Altro complice di Béla Kun arrestato a Vienna

«Corriere della Sera», Milano, Anno VI, 4 Maggio 1928

Vienna, 3 maggio, notte. (a. b.)


La polizia di Vienna ha tratto oggi in arresto un altro complice di Béla Kun, il comunista Giorgio Lukács che con l’ex-commissario del popolo ebbe nel famoso magazzino di coloniali della Neubaugasse ripetuti colloqui. L’arrestato imitando la tattica seguita da Béla Kun e dagli altri detenuti ha rifiutato di dare qualsiasi indicazione sugli scopi di quei colloqui limitandosi a dichiarare: «Non intendo rispondere».

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Il processo contro Béla Kun avrà inizio il 26 giugno

«Corriere della sera», 15 giugno 1928


Vienna, 14 giugno, notte

Il processo contro Béla Kun è stato definitivamente fissato al 26 di giugno davanti al Tribunale degli scabini del primo distretto. Ai comunisti Giorgio Lukács e Adalberto Székely, arrestati insieme a Béla Kun e rimessi a piede libero alcuni giorni fa, essendo stata sospesa la procedura a loro carico, è stato intimato di abbandonare il territorio austriaco entro otto giorni. Oggi viene annunciato che anche nei confronti del comunista Lippay si sospendono gli atti, nulla essendo risultato a suo carico. Al processo compariranno così soltanto Béla Kun, che deve rispondere di falsa denunzia e partecipazione a società segrete, e i suoi complici signorina Ilona Breuer, e Giorgio Mayerhofer.

Rivoluzione e psicologia della vita quotidiana 

di György Lukács

[Rivoluzione e psicologia della vita quotidiana è il testo di un’intervista realizzata a Lukács da András Kovács pubblicata su “Film Kúltura” e poi in italiano su “Cinema nuovo”, n. 217, maggio-giugno 1972.]


Nel 1919, durante la Repubblica ungherese dei consigli, lei partecipò al governo e, come commissario del popolo, per primo nella storia nazionalizzò la cinematografia. Quali ricordi ha di quell’avvenimento? 

Ho pochissimi ricordi. Non possiamo dimenticare che la storia della dittatura del proletariato venne scritta, in genere, in modo stalinista. Sotto questo aspetto si pretendeva una specie di potente sovrano, molto intelligente, in grado di mettere a posto tutto. In realtà non ero assolutamente un tale sovrano. Nella dittatura proletaria del 1919, mio unico merito fu quello di far intervenire, nell’ambito del Commissariato del popolo, con un ruolo di guida, i dirigenti di tutte le correnti progressiste nei vari campi, dall’insegnamento alla musica. Se lei ora mi volesse chiedere chi ha nazionalizzato il cinema, dopo cinquant’anni non potrei proprio rispondere. Personalmente mi occupavo molto di particolari questioni – istruzione pubblica, università, letteratura, arte – ma, le confesso, so pochissimo di quanto è avvenuto nel campo cinematografico. Non si può dimenticare, naturalmente, che nel 1919, il peso del cinema nella vita artistica e culturale era molto minore di quello di oggi. 

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István Mészáros racconta Lukács

di István Mészáros

Questa intervista è stata pubblicata nel 1983 nella rivista brasiliana Ensaio; è stata ripubblicata nella rivista on-line Verinotio, n. 10, a. V, ottobre 2009. Traduzione dal portoghese e note di Antonino Infranca.


A diciotto anni entrai all’università. In quell’epoca la vita divenne più facile: non dovevo lavorare, mentre studiavo. Potevo così dedicarmi interamente agli studi. Allora conobbi Lukács in circostanze molto interessanti. Egli era stato attaccato da Révai1 e da altri elementi del Partito.

In che anno?

Nel 1949, io avevo diciotto anni e mezzo.

Lukács fu attaccato per il suo libro “La responsabilità degli intellettuali”?2

Sì, sulla democrazia popolare e altre cose di questo tipo. Due o tre mesi dopo che ero entrato all’università, tentarono di espellermi a causa del mio legame con Lukács. Tuttavia ciò non accadde, studiai con lui e due anni dopo divenni suo assistente. Lavorammo sempre in mutua collaborazione e divenimmo grandi amici, anche con sua moglie, Gertrud, che era una persona meravigliosa.

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Legalità e violenza

di György Lukács

[Jogrend és erőszak, 1919]

Scritti politici giovanili 1919-1928, Laterza, Bari 1972


I nostri avversari, i socialisti governativi e i politici borghesi, dichiarano gli uni e gli altri con lo stesso tono di essere depositari della legalità, della verità e della persuasione con «argomenti». A ciò noi contrapporremmo, secondo la disinvolta affermazione di un noto socialista governativo, soltanto la violenza bruta e un comportamento dettato da «istinti bestiali». Questi ultimi giorni hanno chiaramente rivelato anche ai più prevenuti la natura menzognera di questo confronto. Qui, nelle file dell’Internazionale, con Béla Kun alla testa, noi dunque non faremmo altro che risvegliare gli «istinti bestiali» di uomini immaturi. E mentre noi, i «cosiddetti comunisti» espulsi dal partito socialdemocratico per «inettitudine e mancanza di carattere», esercitiamo un siffatto terrorismo, i nostri «compagni-poliziotti» hanno convinto Béla Kun con la forza di ponderose argomentazioni che il sistema di governo popolare è uno Stato di diritto, che esso opera esclusivamente sul piano della legalità e deve evitare ogni arma che non sia quella della verità e della persuasione. Continua a leggere

Lukács si appresterebbe a ritornare in Ungheria

di Sergio Segre

«L’Unità», 29 marzo 1957

Secondo voci che circolano con insistenza a Budapest

L’illustre filosofo avrebbe rotto con il gruppo di Imre Nagy – Funzione positiva del nuovo Circolo Tancsics – Nessun monopolio amministrativo nella vita intellettuale


BUDAPEST, marzo.

Il ritorno in Ungheria di Giorgio Lukács potrebbe av­venire a uuna scadenza rela­tivamente breve. La voce circola con insistenza nei più qualificati ambienti in­tellettuali di Budapest, dove si parla apertamente di una rottura che si sarebbe veri­ficata in Romania fra Lukács e l’ex-premier Imre Nagy. Secondo alcune informazioni da Sinaia, il prof. Lukács sta attualmente scrivendo un saggio sull’etica, dopo aver ricevuto a più riprese da Budapest la vasta bibliogra­fìa occorrentegli.

Ancora l’altro giorno il redattore capo del Magyarorszag, settimanale cul­turale organo del Circolo Tancsics, ci dichiarava che «Lukács gode tuttora della massima stima nel partito e fuori. La sua assenza da Bu­dapest ha commosso tutti gli intellettuali comunisti, i qua­li sperano che non si trat­terrà più a lungo in Roma­nia». Il Circolo Tancsics va lentamente prendendo nella vita intellettuale dell’Unghe­ria, in senso positivo, la fun­zione avuta a suo tempo, in senso inverso, dall’ex-Circolo Petöfi. L’iniziativa della creazione del Tancsics è ve­nuta da un gruppo di vecchi comunisti del 1919, rimasti esclusi da ogni attività im­portante durante la direzione di Rakosi, e ha già ottenuto alcuni risultati rimarchevoli.

Nella sola Budapest, dove l’attività è stata più intensa in queste ultime settimane, il numero degli iscritti è già di 1.200 e le richieste at­tualmente in esame ammon­tano a diverse centinaia. Il settanta per cento dei mem­bri è costituito da vecchi compagni del 1919, e solo il trenta per cento da giovani entrati nel partito dopo il 1945.

Il Circolo si divide in una ventina di sezioni, da quella economica a quella delle ar­ti figurative, e si prefigge di permettere per l’avvenire un intenso contatto fra la dire­zione del partito e tutti gli intellettuali del paese.

Alcune riunioni di caratte­re teorico si sono già tenu­te o sono in programma, fra cui una, il 2 aprile, dedicata ai problemi della politica estera.

Uno degli obiettivi del Circolo è il ricupero, sul pia­no ideologico, di molti degli intellettuali che presero par­te alle attività del Circolo Petöfi e che si trovano an­cora ora in uno stato di di­sorientamento. Alcuni di questi, anche se in numero estremamente ridotto, han­no già aderito ai Tancsics. Va osservato, tuttavia, che per poter entrare in esso bi­sogna avere già militato nel periodo clandestino, o veni­re presentati da due vecchi comunisti. Altri intellettuali, fra cui il commediografo Nemeth [László Németh, ndr], autore del «Gali­leo», hanno accettato, la settimana scorsa, il «Pre­mio Kossuth» conferito dal governo in riconoscimento dei loro meriti artistici.

Per le prossime settimane è anche preannunciato un di­battito sui Consigli operai, un tema, questo, che viene attualmente esaminato atten­tamente in sede teorica alla luce, anche, delle esperienze fatte in proposito in Jugo­slavia e in Polonia.

L’intenzione del Circolo, ci dichiarava ieri il suo presidente, Gyula Hervesi, non è quella di esercitare, per mezzo di facilitazioni amministrative, una sorta di monopolio esclusivistico nel­la vita intellettuale e scientifica dell’Ungheria. Il suo fine è solo quello di riu­nire gli intellettuali co­munisti (iquali operano, poi, nelle differenti accademie e associazioni) e dar loro la possibilità di condurre, sul­la base del marxismo, dibat­titi intellettualmente elevati.

L’articolo di Revai

Alla luce di questa necessità   di   una   chiarificazione ideologica, va anche vista la polemica tuttora viva sullo articolo  recentemente  pubblicato da Jozsef Revai nell’organo centrale del Partito.

Con questo suo scritto Revai, ritornato recentemente a Budapest dall’Unione So­vietica, dove si trovata per curarsi di una grave malat­tia, rimproverava alla dire­zione del Partito operaio socialista di avere assunto sul piano ideologico certe posizioni che potevano appa­rire come un compromesso, e di non condurre pratica­mente la lotta su due fronti, ma solo contro la vecchia di­rezione  di  Rakosi, benché questa, a differenza del grup­po di Imre Nagy, non si sia macchiata di tradimento. L’articolo conteneva, senza dubbio, un gran numero di rilievi ingenui (come l’ac­cusa all’organo centrale del Partito di non aver pubbli­cato, per alcune settimane del mese di novembre, la manchette «Proletari di tut­ti i paesi, unitevi») e sof­friva di una impostazione categorica, compiendo inoltre l’errore tattico, come ri­tengono quasi tutti i compa­gni ungheresi, di svolgere una forte critica verso la di­rezione di Kadar proprio nel momento in cui è più necessaria, attorno ad essa, l’unità di tutti i comunisti.

Discussione ideologica

Fatte queste doverose co­statazioni, è però necessario sottolineare che tutte le il­lazioni tratte in occidente da tale episodio sono assoluta­mente campate in aria. L’ar­ticolo di Revai non vuole affatto aprire la strada a impossibili ritorni, ma si prefigge soltanto l’intenzione, certamente giusta, di recare un contributo o. meglio, di dare inizio ad una discussio­ne di carattere ideologico destinata a rafforzare le file del nuovu Partiti».

Molti compagni intellet­tuali, nel dibattito sviluppatosi sinora sulle colonne del­l’organo del Partito e sul settimanale culturale, hanno rilevalo come elemento nega­tivo dell’articolo la completa mancanza di una posizione autocritica, benché Revai abbia diretto per lunghi an­ni, prima del 1953,. la politica culturale del Partito, non che il fatto che esso continua a mettere in luce quel con­trasto fra la teoria e la pra­tica il quale è stato uno dei motivi di fondo che hanno preparato la situazione in cui sono potuti nascere gli av­venimenti di ottobre.

Thomas Mann? Marcia con Stalin insieme a noi

di Pressburger Giorgio

«Corriere della Sera» 5 settembre 1996

Il “padre” della rivolta antisovietica appena un anno prima esulta “arruolando” l’artista nel campo del realismo socialista. All’arte occidentale pessimista e senza sbocco opponeva la via della salvezza anti imperialista. Nel complesso legame fra i due grandi tutta la tragedia della lotta ideologica nel Novecento.

A quarant’anni dai “fatti di Budapest”, una prefazione dimenticata di Lukács getta un’ombra sulla coerenza delle scelte antitotalitarie del filosofo.

***

Tra poche settimane si celebrerà una ricorrenza importante: il 23 ottobre di quarant’anni fa a Budapest scoppiò la rivolta popolare contro il regime stalinista di Rákosi. Uno dei fautori e “padri” di quei moti fu un grande intellettuale marxista di quegli anni: György Lukács. In seguito scontò con la segregazione e il forzato silenzio quella presa di posizione e rimase nell’ombra fino alla fine della sua vita. Morì nel 1971. quando ancora per molti artisti e critici “di sinistra” del nostro Paese alcuni suoi scritti, e soprattutto “La distruzione della ragione” erano una specie di vangelo. Poche settimane fa, a Budapest, cercando un’antologia di poesie nella vecchia biblioteca polverosa di un mio zio morto ormai da un decennio, mi imbattei in una edizione ungherese dei racconti giovanili di Thomas Mann. La prefazione a opera di György Lukács, portava la data: 15 aprile 1955. Era seguita, nel volume, da un brevissimo scritto di Mann, indirizzato ai lettori ungheresi, datato anch’esso Kichenberg Zurigo, 14 marzo 1955. Lessi le due introduzioni e rimasi sconvolto. Tutta la notte non riuscii a chiudere occhio. La prefazione di Lukács, redatta un anno prima dei “fatti d’Ungheria”, testimonia una determinazione e una convinzione di una durezza inaudita, ma nel senso opposto a quello della rivolta del ’56. Le sue espressioni sono minacciose, talvolta inappellabili. Ecco per esempio la chiusura del piccolo scritto: “E Thomas Mann, il poeta, sempre più apertamente, sempre più decisamente si batte per la vita, per la salute, per la pace e per il socialismo. contro la morte, la malattia e l’estinzione. contro l’imperialismo reazionario, contro il fascismo. Questa è la presa di posizione di Thomas Mann, sempre più chiara e decisa. È questo che lo fa essere il più grande realista critico della nostra epoca”. Lukács parlava di un’arte “malata”, imperialista. Dieci, quindici anni prima parole simili erano risuonate a Berlino, per bocca dei nazisti. Fu questo paragone a togliermi il sonno. Ovviamente l’interpretazione non è così univoca, può darsi che il filosofo ungherese pensasse all’arte occidentale come incamminata sulla via di un pessimismo senza sbocco, mentre vedeva, sinceramente, nel socialismo la via della salvezza, della “salute”. Ma cosa doveva pensare la parte sofferente, malata, dell’umanità , di fronte a tali dichiarazioni? C’erano forse, nello scritto di Lukács, parole contro il sopruso e la violenza che la società in cui viveva stava perpetrando? Quanto di quelle cose scritte dal filosofo ungherese veniva dalla buona fede, e quanto era dovuta all’allineamento del linguaggio alle pressioni ideologiche di un’epoca feroce? Quale era il vero Lukács? Quello che credeva fermamente nell’arte “sana”, socialista, che si adattava a un linguaggio retorico, o quello del circolo Petőfi, impegnato a cercare, nella primavera estate del 1956, una società più libera nell’ambito dei paesi dell’Est”? Oppure il pensatore in un anno aveva cambiato totalmente opinione? Il legame di Lukács con l’opera di Thomas Mann riassume in sétutta la tragedia della lotta ideologica di questo secolo. Vale la pena di rileggere ciò che questo grande, colto, universalmente noto filosofo di Budapest scriveva nella sua prefazione ai racconti di Mann a proposito dell’apocalisse dell’arte borghese. Infine vorrei spendere qualche parola sul grandioso romanzo del Thomas Mann della imminente vecchiaia: “Doktor Faustus”. Egli riprende ancora una volta il grande tema della sua giovinezza: il rapporto tra l’artista e la realtà borghese. Ma qui ormai non si parla soltanto della solitudine dell’artista, bensì del destino dell’arte stessa, il “mondo degli inferi” non si desta soltanto nell’artista avulso dalla società , ma da questa stessa società emana l’essenza dell’arte,. dell’arte imperialista. che è “infernale”, demoniaca. All’apparenza Thomas Mann dipinge un quadro oscuro, pessimista, della società borghese della sua epoca. Ma proprio attraverso i colori oscuri traluce il sole dell’avvenire. Come al termine delle tragedie più fosche di Shakespeare appare un Richmond o un Edgard, che indica non il crollo del mondo intero, ma il crollo di quella determinata società , al posto della quale ne verrà una nuova, migliore, così le ultime parole del protagonista del romanzo di Mann annunciano che non si tratta del crollo dell’arte, ma soltanto di quello dell’arte capitalista, e che la tragedia della nostra epoca possiede una via d’uscita: quella della costruzione dell’avvenire socialista”. La salute dell’avvenire socialista, il superamento dell’arte capitalista paiono essere il pilastro del pensiero di Lukács in quegli anni. Lukács pare credere nella dittatura del proletariato, in una società pacifista e giusta per sempre. Ma nella sua prefazione, cita uno scritto di Thomas Mann su Goethe, in cui c’è una sorta di esaltazione dello spirito borghese. Come mai, proprio questa citazione? E che cosa dice con precisione Mann? Ecco le sue parole: “Verrà quel mondo, perché un ordine razionale, corrispondente al grado di sviluppo dell’umanità , deve pur realizzarsi, nella peggiore ipotesi con la violenza di una rivoluzione, perché i principi dell’anima devono avere diritto alla vita, e devono riconquistare una coscienza umanamente pulita. I grandi figli della borghesia cresciuti dalla loro essenza borghese alla spiritualità e al superamento della borghesia stessa testimoniano delle possibilità illimitate dell’elemento borghese, le possibilità della liberazione e del dominio di sé… Io dico che la Germania riuscirà a trovare se stessa, il suo assetto, quando Carlo Marx leggerà Hölderlin. Questo incontro avverrà ben presto”. Ed ecco apparire il caso Hölderlin! Lukács, nella nota alla sua prefazione lo definisce “poeta eccellente, dallo spirito progressista” e rimanda a un proprio studio su lui. Hölderlin vagheggiava un ritorno allo spirito dell’antica Grecia, una riconciliazione con la Natura, una vita armoniosa, tutta all’insegna della bellezza e dell’equilibrio spirituale. La dittatura del proletariato doveva dunque, agli occhi di Thomas Mann, e qui di Lukács, che lo cita, conciliarsi con le aspirazioni di alta spiritualità e di equilibrio propri della borghesia. Poteva tutto questo coesistere nell’anima del grande studioso ungherese? Non era lui stesso in qualche modo affascinato dalle tendenze “malate” dell’arte borghese, non era forse dilaniato tra quella malattia, propria della sua classe di origine, e la “salute” di una arte irregimentata, ottimista, progettata nella sua efficacia di realismo socialista? La risposta è molto difficile: il giovane Lukács, studioso di Hegel e di Goethe, uomo dall’erudizione immensa, nell’Ungheria della prima guerra mondiale trova la propria identità accanto a Béla Kun e diventa commissario del popolo con il governo che per tre mesi si insedierà nell’unico Paese dell’Impero che accanto a quello dell’Austria avesse il proprio nome nella “corona” asburgica. Dopo la caduta di quel governo comunista Kun riparerà nell’Unione Sovietica e sarà fucilato, negli anni Trenta, durante le epurazioni feroci volute da Stalin. Quale tempesta, quale incertezza doveva pervadere l’anima di Lukács! Dove riporre i propri ideali? Com’era tragicamente finita nella pazzia l’utopia di Hölderlin, così l’illusione di Lukács di una società giusta e socialmente pacificata doveva subire colpi spaventosi. Eppure Lukács, come abbiamo visto anche attraverso le parole della sua prefazione a Mann, continuò a condannare l’arte imperialista e aver fede nel comunismo di Stalin e Rákosi. Almeno all’apparenza. Lukács non poteva non augurare l’avvento di una società meno feroce. Nel ’56 si schierò con i rivoltosi. La sua anima oscillava, paurosamente, proprio come quella di Adrian Leverkühn, il protagonista del “Faustus” di Mann. Ma la storia di quella prefazione ha anche altri “risvolti”. Il rapporto di Thomas Mann con il pensatore ungherese in realtà era cominciato molti anni prima. Non bisogna dimenticare che Lukács ha dedicato importanti saggi all’opera di Mann; i due, in qualche modo hanno camminato insieme e pare addirittura che la descrizione di uno dei personaggi de “La montagna incantata” di Mann, corrispondesse alle fattezze e al modo di fare di György Lukács. Il personaggio in questione è l’insinuante, pessimista, nichilista Naphta! Thomas Mann pare diffidare del suo amico ungherese, di questo suo fedele accompagnatore. Le due pagine scritte da lui, in aggiunta a quelle di Lukács, nella prefazione del ’55, paiono prevenire tutto ciò che l’altro avrebbe potuto scrivere. Nelle sue due pagine, Thomas Mann non mostra affatto una particolare inclinazione verso il socialismo, come Lukács asserisce nel suo scritto. Parla appena di una possibilità di comprensione reciproca. “L’esigenza di liberare le anime legate da vincoli e riunificare il mondo diviso dalla politica sotto l’insegna della “verità e della bellezza”, cioè dell’arte. È questo che riempie quella vita (Thomas Mann parla di se stesso) e quell’opera, ed è per questo che mi lusinga sapere di avere degli amici non soltanto nei paesi dell’Europa Occidentale, e nella mia patria “divisa politicamente”, ma anche oltre la disgraziata “cortina di ferro”: con questo non dico di voler piacere a tutti con le mie cose, ma vedo un segno incoraggiante per la possibilità di comprenderci nell’ambito dell’umanità, di ritrovare noi stessi, in una parola vedo una possibilità per la pace”. Siamo ben lontani quindi dal “voler prendere posizione sempre più decisamente per la vita, la salute”. Thomas Mann addirittura vuole scusarsi per aver accettato la pubblicazione delle sue opere nell’Ungheria comunista (“non voglio piacere a tutti con le mie cose”). Quarant’anni fa tutto poteva apparire sospetto al di là e al di qua della “cortina di ferro”. I due grandi si parlavano a distanza con sotterfugi e prudenza: si inviavano messaggi cifrati circa le proprie aspirazioni e illusioni. Uno immaginava un mondo pervaso dalla verità e dalla bellezza dell’arte, auspicava che Marx leggesse Hölderlin, l’altro sperava che la borghesia volontariamente si unisse al socialismo, alla dittatura del proletariato, come aveva fatto lui stesso, optando per la “salute” della società di Stalin e di Rákosi, o almeno non rinnegandola apertamente. Eppure le reciproche illusioni, lo scrutarsi vicendevole per tutta una vita di questi due eminenti personaggi della cultura del nostro secolo testimoniano di una tragica grandezza, simile a quella del protagonista di “Doktor Faustus”. La loro partita oggi appare conclusa con un risultato davvero paradossale: in un certo senso, ciò che non avviene mai in una partita, hanno perso tutti e due.

E il vecchio Lukács diventa sanguinario

di Cesare Cases

«la Repubblica», 23-24 febbraio 1992

Il primo maggio 1919, mentre Budapest si era rivestita di rosso, a Poroslò il commissario del popolo Lukács ordinò una “punizione esemplare” per un battaglione che voleva disertare. Otto soldati furono condannati a morte (in realtà le esecuzioni furono sei). Anche poco prima di morire Lukács difese la necessità politica di questa decisione in nome di quella “morale del risultato” cara al suo maestro Max Weber. Del resto sulla “necessità di fare il male” aveva molto speculato in quegli anni. Si può disapprovarlo e ritenere, come già un contemporaneo, il socialdemocratico Ferenc Gondor, che egli fosse “un milionario degenerato e sanguinario trasformato in comunista”. Ma confrontate con le decimazioni seguite a Caporetto, queste del pensatore rosso sembrano bagatelle. Ciò non toglie che la sua fama come “uno dei più spietati e brutali capi del comunismo” circolasse negli ambienti fascisti e appaia anche nell’interessante documento qui pubblicato, in cui un informatore annuncia alla legazione d’Italia a Vienna l’arresto (in realtà mai avvenuto) di Lukács in Germania dopo l’avvento del nazismo. Certi tratti della sua vita, come le origini milionarie e le avventure femminili, rientravano nei miti coltivati dalla demagogia reazionaria. Niente paura, se lui era sanguinario, c’era chi era più sanguinario di lui. Pare che gli insaziabili del suo sangue non abbiano cessato di esistere a più di venti anni dalla sua morte. La feroce revisione del passato comunista con cui i tedeschi tentano di dimenticare la rimozione del passato nazista ha portato alla ribalta una riunione “autocritica” degli intellettuali tedeschi avvenuta il 4 settembre 1936 a Mosca nei locali della rivista Internationale Literatur, di cui Lukács era uno degli animatori. I protocolli sono stati pubblicati recentemente in Germania (cfr. l’articolo di Vanna Vannuccini in la Repubblica del 18 febbraio scorso). Non pare che questa riunione si distinguesse essenzialmente da quelle squallide gare in autocritica in cui coloro che avevano venduto l’anima a Stalin in odio a Hitler si esibivano in quei anni. Lukács, che, come scrisse Victor Serge, “viveva coraggiosamente nella paura”, si attenne alle regole che valevano in questi casi: grande zelo nella litania autocritica e nei rimproveri di “mancanza di vigilanza” e tentativo di scaricare tutto su gente già nelle grinfie della Nkdw (in questo caso tale Richard Pikel). Non sembra che Lukács abbia nemmeno ceduto alla tentazione di approfittare dell’occasione per infierire contro vecchi nemici in difficoltà, come Ernst Ottwalt. Ma, come nel caso della lettera falsificata di Togliatti, c’è bisogno di sciorinare le colpe dei vecchi comunisti. Invece le colpe di Heidegger e di Carl Schmitt sono del tutto veniali e non oscurano la loro fama di grandi pensatori. I fascisti che nel 1933 volevano morto l’“assassino” Lukács erano esattamente dello stesso parere.


LEGAZIONE D’ ITALIA R. Direzione Generale della P.S. e per conoscenza R. Ministero degli Affari Esteri Roma Vienna, 23 marzo 1933 – XI GERMANIA: COMUNISMO. Lukács GIORGIO

Modrien mi prega di voler comunicare quanto segue: “Un giornale locale informa che la presidenza di Polizia di Berlino, che si occupa dei controlli dei forestieri, ha proceduto ad arresti di numerosi stranieri. Fra questi sarebbe stato arrestato anche Lukács Giorgio, uno dei capi del preesistito consiglio dei soviet in Ungheria. La notizia avrebbe incontrato generale soddisfazione in Ungheria, dove il Lukács era uno dei più spietati e brutali capi del comunismo. La Procura di Stato di Budapest avrebbe di già chiesto l’estradizione del Lukács, reo di parecchi assassini. Dopo la caduta del governo di Béla Kun questo Lukács era venuto a Vienna, dove fece parte dell’agenzia commerciale russa, in seno alla quale sarebbe stato l’anima degli emissari destinati alla propaganda. Tre anni fa fu scoperto che egli era uno dei capi dell’organizzazione comunista segreta. Fu arrestato e sfrattato dall’Austria. Da qui egli è passato alla rappresentanza commerciale sovietica di Berlino. Lukács sarebbe figlio di ricca famiglia ebraica di Budapest. Viveva su gran piede. Aveva un proprio palazzo nella Belle Alliance-Strasse. Era possessore di una villa in Montreux, dove passava l’estate. È ammogliato, ma aveva per amante una ex ballerina del “Theater an der Wien” . Dopo la rivoluzione dei nazi era rimasto a Berlino, sperando che, come i governi precedenti, anche questo lo avrebbe lasciato in pace. Però all’ultimo momento aveva voluto fuggire. Fu fermato sul treno assieme all’amica ed arrestato. Si sarebbero raccolte, ora, le prove che l’agenzia commerciale berlinese era la centrale per la raccolta di tutte le notizie che si riferivano al movimento comunista. Si sarebbe dimostrato che da qui partiva il movimento comunista balcanico; che in seno a questa agenzia venivano preparati complotti, progetti di assassinio, azioni di sabottagio (sic) e che gli uffici servivano di asilo, di protezione e di assassistenza (sic) a tutti i profughi comunisti dei vari stati. Essi figuravano a Berlino quali impiegati e addetti all’agenzia e si occupavano anche, solo per gettare polvere negli occhi, di affari commerciali. Quivi era annidata la scuola di agitazione e di propaganda, i cui migliori elementi finivano poi a Mosca, per frequentare l’università di propaganda comunista. Da Berlino vennero inviati anche i due comunisti FUERST e SZALLAY, che furono poi scoperti in Ungheria e condannati a morte. I comunisti, riusciti a scappare dalla Germania, si sarebbero diretti parte a Mosca, ma in massima parte a Praga, dove sarebbe stata trasportata la centrale comunista per l’Europa media. Pare che il governo cecoslovacco dia asilo a questi capi comunisti, per servirsene ai propri fini politici. Un altro giornale locale informa che la polizia di Berlino avrebbe proceduto all’arresto di alcuni comunisti terroristi bulgari, essendosi dimostrato che gli stessi erano in rapporti con l’incendiario del parlamento di Berlino. Questi comunisti, di cui non è fatto il nome, avrebbero preso parte all’ attentato nella cattedrale di Sofia”.

Il R. Incaricato d’Affari

La mia via

[Il testo apparso è apparso in un inserto dell’«Unità» dedicato all’Ungheria in occasione delle celebrazione del 25° anno della sua liberazione]

di György Lukács

«l’Unità» 2 aprile 1970


Brani da un saggio inedito di G.L.

I miei primi passi non hanno alcun peso letterario. È cosa nota che io provengo da una famiglia capitalista. Senza voler annoiare i lettori con dati autobiografici, voglio solo dire brevemente che, sin dalla mia infanzia, ero profondamente insoddisfatto del modo di vita dell’ambiente che allora mi circondava. E, dato che, in seguito alla attività economica di mio padre, eravamo continuamente a contatto con i rappresentanti del patriziato urbano e della piccola nobiltà impiegatizia, questo mio atteggiamento scostante si estendeva naturalmente anche a loro. Così, già molto presto, avevano finito per dominare in me dei sentimenti di opposizione nei confronti dell’Ungheria ufficiale. Conformemente al mio livello immaturo di allora, con questo mio spirito di opposizione io esaminavo ogni campo della vita, dalla politica fino alla letteratura, il che, evidentemente, trovava in me la sua espressione sotto forma di un qualche socialismo immaturo. Poiché non ho alcun documento scritto di quest’epoca, naturalmente vive in me il dubbio se non abbellisco posticipatamente questa mia tendenza di sviluppo.

È indifferente in che misura io oggi consideri infantile l’avere generalizzato senza critica questa mia avversione, applicandola a tutta la vita ungherese, alla storia ed anche alla letteratura (fatta eccezione per il solo Petöfi), è certo, comunque, che questa concezione dominava sul mio pensiero. La controforza principale, il suolo stabile allora possibile per me, dove potevo puntare i piedi, era esclusivamente la letteratura straniera moderna di allora, di cui avevo fatto la conoscenza all’età di 14-15 anni circa. Avevano agito su di me in primo luogo la letteratura scandinava (principalmente Ibsen), lo sviluppo tedesco (da Hebbel e Keller a Hauptmann), i francesi (Flaubert, Baudelaire, Verlaine), la poesia inglese (in primo luogo Swinburne, poi Shelley e Keats); in seguito assunse una grande importanza la letteratura russa.

Poiché secondo i ricchi budapestini di allora, la scuola veramente chic era il Ginnasio Riformato, i miei genitori mi iscrissero in questo istituto. Si trattava però di una pessima scuola. A titolo di spiegazione voglio ricordare solo due fattori. Il primo è che dagli studenti di quella scuola era uscita una parte notevole di quello strato della piccola nobiltà e pseudo-nobiltà che aveva avuto un ruolo dirigente nella difesa e nei tentativi di restaurazione della vecchia Ungheria. Il secondo è che vi insegnavano diverse figure dirigenti del conservatorismo letterario ungherese. In seguito a questa, non casuale, coincidenza delle circostanze, i miei tentativi di liberarmi dell’asservimento intellettuale dell’Ungheria ufficiale mi avevano portato in direzione dell’esaltazione del modernismo internazionale. Il mio spirito di opposizione aveva trovato la sua prima espressione nei miei compiti scolastici, provocando lo sdegno violento dei miei professori. La loro continuazione organica fu la mia prima attività di critico nella rivista intitolata «Magyar Szalon». Naturalmente questi germogli non hanno alcun valore letterario.

Questo ingenuo avvio non fu seguito da una attività letteraria. Al contrario, il precoce inizio fu seguito da una pausa di diversi anni, dal periodo dello studio. Penso, a questo proposito, principalmente al mio ruolo nella compagnia teatrale moderna, denominata «Thalia». Fu qui che imparai nella pratica cos’è il dramma e cosa significa, per me, il teatro; fu qui che sparì definitivamente la mia opinione erronea originale, secondo cui la partecipazione alla letteratura per me poteva realizzarsi solo in un’opera letteraria.

La mia partecipazione alla «Thalia», – pur se significativa – non fu altro che un episodio iniziale di tutto il mio sviluppo successivo. Le sue conseguenze pratiche mi allontanarono dal lavoro teatrale; prese in me avvio la preparazione alla ricerca teorica e storica dell’essenza delle forme letterarie e verso il lavoro scientifico e filosofico. Con questo, sotto l’influenza straniera (principalmente tedesca), si acutizzò nuovamente in me l’opposizione contro la vita ungherese di allora. E non vi è nulla di sorprendente nel fatto che, nelle date condizioni, il mio punto di partenza potesse essere solo Kant. Così, era anche naturale che, quando cercavo le prospettive delle generalizzazioni filosofiche, le loro basi e il metodo di applicazione, trovai nel tedesco Simmel l’indicazione teorica, non per ultimo perchè con questo – sia pure in modo deformato – in un certa senso io mi stavo avvicinando anche a Marx. Il mio interesse per la storia della letteratura mi aveva ricondotto dalle «celebrità» del presente agli scienziati della metà del secolo, presso i quali avevo trovato metodi più avanzati di quelli usati allora nel campo della comprensione sociale e storica.

Disprezzavo profondamente la teoria e la storia ungherese. Ben presto, però, subentrarono nella mia vita forti controforze in opposizione a questa unilateralità teorica. Nel 1906 uscì il volume «Nuove poesie» di Endre Ady, il più grande poeta rivoluzionano borghese del secolo XX e nel 1908 lessi le poesie di Béla Balàzs nell’antologia letteraria intitolata «Domani». In breve tempo fummo legati da un’amicizia personale e da una stretta alleanza letteraria.

Il mio incontro con le poesie di Ady fu – come si dice oggi – uno choc per me. Naturalmente, solo molti anni più tardi, incominciai a comprendere e ad elaborare gli effetti di questo choc. Nel 1910 feci il primo tentativo per chiarire filosoficamente l’importanza di questa impressione, ma, in sostanza – solo molto più tardi, in età più adulta – compresi veramente l’importanza decisiva del mio incontro con le poesie di Ady per lo sviluppo della mia concezione ideologica. Benché in tal modo io pecchi contro l’ordine di tempo, penso che sia questo il posto in cui devo descrivere tale effetto. Si tratta in breve del fatto che la filosofia tedesca – non solo Kant e i suoi seguaci miei contemporanei –, ma anche Hegel (che solo parecchi anni dopo esercitò la sua influenza su di me), nonostante gli effetti ideologici apparentemente perturbatori, erano rimasti conservatori nelle questioni del grande sviluppo della società e della storia; la riconciliazione con la realtà (Versöhnung mit der Wirklichkeit) è uno dei postulati della filosofia di Hegel. Ady ebbe su di me un effetto decisivo proprio per il fatto che mai per un solo momento non si era riconciliato con la realtà ungherese. Già nel periodo dell’adolescenza viveva in me il desiderio per una ideologia di questo tipo, senza che lo fossi capace di formulare questi miei sentimenti o di esserne consapevole.

È interessane che, in seguito all’effetto vasto e profondamente trasformatore di questa percezione del mondo, io inserii nella mia visione del mondo, in tutto il mio pensiero, i grandi scrittori russi, in primo luogo Dostoevskij e Tolstoj, come fattori rivoluzionari decisivi. Tutto ciò non significava naturalmente la piena eliminazione della base sociale-storica oggettiva. Al contrario, fu proprio in questo grado di sviluppo che il sindacalismo francese esercitò su di me una forte influenza. Non fui invece mai capace di familiarizzarmi con la teoria socialdemocratica di allora e, in particolare, con Kautsky.

Il mio incontro con Ernst Bloch diede un forte slancio al mio sviluppo filosofico. Avevo iniziato come critico, ma ben presto compresi che senza una base filosofica scientifica (sociale-storica) non può esistere neppure una critica veramente attendibile. In base alle mie esperienze di allora non credevo che fosse valida una filosofia come quella incarnata ultimamente da Hegel. (Con questo metro, non consideravo come filosofi veri neppure quei miei contemporanei che altrimenti rispettavo, dai quali avevo imparato molto. Basti, a questo proposito, accennare a Dilthey e a Simmel).

Concludendo brevemente, il mio incontro del 1910 con Bloch mi aveva pertanto convinto che può esistere una filosofia nel senso classico della parola, anche in quei giorni. Sotto questa impressione, trascorsi l’inverno 1912-1913 a Firenze, per poter rivedere, senza essere disturbato, la mia estetica, come prima parte della mia filosofia. Nella primavera del 1912 venne a Firenze anche Bloch e mi convinse ad andare con lui ad Heidelberg, dove l’ambiente sarebbe stato particolarmente favorevole per il nostro lavoro.

Non vi era nulla che mi trattenesse dal trasferirmi ad Heidelberg, anzi, che eventualmente vi fissassi il mio domicilio. È vero che avevo sempre preferito la vita in Italia piuttosto che in Germania, ma la speranza di trovare la comprensione era più forte di ogni altra cosa. Fu così che mi recai ad Heidelberg, non sapendo fino a quando vi avrei vissuto.

***

Non ho qui la possibilità di illustrare, sia pure in grandi linee, il mio sviluppo successivo. Devo comunque aggiungere che furono i problemi interni del movimento clandestino ungherese (e precisamente l’influenza esercitata su di me dalle posizioni di Jenő Landler) ad allontanarmi dal settarismo «messianistico» di allora e ad avvicinarmi ai problemi concreti del nostro movimento. Le tesi di Blum del 1928-29 (la dittatura democratica come passaggio alla dittatura del proletariato) significarono per me l’inizio della svolta. Da allora, lotto come comunista ungherese contro ogni deformazione della democrazia socialista e saluto oggi di cuore il 25esimo anniversario della Liberazione.

Tentativi e forme di lotta dell’organizzazione antifascista in Ungheria

di György Lukács

a cura di Carlo Benedetti

 «l’Unità», 23 settembre 1969


Un importante articolo di György Lukács su «Uj Iras»

La figura di Mihály Károlyi e i sondaggi per la creazione di un partito legala dei contadini – Perché il piano non fu attuato – L’ostinata e appassionata opposizione di Béla Kun


BUDAPEST, settembre.

La figura di Mihály Károlyi – presidente della Repubblica sorta in Ungheria nel 1918 e passata alla storia con il nome di rivoluzione delle rose d’autunno – viene rievocata da György Lukács nell’ultimo numero della rivista culturale «Uj Iras» (Nuova scrittura).

«Ho conosciuto Mihály Károlyi – scrive Lukács – solo nell’emigrazione perché al tempo delle sue prime apparizioni politiche non mi trovano spesso a Budapest. Il suo atteggiamento, durante la guerra, non mi interessava troppo. Ero contro la guerra, e la vittoria degli imperi centrali, ma avevo d’altra parte pochissima fiducia che la vittoria dell’Intesa potesse portarci ad un notevole rinnovamento. Solo nell’inverno 1918-1919 cominciai a prestare maggiore attenzione alla sua attività. È vero che da comunista presi posizione contraria a tutto il governo di ottobre, ma era poi impossibile non accorgersi che nel governo solo Mihály Károlyi rappresentava, in modo decisivo e con convinzione, le idee rivoluzionarie insite nella trasformazione democratica borghese di ottobre. Károlyi non aveva riguardo per quello che avrebbero detto le vecchie classi dirigenti in merito alle eventuali misure di riforma. Sia Jászi che la cosiddetta sinistra socialdemocratica erano sempre preoccupati per la rottura o l’eventuale indebolimento di tali rapporti. Mihály Károlyi, no. Fu questo a renderlo, in quei tempi, ai miei occhi, un avversario stimato». Continua a leggere