Tecnica, contenuti e problemi di linguaggio

di György Lukács

[Intervista di Yvette Biró e Szilárd Ujhelyi a Lukács apparsa sulla rivista ungherese “Film Kúltura” e poi in traduzione italiana su “Cinema nuovo”, n. 196, novembre-dicembre 1968]


Nei mesi scorsi il filosofo György Lukács ha assistito alla proiezione di quei nuovi film ungheresi che hanno ottenuto particolari riconoscimenti in patria e all’estero, e che sono considerati tra i più rappresentativi. Tra le opere di Miklós Jancsó, Igy jöttem (Sono venuto così), Szegénylegények (I disperati di Sandor), Csillagosok, katonák (Stellati, soldati [L’armata a cavallo, Ndr]) e Csend és Kiáltás (Silenzio e grido); tra quelle di András Kovács, Nehéz emberek (Uomini difficili), Hideg napok (I giorni freddi) e Falak (I muri); di István Szabó, Apa (Il padre); e di Zoltán Fábri, Húsz óra (Venti ore); di Ferenc Kósa, Tizezer nap (Diecimila soli). Il complesso dei film ungheresi con i loro temi variati solleva un grande numero di problemi sia artistici, sia legati alla nostra società di oggi, sui quali “Film Kúltura” ha posto alcune domande a Lukács. L’intervista – che pubblichiamo integralmente, per gentile concessione della rivista ungherese e nella traduzione di Ivan Lantos – ha avuto luogo il 10 maggio in casa del filosofo; le domande sono state poste dai redattori Yvette Biró e Szilárd Ujhelyi.

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Dialettica, prassi, rivoluzione. Figure del marxismo critico nei primi anni Venti

di Alberto Burgio

«Filosofia politica» fascicolo 3, dicembre 2016


Dialectics, praxis, revolution. Images of critical Marxism in the early Twenties. The essay compares three main figures of the theoretical Marxism of the early two decades of the 20th century (Lukács, Korsch and Gramsci) stressing the analogies between their reflections under the light of the critique of vulgar Marxism, the revaluation of Hegelian dialectic as a source of historical materialism, the reformulation of the relationship between theory and praxis and the consequent importance acknowledged to the political and historical role of the revolutionary subjectivity.

Keywords: Lukács, Korsch, Gramsci, critical Marxism

* * *

1. Filosofia e rivoluzione

Critica del discorso (dell’«ideologia») e critica della realtà sociale (del capitalismo storico): la traiettoria dell’analisi marxiana investe nel proprio sviluppo questi due ambiti. Nel Marx giovane si tratta essenzialmente della critica della «falsa coscienza» filosofica, diretta in particolare contro Hegel e contro la sinistra hegeliana, ricaduta nelle trappole della speculazione. Nel Marx maturo la critica colpisce senza diaframmi la realtà: la formazione economico-sociale e, nelle cosiddette «opere storiche», le logiche del dominio politico. Contro la semplificazione «materialistica», va tuttavia immediatamente chiarito che permane anche nel Marx maggiore la centralità del tema ideologico. Il capitale è, in ogni suo snodo, al tempo stesso critica del processo di produzione e della sua rappresentazione, nella teoria (l’economia politica classica) e nel senso comune (dove il rapporto sociale si riverbera in forme simboliche). Continua a leggere

Lenin. Unità e coerenza del suo pensiero. Postilla all’edizione italiana 1967

György Lukács

Originariamente apparso in italiano in Lenin. Unità e coerenza del suo pensiero, Einaudi , Torino 1970, ora in L’uomo e la rivoluzione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2013.


Questo volumetto fu scritto subito dopo la morte di Lenin, senza lavori preliminari, per il bisogno spontaneo di fissare teoricamente ciò che allora mi sembrava essenziale, il centro della sua personalità intellettuale. Perciò il sottotitolo Unità e coerenza del suo pensiero, indicante che intendevo soprattutto riprodurre non il sistema oggettivo, teorico, di Lenin, ma quelle forze motrici, di tipo oggettivo e soggettivo che avevano permesso questa sistemazione, la loro incarnazione nella persona e negli atti di Lenin, senza neppure tentare di spiegare per esteso e per intero questa unità dinamica nella sua vita, nella sua opera. Continua a leggere

Opportunismo e putschismo

di György Lukács

[Opportunismus und Putschismus, 1920]

Scritti politici giovanili 1919-1928, Laterza, Bari 1972.


Nessun comunista perspicace e in buona fede vorrà né potrà nascondere a se stesso che i partiti comunisti (eccetto quello russo) stanno attraversando una grave crisi. Questa crisi, i cui germi erano presenti fin dalla fondazione dei partiti comunisti, e che di tanto in tanto si è acutizzata, si manifestò da principio col prevalere di tendenze putschiste. Il blanquismo, che Bernstein e già lo stesso Marx e tanto maggiormente poi i bolscevichi hanno respinto, faceva infatti capolino nei pensieri e nelle azioni di molti compagni, peraltro onesti e in buona fede: si trattava dell’illusione che la rivoluzione proletaria potesse compiersi di un sol colpo attraverso la decisione e il sacrificio di un piccolo gruppo di avanguardie bene organizzate. E sembra che i partiti comunisti si siano avviati a superare le confusioni di questa dottrina che doveva manifestarsi dappertutto dopo la guerra perduta e in seguito allo sfaldamento dell’apparato statale nell’Europa centrale.

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Che cos’è il marxismo ortodosso?

di György Lukács

[Mi az ortodox marxizmus?, 1919]

Scritti politici giovanili 1919-1928, Laterza, Bari 1972.

[Questa è la prima versione, molto più breve, del saggio che porta lo stesso nome, contenuto in Storia e coscienza di classe]


I filosofi hanno soltanto interpretato il mondo in modi diversi, si tratta invece di trasformarlo.

Marx, XI, Tesi su Feuerbach.

Se badiamo al nucleo della questione, si constaterà che questa domanda estremamente lineare è stata già discussa a lungo e appassionatamente sia nella letteratura borghese che in quella socialista. Da una parte sono stati violentemente attaccati i rimasticatori della lettera del marxismo i quali, come gli scolastici del Medioevo, non hanno preso come punto d’avvio i fatti, ma intendevano avvicinarsi alla verità mediante una continua giustificazione della loro Bibbia. Dalla parte opposta, i marxisti hanno litigato pure tra loro, non riuscendo ad accordarsi precisamente su quelle tesi che, se messe in dubbio, rendono impossibile il diventare un marxista ortodosso. I critici di Marx che affermano che lo sviluppo della scienza rende superate talune tesi di Marx si chiedono però anche se la critica possa in generale arrestarsi dinanzi a una qualsiasi tesi. Ovviamente no. Lo affermiamo pure noi, che ci definiamo marxisti ortodossi; ma a nostro avviso la questione se qualcuno sia marxista o non lo sia, si decide non in base al suo convincimento circa la verità di singole tesi, bensì con un criterio completamente diverso. Questo diverso criterio è il metodo. Premesso, ma non concesso, che lo sviluppo della scienza dovesse dimostrare l’erroneità di tutte le affermazioni di Marx, potremmo accettare senza contraddizione alcuna questa critica da parte della scienza e tuttavia restare marxisti, nella misura in cui restiamo seguaci del metodo di Marx. Per intendere esattamente il marxismo ortodosso, dobbiamo dunque definire l’essenza di questo metodo. Comprenderemo così in pari tempo come ogni tentativo che si sia discostato dalla via dell’ortodossia per «migliorare» o «sviluppare» il metodo di Marx non abbia fatto che appiattire il marxismo. Continua a leggere

Sulla responsabilità degli intellettuali

di György Lukács

[Von der Verantwortung der Intellektuellen (1948), Pubblicato in Schicksalswende cit.; Traduzione di Fausto Codino, in G.L., Marxismo e politica culturale, Einaudi, Torino 1968).


Durante la seconda guerra mondiale molti hanno sperato che distruggendo il regime hitleriano si sarebbe anche sradicata l’ideologia fascista. Ma quanto si è visto dalla fine della guerra in poi nella Germania occidentale indica che la reazione anglosassone ha addirittura salvato e favorito le basi economiche e politiche di una rinascita del fascismo hitleriano. Le conseguenze si sentono anche nel campo ideologico. Perciò l’ideologia dell’hitlerismo rappresenta ancora oggi un problema attuale e non meramente storico.
Se ripensiamo al sorgere del fascismo, vediamo quali gravi responsabilità portino gli intellettuali per la formazione dell’ideologia fascista. Qui, purtroppo, le eccezioni lodevoli sono pochissime.
Vorrei pregare i cosiddetti uomini pratici di non sottovalutare le questioni ideologiche. Faccio solo un esempio. Sappiamo benissimo come la politica hitleriana abbia portato con ferrea necessità agli orrori di Auschwitz e Maidanek. Ma non si deve neppure ignorare che uno dei fattori che permisero questi orrori fu la sistematica demolizione del principio dell’uguaglianza di tutti gli uomini. Sarebbe stato molto più difficile mettere in atto la bestialità organizzata del fascismo contro milioni di persone se Hitler non fosse riuscito a far radicare nelle più larghe masse tedesche la convinzione che chi non era «di razza pura» non era «propriamente» un uomo.
Questo è solo un esempio fra tanti. Deve soltanto dimostrare che un’ideologia reazionaria innocente non può esistere. La generazione più anziana ricorderà molto bene certe critiche «elette», accademiche, saggistiche, della «volgare» credenza nell’uguaglianza degli uomini; e critiche analoghe del progresso, della ragione, della democrazia ecc. La maggioranza degli intellettuali ha preso parte, in modo attivo o recettivo, a questo movimento. In un primo tempo si pubblicavano su questi temi soltanto libri esoterici, saggi ingegnosi, ma poi da essi si ricavarono articoli di giornale, opuscoli, conversazioni radiofoniche che già si rivolgevano a un pubblico di decine di migliaia di persone. Infine Hitler riprese da questi discorsi da salotto e da caffè, da queste lezioni universitarie e saggi, tutto il contenuto reazionario che poteva servire alla sua demagogia di piazza. In Hitler non si trova una parola che non fosse stata già detta «ad alto livello» da Nietzsche o da Bergson, da Spengler o da Ortega y Gasset. La cosiddetta opposizione individuale è irrilevante dal punto di vista storico. Che significa una debole mezza protesta di Spengler o di George contro un incendio mondiale che si è contribuito a far divampare con la propria sigaretta?
È dunque una necessità assoluta, e un grande compito per gl’intellettuali progressisti, smascherare tutta questa ideologia anche nei suoi rappresentanti più «eletti»: mostrare come da queste premesse è scaturita per necessità storica l’ideologia fascista, mostrare che una linea retta porta da Nietzsche, attraverso Simmel, Spengler, Heidegger ecc. fino a Hitler; e che d’altra parte uomini come Bergson e Pareto, i pragmatisti e i semantici, Berdjaev e Ortega hanno creato un’atmosfera da cui la fascistizzazione dell’ideologia poté trarre ricco alimento. Non è merito loro se finora il fascismo non è nato in Francia, in Inghilterra o negli Stati Uniti.
Dobbiamo dunque mettere in luce – anche ideologicamente – la funzione dominante che la Germania ha avuto finora nello sviluppo dell’ideologia reazionaria, ma la lotta decisiva contro l’ideologia imperialistica tedesca non deve mai servire a giustificare gl’irrazionalisti, i nemici del progresso, gli aristocratici dell’ideologia di altri paesi.
Oggi però sarebbe sbagliato e pericoloso limitarsi a questa lotta. Saremmo di vedute corte se credessimo che la nuova reazione che ora si sviluppa segua nel campo ideologico assolutamente la stessa strada della vecchia reazione, che operi precisamente con gli stessi mezzi culturali.
Naturalmente nel nostro periodo, nel periodo dell’imperialismo, la sostanza generale di ogni reazione è la stessa: le pretese egemoniche del capitale monopolistico, il conseguente continuo pericolo di dittature fasciste e di guerre mondiali; naturalmente dittature e guerre opprimeranno e distruggeranno con brutalità almeno uguale che sotto Hitler.
Ma da ciò non deriva affatto che il nuovo fascismo cercherà d’imporsi, in particolare nel campo ideologico, con metodi esattamente copiati da quelli di Hitler. Anzi, la situazione odierna presenta già aspetti ideologici pressoché opposti. L’aggressione di ieri venne da imperialismi che si consideravano sacrificati nella ripartizione del mondo. Oggi l’aggressione è minacciata da un potente imperialismo che vuole completare la sua mezza dominazione mondiale. Esso ha al suo seguito imperialismi che sentono vacillanti e minacciati i loro imperi, che appoggiano gli Usa nella speranza – oggettivamente vana – di poter conservare, ampliare e consolidare i loro possedimenti.
D’altra parte gli aspetti generali dell’imperialismo restano immutati: anche oggi le sue mire sono in contrasto con gl’interessi delle sue stesse masse e con gl’interessi dei popoli che difendono la loro libertà. E questo contrasto, la necessità, che si pone per gl’imperialisti aggressivi, di opprimere i popoli all’interno e all’estero, e in pari tempo di mobilitare demagogicamente le proprie masse popolari per la nuova ripartizione del mondo, per la nuova guerra mondiale, dimostra che la politica interna ed estera fascista, i cui contorni oggi appaiono già chiari, deve seguire un corso obbligato.
Con tutta probabilità questa nuova fase di sviluppo dell’imperialismo non si chiamerà fascismo. E dietro la nuova nomenclatura si cela un nuovo problema ideologico: l’imperialismo «affamato» dei tedeschi generava un cinismo nichilistico che rompeva apertamente con tutte le tradizioni dell’umanità. Le tendenze fasciste che oggi crescono negli Usa lavorano col metodo di un’ipocrisia nichilistica: distruggono l’autodeterminazione interna ed esterna dei popoli in nome della democrazia; esercitano l’oppressione e lo sfruttamento delle masse in nome dell’umanità e della civiltà.
Un altro esempio. Per Hitler fu necessario costruire una propria teoria razziale, sulle basi gettate da Gobineau e Chamberlain, per mobilitare demagogicamente le masse nella liquidazione della democrazia e del progresso, dell’umanesimo e della civiltà. Gl’imperialisti degli Usa hanno il compito più facile: basta che rendano universale e sistematica la vecchia prassi da loro seguita nei confronti dei negri. E siccome finora questa prassi si è potuta «conciliare» con l’ideologia che fa degli Usa i paladini della democrazia e dell’umanesimo, non si vede perché qui non debba sorgere una simile ideologia del nichilismo ipocrita che possa riuscire a dominare con mezzi demagogici. Che questa universalizzazione e sistemazione compia rapidi progressi, può vederlo chiunque segue le sorti dei migliori intellettuali progressisti degli Usa, come Gerhart Eisler o Howard Fast. Come questi metodi stiano diventando generali da molto tempo, lo ha dimostrato da lunga data uno scrittore moderato come Sinclair Lewis in Elmer Gantry.
Qui naturalmente abbiamo di fronte soltanto la forma astrattamente pura del nuovo fascismo. Il suo sviluppo reale segue talvolta vie più complicate, specialmente in Francia e in Inghilterra, dove la situazione interna della reazione imperialistica è molto più difficile. Ma, per tornare ai problemi ideologici, si consideri soltanto l’esistenzialismo e si vedrà facilmente che il tentativo di mettere in armonia il nichilismo aperto dell’Heidegger prefascista con i problemi di oggi fa piegare il cinismo verso l’ipocrisia.
Oppure si prenda il Toynbee. Il suo libro rappresenta il più grande successo della filosofia della storia dopo Spengler. Toynbee studia la crescita e il declino di tutte le civiltà e arriva a concludere che né il dominio delle forze naturali né quello delle circostanze sociali sono in grado d’influenzare questo processo; egli vuole altresì dimostrare che tutti i tentativi d’influenzare il corso dello sviluppo con l’uso della violenza – cioè tutte le rivoluzioni sarebbero condannati a priori al fallimento. Ventuno civiltà sono già scomparse. Una sola, quella europea occidentale, è cresciuta fino ad oggi perché al suo inizio Gesù ha trovato questa nuova via non violenta del rinnovamento. E oggi? Toynbee riassume i suoi sei volumi finora pubblicati col dire che Dio – poiché la sua natura è costante come quella degli uomini – non ci rifiuterà una nuova salvezza purché noi lo preghiamo con sufficiente umiltà.
Il meglio che a mio giudizio il più fanatico fautore della guerra atomica negli Usa possa augurarsi è che gl’intellettuali progressisti si limitino a chiedere questa grazia, mentre lui può organizzare indisturbato la guerra atomica.
Senza dubbio questa tendenza fatalistica e passiva di Toynbee indica che ci troviamo appena nella fase iniziale dello sviluppo ideologico del nuovo fascismo. (Si pensi al fatalismo di Spengler in contrapposto all’attivismo nichilistico e cinico di Hitler). Ma ciò rende maggiori, non minori, i compiti e le responsabilità degli intellettuali: è ancora tempo di dare una svolta allo sviluppo ideologico dei principali popoli civili o almeno di tentare di arrestare il corso reazionario ora avviato.
Ma per riuscirvi occorre soprattutto chiarezza nel campo ideologico. Che significa qui chiarezza? Non che si esprimano i pensieri in forma chiara, stilisticamente perfetta (questa dote è largamente presente negli intellettuali), ma che si sappia con chiarezza questo: dove stiamo, dove porta lo sviluppo, che cosa possiamo fare per influenzare il suo corso?
Sotto questo aspetto gl’intellettuali del periodo imperialistico si trovano in una posizione molto sfavorevole. Poiché essi non possono mai, oggettivamente, trovarsi ugualmente a loro agio in tutti i settori della scienza, ogni epoca porta al centro degli interessi determinate scienze, determinati rami del sapere, determinati autori considerati classici. Così nel XVIII secolo la fisica newtoniana ebbe una grande funzione progressiva nella liberazione degli intellettuali francesi dagli antichi pregiudizi teologici e dall’ideologia monarchico-assolutistica che quei pregiudizi mediavano; nella Francia di allora essa stimolava la preparazione ideologica della grande rivoluzione.
Oggi sarebbe necessario e urgente che questo posto nella vita intellettuale fosse occupato dall’economia politica, dall’economia intesa in senso marxiano come scienza delle «forme d’esistenza, delle determinazioni d’esistenza» primarie degli uomini; come scienza delle relazioni reali tra gli uomini, delle leggi e delle tendenze di sviluppo di queste relazioni. Ma nella realtà troviamo proprio tendenze opposte. La filosofia, la psicologia, la storiografia ecc. del periodo imperialistico cercano tutte di deprezzare le conoscenze economiche, di diffamarle dichiarandole «superficiali», «inessenziali», indegne di una visione del mondo più «profonda».
Qual è la conseguenza? Gli intellettuali, non riuscendo a scorgere le basi oggettive della loro stessa esistenza sociale, diventano sempre più vittime della feticizzazione dei problemi sociali e, attraverso questa, vittime indifese dì qualsiasi demagogia sociale.
Sarebbe facile citare esempi. Ne ricordo solo alcuni fra i più essenziali. In primo luogo la feticizzazione della democrazia. Cioè, non ci si chiede mai: democrazia per chi e con esclusione di chi? Non ci si chiede mai quale sia il vero contenuto sociale di una democrazia concreta, e non ponendosi queste domande si offre uno dei più solidi appoggi al neofascismo che ora si prepara. C’è poi la feticizzazione del desiderio di pace dei popoli, espressa per lo più in forma di pacifismo astratto, nel quale il desiderio di pace non solo è degradato al livello della passività, ma diventa addirittura la parola d’ordine dell’amnistia per i criminali di guerra fascisti e facilita quindi la preparazione di una nuova guerra. C’è ancora una feticizzazione della nazione. Dietro questa facciata scompaiono le differenze fra i legittimi interessi vitali nazionali di un popolo e le tendenze aggressive dello sciovinismo imperialista. Ci si può ben ricordare come questa feticizzazione avesse i suoi effetti immediati nella demagogia nazionale di Hitler. Anche oggi essa è operante nella sua forma diretta, ma questa feticizzazione è anche sfruttata in un modo indiretto e non meno pericoloso, specialmente negli Usa: è l’ideologia di un cosiddetto sopranazionalismo, di un governo mondiale sopranazionale. Come la forma diretta hitleriana mirava a una pax germanica per il mondo, così la forma indiretta tende a una pax americana. Entrambe le forme, se fossero attuate, comporterebbero la distruzione di ogni autodeterminazione nazionale, di ogni progresso sociale.
C’è infine la feticizzazione della cultura. A partire da Gobineau, Nietzsche e Spengler è venuto di gran moda negare l’unitarietà della cultura del genere umano. Quando, dopo la liberazione dal nazismo, partecipai per la prima volta a un convegno internazionale, alle Rencontres internationales di Ginevra del 1946, in quell’occasione Denis de Rougemont e altri parlarono della difesa della cultura europea sostenendo idee fondate su una netta separazione fra la cultura europea occidentale e quella russa. Difendere la cultura europea occidentale significava dunque respingere quella russa (come pensa anche Toynbee). Che oggettivamente questa teoria è affatto priva di valore, che l’attuale cultura europea occidentale è profondamente impregnata d’influssi ideologici russi, e per lo più proprio nelle sue creazioni più alte, lo rivela l’occhiata più superficiale alla situazione odierna della cultura. Senza Lev Tolstoj come ci si potrebbe immaginare, per fare pochi nomi, la letteratura da Shaw a Roger Martin du Gard, da Romain Rolland a Thomas Mann? Queste teorie sfruttano demagogicamente la circostanza che a un contatto immediato, alla prima impressione, la cultura russa (e a maggior ragione quella sovietica) appare estranea agli intellettuali dell’Europa occidentale. Ma ogni conoscitore della letteratura deve confermare che in Francia è stato molto più difficile accogliere Shakespeare che Tolstoj. Eppure il signor de Rougemont e i suoi amici non erigono una muraglia cinese fra la cultura della Francia e quella dell’Inghilterra.
Ma è anche più importante vedere con chiarezza il significato sociale di quelle teorie. Lo sviluppo culturale russo – culminante nella cultura sovietica – incarna oggi il futuro derivante dalla nostra cultura, come fece la cultura inglese del XVIII secolo per la Francia e l’anno 1793 per tutti i progressisti europei. La feticizzazione della cultura serve qui a mascherare la protesta di ciò che è in declino contro ciò che anticipa il futuro, e precisamente nella propria cultura. I Rougemont e i Toynbee, con le loro teorie, vogliono stendere un cordon sanitaire intorno alla Russia, intorno all’Unione Sovietica, e rendono in tal modo – deliberatamente o no, non importa – un servigio alla preparazione ideologica della guerra.
Sembra che io mi sia allontanato dall’argomento dell’economia. In realtà ho parlato sempre ed esclusivamente di economia. Che vuol dire infatti feticizzazione? Vuol dire che qualche fenomeno storico è avulso dal suo reale terreno sociale e storico, che il suo concetto astratto (e di solito soltanto qualche elemento di questo concetto astratto) è trasformato in feticcio, acquista un’esistenza presunta autonoma, diventa un’entità a sé. La grande conquista della vera economia sta appunto nel dissolvere questa feticizzazione, nel mostrare in concreto che cosa significhi questo o quel fenomeno storico nel processo complessivo dello sviluppo, quale sia il suo passato e quale il suo futuro.
La borghesia reazionaria sa quindi benissimo perché cerca di diffamare la vera economia per mezzo dei suoi ideologi, così come la reazione ecclesiastica del XVI-XVIII secolo sapeva bene perché si batteva contro la nuova fisica. Oggi un interesse vitale della borghesia imperialistica è di distruggere la capacità di orientamento storico-sociale degli intellettuali. Se oggi numerosi intellettuali non possono essere già trasformati in assoluti sostenitori della reazione imperialistica, devono almeno errare impotenti, senza capacità di orientamento, in un mondo incompreso.
Confessiamolo con vergogna: questa manovra della borghesia reazionaria è riuscita in gran parte; essa ha sviato un buon numero dei migliori intellettuali. Moltissimi buoni rappresentanti della cultura odierna – collaboratori inconsapevoli di questo intento della reazione imperialistica – hanno addirittura creato una filosofia tendente a dimostrare che sarebbe filosoficamente impossibile possedere un orientamento sociale. Questa linea va dall’agnosticismo sociale di Max Weber all’esistenzialismo.
Ma non è questa una condizione indegna degli intellettuali? Forse essi hanno acquistato le loro capacità, il loro sapere, la loro cultura spirituale e morale solo perché in una svolta storica, quando si decide del destino del genere umano, quando la libertà e l’oppressione barbarica si gettano nella battaglia decisiva, essi debbano chiedere come Pilato: che cosa è la verità? E non è indegno di loro il presentare come una particolare profondità filosofica questo non sapere, questo non voler sapere?
Noi abbiamo acquistato il nostro sapere, abbiamo sviluppato la nostra cultura spirituale per capire il mondo meglio di quanto lo capisca l’uomo medio. Ma nella realtà assistiamo al contrario. Arnold Zweig descrive molto bene un intellettuale onesto che per anni si lascia prendere dalla demagogia dell’imperialismo tedesco per dover confessare alla fine che semplici lavoratori avevano capito esattamente e chiaramente la situazione già anni prima.
Molti intellettuali sentono già oggi da chi siano realmente minacciate la libertà e la cultura. Molti si rivolgono, anche con un forte pathos morale, contro l’imperialismo, contro la preparazione della guerra. Ma la nostra dignità di rappresentanti della cultura esige proprio che di questo sentimento noi facciamo un sapere. E a questo si può arrivare solo mediante la scienza dell’economia politica, mediante l’economia del marxismo.
Gli intellettuali sono al bivio. Dobbiamo preparare una svolta storica verso il progresso e combattere per essa in prima linea, come gli intellettuali francesi del XVIII secolo e quelli russi del XIX, o dobbiamo essere vittime impotenti, collaboratori abulici di una reazione barbarica, come gli intellettuali tedeschi della prima mela del XX secolo? Non si può esitare a decidere quale atteggiamento sia degno, e quale indegno, dell’essenza, del sapere, della cultura dell’intellettuale.

György Lukács

di Tearry Eagleton

da Figure del dissenso. Saggi critici su Fish, Spivak, Zizek e altri, Meltemi, 2007.


Pubblicato per la prima volta sulla «The London Review of Books» del 20 feb­braio 2003 con il titolo Kettles Boil, Classes Struggle [Le teiere bollono, le classi lottano]. Il testo è una recensione del libro di György Lukács A Defence of History and Class Consciousness, London, Verso, 2002.

Per cambiare il mondo bisogna far uso di una strana forma di “doppio pensiero”. Perché possa davvero agire, infatti, la mente deve caparbiamente fissarsi su ciò che è reale, e credere ferma­mente che il fatto di conoscere la situazione così com’è sia fonte di ogni saggezza morale e politica. Il solo problema è che una si­mile conoscenza è anche terribilmente difficile da conseguire e forse, nella sua forma più completa, è addirittura irraggiungibile. Quel che è difficile non è tanto trovare soluzioni, ma riuscire a cogliere il modo in cui stanno davvero le cose in un particolare frammento del mondo. Se riesci a farlo, allora questo basterà a indicarti il genere di soluzioni di cui sei in cerca. Le risposte in­somma non sono la cosa più difficile da trovare. Il problema perciò non è solo che esistono molte versioni di co­me stanno le cose nel mondo in competizione fra loro – fra cui c’è anche la credenza postmoderna che le cose nel mondo non stiano in nessun modo particolare; il problema è anche di capire che per assoggettare le nostre menti al reale è necessaria un’u­miltà e un oblio di se stessi che ripugna non poco al nostro ego vociante e importuno. È un percorso privo di attrattive, che di­sdegna le fantasticherie e per la mente umana rappresenta una cronica forma di disinganno. In definitiva solo il virtuoso è in grado di vedere le cose per quel che sono. Da tale punto di vista non ha alcun senso esigere la fine del capi­talismo se davvero il sistema era già morto alcuni decenni fa e, semplicemente, nessuno se ne era reso conto. In questo senso molto generale, tutte le prescrizioni relative a ciò che bisogna fare implicano descrizioni di come stanno le cose – e i valori devono in qualche modo essere legati ai fatti. Ma nell’istante stesso in cui al­la mente viene chiesto di essere casta, rigorosa e disinteressata, le viene chiesto anche di rifiutare il reale in nome del possibile. La mente deve riuscire ad armonizzare il modo indicativo con il congiuntivo, sposando un freddo e demistificante senso del presente a un passionale e immaginifico slancio che lo superi. La mente è chiamata a essere a un tempo specchio e lampada, riflesso fedele del reale che la circonda e luce che irradia su di esso e lo trasforma. Perciò gli stessi voli della fantasia grazie ai quali possiamo tentare di cogliere la situazione così com’è sono essenziali per immaginare un’alternativa al reale; dobbia­mo essere turbati dinanzi all’immagine di un futuro in cui uo­mini e donne si ammaleranno per tentare di dominare gli altri, mentre le blandizie del presente li troveranno impassibili e in preda a un volgare sospetto. Se il romantico vuol far sì che il mondo si adegui al proprio desiderio e il realista adatta la mente al mondo, il rivoluzionario è chiamato a fare al tempo stesso entrambe le cose.

In questo senso la politica radicale ha bisogno di un tipo di es­sere umano stranamente ibrido, più scettico e più fiducioso a un tempo rispetto alla media delle persone. Persone come queste sono più tristi nel loro modo di guardare al passato e al presen­te rispetto alla maggior parte dei conservatori, ma sono anche più aperte di gran parte dei riformisti liberali a un futuro ricco di cambiamenti. Proprio perché ciò che non va nel presente è di na­tura strutturale, si tratterà sempre di qualcosa che è assai più profondo della semplice follia o bricconeria di un individuo – e questa è la cattiva notizia; ma per la stessa ragione in linea di principio lo si potrà cambiare – e questa, dopotutto, è la buona notizia. Perciò quando i radicali sono accusati di essere dei Geremia dai liberali e degli utopisti sognatori dai conservatori, allora sono certi di avere imboccato più o meno la strada giusta. Questa dualità sbuca fuori anche nella teoria marxista, sotto forma di una disputa su quanto potere si debba attribuire al sogget­to e quanto all’oggetto. Ma dato che in questo contesto “sogget­to” significa masse rivoluzionarie e con “oggetto” si intende qual­cosa di simile alla storia o alla società di classe, il problema epi­stemologico diventa ipso facto anche politico. In che misura il mutamento dipende da noi, e quanto è invece soggetto ai vincoli di condizioni oggettive? Se spinta all’eccesso l’iniziativa individua­le sfocia nel volontarismo, mentre la forza tirannica del reale si tramuta in determinismo; l’unione di queste due eresie è nota co­me società della classe media, che in ambito politico crede nel­l’autodeterminazione mentre in quello economico considera l’indi­viduo una semplice pedina soggetta alle forze del mercato. Le dottrine volontaristiche del capitalismo, pertanto – il solo limite è il cielo, mai dire mai, se provi puoi farcela – sono un comodo schermo utile a nascondere la “verità” del suo determinismo – vi­sto che il soggetto umano è preda di forze economiche impreve­dibili, che sfuggono al controllo di chiunque. Quelle dottrine, però, sono anche il riflesso di una fede reale nella democrazia, per quanto sia difficile conciliarla con l’anarchia economica. Che dire allora della versione marxista di questo problema? Marx stesso, da giovane, tendeva a parlare di soggetti umani della prassi, mentre nelle opere della maturità preferiva parlare di processi oggettivi simili a leggi. Alcuni dei suoi discepoli so­stennero che si trattava soltanto di modi diversi di pensare al­la stessa cosa; altri invece, fra cui soprattutto umanisti o hegelo-marxisti come Jean-Paul Sartre, consideravano proprio quel discorso sui processi simili a leggi come una forma di aliena­zione. Nei suoi primi scritti Antonio Gramsci sosteneva addirit­tura che con il passare degli anni Marx era diventato sempre più immaturo, e proprio per questo bisognava disfarsi del Capitale. Allo slogan “Torniamo al giovane Marx!” lanciato dagli umanisti presto rispose “Recuperiamo il Marx di mezz’età!”, di­venuto il grido di battaglia di Louis Althusser e dei suoi accoli­ti per i quali il discorso giovanile di Marx sui soggetti umani vi­venti era solo uno spiacevole lascito hegeliano, e il pensiero veramente scientifico era solo quello del Marx “maturo”. Per alcuni apologeti borghesi dell’epoca di Marx l’essenza dei soggetti umani era la loro libertà, mentre i processi storici oggettivi erano governati da leggi inesorabili. Alcuni marxisti considerano però problematica la prima parte di questa argomentazione, dato che puzza un po’ di lassez faire; in ogni caso era davvero difficile mettere fuori gioco la libertà e al tempo stesso continuare a invocare il cambiamento sociale. Lo stesso Marx a volte sembra quasi parlare da determinista, mentre in altre occasioni non lo è affatto. Quanto al marxismo della Seconda Internazionale, era rigidamente determinista e riservava al soggetto un ruolo davvero marginale: ma se il socialismo era un destino già scritto nelle leggi della sto­ria, per quale ragione uomini e donne dovevano tentare di rag­giungerlo? Perché lottare per qualcosa che sarebbe avvenuto co­munque? E perché mai bisognerebbe credere che l’inevitabile sia anche desiderabile? Potrebbe benissimo darsi che le cose stiano all’opposto. Filosofi marxisti come Kautsky e Plechanov non sep­pero mai fornire una risposta davvero convincente a quest’ultima domanda, anche se alcuni loro colleghi – consci del fatto che una versione positivista del marxismo non sarebbe stata in grado di fornire alcun criterio etico in grado di provare perché si dovesse preferire il socialismo a ogni altro regime politico – tentarono di condire questo stenle storicismo con un pizzico di etica kantiana. In ogni caso, il problema della natura a prima vista superflua del soggetto umano può essere affrontato in qualche modo: si dirà allora che il socialismo era davvero inevitabile, ma che di questa inevitabilità faceva parte anche l’insurrezione della classe ope­raia. Il proletariato era costretto a insorgere e a rovesciare un si­stema divenuto ormai insopportabile, dopo aver preso coscienza del ruolo storico che gli era stato assegnato. Con questa astuta soluzione il determinismo storico era fin dall’inizio un fattore del libero comportamento degli attori umani, proprio come la divina provvidenza che non ci dispensa dal prendere le nostre decisioni liberamente, pur agendo su di esse e mediante esse. La mia li­berà, pertanto, non è un’imbarazzante omissione nel piano pre­disposto da Dio per l’intero pianeta dato che all’origine di que­sta libertà c’è lo stesso Dio, il quale ha già calcolato tutte le mie azioni liberamente scelte da qui all’eternità. Perciò lo scorso ve­nerdì Dio non mi ha certo costretto a travestirmi da cameriera e a farmi chiamare Milly; ma poiché è onnisciente, sapeva che l’a­vrei fatto e dunque poteva costruire i suoi schemi cosmici aven­do chiaro in mente Milly e il fattaccio del venerdì. Non c’è nulla che possa fermare l’avvento del regno di Dio, ma solo perché il fatto che i cristiani operano affinché si realizzi è anch’esso preor­dinato. Insomma, la nozione di divina provvidenza decostruisce l’opposizione fra soggetto e oggetto, libertà e necessità. Nell’era moderna, essa assume la forma dell’Assoluto hegeliano. Questa soluzione, però, non poteva certo garantire la centralità e il protagonismo del soggetto, e da questo punto di vista la situazione sarebbe completamente cambiata soltanto con la ri­voluzione bolscevica. Se infatti quel cataclisma fu la rovina del­lo zar, segnò anche il crollo del materialismo meccanicista, se­condo cui il soggetto umano era semplice sintomo del proces­so storico. La creazione del primo Stato dei lavoratori ricordò alla teoria marxista che tanto aveva contribuito alla sua nascita quel che ormai aveva quasi del tutto dimenticato: che la vicen­da umana è scritta da uomini e donne, non dalla storia. Nelle epoche rivoluzionarie, la teoria marxista tende a far ritorno con rinnovato vigore al tema della coscienza; ma lo stesso avviene nei periodi di reazione, durante i quali – come in buona parte del marxismo occidentale – le questioni politiche rimaste inso­lute vengono sostituite da problematiche culturali e filosofiche. Il problema, allora, è come dar voce all’importanza del sogget­to senza fare un regalo agli idealisti borghesi, sin troppo lieti di sentire che le ingiustizie possono essere sanate da un pizzi­co di forza di volontà in più e che il fatto di cambiare parere produce una trasformazione più profonda e radicata di una semplice trasformazione nei rapporti di proprietà. Quel che la rivoluzione bolscevica mise in luce fu dunque che la teoria marxista aveva perso terreno rispetto alla pratica socialista – anche se non si può dire che oggi questo sia uno dei problemi politici più urgenti della sinistra. La sinistra di oggi, orfana delle opportunità politiche di un Lenin o di un Lukács, si è ormai abi­tuata a zoppicare dietro alla teoria – quando quest’ultima non ne prenda addirittura il posto. Così, dopo che nel ’68 la protesta ra­dicale fu spazzata via dalle strade di Parigi a rinfocolarla ci avrebbe pensato il “discorso” – o meglio il significante fluttuan­te. Proprio per questo non è affatto insolito che i seguaci di Michel Foucault celebrino la forza anarchica della follia e al tem­po stesso votino per i liberal-democratici – e del resto si può ap­poggiare con eguale entusiasmo un Tony Blair e un Pierre Bourdieu. Nell’era del bolscevismo, al contrario, la teoria doveva a volte sudare sette camicie per mostrarsi all’altezza di ciò che stava accadendo per le strade.

Il soviet di Pietroburgo stracciò e riscrisse le teorie marxiste del potere politico, mentre la rivolta bolscevica colpì a morte quel ti­po di marxismo per il quale l’agire umano era soltanto una sorta di piacevole extra.

Da un punto di vista filosofico, Lenin era un esponente della biz­zarra epistemologia secondo cui le idee sono copie o riflessi di oggetti reali. Da un punto di vista politico, tuttavia, questo mo­dello prevalentemente passivo della mente non poteva certo dar conto dei tumulti scoppiati nelle aziende agricole e nelle fabbri­che della Russia. La prassi leninista supera la teoria, e per dar conto di quel che era accaduto bisognava scambiare un filosofo borghese con un altro filosofo borghese – rivolgendosi a Hegel piuttosto che a Kant – e recuperare un’idea di coscienza come in­tervento attivo piuttosto che come riproduzione esatta del reale. C’era bisogno insomma di una riformulazione hegeliana del marxi­smo, in grado di riscrivere la storia retrospettivamente e fornire al bolscevismo, ormai a giochi fatti, l’epistemologia di cui era privo. Proprio per questo lo Spirito del Mondo scelse il filosofo unghere­se György Lukács per realizzare questo arduo compito. E Lukács lo fece nel modo più ingegnoso possibile in Storia e coscienza di classe (1923), vero pilastro intellettuale del marxi­smo occidentale. Nessuna altra opera della filosofia marxista ha esercitato un influsso maggiore di questo libro, che fra l’altro reinventa la teoria dell’alienazione del giovane Marx in un’epoca in cui gli scritti marxiani sul tema erano ancora ignoti. Per Lukács proprio l’alienazione ci induce a dimenticare che l’oggetto ha la sua origine nel lavoro del soggetto; la storia dell’epistemologia occidentale moderna assume un aspetto diverso non appena ci rendiamo conto che il suo “oggetto” innocente è in realtà una merce deificata. Soltanto allora, a parere di Lukács, riusciamo a capire perché mai Immanuel Kant è costretto a postulare da un lato una misteriosa libertà individuale e dall’altro un oggetto im­penetrabile, vincolato a leggi immutabili.

Lo iato esistente fra i due verrà colmato dalla dialettica. Storia e soggettività, sostiene Lukács, non sono altro che polarità diverse di un unico processo dialettico. Assumendo l’aspetto di coscien­za della classe operaia la mente diventava una forza trasformatri­ce che agiva nella realtà, senza ridursi a un passivo riflesso di questa. L’oggettività, pertanto, non deve essere raggiunta tramite la contemplazione disinteressata tipica delle scienze della natura “borghesi”, se la verità è davvero il prodotto dell’interazione fra mente e mondo e non un semplice effetto dell’espulsione del soggetto dall’oggetto, che in tal modo può essere osservato con maggior precisione. Stando a quest’idea perversa di scienza, in­fatti, il soggetto può conoscere l’oggetto nel miglior modo possi­bile soltanto eclissandosi dal contesto dell’indagine. Per Lukács, al contrario, la verità viene raggiunta dalla classe operaia quando quest’ultima diviene consapevole di se stessa come soggetto universale della storia – perché di fatto una soggettività universale si identifica con l’oggettività. Di conse­guenza possiamo riuscire a storicizzare la verità evitando il pe­ricolo del relativismo: secondo Hegel, la verità della storia è lo Spirito del Mondo che giunge all’autocoscienza; per Lukács, è l’autocoscienza della classe operaia. Lo Zeitgeist si è finalmen­te incarnato nei dannati della terra.

In breve, Lukács ammetteva che esiste una categoria in grado di mediare fra soggetto e oggetto, vale a dire l’autocoscienza. Nell’atto di conoscere me stesso, infatti, divento simultaneamente soggetto e oggetto; questo particolarissimo tipo di conoscenza contribuisce a distruggere la dicotomia fra pensiero e azione, o fat­to e valore – visto che conoscermi significa anche alterare me stes­so nell’atto stesso in cui mi conosco, e riuscire a cogliere la verità della mia condizione significa anche sapere di cosa avrei bisogno per poter essere libero. Questo vuol dire forse che la teoria marxi­sta non è nient’altro che l’autocomprensìone storica della classe operaia, esattamente come l’Assoluto hegeliano non era altro che la riflessione della storia su se stessa? Ma se le cose stanno davve­ro così cosa ce ne facciamo della reiterata affermazione leninista secondo cui la teoria marxista deve essere inculcata dall’esterno al­la classe operaia? E che fine fa il ruolo dell’élite rivoluzionaria? Inizialmente accolta con favore, la grande opera di Lukács creò presto molti problemi ai custodi dell’ortodossia marxista. “Ancora pochi professori come questi, pronti a sciorinarci le loro teorie, e saremo perduti!”, urlò Zinoviev in occasione di un con­gresso del Partito comunista. Sulla copertina di A Defence of “History and Class Consciousness” c’è una foto di Lukács, che sembra una sorta di ibrido fra un professore matto e un punk. L’autore stesso, a dire il vero, avrebbe in seguito disconosciuto il libro – e in effetti la ritrattazione si confaceva a questo abietto individuo come l’ottimismo a Trotzkij. Quel che nessuno sa, tut­tavia, è che Lukács scrisse di proprio pugno una risposta alle vi­rulente critiche da cui fu investita la sua opera; venuto alla luce di recente dagli archivi del Partito comunista sovietico, quel te­sto viene pubblicato oggi per la prima volta. Il principale obiettivo che Lukács si pone in questo testo così po­lemico e appassionato (nel quale accusa persino uno dei suoi cri­tici di “morboso fatalismo”, un disturbo grave e potenzialmente infettivo) è dimostrare di avere tutte le carte in regola per essere un bolscevico duro e puro. In effetti aveva ottime ragioni per far­lo, dal momento che la Repubblica dei lavoratori di Ungheria nata nel 1919 – nella quale lui stesso ebbe un ruolo attivo in qualità di commissario politico – era stata sgominata in parte a causa della sua leadership terribilmente debole. Proprio come il Paradiso per­duto, l’Ulisse e molti altri testi davvero notevoli, Storia e coscien­za di classe è il frutto di una rivoluzione raffazzonata. Lukács non considera la propria teoria della conoscenza storicistica incompa­tibile con l’idea di una teoria fondata e inculcata nelle masse da un’avanguardia rivoluzionaria. Certo, i lavoratori possono riuscire a capire di essere sfruttati ma è difficile che siano in grado di co­gliere i più piccoli dettagli della teoria del plusvalore o del modo di produzione asiatico soltanto perché si sentono trattati male. Bisogna reagire al materialismo meccanico, dunque: l’insurrezione è un’arte, un saper cogliere l’attimo in modo quasi intuitivo, e non un semplice stadio in un qualche processo di sviluppo triste­mente prevedibile. Almeno in tale contesto, dunque, il momento soggettivo assume un predominio decisivo. Il tipo di marxismo determinista contro cui Lukács si scaglia è particolarmente evidente nella cosiddetta dialettica della Natura, un vero modello di materialismo metafisico che Engels delineò a partire dal positivismo del secolo XIX. Questa dottri­na è stata riassunta in modo assai asciutto e duro dalle parole (peraltro prive di intento satirico) di un marxista che ho cono­sciuto: “I bollitori bollono, i cani agitano la coda e le classi lottano”. Lukács, in effetti, si limita a un cenno di riverenza nei confronti di questo fondamentale esempio di riduzionismo ma è molto più entusiasmato dall’idea che la nostra conoscen­za della Natura è sempre mediata socialmente. Quest’ultima è una tra le molte tematiche che oppongono John Rees – il quale ha scritto un’erudita e illuminante introduzione al libro di Lukács – a Slavoj Žižek, cui dobbiamo una provocatoria Postfazione al testo tipica del suo stile. In poche parole Rees cerca con grande rigore di recuperare Lukács a una certa ortodossia marxista, mentre la verve molto più immaginifica di Žižek finisce per farne qualcosa di molto più simile a un esistenzialista che a un materialista. Il Lukács di Žižek è in realtà un esotico mi­scuglio fra Jacques Lacan e Alan Badiou, un pensatore che rompe definitivamente i ponti con l’evoluzionismo per abbracciare la “contingenza radicale” dell’atto rivoluzionario. Se Rees rischia di eliminare ogni elemento di novità dal pensiero di Lukács, Žižek fa di lui un tipo molto più simile a un parigino dell’avant-garde che a un comunista ungherese.

Rees è sin troppo preoccupato di ricondurre Lukács al “diamat” – ovvero alla dialettica della Natura –, descrivendolo come un leni­nista ortodosso ma senza analizzare con sufficiente profondità la tensione esistente fra le teorie della coscienza storicista e d’avanguardia. Sembra perciò approvare la decisione di Lukács, il quale gettò senza rimpianti nella pattumiera della storia i propri scritti pre-marxisti anche se di indubbio valore – mentre la verità è che senza la possibilità di attingere a fonti filosofiche non marxiste il marxismo occidentale si sarebbe rivelato terribilmente più povero. Rees difende inoltre a spada tratta l’idea di Lukács secondo cui la falsa coscienza ha origine in definitiva dalla natura reificata e feticistica della società capitalista. Si tratta in effetti di un’argo­mentazione forte, vero e proprio fondamento di un testo come Storia e coscienza di classe; ma Rees non si accorge che essa nasconde anche un aspetto riduzionista. Così esistono forme ideologiche di ogni genere che non hanno nulla a che fare con la reificazione, tra cui quelle che non riguardano la classe sociale. Rees, insomma, diventa lui stesso preda di una reificazione quando parla della “dialettica” – sebbene nel caso specifico que­sto non accade perché è vittima del feticismo delle merci. La tragica ironia del percorso intellettuale di Lukács è che lui stesso, da soggetto rivoluzionario quale era in origine, divenne una colonna dello stalinismo e dunque il sintomo di un processo storico determinato. Da questo punto di vista, peraltro, la sua vi­cenda personale è identica a quella intellettuale di Marx. Nato a Budapest nel 1885, figlio di un noto finanziere ungherese e di una madre discendente di una delle più antiche e ricche famiglie ebree dell’Europa orientale, Lukács non sembrava davvero taglia­to per una carriera da comunista. I suoi primi interessi filosofici, sviluppati nella forma di una scrittura cupa e tragica, vertevano sull’etica e l’idealismo; il suo pensiero politico, invece, era una forma di anticapitalismo romantico. Opere come Anima e forma (1910) e Teoria del romanzo (1916) sono il riflesso di un astratto, utopico ripudio della civiltà borghese; vi si avvertono gli influssi di uno strano miscuglio in cui confluiscono Hegel, Kierkegaard, Dostoevskij, Tolstoj, Georg Simmel e Max Weber. La rivoluzione bolscevica indusse Lukács ad abbandonare pro­gressivamente la metafisica tragica per approdare al materiali­smo storico; e il crollo dell’ancien régime ungherese, nel 1918, lo spinse fra le braccia del Partito comunista ungherese di Bela Kun. Nel 1919, il giovane filosofo kierkegaardiano divenne com­missario politico per l’educazione e la cultura della disgraziata Repubblica sovietica ungherese, promuovendo teatri aperti ai la­voratori e lanciando una controversa campagna di educazione sessuale che fece conoscere ai ragazzi l’idea di libero amore, screditando la monogamia dei loro genitori. Il comunismo avreb­be finalmente risolto le tragiche antitesi fra essenza ed esisten­za, fatto e valore, soggettivo e oggettivo, individuo e totalità che avevano funestato le sue prime riflessioni. L’armoniosa totalità di poteri sociali che il giovane Lukács ave­va scoperto nel mondo dell’antichità classica subiva così un mutamento di epoca, e ritornava in vita sotto forma di futuro socialista. Il marxismo era insomma il completamento della grande eredità umanista borghese: proprio per questo il Lukács maturo si mostrò favorevole al Comintern ogniqualvolta fu indotto a stringere un’alleanza politica con l’Occidente bor­ghese – come nel periodo del Fronte popolare –, mentre lo osteggiò ogniqualvolta tese ad abbandonare questa politica di distensione – come nel periodo immediatamente precedente alla seconda guerra mondiale, quando la socialdemocrazia venne bollata come “socialfascismo”, in occasione del patto nazi-sovietico o sotto il peso della guerra fredda. In realtà non fu Lukács a zigzagare per adattarsi alla politica sovietica, ma fu piuttosto quest’ultima a zigzagare attorno a lui. In un certo senso il Lukács della rivoluzione ungherese si era li­mitato a tradurre in termini concreti un conflitto metafisico fra il valore spirituale autentico e la corruzione prodotta dall’esistenza temporale: il primo assunse le sembianze del proletariato rivolu­zionario, mentre la seconda fu impersonata dalla società borghe­se. Ancora assolutista nel suo modo di pensare, il Lukács neofita marxista predicava l’intollerabilità di qualunque compromesso fra i due e proprio per questo si era meritato il rimprovero di Lenin, che lo accusò di infantile estremismo. Non molto tempo dopo la morte di Lenin, tuttavia, Lukács avrebbe cambiato il proprio atteggiamento politico sostenendo entusiasticamente la dottrina staliniana del “socialismo in un solo paese” e scagliando alcuni nobili anatemi nei confronti dell’avanguardia culturale rivoluzio­naria in nome di un’estetica marxista assai più classica. Poiché il tentativo di piegare il reale per adattarlo ai suoi desideri era fal­lito tanto nell’ambito della riflessione filosofica quanto in quello della prassi rivoluzionaria, decise stoicamente di adeguare i pro­pri desideri a una dura realtà sovietica.

E tuttavia la devozione mostrata da Lukács nei confronti della cul­tura classica – se non addirittura della grande eredità umanistica borghese – costituì anche una tacita critica del filisteismo stalinia­no. Dopo essere transitata dall’antichità sino al futuro socialista, l’i­dea di totalità finì perciò per trovare una sua collocazione nel ro­manzo realista – unico rifugio concessole dal fallimento delle spe­ranze rivoluzionarie. Quanto alla fiamma dell’utopia, che appare qua e là capricciosamente in Dostoevskij, sembrò brillare per poco nell’Ungheria insorta ma anch’essa venne subito spenta dal tragico declino del socialismo trasformatosi in oppressione dello Stato. Era venuto il momento di riscoprirla nell’enorme tradizione del realismo letterario europeo che da Balzac e Scott giungeva sino a Tolstoj e Thomas Mann. Perciò individuo e totalità organica, sentimento e ra­gione, reale e ideale avrebbero finalmente trovato una loro concilia­zione in Wawerleye ne Il rosso e il nero, rinunciando definitivamente al tentativo di raggiungere la sintesi nello Spirito del Mondo o nella repubblica dei lavoratori. In definitiva il realismo era solo un altro nome con cui chiamare l’arte autentica, un modello in confronto al quale tutto il movimento modernista e decadente da Flaubert a Brecht poteva solo risultare inferiore e perdente. Se un simile atteggiamento era utile a creare un muro di aristocratico di­sprezzo nei riguardi delle immagini convenzionali di robusti aratori sovietici si rivelava anche un modo per scartare, considerandola robaccia, quasi tutta la produzione letteraria da Zola sino a Joyce. Così Lukács divenne un critico letterario, e fu nei panni del criti­co che conquistò grande notorietà in Occidente come esponente di una venerabile stirpe di pensatori marxisti occidentali, il cui interesse nei confronti della cultura e della filosofìa sembrava smussare gli eccessi di un materialismo storico per il resto al­quanto rozzo e schematico – almeno per il raffinato gusto intel­lettuale occidentale. E in fin dei conti c’è davvero un pizzico di ironia nel fatto che la “svolta verso il soggetto” di Lukács – co­me ci fa notare questo libro – non sia stata affatto un allontana­mento dalla rivoluzione più cruenta ma abbia rappresentato, in­vece, un decisivo passo in direzione di quest’ultima.

Tito Perlini – Utopia e prospettiva in György Lukács

icoperArticolato in tre ampi saggi impegnati insieme in un lavoro di ricostruzione storiografica e di puntualizzazione teorica, questo libro fornisce al lettore, evidenziandone le molteplici implicazioni, il quadro complessivo della parabola intellettuale di uno dei più ricchi, stimolanti e contraddittori pensatori del nostro tempo. György Lukács si pone nel discorso di Perlini come una sorta di microcosmo riflettente in sé il macrocosmo della cultura di sinistra degli ultimi cinquantanni, impegnata a fondo nella problematica che trova il proprio fulcro nei problemi della dialettica e dell’alienazione. Il tema che nel corso dell’indagine viene assumendo via via un ruolo di centralità è quello concernente la critica della razionalità formale. Perlini dimostra come nella tarda produzione lukacsiana si assista, per quanto riguarda il rapporto razionale-irrazionale, ad un vero e proprio rovesciamento delle posizioni teoriche che hanno trovato modo di esprimersi nelle opere giovanili, nelle quali (soprattutto in Storia e coscienza di classe) è tuttora da ravvisare il contributo più valido di Lukács al pensiero del nostro tempo.

Il testamento filosofico di Lukács

di Costanzo Preve

dal sito kelebekler.com


1. Nel 2001 è caduto l’anniversario della morte di Georg Lukács (in ungherese Lukács György, prima il cognome e poi il nome), vissuto fra il 1885 ed il 1971. A trent’anni dalla sua morte, di Lukács non si parla praticamente più, come se la storia avesse definitivamente cancellato il suo pensiero. Ma non è così. La storia non cancella mai niente per sempre, ma solo congiunturalmente. In questa congiuntura storica il dominio del pensiero unico della globalizzazione capitalistica sembra invincibile, anche perché sono state pienamente normalizzate in senso conformistico le due categorie strategiche del nuovo clero deputato alla riproduzione allargata della legittimazione ideologica capitalistica, i giornalisti ed i professori universitari. Ma le congiunture storiche possono cambiare. Solo i coglioni credono veramente alla fine della storia. Lukács merita ampiamente di essere ricordato, ed è esattamente quello che farò in questo intervento. Continua a leggere

La politica culturale della Repubblica dei Consigli

di György Lukács

a cura di Carlo Benedetti

«l’Unità», 9 aprile 1969


UNA DOMANDA A LUKÁCS

La risposta del filosofo ungherese, che nel 1919 fu commissario all’Istruzione, alla rivista di teoria e politica del POSU «Tarsadalmi Szemle»


BUDAPEST, marzo

«Quali sono i valori permanenti della politica culturale attuata della Repubblica dei Consigli?». La domanda è stata posta dalla rivista di teoria e politica del POSU «Tarsadalmi Szemle» (Rivista Sociale) al compagno György Lukács che fu, nel 1919, commissario all’istruzione durante i 133 giorni di vita dello prima Repubblica dei Consigli magiara.

Lukács risponde rilevando, in primo luogo, che nel periodo che precedette la Repubblica i comunisti che tornavano dall’Unione Sovietica non avevano senso teorico e «cultura teoretica». «L’unica persona che in quei tempi aveva un senso per la teoria – prosegue il filosofo – era Béla Kun che già in quei tempi, a mio giudizio, aveva considerato Bukarin come il vero teorico della dittatura. Ne consegue che delle innovazioni teoretiche di Lenin tutti noi, in quei tempi, non avevamo appreso nulla. Poche erano le opere allora tradotte e se, successivamente, nel partito ungherese, si poteva parlare di tradizioni leniniste tutto ciò era merito delle esperienze fatte nell’emigrazione e giunte poi in Ungheria. Comunque, al tempo della Repubblica dei Consigli Lenin aveva pochissima influenza ideologica». Continua a leggere