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György Lukács

~ il primo blog in progress dedicato a Lukács

György Lukács

Archivi tag: rivoluzione russa

Quella felice innovazione sul mondo delle cose

29 sabato Feb 2020

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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Tag

classe operaia, Codismo e dialettica, estremismo di sinistra, feticismo, Heidegger, Korsch, leninismo, rivoluzione russa, Storia e coscienza di classe, Žižek


di Stefano Petrucciani

«il manifesto» 21 giugno 2007.


Se il marxismo filosofico è stato, qualsiasi cosa se ne voglia pensare oggi, un tassello fondamentale della cultura del Novecento, in esso un ruolo decisivo fu svolto dal libro che György Lukács scrisse nel 1922 e stampò l’anno dopo, Storia e coscienza di classe. L’occasione per ritornarci sopra è oggi la pubblicazione (per le Edizioni Alegre, con il titolo Coscienza di classe e storia. Codismo e dialettica, traduzione di Marco Maurizi, postfazione di Slavoj Žižek, euro 22) della replica che Lukács scrisse, tra il 1925 e il 1926, per rispondere alle accuse che gli erano state mosse dal marxismo ortodosso, e che erano state ufficializzate al quinto congresso dell’Internazionale comunista, tenutosi a Mosca nell’estate del 1924. Continua a leggere →

Crisi parallele. Intervista a György Lukács

24 mercoledì Ott 2018

Posted by nemo in I testi, Inediti, interviste, Traduzioni italiane

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Tag

autobiografia, consigli operai, crisi dell'occidente, democrazia socialista, filosofia, Jugoslavia, Lenin, movimento studentesco, riforma socialismo, rinascita marxismo, rivoluzionario, rivoluzione russa, specie muta, stalinismo


di György Lukács

in «L’utopia concreta. Rivista quadrimestrale», I, n. 1, ottobre 1993
[da «New Left Review», n°60, marzo – aprile 1970].


Compagno Lukács, come giudica la sua vita e l’epoca storica in cui ha vissuto? In cinquantanni di lavoro scientifico e rivoluzionario ha avuto la sua parte di onori e di umiliazioni. Sappiamo anche che è stato in pericolo dopo l’arresto di Béla Kun nel 1937. Se dovesse scrivere un’autobiografia o delle memorie personali, quale lezione fondamentale ne trarrebbe?

Per rispondere brevemente, direi che è stata una mia grande fortuna aver vissuto una vita intensa e densa di avvenimenti. Lo considero come un particolare privilegio di cui ho avuto esperienza negli anni 1917/1919. Poiché provenivo da un ambiente borghese – mio padre era un banchiere di Budapest – e pur attuando un’opposizione piuttosto individuale in «Nyugat»1 – facevo parte tuttavia dell’opposizione borghese. Continua a leggere →

La missione morale del Partito comunista

04 domenica Feb 2018

Posted by nemo in I testi

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Tag

avanguardia, educazione, forze motrici della rivoluzione, forze oggettive, guida rivoluzionaria, Lenin, libertà, massa rivoluzionaria, missione storica del proletariato, organizzazione, partiti socialdemocratici, partito chiuso, Partito comunista russo, rivoluzione russa, sabati comunisti, spontaneità, vocazione, volontà rivoluzionaria


di György Lukács

[Die moralische Sendung der kommunistischen Partei, 1920]

Scritti politici giovanili 1919-1928, Laterza, Bari 1972.


1. Come ogni scritto di Lenin, anche questo nuovo opuscolo1 merita lo studio più attento da parte di tutti i comunisti. Esso dimostra, ancora una volta, la straordinaria capacità di Lenin di comprendere gli elementi decisamente nuovi che esistono in un nuovo fenomeno nell’evoluzione del proletariato, di capire e di far capire in maniera essenziale l’essenza di quegli elementi. Mentre i suoi precedenti scritti erano dedicati più alla polemica, e cercavano di analizzare a fondo le organizzazioni di lotta del proletariato (in primo luogo lo Stato), quest’ultimo è invece dedicato ai germi della nuova società che stanno sbocciando. Continua a leggere →

Lettera al signor Carocci

07 sabato Nov 2015

Posted by nemo in I testi, Traduzioni italiane

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Tag

Bucharin, burocrazia, Chruščëv, Cina, citatologia, coesistenza, culto della personalità, democratizzazione, dissenso, economia, Engels, formazioni sociali, guerra atomica, Hitler, industrializzazione, intellettuali, Krupskaja, Lenin, letteratura, Marx, mediazioni, NEP, oggettivismo, oggettività, partitarietà, Plechanov, rivoluzione russa, scienza, Seconda Guerra Mondiale, settarismo, Stalin, stalinismo, strategia, tattica, teoria, Trotskij, uomini reali, XX Congresso


di György Lukács

«Nuovi Argomenti», n. 57-58, 1962 [in G.L., Marxismo e politica culturale, trad. di Anna Solmi Marietti, Einaudi, Torino 1968].


Caro signor Carocci,

sarei molto tentato di rispondere diffusamente ai problemi che lei pone nelle sue otto domande: poiché vi si trova concentrato praticamente tutto ciò che da anni occupa e interessa molti di noi. Purtroppo le circostanze in cui mi trovo mi obbligano a rinunciare a questa intenzione. Ma poiché non le voglio tacere del tutto le mie idee in proposito, mi limito ad una semplice lettera privata, che naturalmente non ha affatto la pretesa di trattare sistematicamente tutte le questioni essenziali.

Comincio con l’espressione «culto della personalità». Va da sé che ritengo assurdo ricondurre la sostanza e la problematica di un periodo così importante della storia del mondo al carattere particolare di un individuo. È vero che, quand’ero studente, si insegnava nelle università tedesche: «Männer machen die Geschichte» [«Le forti personalità fanno la storia»]. Ma già il mio sociologismo simmeliano o maxweberiano di allora bastava a farmi sorridere di queste dichiarazioni retoriche. E che dire ora, dopo decenni di educazione marxista?

Già la mia prima reazione al XX Congresso, quasi ancora puramente immediata, si rivolgeva, oltre la persona, all’organizzazione: all’apparato che aveva prodotto il «culto della personalità», e che lo aveva poi fissato in una sorta d’incessante riproduzione allargata. Mi raffiguravo allora Stalin come il vertice di una piramide che, allargandosi sempre più verso il basso, era composta di tanti «piccoli Stalin»: i quali – visti dall’alto – erano gli oggetti, e – visti dal basso – i produttori e garanti del «culto della personalità». Senza il funzionamento regolare e incontrastato di questo meccanismo, il «culto della personalità» sarebbe rimasto un sogno soggettivo, un fatto patologico, e non avrebbe mai potuto raggiungere quell’efficacia sociale che esercitò per decenni.

Non occorreva riflettere molto per capire che quell’immagine immediata, senza essere falsa, poteva dare solo un’idea frammentaria e superficiale delle origini, del carattere e degli effetti di un periodo importante. Per gli uomini pensanti, e veramente dediti alla causa del progresso, sorgeva necessariamente il problema della genesi sociale di questa fase evolutiva, problema che Togliatti formulò esattamente per primo, dicendo che bisognava mettere in luce le condizioni sociali della nascita e del consolidamento del «culto della personalità», naturalmente in base alla dinamica interna della rivoluzione russa; Togliatti aggiungeva, altrettanto esattamente, che a questo lavoro erano chiamati in primo luogo i sovietici. Naturalmente non si tratta solo di un problema storiografico. La ricerca storica trapassa necessariamente in una critica della teoria e della prassi che si sono così determinate. E una siffatta indagine approfondita – ne fui convinto fin dall’inizio – doveva mettere in luce tutto ciò che vi era di falso nell’ideologia connessa al «culto della personalità» e da esso prodotta. Dovrebbe succedere, a questi studiosi, come alla signora Alving negli Spettri di Ibsen, che ne descrive così la «svolta ideologica»: «Volevo toccare solo un nodo, ma quando lo ebbi tirato, tutta la storia mi si sciolse tra le mani. E allora mi accorsi che era solo cucita a macchina». Questo risultato non dipende, in primo luogo, dall’atteggiamento di coloro che affrontano il problema; è la conseguenza organica del materiale trattato.

Questa ricerca è rimasta, a tutt’oggi, solo un postulato per il vero marxismo, e lei non si può attendere da me, che non sono uno specialista in questo campo, nemmeno un semplice tentativo di soluzione; tantomeno in una lettera, che ha necessariamente un carattere ancora più soggettivo e frammentario di quello che avrebbe un saggio sull’argomento. In ogni caso deve essere chiaro, per ogni uomo pensante, che il punto di partenza può essere solo la situazione interna e internazionale della rivoluzione proletaria russa del 1917. Da un punto di vista oggettivo, bisogna pensare alle devastazioni della guerra, al ritardo industriale, alla relativa arretratezza culturale della Russia (analfabetismo, ecc.), alla serie di guerre civili, di interventi, da Brest-Litovsk a Vrangel’, eccetera. Come elemento soggettivo (spesso trascurato), bisogna aggiungere la posizione di Lenin nella possibilità di tradurre in pratica le sue giuste teorie. Oggi – poiché in quegli anni le sue decisioni finirono sempre per imporsi – si tende spesso a dimenticare quali resistenze egli dovette superare all’interno del proprio partito. Chi conosce anche solo in parte gli antefatti del 7 novembre, della pace di Brest-Litovsk, della NEP, capirà che cosa intendo dire. (Circolava più tardi un aneddoto su Stalin, che avrebbe detto, ai tempi, delle discussioni interne sulla pace di Brest: «Il compito più importante è quello di assicurare a Lenin una maggioranza sicura nel Comitato centrale»).

Dopo la morte di Lenin era bensì terminato il periodo delle guerre civili e degli interventi stranieri, ma, specialmente per quanto riguarda questi ultimi, senza la minima garanzia che non potessero rinnovarsi da un giorno all’altro. E l’arretratezza economica e culturale appariva come un ostacolo difficilmente superabile ad una ricostruzione del paese, che doveva essere insieme, edificazione del socialismo e garanzia della sua difesa contro ogni tentativo di restaurazione capitalistica. Con la morte di Lenin, naturalmente, le difficoltà all’interno del partito non fecero che aumentare. Poiché l’ondata rivoluzionaria che era stata scatenata dal 1917 era passata senza instaurare una stabile dittatura del proletariato anche in altri paesi, occorreva affrontare risolutamente il problema della costruzione del socialismo in un solo paese (arretrato). È in questo periodo che Stalin si rivelò uno statista notevole e lungimirante. L’energica difesa della nuova teoria leniniana della possibilità di una società socialista in un solo paese contro gli attacchi soprattutto di Trotskij, rappresentò, come non si può fare a meno di riconoscere oggi, la salvezza dell’evoluzione sovietica. È impossibile giudicare in modo storicamente giusto il problema Stalin, se non si considerano da questo punto di vista le lotte di tendenza del Partito comunista; Chruščëv ha già trattato come si deve questo problema in occasione del XX Congresso.

Mi permetta ora una breve digressione sul significato delle riabilitazioni. Va da sé che tutti coloro che negli anni trenta e più tardi furono ingiustamente perseguitati, condannati, assassinati da Stalin, devono essere riabilitati da tutte le «accuse» inventate contro di loro (spionaggio, sabotaggio, ecc.). Ma ciò non implica affatto che debbano andare soggetti a «riabilitazione» anche i loro errori politici, le loro false prospettive. Questo vale soprattutto per Trotskij, che fu il principale esponente teorico della tesi che la costruzione del socialismo in un paese solo è impossibile. La storia ha confutato da tempo la sua teoria. Ma se ci trasportiamo nell’epoca immediatamente successiva alla morte di Lenin, questo punto di vista genera necessariamente l’alternativa: allargare la base del socialismo con «guerre rivoluzionarie», o ritornare alla situazione sociale anteriore al 7 novembre; e cioè il dilemma di avventurismo o capitolazione. Qui la storia non consente in alcun modo una riabilitazione di Trotskij; sui problemi strategici allora decisivi, Stalin ebbe pienamente ragione contro di lui.

Altrettanto ingiustificata mi pare la leggenda diffusa in Occidente, che se Trotskij fosse giunto al potere, avrebbe avviato uno sviluppo più democratico di Stalin. Basta pensare alla discussione sui sindacati del 1921, per capire come si tratti di una pura leggenda. Trotskij sostenne allora, contro Lenin, la tesi che bisognava statalizzare i sindacati per incrementare più efficacemente la produzione, che significa poi, obiettivamente, che essi dovevano cessare di essere organizzazioni di massa con una vita propria. Lenin, che partiva dalla situazione concreta, dalla posizione dei sindacati fra il partito e il potere centrale, nel senso della democrazia proletaria, assegna loro persino il compito di difendere gli interessi materiali e spirituali dei lavoratori, ove occorra, anche contro uno stato burocratizzato. Non voglio e non posso, qui, affrontare diffusamente questo problema. Ma è certo che Stalin, negli anni seguenti, ha proseguito de facto (anche se non nell’argomentazione) la linea di Trotskij, e non quella di Lenin. Se quindi Trotskij, più tardi, rimproverò a Stalin di essersi appropriato del suo programma, si può ben dire che, in questo, egli aveva per molti aspetti ragione. Ne consegue, per il mio giudizio sulle due personalità, che ciò che oggi consideriamo come dispotico e antidemocratico nell’epoca staliniana, ha rapporti strategici assai stretti con le idee fondamentali di Trotskij. Una società socialista guidata da Trotskij sarebbe stata almeno altrettanto poco democratica di quella staliniana, solo che si sarebbe orientata strategicamente sul dilemma: politica catastrofica o capitolazione, anziché sulla tesi sostanzialmente esatta di Stalin, della possibilità del socialismo in un solo paese (le impressioni personali che ho tratto dai miei incontri con Trotskij nel 1921, hanno suscitato in me la convinzione che egli, come individuo, era portato al «culto della personalità» ancor più di Stalin). Quanto a Bucharin, ritengo inutile scriverne diffusamente. Verso la metà degli anni venti, quando la sua posizione non era attaccata da nessuno, ho già fatto notare quanto fosse discutibile il suo marxismo, proprio in rapporto ai suoi fondamenti teoretici.

Torniamo ora al tema principale. Le vittorie meritate nelle discussioni degli anni venti non hanno fatto sparire le difficoltà della posizione di Stalin. Quello che era obiettivamente il problema centrale, il ritmo fortemente accelerato dell’industrializzazione, era, con ogni probabilità, difficilmente risolubile nel quadro della normale democrazia proletaria. Sarebbe vano, oggi, domandarsi se e in che misura Lenin avrebbe saputo trovare una via d’uscita. Retrospettivamente vediamo, da un lato, le difficoltà della situazione oggettiva, e, dall’altro, che Stalin, per dominarle, superò vieppiù, col passare del tempo, i limiti dello strettamente necessario. Mettere in luce le proporzioni esatte sarebbe appunto il compito di quella ricerca che Togliatti ha detto di attendersi dalla scienza sovietica. Si ricollega strettamente a questo problema (senza perciò identificarsi con esso) quello della posizione di Stalin nel partito. È certo che egli ha costruito a poco a poco, durante e dopo il periodo delle discussioni, quella piramide di cui parlavo all’inizio. Ma non basta costruire un simile meccanismo, bisogna anche tenerlo continuamente in funzione; esso deve reagire sempre nel modo desiderato, e senza possibilità di sorprese, ai problemi quotidiani di ogni genere. Si dovette così elaborare, a poco a poco, quel principio che oggi si suole chiamare «culto della personalità». Anche qui la storia dovrebbe essere riesaminata a fondo da studiosi sovietici competenti di tutta la materia (compreso il materiale finora inedito). Quel che si poteva constatare anche dall’esterno, era anzitutto la liquidazione sistematica delle discussioni interne di partito, in secondo luogo l’accrescersi di misure organizzative contro gli oppositori, in terzo luogo il passaggio da queste misure a provvedimenti di carattere giudiziario e statale-amministrativo. Quest’ultimo crescendo fu accolto naturalmente con muto spavento. Durante la seconda fase agiva ancora il tradizionale umorismo dell’intelligentsia russa. «Qual è la differenza tra Hegel e Stalin?», era la domanda. E la risposta: «In Hegel ci sono tesi, antitesi e sintesi, in Stalin rapporto, controrapporto e misure organizzative». Per il giudizio storico su questo sviluppo Chruščëv ha già dato una giusta indicazione al XX Congresso, definendo i grandi processi degli anni trenta come politicamente superflui, poiché la forza effettiva di ogni opposizione era già stata allora pienamente stroncata.

Non mi ritengo affatto competente a descrivere questo sviluppo e le sue forze motrici. Anche dal punto di vista teoretico bisognerebbe mostrare come Stalin, che negli anni venti difese ancora con abilità e intelligenza l’eredità di Lenin, venne sempre più a trovarsi, in tutti i problemi importanti, in opposizione a lui: circostanza a cui non cambia nulla il suo attaccamento verbale alle dottrine di Lenin. Anzi: poiché Stalin seppe ottenere, sempre più efficacemente, di essere considerato come il legittimo erede di Lenin, come il suo unico autentico interprete, e che si riconoscesse in lui il quarto classico del marxismo, finì per consolidarsi sempre più il fatale pregiudizio dell’identità delle teorie staliniane coi principi fondamentali del marxismo. Ripeto che non può essere mio compito esporre scientificamente questa situazione e le sue origini. La prendo così com’è nella realtà, come un fatto, e cerco, nelle pagine che seguono, di metterne in rilievo le conseguenze teoriche e culturali, come il metodo ad essa immanente, sulla scorta di alcuni fatti importanti, di alcuni punti nodali. Dove premetterò subito che non m’interessa di sapere se e in che misura determinate teorie debbano ricondursi positivamente allo stesso Stalin. Nella centralizzazione spirituale da lui creata, era comunque impossibile che si affermassero stabilmente delle teorie che non fossero almeno da lui autorizzate; la sua responsabilità nei loro confronti è quindi in ogni caso evidente.

Comincio con una questione di metodo in apparenza estremamente astratta: la tendenza staliniana è sempre quella di abolire, ovunque possibile, tutte le mediazioni, e di istituire una connessione immediata fra i dati di fatto più crudi e le posizioni teoretiche più generali. Proprio qui appare chiaramente il contrasto fra Lenin e Stalin. Lenin distingueva molto esattamente fra teoria strategia e tattica, e ha sempre studiato accuratamente e tenuto conto di tutte le mediazioni che le collegano tra loro (spesso in modo estremamente contraddittorio). Mi è naturalmente impossibile, in una lettera (per quanto mi si venga allungando nello scriverla), anche solo toccare per accenni questa prassi teoretica di Lenin. Mi limito a prendere, da questo grande complesso, un solo esempio: il concetto così importante per Lenin del ripiegamento tattico. È una regola metodologica affatto ovvia che la necessità e utilità di una ritirata può essere intesa solo sulla base dei concreti rapporti di forza di volta in volta esistenti, e non dei principi teoretici più generali; questi determinano – più o meno mediatamente – gli obiettivi ecc. dell’azione attuale, e hanno una grande importanza per la ritirata stessa in quanto contribuiscono a determinarne il modo, la misura, ecc., facendo sì che non diventi un ostacolo a una nuova avanzata. Che per realizzare elasticamente la ritirata si richieda la conoscenza di tutto un sistema assai intricato e complesso di mediazioni, è chiaro senza bisogno di altre spiegazioni. Stalin, che non disponeva dell’autorità di Lenin, prodottasi in virtù di grandi azioni e importanti realizzazioni teoriche, e diventata ormai qualcosa di «naturale», trovò il modo di dare una giustificazione immediatamente evidente di tutte le sue misure, presentandole come la conseguenza diretta e necessaria delle dottrine marxiste-leniniste. A questo scopo bisognava sopprimere tutte le mediazioni, e la teoria e la prassi dovevano essere collegate immediatamente fra loro. È per questo che tante categorie di Lenin scompaiono dal suo orizzonte; anche il ripiegamento appare in lui come un’avanzata.

La mancanza di scrupoli di Stalin giunse qui fino al punto di alterare, se necessario, anche la teoria, per venire incontro alle sue pretese di autorità. Ciò appare, in modo particolarmente grottesco, nel problema cinese, dove il grottesco nasce dal fatto che Stalin, questa volta, da un punto di vista tattico aveva pienamente ragione. (Anche la critica più severa non deve mai farci dimenticare che Stalin fu una figura politica di prim’ordine). Trotskij e i suoi seguaci sostenevano la tesi che, poiché in Cina predominavano i rapporti asiatici di produzione studiati teoricamente da Marx, una rivoluzione democratico-borghese (corrispondente al passaggio del feudalesimo al capitalismo in Europa) era superflua, e bisognava attendersi lo scoppio immediato di una rivoluzione proletaria. Stalin comprese esattamente la falsità e pericolosità politica di questa posizione. Ma, anziché confutarla con un’analisi concreta della situazione cinese contemporanea e dei compiti tattici che ne scaturivano, espunse, sic et simpliciter, dalla scienza i rapporti asiatici di produzione, e stabilì l’esistenza di un feudalesimo cinese (e asiatico in genere). Tutta l’orientalistica, nell’Unione Sovietica, fu così costretta a porre alla «base» di tutte le sue ricerche una formazione inesistente.

La stessa metodologia appare in un altro caso, molto più noto. Mi riferisco al patto di Stalin con Hitler nel 1939. Anche qui, a mio avviso, Stalin prese una decisione – da un punto di vista tattico – sostanzialmente giusta, che ebbe però tragiche conseguenze perché anche qui, anziché trattare come tale il ripiegamento tattico imposto dalle circostanze concrete, egli fece delle sue misure dettate dalla necessità, senza nessuna mediazione teoretica, criteri di principio della strategia internazionale del proletariato. Non voglio affrontare qui l’arduo nodo problematico dei vantaggi e svantaggi (di carattere politico e morale) prodotti dal patto del 1939. Il suo senso immediato fu quello di rinviare la minaccia di un imminente attacco di Hitler, e di un attacco che, probabilmente, sarebbe stato appoggiato, apertamente o di nascosto, da Chamberlain e Daladier. L’ulteriore prospettiva tattica era che, se Hitler – come effettivamente accadde – avesse sfruttato il patto con l’Unione Sovietica come occasione favorevole per una offensiva contro l’Occidente, più tardi, nel caso di una guerra fra la Germania e l’Unione Sovietica, per quest’ultima l’alleanza con le democrazie occidentali (già tentata ai tempi di Monaco) avrebbe acquistato caratteri di estrema probabilità; anche qui i fatti hanno confermato la previsione tattica di Stalin.

Fatali per tutto il movimento operaio rivoluzionario furono le conseguenze di carattere teorico-strategico che ne trasse Stalin. Si dichiarò che la guerra fra la Germania di Hitler e le potenze europee era una guerra mondiale imperialistica come la prima. E cioè che le formule strategiche di Lenin, allora esatte («Il vero nemico è nel tuo paese», «Trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile», ecc.), dovevano valere immutate per i paesi che volevano e dovevano difendersi contro il fascismo hitleriano. Basta leggere il primo volume del ciclo «I comunisti» di uno scrittore ortodosso come Aragon, per vedere chiaramente le conseguenze internazionali disastrose di questa «generalizzazione staliniana» di una mossa tattica. Ma le conseguenze più nefaste trascendono i casi particolari, per quanto enormi. La grande autorità del marxismo ai tempi di Lenin si basava sul fatto che l’unità dialettica di fondatezza teoretica, stabilità di principi ed elasticità tattica era avvertita da tutti. Questa nuova «metodologia» di Stalin fece sì che ampi circoli, e non sempre a priori ostili al marxismo, d’ora in poi non videro altro, nelle affermazioni teoretiche di Stalin, che «giustificazioni» spesso sofistiche, in molti casi pseudoteoretiche, di misure puramente tattiche di validità spesso assai contingente. Stalin venne incontro così ai voti teorici di molti pensatori borghesi, per cui il marxismo sarebbe solo un’«ideologia» politica come tutte le altre. Se oggi formulazioni profonde ed esatte di Chruščëv (evitabilità della guerra imperialistica, coesistenza, ecc.) sono interpretate per molti aspetti in modo analogo, è anche questo un frutto dell’eredità staliniana. Una liquidazione radicale e di principio di tale metodologia (e non solo di errori singolarmente presi) è quindi un’«esigenza del giorno» anche nel senso pratico più urgente.

Gli errori qui elencati sono naturalmente casi estremi. I loro principi furono però universalmente applicati nella prassi quotidiana. Dove non bisogna dimenticare, accanto ai motivi finora menzionati, che una parte notevole della vecchia intelligentsia di partito era in opposizione a Stalin (che non significa, naturalmente, che tali opposizioni rappresentassero un punto di vista metodologicamente e oggettivamente giusto). Stalin aveva bisogno di una precisa esecuzione delle sue decisioni da parte dell’apparato, ed anche, se possibile, dell’approvazione delle grandi masse; anche per questo semplificò radicalmente le sue enunciazioni teoretiche. La soppressione delle mediazioni, il collegamento diretto dei principi più generali alle esigenze concrete della prassi quotidiana, appariva in questo senso un mezzo assai idoneo. Anche qui non si concretizzò la teoria applicandola alla prassi, ma, viceversa, si semplificarono e volgarizzarono i principi secondo le esigenze (spesso solo presunte) della prassi. Anche qui mi limito a fare un solo esempio particolarmente tipico (ma se ne potrebbero fare infiniti altri). Nella sua ultima opera economica Stalin «scoprì» ciò che era «sfuggito» a Marx, Engels e Lenin, che ogni formazione economica ha una «legge fondamentale» che può essere sintetizzata in una breve proposizione. È così semplice che anche il funzionario più limitato e incolto la capisce subito; e, anzi, è messo in grado, col suo aiuto, di condannare senz’altro, nelle sue deviazioni «di destra» o «di sinistra», ogni lavoro di scienza economica di cui non capisce oggettivamente nulla. Marx, Engels e Lenin sapevano che le formazioni economiche costituiscono sistemi mobili e complicati la cui essenza è definibile solo mediante un rilievo esatto di tutte le loro determinazioni importanti, le loro interazioni reciproche, proporzioni, ecc. Le «leggi fondamentali» di Stalin enunciano pure banalità, non spiegano un bel nulla, ma danno ad alcuni circoli l’illusione di sapere tutto in anticipo. In questa direzione, della volgarizzazione mediante la soppressione dei termini medi, si situa l’enunciazione di Stalin nel suo saggio sulla linguistica, per cui la scomparsa di una formazione economica determina anche quella della sua ideologia, ecc. ecc.

I diversi momenti del metodo staliniano formano un’unità sistematica all’interno della quale trapassano l’uno nell’altro. Avrà già fatto certamente caso al soggettivismo nella posizione di Stalin. Esso costituisce, effettivamente, un momento fondamentale in questo sistema: ma assume la sua forma pura nella concezione staliniana della partitarietà. Anche qui si tratta di un importante elemento della concezione teoretica di Lenin. Già nelle sue opere giovanili egli si occupò di questo problema, e ne elaborò i momenti soggettivi e oggettivi. Il momento soggettivo è chiaro e semplice: una presa di posizione risoluta nella lotta di classe. Ma quando Lenin critica l’oggettivismo degli studiosi borghesi, si riferisce ad un certo tipo di determinismo, che può rovesciarsi facilmente in un’apologetica dei fatti intesi come necessari. Poiché la partitarietà materialistica indaga gli avvenimenti in modo più profondo e concreto, a partire dalle loro forze motrici reali, è più rigorosamente oggettiva dell’«oggettivista», valorizza l’oggettività in forma più profonda e completa. Con Stalin viene completamente a cadere questo secondo momento, e ne risulta una condanna radicale di ogni impulso all’oggettività: che è bollato col marchio dell’«oggettivismo» e dichiarato spregevole. Poiché Stalin era un uomo intelligente, si spaventò, a volte, delle conseguenze del soggettivismo da lui scatenato, per esempio nell’economia. Ma non poté né volle mai eliminarlo stabilmente, poiché questo atteggiamento era troppo profondamente radicato nel metodo da lui introdotto.

Poiché Stalin vuol mantenere ad ogni costo la continuità «citazionale» con l’opera di Lenin, ne conseguono deformazioni non solo dei fatti, ma anche dei testi leniniani. L’esempio più evidente è quell’articolo di Lenin del 1905, dove egli si proponeva di far ordine – nelle nuove condizioni della legalità – nella stampa e nelle edizioni di partito. Ma sotto Stalin quell’articolo divenne a poco a poco la Bibbia della «partitarietà» in tutto il campo della cultura e anzitutto della letteratura, allo scopo di trasformare lo scrittore in una semplice rotella del grande meccanismo. E sebbene N. Krupskaja, moglie e collaboratrice strettissima di Lenin, abbia richiamato l’attenzione, in una sua lettera, sul fatto che quell’articolo di Lenin non si riferisce minimamente alla letteratura, non mancano ancora oggi le tendenze a lasciare che la Bibbia… resti la Bibbia. Qualcosa di simile accadde per Hegel al tempo della seconda guerra mondiale, quando, per esigenze propagandistiche della lotta contro la Germania hitleriana, lo si fece passare per ideologo dell’opposizione reazionaria alla rivoluzione francese. A prescindere affatto dal contrasto in cui questa tesi si trova con quelle di Marx, Engels e Lenin, è abbastanza comico ricordare che nello stesso periodo, per analoghe esigenze propagandistiche, il generale zarista Suvorov divenne un rivoluzionario. Che Suvorov abbia condotto campagne militari contro la rivoluzione francese, mentre Hegel, fino alla fine della sua vita, prese entusiasticamente le sue difese, non disturbava minimamente la «partitarietà» staliniana; il riconoscimento dei fatti sarebbe stato un «oggettivismo».

Il punto culminante di questa tendenza è rappresentato dalla Storia del partito, diffusa in molti milioni di copie. Qui la «partitarietà» del funzionario supremo è il demiurgo che crea o fa sparire i fatti, e, secondo le esigenze, conferisce essere e valore a uomini ed eventi, oppure li annulla. È una storia di lotte di correnti, che non sono, però, rappresentate o sostenute da uomini, di opposizioni anonime, ecc., una storia dove, a parte beninteso Lenin, solo Stalin possiede un’esistenza. (Nella prima edizione c’era bensì un’eccezione: vi compariva anche Ežov, «il nostro Marat», il primo organizzatore dei grandi processi; dopo la sua caduta anche il suo nome venne cancellato).

In tutto ciò si rivela un altro aspetto metodologico. Per i classici del marxismo era ovvio che la scienza fornisse il materiale e i punti di vista in base ai quali vengono prese le decisioni politiche. Propaganda e agitazione ricevono il loro materiale della scienza, dalla prassi scientificamente elaborata. Stalin rovesciò questo rapporto. Per lui, in nome della «partitarietà», l’agitazione è il momento primario. Le sue esigenze determinano (come ho già mostrato sulla base di alcuni esempi) ciò che la scienza deve dire e il modo in cui deve dirlo. Anche qui un esempio può chiarire questo stato di fatto. Nel celebre capitolo quarto della Storia del partito Stalin definisce l’essenza del materialismo dialettico e di quello storico. Trattandosi di un libro popolare per un pubblico di massa, nessuno potrebbe rimproverare a Stalin di aver ridotto le considerazioni assai sottili e complesse dei classici su questo tema ad alcune definizioni elencate una dopo l’altra in forma schematica e manualistica. Ma il destino delle scienze filosofiche dopo la pubblicazione di quest’opera mostra che si tratta di una metodologia cosciente e di una politica culturale deliberata, e proprio nel senso che ho indicato prima. E cioè le semplificazioni (spesso volgarizzazioni) propagandistiche di Stalin divennero subito la norma unica, imperativa e il limite invalicabile dell’indagine filosofica. Chi osava, richiamandosi, per esempio, ad annotazioni filosofiche di Lenin, andare oltre le definizioni del quarto capitolo, o semplicemente integrarle, andava incontro alla condanna ideologica e non poteva pubblicare le sue ricerche. Non per nulla, al XX Congresso Il’ičëv ha constatato che, negli ultimi decenni, filosofia, economia e storiografia sono rimaste stagnanti.

Queste forme di subordinazione non si limitarono al capitolo quarto e alla filosofia. Tutta la scienza e tutta la letteratura dovevano servire esclusivamente alle esigenze propagandistiche formulate dall’alto, dallo stesso Stalin. La comprensione ed elaborazione autonoma della realtà attraverso la letteratura era bandita sempre di più. La letteratura «partitaria» non deve già rispecchiare creativamente la realtà oggettiva, ma illustrare in forma letteraria le decisioni del partito. Torna ad onore del critico letterario Elena Usevič aver preso posizione, già negli anni trenta, contro l’obbligo della letteratura illustrativa. Nel suo discorso al XXII Congresso il poeta Tvardovskij ha proseguito questa lotta anche oggi necessaria. Si tratta di un problema cruciale della letteratura. Essa può pervenire ad una rappresentazione autentica solo se prende le mosse da problemi reali di uomini reali, e se rispetta la dialettica interna dell’evoluzione che scaturisce da quelle premesse. L’obbligo dell’illustrazione pone a base dell’opera una verità generale astratta (ammesso che si tratti di una verità), e gli uomini ed i loro destini devono adeguarsi ad ogni costo a questa tesi.

Tutto ciò non era naturalmente fine a se stesso. Nasceva dalla posizione di Stalin, dal suo bisogno di un’autorità indiscussa. Devo ripetere anche qui, come prima, che solo indagini approfondite di studiosi competenti potranno stabilire quale parte vi ebbero le difficoltà oggettive e quale le reazioni inadeguate di Stalin. Vi fu senza dubbio, negli anni trenta, un inasprimento oggettivo della situazione: all’interno, oltre che all’industrializzazione accelerata, anche in seguito alla collettivizzazione dell’agricoltura, in politica estera in seguito all’ascesa al potere di Hitler e alla minaccia di un attacco portato all’Urss dalla Germania fascista. Se la lotta di classe nel paese, nonostante tutte le difficoltà economiche, si sia realmente inasprita in modo decisivo, è un problema su cui potranno dare un giudizio competente solo indagini precise di studiosi della materia. Stalin, comunque, trovò presto la parola d’ordine della semplificazione-generalizzazione propagandistica: l’incessante inasprimento della lotta di classe è necessario nella dittatura del proletariato, stavo per dire: è la sua «legge fondamentale».

Questa tesi, di cui già il XX Congresso ha smascherato la falsità, mette in luce le conseguenze più nefaste del metodo staliniano. Essa intende suscitare un’atmosfera di continua diffidenza reciproca, di vigilanza di tutti contro tutti, un clima da stato d’assedio in permanenza. Posso accennare qui solo in breve e frammentariamente alle conseguenze secondarie: la paura, spinta oltre ogni limite, di nemici, spie e sabotatori, e un sistema di segretezza ossessiva per tutto ciò che abbia qualcosa a che fare con la politica. Così, per esempio, la statistica divenne una scienza «strettamente segreta», i cui risultati erano accessibili solo alle persone assolutamente fidate; i lavoratori scientifici dell’economia appartenevano solo in casi eccezionali – e mai per ragioni scientifiche – a questa ristretta cerchia di eletti.

Il quadro del metodo staliniano acquista così un tratto complementare che ancora gli mancava: tutto ciò che in una situazione rivoluzionaria acuta, dove è effettivamente in gioco l’essere o il non essere di una società, è obiettivamente inevitabile, fu arbitrariamente eretto da Stalin a fondamento della prassi quotidiana sovietica. Non voglio soffermarmi qui a parlare dei grandi processi. È questo il tema che è stato trattato finora più diffusamente, e nel suo discorso al XXII Congresso Šelepin ne ha analizzato assai esattamente le conseguenze per il diritto sovietico e la giurisprudenza socialista. Vorrei solo attirare brevemente l’attenzione su alcune conseguenze di ordine culturale. Già la soppressione delle mediazioni contiene in sé la tendenza a trattare come blocchi monolitici tutti i fenomeni della vita. La permanenza della situazione rivoluzionaria acuta intensifica ulteriormente questa tendenza. Ciascuno si risolve senza residui – nella totalità della sua esistenza, in tutte le determinazioni della sua personalità e della sua opera – nella funzione che svolge (o si pretende che svolga) momentaneamente in una vita così concepita. Così, per prendere un esempio dalla logica dei processi: poiché Bucharin, nel 1928, si oppose al piano staliniano della collettivizzazione, è certo che nel 1918 egli partecipò ad una congiura per uccidere Lenin. Questo è il metodo di Vyšinskij nei grandi processi. Ma questa metodologia si estende anche a metodo di giudizio della storia, della scienza e dell’arte. Anche qui è istruttivo contrapporre il metodo di Lenin a quello di Stalin. Lenin, per esempio, ha criticato duramente e aspramente la politica di Plechanov nel 1905 e nel 1917. Ma insieme – e questo «insieme» non implica alcuna contraddizione per Lenin – egli insiste sul fatto che bisogna utilizzare l’opera teoretica di Plechanov per la diffusione e l’approfondimento della cultura marxista nel socialismo, e ciò benché, anche sul piano puramente teoretico, egli sollevasse contro Plechanov varie e importanti obiezioni.

Eccetera eccetera, devo scrivere a questo punto, perché non ho affatto esaurito l’argomento. Ma anche queste note brevi e frammentarie le mostreranno che nel caso Stalin non si tratta affatto (come per molto tempo si volle far credere da parte di alcuni) di errori particolari e occasionali, ma di un falso sistema di idee che si costituì a poco a poco, di un sistema i cui effetti nocivi si fanno sentire tanto più dolorosamente, quanto meno le condizioni sociali attuali sono paragonabili a quelle di cui il sistema staliniano appare il rispecchiamento deformato e deformante. Anche qui i fatti decisivi sono noti a tutti. Mi limito quindi a elencarli brevemente: gli eventi successivi alla seconda guerra mondiale hanno trasformato il socialismo in un solo paese, come l’arretratezza economica e culturale dell’Urss, in una reminiscenza storica; come appartiene al passato anche la possibilità di un accerchiamento capitalistico. A questi fatti si aggiunge la vittoriosa emancipazione dei popoli coloniali e la radicale trasformazione della tecnica bellica con l’introduzione di razzi e bombe nucleari. Per tutti questi motivi anche l’inevitabilità delle guerre imperialistiche ha cessato di essere una necessità. È gran merito del XX e del XXII Congresso aver preso atto di questa nuova situazione e averne tratto le principali conseguenze teoriche e pratiche. Naturalmente gli animi si dividono anzitutto secondo il loro atteggiamento verso la guerra e verso la pace. È intorno a questo problema che si acuiscono al massimo anche i problemi ideologici. Senza poter qui nemmeno sfiorare i problemi politici fondamentali, devo sottolineare che, in campo culturale, l’accentuazione del pericolo di guerra, la sottovalutazione del peso delle forze che operano a favore della coesistenza pacifica, sono rivolte, nella maggior parte dei casi, piuttosto verso l’interno che verso l’esterno; e cioè mirano assai più a conservare o a far sorgere un’atmosfera di guerra, che a preparare o scatenare effettivamente una guerra. Dove è evidente la sopravvivenza di tendenze staliniane negli ambienti del settarismo aperto o mascherato. Pochi manterranno oggi, con le stesse parole, la tesi staliniana del fatale inasprimento della lotta di classe. Per conservare lo status quo staliniano all’interno, basta constatare ogni volta, per il momento presente, l’esistenza di questo inasprimento, e conservare così, in uno stato di acuta tensione, anche il controllo centralizzato di tutte le manifestazioni culturali; il «momento» può essere naturalmente prolungato a piacere. È questa la base dell’alleanza presente de facto fra le tendenze estremistiche nel capitalismo e nel socialismo. Entrambe mirano, in ultima analisi, a conservare inalterati i metodi staliniani. Gli ideologi borghesi, perché un marxismo ridotto a Stalin possiede una forza d’attrazione assai minore di quello genuino, e quelli che si pretendono socialisti, perché è molto più comodo governare coi metodi staliniani che coi metodi di Marx e di Lenin. Perciò Enver Hodja e Salvador de Madariaga agiscono oggi (paradossalmente, a prima vista) nello stesso senso: si battono entrambi, in fin dei conti, per l’integrità del sistema staliniano.

D’altra parte la coesistenza implica necessariamente un’intensificazione anche dei rapporti culturali reciproci fra capitalismo e socialismo, e quindi una sfida, per la cultura socialista, a uscire vittoriosa da una competizione viva con quella capitalistica. Il settarismo fa di tutto, non solo per indebolire le condizioni di una concorrenza vittoriosa, ma anche per mascherare la situazione reale. Che è in realtà molto più favorevole che negli anni venti, quando i metodi staliniani non erano ancora perfezionati né applicati sistematicamente a tutti i prodotti culturali. Il critico della Germania occidentale Walter Jens descrive così la letteratura tedesca di quel periodo: «Nessuno dubiterà, alla fine, che non sia stato proprio e in ultima analisi l’interesse per l’Unione Sovietica a improntare di sé l’arte degli anni venti». E così si esprime sugli effetti del metodo staliniano trionfante: «Gli intellettuali divennero, e per sempre, senza patria». Il grande compito della cultura socialista, è quello di additare agli intellettuali, e oltre di essi alle masse, una patria spirituale. Negli anni venti, politicamente ed economicamente così difficili, essa vi riuscì in larga misura. Che in seguito queste tendenze si siano nettamente indebolite nell’arena internazionale della cultura, è una conseguenza del periodo staliniano. Ma queste forze possono ridestarsi, se si eliminano le condizioni sfavorevoli al loro dispiegamento. Un film come La ballata di un soldato di Cuchraj mostra chiaramente che il regime staliniano ha potuto solo conculcare, ma non già spegnere, le energie creative. Con questa constatazione non voglio certo sottovalutare le difficoltà del periodo di transizione. Poiché gli apparati culturali dei paesi socialisti sono ancora in larga misura detenuti dai seguaci dogmatici di Stalin (che, nel migliore dei casi, si adeguano esteriormente alle novità), poiché parti notevoli dei nuovi quadri sono state educate e formate nello spirito staliniano, poiché il sistema è un paradiso per tutti quelli che mancano di talento e si adattano senza sforzo, e poiché anche molti degli elementi più dotati non hanno potuto resistere alla lunga pressione senza risentirne gravemente nella capacità e nel carattere, e via dicendo: il passaggio ad una situazione culturale che promuova realmente la scienza e l’arte sarà con ogni probabilità contraddittorio, difficile, pieno di ricadute.

Il XX Congresso ha fornito, fra l’altro, una serie di importanti relazioni sulla situazione attuale. Ho già citato alcune di queste voci. Ma la cosa più interessante, oggi, non è ciò che avviene direttamente nel campo della cultura, ma sono quelle misure economiche e politiche che introducono nella realtà sociale una generale democratizzazione in senso comunista. Qui la necessità di riforme è assai più immediata e imperiosa che in campo culturale. Con tutti i suoi errori, l’industrializzazione staliniana ha saputo creare le condizioni e i requisiti tecnici della guerra vittoriosa contro la Germania di Hitler. Ma la nuova situazione mondiale pone l’Unione Sovietica, in campo economico, di fronte a compiti del tutto nuovi: essa deve creare un’economia che superi, in tutti i settori della vita, il capitalismo più sviluppato, quello degli Stati Uniti, che elevi il tenore di vita della popolazione sovietica a un livello superiore a quello americano, e che sia insieme in grado di prestare un aiuto economico di ogni genere, sistematico e permanente, sia agli altri stati socialisti che ai popoli economicamente arretrati in via di emancipazione. A tale scopo sono necessari metodi nuovi, più democratici, meno burocraticamente centralizzati, di quelli che poterono svilupparsi fino ad oggi. Il XXII Congresso ha avviato qui un insieme grandioso e molteplice di riforme. Mi limito a ricordare il deliberato, di estremo interesse e importanza, che nelle elezioni alle cariche di partito il 25 per cento dei vecchi dirigenti non possano essere rieletti. Solo un rinnovamento democratico sistematico di tutta la vita può fornire una base sana alla rinascita culturale nel socialismo.

La resistenza ad una critica radicale e di principio del periodo staliniano è tuttora molto forte. In essa si raccolgono i motivi più disparati. Ci sono, per esempio, gli ingenui e i benintenzionati che temono che dalla denuncia spietata degli errori del sistema staliniano deriverebbe una perdita di prestigio per il comunismo. Essi dimenticano che proprio in ciò si afferma la forza irresistibile del comunismo: i movimenti storici maturi non possono essere ritardati indefinitamente da misure per quanto sfavorevoli. La loro espansione, il loro raggio d’azione possono essere ridotti, ma non già il loro sviluppo e il loro consolidarsi definitivo. E c’è ancora questo da osservare: una riflessione imparziale non potrà mai trascurare quanto vi fu di positivo nell’attività di Stalin; io stesso ho accennato qui alla sua meritata vittoria nei dibattiti degli anni venti, e si potrebbero fare senza dubbio molti altri esempi. Ma l’«esigenza del giorno» è la liberazione del socialismo dalle catene dei metodi staliniani. Quando Stalin farà parte della storia, del passato, e non sarà più – come oggi – il principale ostacolo all’evoluzione futura, sarà possibile, senza troppe difficoltà, formulare su di lui un giudizio storico esatto. Io stesso ho fornito vari spunti di una valutazione storica equanime; ma essa non deve intralciare il lavoro di riforma, oggi così importante.

Si tratta di liberare quelle forze che sono contenute nel giusto metodo di Marx, Engels e Lenin. Nel suo discorso di Bucarest, Chruščëv ha chiarito l’opposizione fra metodo leniniano autentico e affermazioni dogmatiche e contingenti nel senso di Stalin, con la felice immagine che oggi Lenin tirerebbe le orecchie a chi volesse servirsi di citazioni dai suoi scritti e discorsi per proclamare l’inevitabilità delle guerre ai nostri giorni. Ma il ritorno al metodo autentico dei classici del marxismo è anzitutto un fare i conti col presente e col futuro. L’ultima ricerca marxista originale in campo economico, l’Imperialismo di Lenin, è apparsa nel 1917; l’ultima in campo filosofico, l’analisi leniniana di Hegel, è stata scritta negli anni 1914-15 e pubblicata negli anni trenta. Ma se la nostra teoria si è irrigidita, il mondo non si è fermato. Il ritorno ai metodi dei classici del marxismo serve appunto a cogliere marxisticamente il presente, qual esso è in realtà, per desumere così il criterio della condotta e dell’azione, della creazione e della ricerca, dalla realtà esattamente conosciuta, e non da una schematica «citatologia». Naturalmente questo processo è tutt’altro che semplice (anche a prescindere dagli ostacoli posti dalle istanze burocratiche). Fa parte dell’essenza dell’indagine scientifica – e della creazione artistica – che esse non possano raggiungere, per lo più, un’approssimazione massima alla realtà senza passare attraverso errori e peripezie molteplici. Poiché nel periodo staliniano l’istanza centrale doveva essere infallibile, dovevano essere ugualmente «perfette» anche le applicazioni effettuate dai piccoli Stalin. (Che questa «perfezione» e «definitività» fosse quanto mai effimera, che non di rado, dopo breve tempo, fosse condannata come deviazione, è un’altra caratteristica di questo periodo. Anche qui c’è una battuta umoristica che documenta lo stato d’animo dell’intelligentsia russa all’inizio degli, anni trenta. Usciva allora, ogni anno, un volume dell’Enciclopedia letteraria, sempre redatto nel senso della più rigorosa «perfezione». Ma prima che il testo fosse finito di stampare, quasi tutte le verità dogmaticamente fissate diventavano errori altrettanto dogmaticamente stabiliti. Così quell’opera era chiamata da tutti «Enciclopedia delle deviazioni»). Rinunciare a questa «definitività» burocraticamente decretata, discutere apertamente e pubblicamente le divergenze effettive nella scienza e nell’arte, imprimerebbe al marxismo, all’interno, uno slancio superiore ad ogni previsione, e (a differenza di quanto pensa la burocrazia culturale staliniana) non farebbe che accrescere, all’esterno, l’autorità degli studiosi e degli artisti marxisti veramente capaci.

Nel 1789, in una discussione sui cambiamenti costituzionali nel Württemberg, il giovane Hegel scriveva: «Se ha da esserci un mutamento, qualcosa ha da essere mutato». Queste parole si attagliano benissimo alla situazione attuale, e permettono di distinguere con sicurezza i due schieramenti. Poiché, dopo il XXII Congresso, è ormai impossibile evitare del tutto la critica al periodo staliniano. Questa critica è ormai generale. Ma c’è chi dice: «Sì, questo e quest’altro era sbagliato, ma la scienza e l’arte sono già in piena ripresa». E chi dice invece: «Abbiamo cominciato con la critica del passato; ora si tratta, sulla base di questa critica tuttora in corso, di creare le basi ideali e organizzative di una ripresa futura». È chiaro che i primi vogliono «cambiare» in modo che tutto resti com’era: si tratta solo di dare un’etichetta nuova a cose vecchie. Naturalmente, nel secondo caso, non si vuol dire che si debba condurre a termine un’opera di riforma i cui risultati saranno visibili solo in seguito, ad opera finita. No. Un’opera sincera di riforma può produrre nuovi risultati nella scienza e nell’arte già nel corso della lotta per gettare le fondamenta. Ma si tratta di un processo lungo, complicato e contraddittorio.

Caro signor Carocci, mi accorgo che la mia lettera è diventata spaventosamente lunga, anche se ho detto solo una piccola parte di ciò che le sue domande hanno suscitato dentro di me. La prego quindi di scusare, sia la lunghezza, che il carattere frammentario di questa lettera.

Coi miei cordiali saluti                                                                                Georg Lukács

La mia via al marxismo

01 domenica Nov 2015

Posted by nemo in I testi, Traduzioni italiane

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di György Lukács

[Mein Weg zu Marx, in «Internationale Literatur» (Mosca), n. 2 1933; La mia via al marxismo,  trad. di Ugo Gimmelli, «Nuovi Argomenti», n.33, luglio-agosto 1958].

da Marxismo e politica culturale, Einaudi, Torino 1968.


Il rapporto con Marx è la vera pietra di paragone per ogni intellettuale che prenda sul serio il chiarimento della propria concezione del mondo, lo sviluppo sociale, in particolare la situazione presente, la propria posizione in essa e il proprio atteggiamento rispetto ad essa. La serietà. Io scrupolo e l’approfondimento con cui egli si dedica a questo problema ci indicano se e in qual misura egli voglia, consciamente o inconsciamente, sottrarsi ad una chiara presa di posizione nelle lotte della storia attuale. I cenni biografici sul rapporto con Marx, sulla lotta spirituale col marxismo ci danno dunque, volta a volta, un quadro che, come contributo alla storia della lotta sociale degli intellettuali nel periodo imperialistico, ha un certo interesse generale anche se, come nel mio. caso, la biografia stessa non possa avere pretesa alcuna di interessare il pubblico.

La mia prima conoscenza con Marx (col Manifesto dei comunisti) la feci sul finire dei miei studi liceali. L’impressione fu straordinaria, e da studente universitario ho poi letto parecchi degli scritti di Marx e di Engels (come Il 18 Brumaio, L’origine della famiglia) e in particolare ho studiato a fondo il primo volume del Capitale. Questo studio mi convinse subito dell’esattezza di alcuni punti centrali del marxismo. In primo luogo fui impressionato dalla teoria del plusvalore, dalla concezione della storia come storia delle lotte di classe e dall’articolazione della società in classi. Per il momento, come è ovvio nel caso di un intellettuale borghese, quest’influenza si limitò all’economia e soprattutto alla «sociologia». La filosofia materialistica, nella quale io allora non facevo distinzione fra materialismo dialettico e non dialettico, la ritenevo, come teoria della conoscenza, completamente superata. La tesi neokantiana dell’«immanenza della coscienza» si adattava egregiamente alla mia posizione di classe di allora e alla mia concezione del mondo; né io la sottoponevo ad alcun esame critico, ma la accettavo passivamente come punto di partenza per ogni impostazione del problema gnoseologico.

Per la verità io ero in continuo sospetto verso l’idealismo soggettivo estremo (tanto verso la scuola neokantiana di Marburgo quanto verso le teorie di Mach), giacché non riuscivo a vedere in che modo il problema della realtà potesse essere definito considerandola semplicemente come categoria immanente della coscienza; ma tuttavia questo non condusse a conseguenze materialistiche, ma anzi ad un avvicinamento a quelle scuole filosofiche che volevano risolvere questo problema in forma irrazionalistico-relativistica, talora con sfumature mistiche (Windelband-Rickert, Simmel, Dilthey). L’influenza di Simmel, del quale sono stato diretto scolaro, mi dette anche la possibilità di «inserire» in una tale concezione del mondo quanto avevo assimilato di Marx in quel periodo. La Filosofia del denaro di Simmel e gli scritti sul protestantesimo di Weber furono i miei modelli per una «sociologia della letteratura» in cui gli elementi derivati da Marx erano bensì ancora presenti, ma tanto assottigliati e impalliditi da essere appena riconoscibili. Secondo l’esempio di Simmel io da un lato distaccavo quanto più era possibile la «sociologia» dal fondamento economico concepito in modo assai astratto, e dall’altro lato nell’analisi «sociologica» scorgevo soltanto lo stadio iniziale della vera e propria ricerca scientifica in materia di estetica (Storia dell’evoluzione del dramma moderno, 1909; Metodologia della storia letteraria, 1910, ambedue in ungherese). I miei saggi apparsi fra il 1907 e il 1911 oscillavano fra questo metodo e un soggettivismo mistico.

Era naturale che in un tale sviluppo della mia concezione del mondo le impressioni giovanili dalla lettura di Marx impallidissero sempre più e finissero per avere una parte sempre minore nella mia attività scientifica. Consideravo Marx non meno di prima l’economista e il «sociologo» più competente; ma economia e «sociologia» avevano per allora una parte minore nella mia attività. I singoli problemi e le fasi dello sviluppo, nel quale questo idealismo soggettivo mi condusse a una crisi filosofica, non interessano il lettore. Ma questa crisi – invero a mia insaputa – era determinata oggettivamente da un più intenso manifestarsi dei contrasti imperialistici e fu accelerata dallo scoppio della guerra mondiale. Certamente questa crisi si manifestò dapprima solo nel passaggio dall’idealismo soggettivo all’idealismo oggettivo (Teoria del romanzo, scritta nel 1912-15), e naturalmente Hegel venne ad acquistare per me un’importanza sempre crescente, in particolare la Fenomenologia dello spirito. Col carattere imperialistico della guerra che mi diveniva sempre più chiaro, con l’approfondimento dei miei studi hegeliani, nel corso dei quali mi accostai anche a Feuerbach – comunque allora solo dalla parte dell’antropologismo – comincia il mio secondo intenso studio di Marx. Questa volta stavano per me in primo piano gli scritti filosofici del periodo giovanile, sebbene studiassi anche con passione la grande Introduzione alla critica dell’economia politica. Questa volta però si trattava di un Marx non più guardato attraverso la lente di Simmel ma attraverso quella hegeliana. Non più Marx come «eminente specialista», come «economista e sociologo»; mi si cominciava già a delineare il filosofo dal largo pensiero, il grande dialettico. Tuttavia neanche allora vedevo il significato del materialismo per la concretizzazione e l’unificazione, per l’impostazione coerente dei problemi dialettici. Arrivai solo fino a una priorità – hegeliana – del contenuto rispetto alla forma e cercai di sintetizzare, su base essenzialmente hegeliana, Hegel e Marx in una «filosofia della storia». Questo tentativo acquistò una particolare sfumatura dal fatto che nel mio paese, in Ungheria, l’ideologia del «socialismo di sinistra» più influente era il sindacalismo di Ervin Szabó. I suoi scritti sindacalisti dettero ai miei «tentativi di filosofia della storia», accanto a più di un elemento positivo (ad esempio la conoscenza, fatta attraverso lui, della Critica del programma di Gotha), una nota accentuata di astratto soggettivismo e pertanto eticizzante. Tagliato fuori, in quanto intellettuale universitario, dal movimento operaio illegale, non potei prendere visione, durante il conflitto, né degli scritti spartachisti né di quelli di Lenin sulla guerra. Lessi invece, con effetti profondi e duraturi, le opere di prima della guerra di Rosa Luxemburg. Stato e rivoluzione di Lenin l’ho letto solo nel periodo rivoluzionario 1918-19.

In tale fermento ideologico mi colsero le rivoluzioni del ’17 e del ’18. Dopo breve esitazione mi iscrissi nel 1918 al Partito comunista ungherese e rimasi da allora nelle file del movimento rivoluzionario operaio. Il lavoro pratico mi costrinse subito a dedicarmi agli scritti economici di Marx, a un più profondo studio della storia, della storia economica, di quella del movimento operaio ecc., impegnandomi così in una revisione continua dei fondamenti filosofici. Tuttavia questa lotta per impadronirsi della dialettica marxista durò molto a lungo. Le esperienze della rivoluzione ungherese mi mostrarono bensì molto chiaramente la fragilità di ogni teoria sindacaleggiante (funzione del partito nella rivoluzione), ma un soggettivismo ultrasinistro è sopravvissuto in me ancora a lungo (posizione nel dibattito sul parlamentarismo, 1920; atteggiamento nell’azione del marzo 1921). Questo mi impediva soprattutto di intendere veramente ed esattamente il lato materialistico della dialettica nel suo significato filosofico più comprensivo. Il mio libro Storia e coscienza di classe (1923) mostra molto chiaramente questo passaggio. Nonostante il tentativo, già consapevole, di superare ed «eliminare» Hegel con Marx, problemi decisivi di dialettica venivano risolti idealisticamente (dialettica della natura, teoria del rispecchiamento ecc.). La teoria della Luxemburg sull’accumulazione, ancora da me mantenuta, si mescolava in modo non organico con un attivismo soggettivistico ultra-sinistro.

Soltanto l’intima adesione al movimento operaio, dovuta ad una attività di molti anni, e la possibilità dì studiare le opere di Lenin e dì comprenderne, poco a poco, la fondamentale importanza, avviarono il terzo periodo del mio interessamento per Marx. Solo ora, dopo quasi un decennio di lavoro pratico e dopo oltre un decennio di sforzo intellettuale per comprendere Marx, il carattere totale e unitario della dialettica materialistica mi è di venuto concretamente chiaro. Ma appunto questa chiarezza porta con sé il riconoscimento che il vero studio del marxismo comincia soltanto ora e non può più fermarsi. Giacché, come Lenin dice tanto giustamente, «il fenomeno è più ricco della legge… e perciò la legge, qualsiasi legge, è angusta, incompleta, approssimativa». Chiunque si illuda di aver compreso una volta per tutte i fenomeni della natura e della società sulla base di una conoscenza, vasta e profonda quanto si voglia, del materialismo dialettico, deve necessariamente ricadere dalla viva dialettica nella rigidità meccanica, dal materialismo che tutto abbraccia nell’unilateralità idealistica. Il materialismo dialettico, la dottrina di Marx, deve essere conquistata, assimilata giorno per giorno, ora per ora, partendo dalla prassi. D’altro lato la dottrina di Marx, nella sua inattaccabile unità e totalità costituisce l’arma per l’esecuzione pratica, per il dominio dei fenomeni e delle loro leggi. Se da questa totalità distacchiamo un solo elemento costitutivo (o anche soltanto lo trascuriamo) avremo di nuovo rigidezza e unilateralità. Basta che non si colga il rapporto dei momenti fra loro e si potrà perdere di nuovo di sotto i piedi il terreno della dialettica materialistica. «Giacché ogni verità – dice Lenin – può, se la si esagera, se si trapassano i confini della sua validità, divenire un’assurdità, anzi in tali circostanze è inevitabile che divenga un’assurdità».

Sono passati più di trentanni da che io, ragazzo, lessi per la prima volta il Manifesto dei comunisti. L’approfondimento progressivo – sia pure contraddittorio e non rettilineo – degli scritti di Marx è divenuta la storia del mio sviluppo intellettuale e quindi addirittura la storia di tutta quanta la mia vita, nella misura in cui essa può avere un significato per la società. A me sembra che nell’epoca che segue a Marx la presa di posizione rispetto al suo pensiero debba rappresentare il problema centrale di ogni pensatore che prenda se stesso sul serio, e che il modo e il grado in cui egli acquisisce il metodo e i risultati di Marx determini il suo posto nello sviluppo dell’umanità. Questo sviluppo si determina secondo la classe, ma anche questa determinazione non è rigida, bensì dialettica. La nostra posizione nella lotta delle classi determina largamente il modo e il grado della nostra acquisizione del marxismo; d’altra parte ogni progresso in questa acquisizione ci fa aderire sempre più alla vita e alla prassi del proletariato e ridonda beneficamente sull’approfondimento del nostro rapporto con la dottrina marxista.

Postscriptum 19571.

Le righe precedenti sono state scritte, come ognuno può ben vedere, in uno stato di estrema tensione che non era dovuto solo al fatto che io dopo tante avventure intellettuali finalmente sentivo, quasi cinquantenne, il terreno fermo sotto i miei piedi: anche gli avvenimenti del quindicennio precedente contribuivano fortemente a tale stato d’animo. Dei primi anni della rivoluzione ho già parlato, non così degli anni che seguirono alla morte di Lenin. Come compagno di lotta ho vissuto l’azione di Stalin per salvare la vera eredità di Lenin contro Trotskij, Zinov’ev ecc., e ho veduto che con essa furono salvate e rese adatte a ulteriore sviluppo proprio quelle conquiste che Lenin ci ha trasmesso. (A questo giudizio sul periodo dal ’24 al ’30 gli anni frattanto trascorsi e le esperienze che li accompagnarono non hanno mutato nulla di essenziale). A questo si aggiunge che la discussione filosofica dal ’29 al ’30 mi dette la speranza che il chiarimento di rapporti Hegel-Marx, Feuerbach-Marx, Marx-Lenin e la liberazione da una cosiddetta ortodossia plechanovista avrebbero dischiuso nuovi orizzonti alla ricerca filosofica. Inoltre lo scioglimento della Rapp (1932), alla quale io sempre mi ero opposto, aprì a me e a molti altri una vasta prospettiva, quella di una ripresa, non ostacolata da alcun burocratismo, della letteratura socialista, della metodologia e della critica letteraria marxista; in questa speranza occorre sottolineare con pari rilievo le due componenti, l’assenza di limiti imposti da una burocrazia e il carattere marxista leninista. Se aggiungo che noi proprio in quegli anni abbiamo conosciuto le opere fondamentali del giovane Marx, soprattutto i Manoscritti economico-filosofici, come pure i Quaderni filosofici di Lenin, avrò enumerato quei fatti che sollevarono grandi speranze al principio degli anni trenta.

Il fatto che anche allora per una su due idee (a essere ottimisti) che si allontanavano dal modello imposto, si urtasse contro una resistenza sorda o aggressiva, riuscì solo poco a poco a fare impallidire queste speranze. Da principio credevo, e con me non pochi altri, di trovarmi davanti agli avanzi di un passato non superato del tutto: Rappisti, sociologi volgari ecc. Più tardi capimmo che tutte queste tendenze contrarie al progresso del pensiero avevano solidi appoggi burocratici. Tuttavia per un certo tempo credemmo a un carattere, dopo tutto, casuale di questo sistema difensivo del dogmatismo; molti di noi talora sospiravano pensando a Stalin: «Ah, si le roi le savait». Un tale stato di cose non poteva naturalmente durare indefinitamente. Si dové riconoscere che la fonte del contrasto fra le correnti progressive che arricchivano la cultura marxista e l’oppressione dogmatica di una burocrazia tirannica su ogni pensiero autonomo era da ricercarsi nel regime stesso di Stalin e pertanto anche nella sua persona.

Tuttavia quando si trattava di prender posizione rispetto a questi fatti, ogni persona riflessiva doveva partire dalla situazione storica del momento, che era quella dell’ascesa di Hitler e della preparazione della sua guerra di annientamento contro il socialismo. Mi è sempre stato ovvio che ad ogni decisione che tale situazione imponeva dovesse subordinarsi incondizionatamente tutto, anche ciò che a me personalmente era più caro, anche l’opera stessa della mia vita. Io ritenevo che il compito principale della mia vita consistesse nel bene impiegare la concezione marxista-leninista in quei campi che io conoscevo, nel farla progredire nella misura in cui ciò fosse imposto dalla scoperta di nuovi dati. Ma poiché al centro del periodo storico in cui si svolgeva questa mia attività si trovava la lotta per l’esistenza dell’unico stato socialista e quindi del socialismo stesso, io subordinavo ovviamente ogni mia presa di posizione, anche riguardo alla mia propria opera, alle necessità del momento. Questo tuttavia non significò mai una capitolazione davanti a tutte quelle tendenze ideologiche che si sono formate, propagate e infine dissolte nel corso di questa lotta. Nello stesso tempo non dubitavo che non soltanto un’opposizione era allora fisicamente impossibile, ma che essa avrebbe molto facilmente potuto divenire un aiuto intellettuale e morale per il nemico mortale, per l’annientatore di ogni civiltà.

Perciò io fui costretto a condurre una specie di guerriglia partigiana per le mie idee scientifiche, cioè a render possibile la pubblicazione dei miei lavori per mezzo di citazioni da Stalin ecc. e di esprimere in essi con la necessaria cautela la mia opinione dissidente tanto apertamente quanto lo permetteva il margine di respiro dato di volta in volta dal momento storico. Ne conseguiva talora l’imperativo di tacere. È noto per esempio, come durante la guerra fosse deciso di dichiarare Hegel ideologo della reazione feudale contro la rivoluzione francese; perciò io non potei allora naturalmente pubblicare il mio libro sul giovane Hegel. Si può certamente vincere la guerra, pensavo, anche senza ricorrere a simili sciocchezze senza basi scientifiche ma, una volta che la propaganda antihitleriana è andata a occuparsi proprio di questo, è più importante per il momento vincere la guerra che questionare sulla giusta concezione di Hegel. È noto che questa tesi errata si è mantenuta a lungo anche dopo la guerra, ma è altrettanto noto che io ho poi pubblicato il libro su Hegel senza cambiarvi una riga.

Si trattava tuttavia anche di problemi sociali assai più gravi di questo, i quali mettevano allora sempre più in evidenza l’aspetto negativo dei metodi staliniani. Mi riferisco naturalmente ai grandi processi, la cui legalità io fin da principio giudicai con scetticismo, non molto diversamente per esempio da quella dei processi contro i girondini, i dantoniani ecc. nella grande rivoluzione francese, cioè io riconoscevo la loro necessità storica senza preoccuparmi troppo della questione della loro legalità. (Oggi ritengo che Chruščëv abbia ragione quando ne rileva energicamente la superfluità politica). La mia posizione mutò radicalmente allorché fu diffusa la parola d’ordine di estirpare fin dalle radici il trotskismo ecc. Compresi fin dal principio che ne sarebbe seguita nient’altro che la condanna in massa di persone per la maggior parte del tutto innocenti. E se oggi mi si domandasse perché io non presi pubblicamente posizione contraria, non metterei in primo piano neanche questa volta l’impossibilità fisica (vivevo nell’Unione Sovietica come emigrato politico) ma quella morale: l’Unione Sovietica si trovava nell’imminenza della lotta decisiva contro il fascismo. Un comunista convinto poteva dire soltanto: «right or wrong, my party». Qualunque cosa faccia in tale situazione il partito guidato da Stalin – pensavo con molti altri compagni – bisogna restare incondizionatamente solidali con esso in questa lotta, porre questa solidarietà al di sopra di tutto.

La guerra finita vittoriosamente cambiò in modo radicale tutta quanta la situazione. Io, dopo un esilio di ventisei anni, potei ritornare in patria. Mi sembrava si fosse entrati in un nuovo periodo nel quale fosse divenuta possibile, come durante la guerra, un’alleanza di tutte le forze democratiche, socialiste e borghesi, contro la reazione. Il mio discorso alle Rencontres internationales di Ginevra nel ’46 esprimeva chiaramente questo stato d’animo. Sarei certamente stato cieco se, a partire dal discorso di Churchill a Fulton, non avessi veduto come erano forti le tendenze contrarie nel mondo capitalistico, e con quanto sforzo certe cerchie influenti dell’occidente cercassero di liquidare l’antica alleanza e di avvicinarsi politicamente e ideologicamente agli ex nemici. Già a Ginevra Jean-R. de Salis e Denis de Rougemont si presentarono con idee che tendevano ad escludere la Russia dalla cultura europea. Ma sarebbe stato parimenti cecità ignorare che la reazione a ciò in campo socialista recava in sé molti tratti di quella ideologia la cui estinzione io, e con me molti, mi aspettavo dalla pace e dal rafforzamento del socialismo seguito al sorgere delle democrazie popolari nell’Europa centrale. Appunto perché io insistevo in questo sforzo che, come ritenevo e ritengo, era imposto dalla nuova situazione internazionale, volli aderire al Congresso di Wrocław (1948), al Movimento per la pace e ne sono rimasto fino ad oggi convinto seguace. È sintomatico che l’argomento da me trattato a Wrocław fu l’unità e la distinzione dialettica dell’avversario di ieri e di oggi, cioè la reazione imperialistica.

L’anno 1948 rappresentò forse la più importante svolta della storia a partire dal 1917: intendo la vittoria della rivoluzione proletaria in Cina. Appunto in seguito ad essa vennero in evidenza le contraddizioni decisive nella teoria e nella prassi di Stalin. Giacché oggettivamente questa vittoria significava che il periodo del socialismo in un solo paese – quale Stalin l’aveva difeso a ragione contro Trotskij – apparteneva definitivamente al passato; il sorgere delle democrazie popolari nell’Europa centrale aveva già rappresentato un passaggio alla nuova realtà. Ma soggettivamente fu evidente che Stalin e i suoi seguaci non volevano né potevano trarre dalla situazione internazionale radicalmente mutata le conseguenze teoriche e quindi pratiche. Stalin stesso, da uomo assai accorto, ha, nella sua azione, colto certamente sintomi e momenti della nuova situazione. Tuttavia mai veramente con coerenza, giacché l’idea che essa potesse significare una rottura coi metodi dell’epoca del socialismo in un solo paese, coi metodi cioè oggettivamente derivati dal continuo stato di pericolo di una Russia industrialmente arretrata, che però proprio lui aveva spinto ben al di là di questa esigenza, tale idea, dicevo, era del tutto al di fuori della sua cerchia visiva. Avvenne allora che il nuovo assetto mondiale, che richiedeva categoricamente una nuova strategia e una nuova tattica, fu avviato con un atto in cui fatalmente si assommavano e acutizzavano la strategia e la tattica antiche; cioè la rottura dell’Unione Sovietica con la Jugoslavia. Ne conseguì necessariamente il ritorno ai metodi dell’epoca dei grandi processi.

A me personalmente il riconoscimento della contraddizione fra il fondamento nuovo e l’ideologia vecchia fu facilitato dalla discussione che sorse in Ungheria a proposito del mio libro Letteratura e democrazia. Dal mio ritorno nel 1945 io, benché non sia mai stato funzionario dirigente in senso organizzativo, mi sforzavo continuamente di trarre dalla nuova situazione le conseguenze del caso, di perseguire il passaggio al socialismo in modo nuovo, graduale, sulla base della convinzione. Gli articoli e i discorsi contenuti nel libro ora rammentato erano dedicati a questo fine e, sebbene oggi io li consideri sotto diversi aspetti manchevoli, non chiari abbastanza né conseguenti, essi si muovevano tuttavia in una direzione giusta. La discussione mostrò la completa impossibilità di avere una spiegazione proficua con gli ideologi del dogmatismo.

Il primo grande vantaggio che mi arrecò questa discussione e la ritirata tattica che vi compiei (si era al tempo del processo Rajk) fu di poter abbandonare la mia complessa attività di funzionario e di concentrarmi esclusivamente nel lavoro intellettuale. Questa circostanza, l’esperienza della discussione, quella dei grandi avvenimenti di allora mi giovarono nel riesame approfondito che feci dei problemi del marxismo-leninismo in relazione ai metodi di Stalin e dei suoi seguaci. La convinzione sempre crescente che Stalin non avesse capito quello che c’era di decisamente nuovo nella situazione era resa più larga e più generale da una più profonda coscienza del passato. Mi fu evidente come, mentre nella seconda metà degli anni venti la lotta contro il fascismo era divenuta il problema centrale, Stalin non ne avesse capito il significato se non circa un decennio più tardi. In una epoca in cui la formazione di un fronte unitario dei lavoratori, anzi di tutti gli elementi democratici, era divenuta una questione vitale per la civiltà umana, la tesi di Stalin della socialdemocrazia come «fratello gemello» del fascismo rese impossibile questo fronte. Egli rimase dunque attaccato a una strategia e a una tattica che erano giustificate nella tempesta rivoluzionaria del 1917 e subito dopo, ma che, col placarsi di quella, dopo lo spiegarsi della grande offensiva del capitalismo monopolistico più reazionario, erano oggettivamente del tutto invecchiate. Ciò che accadde dopo il 1948 cominciai a considerarlo come ripetizione storica dell’errore fondamentale degli anni venti.

In questo scritto, ove l’argomento vero e proprio è formato dall’intimo sviluppo delle mie idee, è impossibile anche solo accennare al sistema di pensiero che sta all’origine di tali concezioni errate; sia notato soltanto questo, che il tragico dissidio nel pensiero di Stalin mi divenne sempre più evidente. Lenin, all’inizio del periodo imperialistico, ha messo in luce, partendo dalla dottrina dei classici, l’importanza del fattore soggettivo. Stalin ne ha fatto un sistema di dogmi soggettivistici. Il tragico dissidio consiste nel fatto che le sue grandi qualità di ingegno, le sue ricche esperienze, la sua notevole acutezza, lo condussero non di rado a rompere il cerchio magico del soggettivismo, anzi ad accorgersi chiaramente dell’erroneità di esso. Pertanto mi appare tragico che la sua ultima opera cominci con una giusta critica del soggettivismo economico senza che in lui affiori mai il minimo sospetto di esserne stato lui stesso il padre spirituale e l’assiduo promotore. D’altra parte in un tale sistema di pensiero possono coesistere pacificamente concezioni che si contraddicono risolutamente. Per esempio, la teoria dei contrasti di classe continui e necessariamente esasperantisi insieme alla presenza tangibile del comunismo, secondo e superiore stadio del socialismo. Dall’accoppiamento di queste affermazioni reciprocamente escludentisi è nata la sua visione da incubo di una società comunista in cui il principio liberatore «Ciascuno secondo la sua capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni» si realizza in uno Stato di polizia regolato in forma autocratica ecc. ecc.

Stalin, al quale si deve riconoscere il grande merito di avere difeso contro Trotskij il principio leninista del socialismo in un solo paese e di aver così salvato il socialismo in un periodo di crisi interne, ebbe per il periodo iniziatosi col 1948 quasi la stessa incomprensione che aveva ai suoi tempi Trotskij per le necessità di sviluppo dell’Unione Sovietica. Che questa arretratezza e incomprensione di Stalin abbia facilitato la condotta della guerra fredda agli avversari imperialistici è cosa che ormai non pochi oggi riconoscono.

Ripeto, qui si doveva descrivere solo lo sviluppo delle mie idee, e anche queste soprattutto in rapporto ai problemi del marxismo. Quanto finora è stato detto di Stalin serviva solo a creare sfondo e atmosfera per una giusta impostazione dei problemi. Se si pensa all’entusiasmo di una parte considerevole degli intellettuali nei primi anni della grande rivoluzione socialista, bisogna riconoscere che fra le sue cause fondamentali c’era la geniale, duplice opera di riforma al marxismo da parte di Lenin. Da un lato Lenin ha spazzato via pregiudizi, rigogliosi durante decenni, relativi ai classici del marxismo; e in questo lavoro di epurazione apparve quanto l’opera di Marx e di Engels fosse ricca di nozioni che fino ad allora non erano state messe in luce. D’altro lato egli rilevò al tempo stesso, con inesorabile senso della realtà, che nei nuovi problemi sollevati dalla vita non ci si può appoggiare a «infallibili» citazioni dai classici. Al tempo dell’introduzione della NEP così ebbe a dire con mordente ironia a un certo tipo di critici marxisti: «A Marx non è mai venuto in mente di scrivere neanche una parola sull’argomento; è morto senza lasciare nessuna esatta citazione o irrefutabile indicazione in proposito. Dunque bisogna cercare di cavarsela da soli».

Come qui ho già detto, nei primi anni dopo la morte di Lenin io nutrivo delle speranze in una edificazione leninista del marxismo. Ho anche descritto esaurientemente la successiva, crescente delusione. Come conclusione di queste considerazioni importa riassumere brevemente ciò che in questa situazione è essenziale dal punto di vista della teoria della scienza. Avvenne dunque che, man mano che il predominio spirituale di Stalin si rafforzò e si irrigidì in culto della personalità, la ricerca marxistica degenerò largamente in un’esposizione, applicazione e diffusione di «verità definitive». La risposta della vita e della scienza era, secondo l’insegnamento dominante, depositata nelle opere dei classici, soprattutto in quelle di Stalin. Da principio Marx ed Engels furono spinti sempre più energicamente in secondo piano da Lenin e poi Lenin da Stalin. Ricordo bene, per esempio, il caso di un filosofo che fu ripreso perché trattava le determinazioni della dialettica secondo i Quaderni filosofici di Lenin. Stalin, gli si fece presente, aveva enumerato nel quarto capitolo della Storia del partito meno distinzioni della dialettica e così aveva fissato definitivamente il loro numero e la loro natura. Perciò interessava soltanto trovare per ogni problema trattato la citazione da Stalin appropriata.

«Che cos’è una idea?» domandò una volta un compagno tedesco. «Un’idea è il collegamento fra due citazioni». Sarebbe veramente ingiusto negare il fatto che la porta per un ulteriore sviluppo del marxismo-leninismo non era stata serrata del tutto. Stalin possedeva il privilegio di arricchire il tesoro delle verità eterne con verità nuove e di mettere fuori circolazione una verità considerata fino ad allora come inconfutabile.

Che con tale sistema la vita scientifica soffrisse gravemente non occorre che venga dimostrato. Basti solo accennare che le scienze più importanti dal punto di vista teoretico per lo sviluppo del marxismo, l’economia politica e la filosofia, furono quasi completamente paralizzate. Lo sviluppo delle scienze naturali poteva essere ostacolato assai meno; sebbene anche qui vi siano stati conflitti o addirittura crisi il loro progresso pratico era una questione talmente vitale che non si poteva in alcun modo ostacolarlo, anzi, nel campo della mera applicazione, veniva perfino energicamente promosso. Per quelle discipline le pericolose conseguenze della sterile «citatologia», nei problemi di metodologia o nei concetti base, si manifestavano più marginalmente.

Io non ero affatto il solo che conducesse una lotta partigiana ininterrotta contro questo spirito di irrigidimento. Ma a partire dalla morte di Stalin e specialmente dal XX Congresso questo complesso di problemi entrò in uno stadio qualitativamente nuovo; finalmente tutti questi problemi furono discussi apertamente, l’opinione pubblica della scienza cominciò ad esprimersi più o meno chiaramente. Anche a questo proposito è impossibile, nel presente abbozzo di autobiografia intellettuale, anche solo accennare a quelle discussioni e alle tendenze che vi si manifestavano; devo perciò limitarmi a riassumere brevemente la mia propria opinione. Io credo che oggi il pericolo più grande per il marxismo sia rappresentato dalle tendenze alla sua revisione. Poiché per decenni tutto quanto Stalin affermava veniva identificato col marxismo e anzi veniva addirittura proclamato il coronamento di esso, gli ideologi borghesi si sono affannati a utilizzare l’erroneità, divenuta evidente, di alcune tesi di Stalin, di momenti essenziali della sua metodologia, allo scopo di promuovere la revisione anche dei risultati dei classici del marxismo, messi alla pari con Stalin. E poiché questa direzione di pensiero trascina con sé più di un comunista, intellettualmente disarmato per la sua educazione schematica e dogmatica, è il caso di parlare di un pericolo molto serio. Fintanto però che i dogmatici rimangono attaccati all’identità sostanziale di Stalin coi classici del marxismo, si troveranno altrettanto disarmati intellettualmente davanti a quelle correnti (con segno contrario) quanto i revisionisti in buona fede. Per la conservazione e il progresso del marxismo-leninismo deve trovarsi un «tertium datur» come uscita da questo vicolo cieco; si deve cioè estirpare il dogmatismo per combattere il revisionismo.

Lenin ha indicato per primo e chiaramente il punto archimedico d’appoggio della presa di posizione qui necessaria. Soltanto se saremo coscienti che il marxismo ci ha lasciato un metodo sicuro, uno straordinario numero di verità salde, una quantità di spunti quanto mai fecondi per il suo proprio sviluppo; che noi non possiamo fare alcun progresso reale sulla via della scienza senza un’assimilazione e un’applicazione approfondita di quei principi; che tuttavia l’elaborazione di scienze universali sulla base del marxismo è un compito da svolgere e non qualcosa di già raggiunto; se tutto questo verrà compreso chiaramente si avrà una ripresa della ricerca marxista. Engels prima della sua morte ha indicato questo futuro compito dei marxisti; Lenin ha ripetuto le sue esortazioni. Io credo che sia venuto il tempo di adempiere queste istanze. Quando diciamo: noi non abbiamo ancora una logica, un’estetica, un’etica, una psicologia marxiste, non diciamo nulla che debba scoraggiare. Al contrario parliamo con passione piena di speranza dei grandi, entusiasmanti doveri scientifici che possono fecondamente riempire la vita di intere generazioni.

Naturalmente è impossibile in questi brevi limiti parlare concretamente anche solo della prospettiva di queste imprese; non mi rimane spazio neanche per trattare dei miei propri lavori. Posso soltanto dire che la pratica coi classici del marxismo mi ha dato per la prima volta in vita mia la possibilità di compiere ciò verso cui sempre furono diretti i miei sforzi, cioè di cogliere esattamente, descrivere fedelmente ed esprimere secondo verità nei loro tratti storico-sistematici, i fenomeni della vita dello spirito quali essi realmente sono in sé. La lotta contro il dogmatismo fu, anche da questo punto di vista, un’autodifesa. Giacché le ideologie borghesi, sotto la cui influenza io cominciai la mia attività avevano certamente deformato questi fenomeni. Tuttavia il dogmatismo nella sua apodittica soggettivistica era contro ogni approfondimento nell’oggetto, contro ogni generalizzazione che dall’oggetto partisse. Chi tollerò simili paraocchi sulla sua fisionomia intellettuale, poté solo fornire paragrafi di dogmi bell’e fatti e perse ogni collegamento con la realtà. La mia lotta partigiana contro il dogmatismo non soltanto ha salvato il mio rapporto con la vita e coi suoi oggetti, ma l’ha anche promosso. Se io oggi posso lavorare a un’estetica e posso sognare il compimento di un’etica, lo devo a questa lotta.

Appunto perciò scrivo anche queste righe nello stato d’animo di un’attesa piena di tensione. So bene che la lotta per la nuova via è ben lungi dall’essere conclusa; anzi, abbiamo visto e vediamo tutt’oggi diverse ricadute nel dogmatismo, col corrispondente rafforzarsi del revisionismo. Io personalmente – e qui parlo soprattutto di me, del mio lavoro – sono convinto che il serio sforzo in direzione di una scienza marxistica universale può dare alla mia vita un contenuto indistruttibile. (Quale valore obbiettivo avrà il mio contributo a quest’opera giudicherà la storia. Io non sono autorizzato a pronunciare un giudizio su di esso). Esistono ancora oggi vari impedimenti su questa via. Il movimento operaio rivoluzionario dovette superare fin dal suo sorgere i più diversi smarrimenti ideologici; finora vi è sempre riuscito e io sono profondamente convinto che vi riuscirà anche in avvenire. Perciò mi sia consentito chiudere con il detto di Zola, un po’ modificato: «La vérité est lentement en marche et à la fin des fins rien ne l’arrêtera».

1 Questo Postscriptum è stato scritto per il «Symposium on Contemporary Thought» edito in Giappone col titolo Isvanami Gendai Schiso. Traduzione di Ugo Gimmelli.

Tra Marx e Dostoevskij

01 lunedì Giu 2015

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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di Vittorio Strada

«Lettera internazionale», n. 23, 1990

Nella storia del comunismo, intenden­do con questo termine non un insie­me di idee semplicemente ma quella realtà prima russa e poi mondiale la cui data d’inizio può essere indicata nel 1917, non c’è una figura intellettuale che s’imponga con la forza d’autenticità di quella di György Lukács. Non parlo di autenticità nel senso di un comunismo marxista ortodosso o vero rispetto ad altri ereticali o spuri, classificazione che, per quanto non estranea allo stesso Lukács co­me a tutti gli altri comunisti e marxisti ante­riori all’attuale crisi del loro movimento, non può avere alcun significato per chi si trova su posizioni di libertà mentale e di indipendenza politica. L’autenticità del comunismo di Lukács è quella di una scelta e di una coerenza esistenziale che rendono la sua figura di estre­mo interesse anche per chi non accetta i con­tenuti e i metodi del suo lavoro culturale e po­litico, ma riconosce la sua non comune statu­ra intellettuale nel panorama della filosofia eu­ropea del Novecento.

Potrà suonare sconcertante, ma nella gran­de vicenda storica comunista alla figura di Lukács, per intensità di esperienza totale, non riesco a metterne accanto nessun’altra se non quella di Vladimir Majakovskij. Paradossale accostamento: che cosa ci può essere di comu­ne tra il filosofo marxista che attraversò tutte le tappe del comunismo fino alla sua crisi post-staliniana e il poeta futurista che visse solo la prima fase comunista, suicidandosi proprio quando cominciava quella staliniana? Che co­sa ci può essere di più antitetico tra il teorico di un’arte «realista» nelle sue varianti del «rea­lismo critico» e del «realismo socialista» e il più clamoroso rappresentante dell’«antirealismo» dell’avanguardia? Il confronto non può essere spinto oltre un certo limite, naturalmen­te, ma ciò che permette di accostare figure che sembrano, e in parte realmente sono, incom­patibili tra loro è appunto l’autenticità esisten­ziale profonda del loro comunismo, da en­trambi, d’altronde, così diversamente vissu­to. Ed è anche un’osservazione assai acuta di Boris Pasternak, secondo cui Majakovskij sembrava uscito da una pagina dei romanzi di Dostoevskij. Ma lo stesso si può dire an­che di Lukács, anzi a maggior ragione, per­ché lui, Lukács, in un periodo decisivo della sua vita proprio Dostoevskij o, meglio, i suoi romanzi aveva eletto a guida etico-intellettuale, dedicando al grande scrittore rus­so una ricerca della quale conosciamo la par­te introduttiva, la Teoria del romanzo, e gli appunti, solo di recente resi noti. E in comu­ne tra il poeta futurista e il filosofo marxista-leninista c’era la Russia. Che Majakovskij fos­se russo è ovviamente chiaro, ma «russo» lo fu anche Lukács, se si pensa alla parte decisi­va che la Russia pre-rivoluzionaria e poi so­vietica ebbe nella sua vita interiore, nella sua formazione e nel suo destino.

Il fine e i mezzi

Non ha senso ripetere le operazioni di chi, per dogmatismo residuo o per falsa pietas, co­struisce un’immagine oleografica e agiografica di Lukács, ripulendola dalle parti più dram­matiche della sua militanza comunista che è stata coerentemente leninista e stalinista, con cedimenti anche assai gravi; e di chi invece spinge una giusta critica dell’organico coinvol­gimento di Lukács in tutta l’esperienza comu­nista, anche la più fosca, oltre il limite che per­mette di vedere quella che ho chiamato l’au­tenticità della sua esperienza etico-intellettuale, la sua integrità e coerenza. Ma gli apologeti sono più meschini dei detratto­ri, i quali almeno sentono un problema reale. Qui, presentando una serie di saggi diversi su Lukács, converrà soffermarsi soltanto, nella prospettiva sopra delineata, su un periodo cru­ciale della sua esistenza: quello tra il 1918 e il 1919 in cui il filosofo ungherese «decide» il proprio destino futuro, ricavando la sua «scelta» da tutto il suo passato cosciente e, si può dire, anche inconscio e operando, nello stesso tempo, una sorta di salto dialettico, al quale resterà poi rigorosamente fedele. È que­sto il momento in cui i «due» Lukács, quello pre-marxista (ma non ignaro del marxismo) e quello marxista (ma soprattutto leninista) si incontrano e si separano. Anche questo mo­mento è così ricco e profondo da richiedere di per sé un ampio studio. Qui ci si limiterà ad alcuni aspetti essenziale e, soprattutto, at­tuali in questo momento in cui la storia co­munista è giunta a una sua crisi e forse a una sua fine.

«Nella liberazione dal compromesso si na­sconde l’affascinante forza del bolscevismo. Ma colui che ne viene affascinato forse non si rende pienamente conto a che cosa va in­contro per cercare di evitarlo. Il suo dilemma è il seguente: si può raggiungere il bene con mezzi cattivi? Si può conquistare la libertà con l’oppressione? È mai possibile un nuovo si­stema mondiale se i mezzi usati per il suo rag­giungimento differiscono solo tecnicamente dai mezzi del vecchio sistema, così giustamen­te odiati e disprezzati? Qui evidentemente ci si potrebbe richiamare alla tesi della sociolo­gia marxista che dice che tutto il corso della storia sta nelle lotte di classe, nelle lotte degli oppressi contro gli oppressori, e la lotta dei proletariato non può sfuggire a questa “leg­ge”. Ma se ciò è vero, in questo caso (…) tut­to il contenuto ideologico del socialismo (tran­ne per quanto riguarda la soddisfazione degli interessi diretti del proletariato) non sarebbe che un’ideologia. E questo è impossibile. E proprio perché è impossibile, non si può, dal­l’accertamento dei fatti storici, fare il pilastro per una volontà morale, per la volontà di un nuovo sistema mondiale. Perché allora biso­gna prendere il male per il male, l’oppressio­ne per l’oppressione, il potere di classe per il potere di classe. E bisogna credere (e questo è il vero credo quia absurdum est) che ad un’oppressione non segua una nuova lotta de­gli oppressi per il potere (per poter esercitare una nuova oppressione) e così via, una serie interminabile di eterne lotte senza senso e sen­za scopo – ma l’abolizione dell’oppressione stessa».

Questo brano si legge verso la fine dell’ar­ticolo di György Lukács Il bolscevismo come problema morale, articolo con cui egli nel di­cembre 1918 argomentava il suo rifiuto del bolscevismo. In quello stesso dicembre, Lukács capovolse la sua decisione, aderendo al partito comunista e giustificando questa re­pentina scelta con l’articolo Tattica ed etica, scritto nei primissimi mesi del 1919. Là dove Lukács, nel passo sopra riportato, parla di credo quia absurdum, si potrebbe vedere la molla della sua «conversione», la quale ebbe indubbiamente una segreta radice irraziona­le. Ma limitarsi a questa constatazione, che a sua volta rimanda a una «scelta» di tipo kierkegaardiano, a un vero e proprio aut/aut, si­gnificherebbe trascurare, da una parte, tutta la precedente ricerca intellettuale di Lukács e lo specifico ambiente culturale «romantico» in cui essa si era svolta in senso antiliberal-borghese e antidemocraticocapitalistico e, dal­l’altra, la stessa argomentazione svolta nell’ar­ticolo Il bolscevismo come problema morale, argomentazione che mette in luce le antino­mie del socialismo come «nuovo sistema mon­diale», capace di dare un senso e uno scopo alla storia, altrimenti ridotta a un susseguirsi assurdo di lotte per il potere.

L’etica del terrorismo

Nell’articolo del 1918 Lukács sente il «fa­scino» del massimalismo bolscevico che pone fine ad ogni «compromesso» e che adotta la violenza come condizione per attuare un «nuovo sistema mondiale» che si promette ar­monioso. Ma qui Lukács sente ancora la for­za della ragione e capisce che si tratta di «cre­dere», di fare un atto di vera e propria fede nella possibilità del miracolo rivoluzionario che trasformi il male radicale (la violenza) in un bene altrettanto radicale (comunismo). E ad appoggio della sua riflessione egli cita un personaggio dell’autore a lui più vicino in que­gli anni, Dostoevskij, un personaggio di De­litto e castigo secondo il quale attraverso la menzogna si può giungere alla verità. La con­clusione cui Lukács perviene in quel suo arti­colo è la seguente: «Il sottoscritto è incapace di condividere questa opinione e perciò vede l’insolubile problema bolscevico nelle radici stesse delle posizioni bolsceviche. La democra­zia, secondo me, richiede solo rinunce e sacrifici sovrumani da coloro che vogliono co­scientemente e onestamente agire fino in fon­do. E questo, anche se costa sforzi incommen­surabili, non è un problema insolubile, come lo è invece il problema morale bolscevico».

Se ora leggiamo la parte conclusiva del suc­cessivo e vicino articolo Tattica ed etica, fon­dazione del suo passaggio al bolscevismo con una chiara consapevolezza di ciò che questo significava sul piano morale, troviamo un ca­povolgimento delle posizioni del dicembre 1918 e, nello stesso tempo, una loro continua­zione e soluzione (soluzione, evidentemente, non logica, dato che giustamente egli aveva definito «insolubile» il «problema morale bol­scevico», ma etico-religiosa, se al termine «re­ligioso» si conferisce un particolare signifi­cato).

«Nessuna etica può avere come compito di escogitare ricette per un agire corretto, di li­vellare o di occultare gli insuperabili tragici conflitti del destino umano. L’autoriflessione etica, al contrario, ci indica appunto che esistono delle situazioni – tragiche situazio­ni – nelle quali è impossibile agire senza at­tirarsi su di sé una colpa; e altresì ci insegna che persino nel caso in cui potessimo sceglie­re tra due modi di renderci colpevoli, l’azio­ne giusta e quella sbagliata avrebbero tutta­via un criterio. Questo criterio si chiama sa­crificio. Allo stesso modo come il singolo, sce­gliendo tra due specie di colpa, trova infine la giusta scelta sacrificando sull’altare dell’i­dea superiore il proprio io inferiore. Così esi­ste anche una forza che consente di commi­surare questo sacrificio all’agire collettivo; qui però l’idea si incarna in un comando della si­tuazione storico-universale, come vocazione imposta dalla filosofia della storia».

A questo punto Lukács cita un altro russo, un terrorista socialrivoluzionario, Boris Savinkov, noto con lo pseudonimo di Ropšin, personalità notevole che in opere letterarie me­ditò sul fenomeno del terrorismo.  Per Savinkov-Ropšin, l’omicidio compiuto dal terrorista rivoluzionario è sì la violazione di un imperativo («non uccidere»), ma, insieme, l’obbedienza ad un altro imperativo («devi uc­cidere»). Il terrorista trova non la giustifica­zione del suo atto, il che è impossibile, ma «l’ultima radice morale di essa nel fatto che egli sacrifica per i suoi fratelli non solo la sua vita, ma anche la sua purezza, la sua morale, la sua anima».

Conclude e commenta Lukács: «In altre pa­role: solo l’azione omicida dell’uomo, il qua­le sa con assoluta certezza e senza dubbio al­cuno che in nessuna circostanza l’omicidio de­ve essere approvato, può avere, tragicamen­te, una natura morale. Per esprimere questo pensiero sulla più grande delle tragedie uma­ne con le incomparabilmente belle parole della Judith di Hebbel: “E se Iddio avesse posto il peccato tra me e l’azione che mi è stata impo­sta, chi sono io perché possa sottrarmi ad esso?”».

Così Lukács illumina la sua «via al comu­nismo» nell’atto stesso in cui la intraprende e la percorre (e sappiamo che la percorrerà fi­no all’ultimo), assumendosi la piena respon­sabilità di ogni violenza. Si tratta di una argomentazione-confessione di estrema luci­dità, che non si nasconde dietro illusioni re­toriche e accetta la «colpa», il «sacrificio», l’«omicidio», tutte parole che ricorrono nel passo finale di Tattica ed etica, assieme all’e­spressione di «tragico». E, infine, a suggella­re la tormentosa riflessione ormai conchiusa con un atto di fede nel bolscevismo, la cita­zione dalla Judith di Friedrich Hebbel, una ci­tazione cara a Lukács.

Giuditta e Oloferne

Possiamo partire da questa citazione per ve­dere però una inconsistenza che non appare alla superficie del tormentato ragionamento di Lukács o, per dir meglio, della sua «scel­ta» travagliata. È facile constatare che la fra­se di Hebbel è leggermente, ma significativa­mente mutata nel testo di Lukács. Nell’atto terzo del dramma, Giuditta, votata ad ucci­dere Oloferne, pronuncia inginocchio un ap­passionato soliloquio con Dio, dal quale si sente ispirata a compiere quell’uccisione: «La via alla mia opera passa attraverso il pecca­to! Grazie, grazie a te! Signore! Tu rischiari il mio occhio. Davanti a te l’impuro si fa pu­ro; se tu poni tra me e la mia opera un pecca­to: chi sono io da litigarne con te, da sottrar­mi a te?» (Traduzione di Scipio Slataper). Lukács spersonalizza l’invocazione sofferta di Giuditta e la trasforma in una sorta di sentenza universale. E spersonalizzandola le to­glie quella carica tragica che essa ha nel dram­ma di Hebbel, perché toglie al delitto tutta la tensione che deriva dall’assolutezza religiosa dell’imperativo «non uccidere».

Lukács crede di poter mantenere il concet­to di «sacrificio», come quello di «colpa» e «peccato», facendo riferimento a un «coman­do della situazione storico-universale, come vocazione imposta dalla filosofia della storia». Ma quella «filosofia della storia» che è il mar­xismo relativizza ogni valore morale e se pre­tende di creare un nuovo assoluto sui gene­ris, lo pone storicamente nel futuro, nel «nuo­vo sistema mondiale» di cui parla Lukács nel Bolscevismo come problema morale, veden­do lucidamente tutte le insolubili antinomie della nuova «moralità». Dal punto di vista di questa «filosofia delia storia» aveva perfetta­mente ragione quel suo massimo teorico e pra­tico che era Lenin, da Lukács ammirato e ve­nerato, per il quale l’unico criterio morale di un atto stava nella sua utilità dal punto di vi­sta dell’attuazione dei «nuovo sistema mon­diale», cioè del comunismo. E Lenin, come ogni bolscevico, non si poneva affatto i tor­mentosi problemi dei cristiani personaggi di Dostoevskij. L’unico criterio di valutazione del terrore era la sua opportunità, la sua tem­pestività, la sua efficacia. Si trattava di un atto tecnico, non etico. Stalin era un perfetto bol­scevico e l’unica obiezione che, dal punto di vista della «filosofia della storia», gli si pote­va eventualmente muovere, era di natura tec­nica (erano davvero necessari tanti eccidi per il comunismo?), non etica. Nessun bolscevi­co è pensabile nella posizione della Giuditta che sente di dover uccidere il tiranno Olofer­ne. Neppure Lukács, bolscevico «etico» che supera l’etica con un atto di «fede» raziona­lizzata, è pensabile nell’invocazione tragica di Giuditta. Tanto è vero che Lukács trasforma quell’invocazione in una formula. E infatti, se si trasforma la Storia in una sorta di dio e la «filosofia della storia» in una teologia «scientifica», a chi rivolgersi con una invoca­zione, con una preghiera, con una interroga­zione? Lukács, come ogni terrorista bolscevi­co (nel senso non di un terrore praticato direttamente, ma di un terrore condiviso), non poteva avere lo statuto e la statura di un eroe tragico. La tragedia investiva soltanto le vit­time di quel terrore, i milioni e milioni di in­nocenti che la «filosofia della storia» condan­nava a una morte giustificata, nelle pretese della «filosofia», dall’instaurazione di un «nuovo sistema mondiale».

Un’altra osservazione è necessaria. Lukács fa riferimento agli eroi di Dostoevskij e a reali rivoluzionari russi come Boris Savinkov e Ivan Kaljaev, che furono presenti anche nella sua riflessione precedente. Per quanto legati all’organizzazione dei socialisti-rivoluzionari, questi terroristi erano ancora «ottocenteschi». Kaljaev, quando deve gettare una bomba contro la carrozza che ha a bordo l’odiato governatore di Mosca, si ferma e desiste perché vede che col governatore si trovano la moglie e giovani nipoti. Poi, portato a termine l’attentato in un secondo tentativo, è visitato in carcere, prima dell’esecuzione capitale, dalla vedova del governatore, con la quale ha uno straordinario colloquio. Si può giudicare negativamente anche questo terrorismo, certo, ma non si può non vedere la sostanziale differenza tra il terrorismo «tradizionale» e quello nuovo, «totalitario», inaugurato dalla rivoluzione bolscevica. Lukács sapeva benissimo che lo «spirito del tempo» era mutato ed egli stesso darà la più profonda teoria del nuovo tipo di terrore in Lotta e coscienza di classe, dove il nuovo dio della Storia trova il suo rappresentante assoluto nel Partito, organo attraverso cui i «comandi della situazione storico-universale» inappellabilmente si esprimono. Il terrore comunista non era quello di un Savinkov o di un Kaljaev, ma quello dei Demoni dostoevskiani. E coerentemente Lukács dal suo dostoevskismo giovanile, così appassionato e tormentato, doveva poi passare un antidostoevskismo che non consiste, na­turalmente, in una negazione della grandezza artistica dell’autore di Delitto e castigo, ma nella sua trattazione nei termini di un accademismo marxista-leninista.

L’etica della convinzione

Si potrebbe chiudere qui questa rapida lettura di una pagina così pregnante non soltanto della biografia intellettuale di Lukács, ma della storia etico-politica europea. Proprio perché di storia europea si tratta, conviene però chiudere questo episodio andando al di là Lukács e del bolscevismo. Nelle pagine fina­li del Lavoro intellettuale come professione Max Weber svolge la sua nota distinzione tra un’etica della responsabilità e un’etica della convinzione, riflessioni che sono segretamente improntate dall’esperienza rivoluzionaria del giovane Lukács, la quale non trovò rifle­sso soltanto nella Montagna incantata di Thomas Mann. La lettura di queste pagine weberiane è complessa, e qui ci limiteremo a un passo centrale, in cui ritorna ancora il nome Dostoevskij:

«Qui, su questo problema della giustificazione dei mezzi mediante il fine, anche l’etica della convinzione in genere sembra destinata a fallire. E in effetti essa non ha logicamente altra via che quella di rifiutare ogni azione che operi con mezzi pericolosi dal punto di vista etico. Logicamente. Senza dubbio, nel mondo della realtà noi facciamo continuamente l’esperienza che il fautore dell’etica della convinzione si trasforma improvvisamente nel profeta chiliastico, e che per esempio coloro i quali hanno testé predicato di oppore “l’a­more alla forza”, un istante dopo fanno ap­pello alla forza – alla forza ultima, la quale dovrebbe portare all’abolizione di ogni pos­sibile forza, così come i nostri capi militari ad ogni nuova offensiva dicevano ai soldati: “Questa è l’ultima, ci porterà alla vittoria e quindi alla pace”. Chi segue l’etica della convinzione non sopporta l’irrazionalismo etico del mondo. Egli è un “razionalista” cosmico-etico. Chiunque di voi conosca Dostoevskij ri­corderà l’episodio del Grande Inquisitore dove il problema è discusso con estrema acutezza».

E chiunque conosca gli appunti di Lukács su Dostoevskij sa quanta importanza abbia avuto per lui anche il geniale episodio del Grande Inquisitore, come ho cercato di met­tere in luce in un mio scritto.

Ma, se torniamo alle parole di Weber, non è difficile capire che esse si riferiscono al gio­vane Lukács, col quale Weber aveva avuto rapporti intellettuali assai stretti. E, in un certo senso, Weber fu profeta o, per dir meglio, capì il «razionalismo» cosmico-etico del neofita ri­voluzionario, ad aspettare il quale stavano prove e «colpe» superiori alla sua immagina­zione. Ma, accettato con un atto di «fede» ir­religiosa poi razionalizzato il terrorismo bol­scevico, Lukács non venne mai meno a quel­la scelta, trasformandosi da neofita pseudo­tragico in «gesuita della rivoluzione», come fu visto da Thomas Mann. Anche per questo György Lukács, come quell’altro personaggio dostoevskiano che fu Vladimir Majakovskij, resta la figura più autentica in senso etico-intellettuale della cultura comunista. E sareb­be inutile, oltre che inadeguato alla sua sta­tura, cercare di togliergli quel «peccato» che egli, immaginandosi una ripetizione di Giudit­ta, si assunse con piena consapevolezza e re­sponsabilità, un «peccato» che tuttavia fu più grave di quanto egli non pensasse nei suoi «ro­mantici» anni giovanili, ma che egli mai rifiu­tò, sacrificando sempre più sull’altare di un’i­dea inferiore il suo io superiore.

Soltanto vicino alla morte, egli, si dice, per un attimo ebbe la sensazione di aver sbaglia­to. Ma l’ideologica «filosofia della storia» da lui professata gli ridiede, forse, una astratta e facile serenità che neppure la religione può garantire alle sue tormentate Giuditte. A Lukács, fedele sempre al feticcio del Partito, manca quell’aureola di «eroe tragico» che la protagonista del dramma hebbeliano ha e che il filosofo ungherese voleva conferire a chi ac­cettava il terrorismo bolscevico. Aureola tra­gica che, invece, non si può negare a Maja­kovskij, il quale, privo del conforto della «fe­de» hegelo-marxista, pagò col sacrificio della vita il suo tormento e la sua «colpa».

***

Opere di V. Strada

Introduzione a Gy. Lukács, M. Bachtin e altri, Pro­blemi di teoria del romanzo, Torino, Einaudi, 1976.

Introduzione a Michail Bachtin, Tolstoj, Bologna, il Mulino, 1986.

Le veglie della ragione. Miti e figure della letteratura russa da Dostoevskij a Pasternak, Torino, Einaudi, 1986.

Problemi della destalinizzazione: il caso Lukács in «Socialismo storia». Ripensare il 1956, Roma, Lerici.

Perry Anderson intervista Lukács (NLR)

09 venerdì Gen 2015

Posted by nemo in I testi, interviste, Traduzioni italiane

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Adorno, Ady, Aristotele, Bacone, Balzzac, Béla Kun, Benjamin, Brecht, Bucharin, causalità, De Sade, democrazia borghese, democrazia socialista, formazione economica, Gramsci, Hegel, Korsch, lavoro, Lenin, libertà, Literaturnyj Kritik, Locke, Mandeville, manoscritti Marx, Manzoni, Marx, Nagy, necessità, ontologia, Puškin, RAPP, rivoluzione russa, Ryazanov, Scott, Shaw, soviet, Stalin, Storia e coscienza di classe, sviluppo ineguale, telelologia, Teoria del romanzo, Tesi di Blum, Trotsky, ungheria, Urss, vita quotidiana, Weber, Zinov'ev


di György Lukács

a cura di Perry Anderson

Lukács on his life and work, «New Left Review» n. 68 luglio-agosto 1971.

trad. it. di gyorgylukacs.wodpress.com

 

I recenti eventi in Europa hanno posto ancora una volta il problema del rapporto tra socialismo e democrazia. Quali sono, secondo lei, le differenze fondamentali tra democrazia borghese e democrazia rivoluzionaria socialista?

La democrazia borghese nasce con la Costituzione francese del 1793, la sua più alta e radicale espressione. Il suo principio costituente è la divisone dell’uomo nel citoyen della vita pubblica e nel bourgeois della vita privata, il primo dotato di diritti politici universali, il secondo espressione di particolari e differenti interessi economici. Questa divisione è fondamentale per la democrazia borghese quale fenomeno storicamente determinato. Il suo riflesso filosofico si riscontra in de Sade. È interessante che scrittori come Adorno si siano occupati di de Sade in quanto riflesso della Costituzione del 1793. L’idea cardine, nell’un caso come nell’altro, è che l’uomo sia un oggetto per l’uomo e l’egoismo razionale sia l’essenza della società umana. Ora, è ovvio che qualunque tentativo di ricreare nel socialismo questa forma storicamente superata di democrazia sia una regressione e un anacronismo. Ciò non significa però che le aspirazioni alla democrazia socialista debbano essere affrontate in ottica amministrativa. Il problema della democrazia socialista è un problema reale che non è stato ancora risolto, poiché essa deve essere materialista e non idealista. Mi permetta di fare un esempio. Un uomo come Guevara fu un rappresentante eroico degli ideali giacobini, le sue idee impregnarono la sua vita e la modellarono completamente. Egli non fu il primo caso nel movimento rivoluzionario. Leviné in Germania o Ottó Korvin qui in Ungheria vissero e agirono alla stessa maniera. Bisogna nutrire un profondo rispetto verso una nobiltà umana di questo tipo. Ma il loro idealismo non è quello del socialismo della vita quotidiana, che deve avere una base materiale e fondarsi sulla costruzione di una nuova economia. Tuttavia devo subito precisare che lo sviluppo economico in sé non produrrà mai il socialismo. La dottrina di Chruščëv, secondo la quale il socialismo avrebbe trionfato su scala mondiale quando gli standard di vita dell’URSS avessero superato quelli degli USA, era completamente sbagliata. Il problema deve essere posto in un modo radicalmente opposto. Si può formularlo così: il socialismo è la prima formazione economica nella storia che non produce spontaneamente il suo corrispondente “uomo economico”. Questo perché è una formazione di transizione, un interludio nel passaggio dal capitalismo al comunismo. Ora, poiché l’economia socialista non produce e riproduce spontaneamente l’uomo ad essa corrispondente, come la società capitalista generò il suo homo oeconomicus, cioè la divisione citoyen/bourgeois del 1793 e di de Sade, la funzione principale della democrazia socialista è l’educazione dei suoi membri al socialismo. Questa funzione non ha precedenti né analoghi nella democrazia borghese. È evidente che ciò che oggi sarebbe necessario è la rinascita dei soviet, il sistema di democrazia socialista che sorge ogni volta che si ha una rivoluzione proletaria: la Comune di Parigi nel 1871, la Rivoluzione russa del 1905 e la stessa Rivoluzione di Ottobre. Ma ciò non si realizza nottetempo. Il problema è che gli operai qui sono indifferenti: inizialmente essi non credono in nulla. Continua a leggere →

Intellettuali e coscienza di classe. Il dibattito su Lukács 1923-24

08 lunedì Set 2014

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

≈ 2 commenti

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Bloch, Deborin, Hegel, Lukacs, Révai, reificazione, rivoluzione russa, Rudas, stalismo, Storia e coscienza di classe


icoI cinque saggi compresi nella raccolta rappresentano gli interventi di maggior peso teorico e politico che accompagnarono la pubblicazione, nel 1923, del libro di Lukács Storia e coscienza di classe. Si trattava dell’opera di un’intellettuale che, dopo aver partecipato attivamente nel 1919-’21 alla lotta politica, si era venuto a trovare in una condizione di isolamento e di emarginazione dal movimento operaio organizzato. Il dibattito su Storia e coscienza di classe avveniva pertanto in corrispondenza con la svolta del comunismo internazionale verso la bolscevizzazione e la definitiva rinuncia del Comintern a ogni progetto di rivoluzione europea. La polemica sferrata contro la “nuova corrente” del marxismo, che annoverava anche Korsch, autore di Marxismo e filosofia uscito nel ’24, rifletteva cosi quel momento decisivo di ripiegamento dell’Internazionale verso una prassi autoritaria e burocratica. E la condanna pronunciata da Zinov’ev al V congresso dell’Internazionale (nell’estate del ’24) contro i “professori” Lukács, Korsch e Graziadei fu la sanzione ufficiale di un’offensiva teorica condotta contro l’interpretazione dialettica del marxismo.

Il primo a scendere in campo fu László Rudas, ex socialdemocratico entrato nel Partito comunista ungherese all’atto della fondazione ed eletto membro del Comitato centrale nell’inverno del 1918. All’inizio del ’20, nel corso della polemica sulle responsabilità del fallimento della rivoluzione ungherese, Rudas aveva assunto una posizione molto vicina a quella di Lukács: in coincidenza con gli attacchi ufficiali, invece, si schierò decisamente a favore dell’ortodossia. Contemporaneamente, l’intervento di Abraham Deborin segnò l’inserimento di Storia e coscienza di classe nel dibattito che si stava svolgendo in Russia sul materialismo dialettico e meccanicistico. Ma le sue critiche misero in piena luce la distanza che separava l’elaborazione dialettica del marxismo da parte di Lukács rispetto a una concezione dei materialismo dialettico incentrata su un’interpretazione oggettivistica di Hegel.

Con lo scritto di Ernst Bloch inizia in certo senso la storia ormai cinquantennale della penetrazione, spesso sotterranea, dei temi di Storia e coscienza di classe nel pensiero filosofico e nelle scienze sociali, in primo luogo attraverso la Scuola di Francoforte. Bloch, inoltre, fu il solo nel ’24 a cogliere il rilievo della tematica della reificazione nel libro di Lukács. L’intervento di József Révai, infine, è il documento di una radicalizzazione delle posizioni lukacsiane da parte di un compagno di lotta nella repubblica dei Consigli e nell’emigrazione viennese, che traduceva la speranza nella rivoluzione mondiale nelle categorie soggettivistiche e volontaristiche dell’estremismo dei primi anni Venti.

Nel saggio introduttivo di Laura Boella il dibattito è ricostruito nelle sue più vaste implicazioni storico-politiche e filosofiche. Vengono analizzati gli interventi fino agli anni Trenta, in modo da delineare compiutamente le ragioni del paradossale impatto del libro del ’23 con una situazione in cui sembrano consumarsi definitivamente le speranze rivoluzionarie e, con l’avvento del fascismo e dello stalinismo si apre una fase nuova con la quale il marxismo critico si trova inevitabilmente fare i conti.

La politica culturale della Repubblica dei Consigli

08 martedì Lug 2014

Posted by nemo in I testi, interviste, Traduzioni italiane

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arte ufficiale, dittatura del proletariato, intervista, Lenin, Nyugat, politica culturale, Repubblica dei consigli, rivoluzione, rivoluzione russa, Rivoluzione ungherese, ungheria


di György Lukács

a cura di Carlo Benedetti

«l’Unità», 9 aprile 1969


UNA DOMANDA A LUKÁCS

La risposta del filosofo ungherese, che nel 1919 fu commissario all’Istruzione, alla rivista di teoria e politica del POSU «Tarsadalmi Szemle»


BUDAPEST, marzo

«Quali sono i valori permanenti della politica culturale attuata della Repubblica dei Consigli?». La domanda è stata posta dalla rivista di teoria e politica del POSU «Tarsadalmi Szemle» (Rivista Sociale) al compagno György Lukács che fu, nel 1919, commissario all’istruzione durante i 133 giorni di vita dello prima Repubblica dei Consigli magiara.

Lukács risponde rilevando, in primo luogo, che nel periodo che precedette la Repubblica i comunisti che tornavano dall’Unione Sovietica non avevano senso teorico e «cultura teoretica». «L’unica persona che in quei tempi aveva un senso per la teoria – prosegue il filosofo – era Béla Kun che già in quei tempi, a mio giudizio, aveva considerato Bukarin come il vero teorico della dittatura. Ne consegue che delle innovazioni teoretiche di Lenin tutti noi, in quei tempi, non avevamo appreso nulla. Poche erano le opere allora tradotte e se, successivamente, nel partito ungherese, si poteva parlare di tradizioni leniniste tutto ciò era merito delle esperienze fatte nell’emigrazione e giunte poi in Ungheria. Comunque, al tempo della Repubblica dei Consigli Lenin aveva pochissima influenza ideologica». Continua a leggere →

Il marxismo nella coesistenza

26 giovedì Giu 2014

Posted by nemo in I testi

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democrazia, interviste, letteratura, marxismo, religione, rivoluzione russa


marcoeicoSono qui raccolte due ampie e importanti interviste, un articolo sull’Ottobre e la letteratura nel cinquantesimo della Rivoluzione sovietica, e una lettera ad una professoressa tedesca sui rapporti tra marxismo e cristianesimo.
Abbiamo voluto aggiungere, per la sua attualità e concretezza, anche il breve scritto sui rapporti tra marxismo e religione, che risale a pochi mesi fa. Il volumetto ha così una sua organicità abbastanza precisa. Ma ha soprattutto – ci pare – il pregio di darci nella sua immediatezza il suono di questa voce lenta e pacata che, dalla sua casa di Budapest, continua incessante, sempre al passo coi tempi, la battaglia iniziata cinquantanni fa, quando il giovane Lukács fu commissario all’istruzione nel governo rivoluzionario di Bela Kun.

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