra decadenza e nazismo. Lukács teorico della rottura rivoluzionaria rischia qui di ricadere in uno schema evoluzionistico, così come Croce, teorico della continuità, vedendo nel fascismo la rottura di una tradizione finirà per celarne radici e responsabilità storiche.

Italo Mancini (Università di Urbino) nella relazione «La differenza che non è infinita» ha ridiscusso criticamente le tesi di Goldmann di una presenza lukacsiana, con Pascal e Racine, fra i costruttori della coscienza tragico cristiana, con particolare riferimento a Metafisica della tragedia (1911). In questo periodo lukacsiano emerge con forza il tema della differenza, della Vita come altro dalla quotidianità, dell’irradiamento della bontà come categoria gnostica che unifica soggetto ed oggetto. Se il dramma è un gioco fra l’uomo e il destino, dove Dio è spettatore, questa dimensione esistenziale resta per Lukács differenza nel finito, non si fa mai prospettiva teologica nell’infinita differenza fra l’io-tempo e l’eternità. Di qui la critica di Bloch, che nella categoria weberiana del caso riscopre i fondamenti realistici dell’azione libera e della stessa utopia religiosa che si proietta in un tempo storico inteso come possibilità, multiversum. Gli spunti di metafisica cristiana si annullano dunque su un terreno radicalmente laico e appaiono piuttosto una gigantesca metafora della storia d’amore con Irma Seidler, dove l’attesa del miracolo non va oltre l’essere coscienza e segno della crisi.

Tito Perlini (Milano) nella relazione «L’etica nel tardo Lukács» ha analizzato l’ultimo periodo come ripresa di una simbolica goethiana, dove l’idea conserva la realtà dandole significato, in opposizione ali allegoria, dove il concetto elimina la cosa e tradisce l’immagine risolvendola in astrazione. Di qui il primato lukacsiano del realismo in quanto realizza­zione dell’immanenza del significato, in polemica col naturalismo e con le avanguardie che costituiscono il riflesso del processo di dissoluzione della realtà prodotta dalla fase tardo-capitalistica. In questo quadro Estetica e Per l’ontologia dell’essere sociale si pongono come introduzione all’Etica che Lukács non scriverà, in quanto tentativo di riflessione sullo sviluppo del mondo moderno, processo di laicizzazione che supera l’etica indviduale astratta della religione nella padronanza sociale del mondo tramite l’arte e la scienza.

Proprio il porsi di queste ultime come strumenti di consapevolezza e veicoli di liberazione fonda l’ottimismo ancora ottocentesco lukacsiano, figlio della deutsche Klassik, e motiva la sua debole presenza oggi, dove questo ottimismo diventa improponibile.

Laura Boella (Università di Milano) nella relazione «Etica e ontologia nell’ultimo Lukács» ha cercato di cogliere gli elementi di continuità fra la tarda elaborazione teorica lukacsiana e la produzione precedente. La svolta degli anni Trenta costituisce una riflessione su una fase di riflusso del movimento rivoluzionario, in cui il recepimento di riconciliazione hegeliana con la realtà non annulla il progetto lukacsiano di redenzione del mondo. In questo contesto è significativo il saggio su Keller (1939), in cui una società civile non ancora assoggettata al capitalismo si proietta nel futuro come modello di comunità etica. L’Ontologia dell’essere sociale si pone come introduzione ad un’Etica che resterà progetto, ponendo il lavoro come prassi teleologica costitutiva della natura umana e fondante il mondo della rappresentazione simbolica e della produzione di valori. Natura e cultura restano tuttavia come antinomia irrisolta e proprio questa perdurante contraddizione dell’ultimo Lukács ripropone come attuali i temi della critica alle aporie del progresso e della persistenza dei problemi metafìsici dell’esistere umano.

Giuseppe Prestipino (Università di Siena) nella relazione «L’Ontologia di Lukács: revisioni oggi possibili» ha analizzalo il tentativo nell’Ontologia di superare la teoria del rispecchiamento privilegiando la struttura teleologica del lavoro, in quanto autorealizzazione umana e conseguente arretramento della barriera naturale, e rielaborando l’analisi hartmanniana di un tempo pluristrato (cosale, vissuto, pensato). È possibile ripercorrere una analisi materialistica a partire dal cogito cartesiano, in cui la forma teleologica compiuta di una comunità autoprogettantesi costituisca il punto di partenza per i livelli inferiori di realtà: momento organico della teleologia non cosciente, momento inorganico ateleologico. Sul rapporto fra materia e forma è significativo che mentre Hartmann distingue fra tempo delle forme psichiche e tempo delle forme sociali, Lukács unifichi nel tempo dell’essere sociale. C’è qui un passaggio incompiuto. Lukács intravede una forma futura socioteteologica che si autoregola consapevolmente, ma in sostanza resta bloccato sul tempo presente, dove la forma sociale non ha regolazione cosciente. Tuttavia questo tentativo può essere ulteriormente sviluppato: solo partendo da una forma compiuta di realtà oggi non ancora visibile, in quanto possibile ma non realizzata, il progetto ontologico può avere fondamento sviluppo.

La relazione di Hans H. Holz (Università di Croningen) su «Il problema della mimesis nell’estetica di Luktìcs» ha analizzato l’estetica lukacsiana della maturità in chiave di tensione irrisolta fra una ontologia materialistica fondata sulla dialettica della natura ed una teoria del rispecchiamento come mimesis dell’umanizzazione della natura. La mimesis sorge come riproduzione di accadimenti umani e naturali, si articola nelle forme della raffigurazione e della riflessione producendo livelli mimetici cumulativi, prima nel rituale magico e poi nel mito, da cui sorge la distinzione tra magia e arte in quanto secolarizzazione (consapevolezza del carattere mimetico del rito). Lukács coglie però insufficientemente il livello più astratto della rappresentazione (relazione e strutture), da cui la sua incomprensione dell’arte astratta. Resta inoltre un concetto debole di natura, da cui la riduzione del lavoro al momento teleologico e la svalutazione della scienza, colta come disantropomorfismo, nei confronti dell’arte intesa come simbolo di libertà, massimo distacco dall’essere-in-sé. Nell’Ontologia si intrecciano nuovi e vecchi tempi, riemerge con insistenza uno status soteriologico dell’arte come Vita, per cui la teoria materialistica della mimesis resta un gigantesco progetto incompiuto.

La relazione di Cesare Cases (Università di Torino) sugli studi faustiani di Lukács ha infine affrontato la lettura lukacsiana del Faust come tappa della storia dell’umanità, grandiosa allegoria del capitalismo in cui la traduzione poetica non cela contraddizioni e possibilità di rovesciamento verso una più umana futura comunità. Ma il testo, e particolarmente l’atto finale, manifestano piuttosto la consapevolezza che il capitalismo apre un processo di distruzione dei rapporti umani e autodistruzione, da cui scaturisce la rivolta della natura violentata. Mentre per Lukács il Faust chiude la fase classica dell’arte, mentre successivamente solo il romanzo sarà in grado di affrontare criticamente la realtà capitalistica, si può invece rilevare che proprio la scrittura allegoria del secondo Faust risulta capace di riflettere i processi di mercificazione, mentre il realismo balzachiano, dove l’umano prevale ancora sull’astrazione, distoglie dal generale dominio del denaro. Di qui l’incomprensione del testo nel secondo Ottocento e la riscoperta nella scrittura allegorica faustiana sono da parte di quella avanguardia novecentesca che Lukács non amava. Nelle Faust-Studien opera una lettura della storia come susseguirsi necessario di stadi, il cui limite è la permanente tendenza a sfociare nel giustificazionismo storico, limite peraltro presente non solo nell’opera lukacsiana ma in tutto il marxismo.

La diversità di temi orientamenti espressi dal convegno si è poi ulteriormente allargata nelle comunicazioni (G.M. Cazzaniga, Università di Urbino, «Kultur e Zivilisation nel giovane Lukács»; A. De Simone, Università di Urbino, «Dalla tragedia alla dialettica. Note sul rapporto tra il giovane Lukács e Simmel»; A. Mazzone, Università di Messina, «Causalità e teleologia dell’ontologia lukacsiana»).

Il dibattito sulle relazioni ha infine contribuito a mettere in luce diversità dei filoni interpretativi e nodi controversi, dal significato della pubblicistica lukacsiana all’interno del dibattito culturale terzinternazionalistico al possibile rapporto fra i diversi periodi dell’esperienza intellettuale e politica di Lukács. Nel confronto con i contemporanei è stato dibattuto in particolare il rapporto con il messianismo blochiano e con la teoria critica di Adorno, così come la presenza di Hartmann nelle opere più tardi, mentre è forse rimasto in ombra il momento più specificamente storiografico dell’influenza lukacsiana sul dibattito culturale e letterario di questo secolo.

È difficile prevedere se l’occasione del centenario stimolerà una ripresa di studi originali su questo pensatore, alla cui indubbia influenza in ambiti culturali diversi ed in forme e tempi diversi a seconda dei contesti nazionali sembra oggi corrispondere una attenzione debole, una sorta di silenzio che attende ancora un bilancio storiografico meditato.

Gli atti del convegno urbinate, che si annunciano imminenti, costituiranno comunque un utile materiale sullo stato attuale della ricerca.

Il supporto ontologico dell’Estetica di Lukács

11 domenica Ott 2015

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di Guido Oldrini

 «Rivista di Filosofia», n. 4, 1987.


SUMMARY. Lukács began working on his Ontology only after he had completed the great Aesthetics (1960). To all appearance, therefore, Aesthetics precedes Ontology. However, if the logical inner connections, not the chronological ones, between the two books are considered we become aware and realize at once that such a sequence has to be reversed. The theory of art worked out by Lukács’ Aesthetics presupposes an — at least latent — social ontology as its support and justification. There is some evidence of it, I think, in Lukács’ critical essays from the Thirties onwards.

Chi scorra le pagine della grande Estetica di Lukács così come essa, verso la fine del 1959 o i primi mesi del 1960, esce dalle mani dell’autore, prova l’impressione di trovarsi squadernata davanti un’opera compatta: un testo che, pur nella sua ampiezza, complessità e talora anche prolissità (disordine espositivo, ripetizioni, excursus superflui o fuori tema), si spiega e giustifica organicamente da sé, come un insieme unitario. Continua a leggere →

La passione durevole per una filosofia dell’emancipazione.

13 sabato Dic 2014

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di Costanzo Preve

da Una nuova storia alternativa della filosofia, petite plaisance, Pistoia 2013.

Note di analisi sull’ontologia dell’essere sociale di Lukács e proposta articolata di sua rifondazione categoriale critica

Nell’ultima parte della sua vita (1956-1971) il filosofo ungherese di lingua tedesca G. Lukács (1885-1971) si accinse ad un’impresa filosofica che per la sua serietà ed il suo livello qualitativo può essere paragonata senza esagerazione a quelle compiute da autentici geni del pensiero come Spinoza, Kant, Hegel e Marx. Prima scrisse una monumentale Estetica, che non deve essere confusa con un’opera specialistica sul giudizio estetico puro e semplice, ma che ha come oggetto la cosiddetta «missione defeticizzante dell’arte», rivolta a combattere quello che chiamava «l’ateismo permanente alla manipolazione ideologica» (su questo punto Lukács ha incontrato felicemente l’Antonio Gramsci della rivalutazione del cosiddetto «senso comune» come matrice della filosofia). Terminata l’Estetica, Lukács si ripropose di scrivere un’Etica. E, tuttavia, egli si rese immediatamente conto del fatto che un’Etica scritta senza prima accertare le categorie dell’essere sociale non può che sboccare inesorabilmente in un’etica dell’intenzione di tipo kantiano, o in un’etica della responsabilità di tipo weberiano, o in una interminabile, sfiancante ed inutile “disputa sui valori”, oppure in un’interminabile casistica di tipo gesuitico su cosa si dovrebbe fare in situazioni-limite, scelte appositamente per evitare di prendere in considerazione le normali situazioni della vita quotidiana (del tipo: è possibile cavare gli occhi al torturato se in questo modo gli si può far confessare dove ha messo una bomba che ucciderebbe centomila persone? È lecito tagliare la gola alla propria madre se questo comporta la salvezza di dieci persone?). Lukács si rese presto conto che è del tutto inutile scrivere un’Etica, o se si vuole una Morale, se prima non ci si è chiariti bene la natura prima dell’essere sociale in generale (in quanto è appunto categorialmente distinto dall’essere naturale oggetto delle scienze moderne di tipo galileiano, newtoniano ed einsteiniano), e poi dell’essere sociale specifico (in quanto appunto è capitalistico, e non primitivo, antico-orientale, asiatico, schiavistico o feudale-signorile). Continua a leggere →

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«Compagno Lukács, sembri piuttosto pessimista»
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Al centro, mani in tasca
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Lukács al Congresso della pace di Helsinki 1955
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Lukács nel suo studio
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At the meeting of the Petöfi Cercle on June 27,1956, Arpad Szakasits, social democrat, talks to philosopher George Lukacs.
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Bundesarchiv Bild 183-15304-0097, Berlin, Tagung Weltfriedensrat, Georg Lukacz, Anna Seghers
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