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Adorno, avangaurdia, Bachtin, Beckett, Benjamin, Bloch, Brecht, Debenedetti, durée, Flaubert, forma, intreccio, Joyce, Lukacs, montaggio, narratività, negativo, Propp, Proust, realismo, romanzo, Sartre, Sklovski, Tempo
di Franco Fortini
«Il sole 24 ore», 25 settembre 1994.
Nel gennaio del 1920 Proust pubblicava un saggio (scritto, almeno in parte, nel 1909) intitolato À propos du style de Flaubert che riprendeva e sviluppava idee già accennate nelle pagine che oggi si leggono sotto il titolo di Contre Sainte-Beuve. Il saggio conteneva osservazioni molto notevoli su alcuni particolari della scrittura flaubertiana. Se ne accorse Walter Benjamin, cinque anni più tardi e ne scrisse a Hugo von Hoffmannsthal. Al nostro Debenedetti quel saggio parve «miracoloso». Tali osservazioni torneranno – ma vòlte esclusivamente al negativo – nelle pagine pubblicate postume che Sartre scrisse durante la Seconda guerra; prova di una contrapposizione radicale. Interessa ora quanto in quel saggio Proust dice a proposito della espressione letteraria del Tempo: «La Éducation sentimentale è il lungo resoconto di una intera esistenza, in cui i personaggi non prendono, per così dire, parte attiva all’azione. Talvolta il passato remoto interrompe l’imperfetto, ma allora diventa, al pari di questo, qualcosa d’indefinito che si prolunga… […]
A mio avviso, la cosa più bella della Éducation sentimentale non è una frase, ma uno spazio bianco. Flaubert ha descritto, riferito, nel corso di moltissime pagine, le più insignificanti azioni di Frédéric Moreau. Frédéric vede un agente scagliarsi, con la spada in pugno, contro un insorto, che cade morto. “E Frédéric, a bocca aperta, riconobbe Sénécal”. Qui uno spazio bianco, un enorme “bianco”; poi, senza l’ombra di una transizione, mentre la misura del tempo diventa d’improvviso, anziché di quarti d’ora, di anni, di decenni:
“Egli viaggiò. Conobbe la melanconia dei piroscafi, i freddi risvegli sotto la tenda …Verso la fine del 1867… Flaubert fu il primo a sbarazzarsi del parassitismo degli aneddoti e dalle scorie della storia. Fu il primo a metterli in musica”». (Proust, Scritti mondani e letterari, Torino, Einaudi 1985, p. 548/9).
È ben noto che l’Education è stata opera di fondamentale importanza per Lukács e che anzi per tutta la vita gli ha fornito richiami e confronti. Tanto più fa impressione leggere, nel saggio sul Significato attuale del realismo critico, pubblicato per la prima volta in italiano nel 1957, un sintetico giudizio sul medesimo passo flaubertiano che, in parte almeno, smentisce l’autore medesimo quando diceva di non voler scrivere in modo aforistico.
«Flaubert ha profeticamente presentito e rappresentato questo processo (e cioè il rapporto del realismo letterario con la possibilità che la vita abbia un senso – o almeno della speranza di una vita siffatta – nella società borghese, da un lato, e dell’avanguardia, con il venir meno di queste prospettive, dall’altro) nella composizione della Educazione sentimentale. Il romanzo vero e proprio, realistico, finisce nella notte delle barricate, in cui Fédéric Moreau vede cadere Dussardier al grido di “Viva la Repubblica!” e riconosce nell’agente di polizia il suo ex compagno di lotta “radicale”, Sénécal. Il romanzo realistico è finito. Comincia, per Fédéric Moreau, “la recherche du temps perdu”».
Un caso evidente, mi pare, di «trionfo del realismo nella critica letteraria». Malgrado l’antipatia ideologico-politica per Proust, Lukács coglie perfettamente che quel minimo ma non modesto anticipo delle future avanguardie riunisce in sé una intuizione di storia politico-sociale e una innovazione relativa all’intreccio (nella accezione nella quale Segre usa questo termine, ossia sia di «contenuto del testo nell’ordine in cui vien presentato») e una relativa al “discorso”, ossia al testo narrativo complessivamente significante.
Nel caso di Proust avevamo un esempio di “critica di scrittore”, secondo quanto Lukács medesimo ci ha spiegato, distinguendola così dalla propria che era “critica di filosofo”. Infatti le osservazioni tecniche che Proust espone a proposito di Flaubert, prese l’una separatamente dall’altra possono anche sembrare, o essere, superficiali. Vi senti lo scrittore che civetta col suo pubblico, esasperando, come spesso gli autori amano fare, l’aspetto artigianale della scrittura e ingannevolmente rendendo partecipe quel pubblico del laboratorio degli autori anzi, dei critici. Attribuire a Flaubert un eccezionale trattamento del tempo è da parte di Proust un atto di “politica delle alleanze”, volto a fondare una tradizione autoprotettiva; non è altro che inserirsi in una linea. Non è forse stato Proust a dirci qualcosa che Flaubert avrebbe certo sottoscritto, e cioè che l’arte è «le vrai Jugement Dernier» parafrasando e, nel medesimo tempo rovesciando, la frase hegeliana, secondo la quale il vero Jungsten Gericht, il vero Giudizio Finale è la Storia? Ha davvero ragione Lukács: fra la morte di Hegel e Goethe e il Secondo Impero (poco più di un ventennio) non comincia solo “la ricerca del tempo perduto” ma un modo di rinuncia al futuro.
Sembra di poter dire invece che nelle ultime righe della lucaksciana e premarxiana Teoria del Romanzo (1914-15), ossia la contrapposizione di una cattiva temporalità ad una buona temporalità, sboccando nella funzione catartica che questa seconda avrebbe nei confronti della prima, fa di quella conclusione una delle numerosissime estetizzazioni della vita compiute da quello che Lukács, in lotta permanente con la propria giovinezza, più tardi avrebbe chiamato «ateismo religioso».
Coerentemente con lo sviluppo della utopia-profezia delle ultime righe della Teoria del romanzo, la scelta etico-politica di Lukács lo avrebbe condotto, dapprima, a subordinare la funzione esemplare dell’arte alla funzione esemplare della dedizione etico-politica e poi, dopo il 1933 e per un ventennio, alla celebrazione (tanto più appassionata quanto più disperata) di una letteratura e di una cultura che simmetricamente, e in parallelo, avanguardia e burocrazia socialista avevano o distrutto ingiuriando o distrutto venerando. Intanto la lunga polemica dei difensori dell’espressionismo, dell’estraniamento e della negatività (Adorno, Bloch, Brecht) aveva avuto definitivamente ragione della nozione di tempo storico a favore della modulazione o montage di vari tempi soggettivi o durées, riducendo il tempo sociale nei paesi dell’Occidente, non già ad un fenomeno di interscambio (come fra le Ungleichzeitigkeiten, o “discronie” care a Bloch) ma a una sinistra oggettivazione della insensatezza e al moto browniano delle durées individuali.
Durante la disputa, dal 1930 al 1960, sul realismo e l’espressionismo, sull’umanesimo e l’avanguardia, su Kafka e Mann, su Schoenberg e Stravinski, sul tempo del Meister e quello di En attendant Godot, o di Balzac e di Proust, si venne costituendo un continuum dove c’è posto per tutto, per l’alto come per il basso, per la mistica ebraica cara al nostro Cacciari come per la mistica del vomito diletta a Celine o Bataille e dentro quel continuum, aggregato di tempi compressi e irrigiditi, ognuno può scavarsi i percorsi che vuole, non più talpa collettiva ma tarlo o termite finché nube pesticida non lo inchiodi.
Non Lukács allora abbiamo; ma le sue domande. Esse rimandano molto indietro, con l’imposizione di scelte ossessive e “fanatiche” nel senso di “radicali”; intollerabili quanto intolleranti; estremiste, dove tutto sia da ripensare, ma subito. Certo oggi è incomparabilmente più difficile condurre una sensata azione di gruppo per mutare qualcosa intorno a sé che non scrivere un buon testo letterario.
Quando, mezzo secolo fa, Lukács parlava di dissoluzione del romanzo nella società imperialista e ne indicava i modelli in Joyce e Proust, alludeva è chiaro, al romanzo come forma chiusa che oppone la propria forma al caos e con quella propone un senso all’insensatezza dell’esistente. Quando Adorno gli opporrà che il dovere dello scrittore moderno (che per lui equivale invece e proprio all’avanguardia come, per Bloch, all’espressionista) è di introdurre il caos nell’ordine, Adorno lo dirà perché l’ordine sarà per lui l’esistente, come universo totalitario della mercificazione. E, dove non appaia una percorribile via politica, all’artista non resterebbe che indicare il negativo con tutte le proprie energie. Detto per epigramma: se stalinismo e socialismo “reale” hanno mentito a Lukács, il quindicennio che è trascorso dalla morte di Adorno a oggi ha colorato in tal modo le sue profezie da renderle indistinguibili dal clamore dei media, clamore ormai, diceva Valéry, pari al silenzio. Anzi Bloch, Brecht, Benjamin, Marcuse, si accorgono di avere a noioso compagno, nell’al di là, proprio tutto Lukács, di essere quasi una sola persona con lui, travolti come sono, nell’al di qua, dal coro dei copywriters internazionali della reazione e neanche più delle rudimentali chiacchiere dei Nuovi Filosofi degli anni Settanta ma nei ben più seri padri di questi ultimi, i cui nomi è inutile ricordare. Lavorano sulle loro opere, degli anni Venti e Trenta, eminenti studiosi che nei momenti di distrazione, come altri farebbe con le note di un puerile carillon d’infanzia, canterellano le note della Internazionale.
La forma romanzo si è dissolta nel corso del secolo. C’è chi non lo crede e continua a celebrare negli infiniti romanzi che tuttavia si stampano l’effluvio trasmesso dai classici della narrazione. Sono dei socialdemocratici, incapaci, per autoprotezione, di guardare in faccia la caduta simultanea del “mondo nuovo” comunista e di quello “vecchio” dell’umanesimo liberalsocialista.
Della cosa non si era preoccupato Bachtin. Aveva messo, per così dire, le mani avanti, parlando della illimitata plasticità del genere che come tutto, si rigenera in basso, dalla Madre Terra, inter faeces et urinam. È singolare e indicativo (di un compromesso che ci ha condotti dove siamo) che nel 1969 Italo Calvino tanto si entusiasmasse alla prospettiva di Bachtin di una alleanza fra consumismo carnevalesco e austerità produttiva.
E, per di più, al genere “romanzo” si è sostituita la nozione di narratività, già cara ai russi di Propp e di Sklovski e fino ai giorni nostri; narratività che è certo difficile introdurre nel processo hegeliano-marxista. Il malcerto tentativo di Goldmann, di mediare fra Lukács e la sociologia; e la tenebrosa riuscita del Flaubert di Sartre (dove l’analisi interminabile e totalizzante fa della scrittura appena uno degli infiniti dati accolti nel computer dei suoi volumi) danno ragione tanto al Lukács maturo che parlava di “decadenza” avanguardistica quanto alla logica interna della avanguardia che è costretta a farsi sempre più ottimistica esaltatrice delle forme aperte come fossero un esempio di deregulation e finalmente della tecnologia, applicata quasi elettrodi di tortura a indocili sudditi dell’Impero. L’“opera aperta” dichiara la senescenza della forma chiusa, la letteratura come disneyland permanente è il trionfo del principio: «se sapete leggere sapete scrivere ma, se non sapete leggere, sapete scrivere lo stesso».
La narratività, è stato scritto, si è diffusa all’esterno della letteratura propriamente detta nelle scritture critiche e storiografiche oltre che nelle forme della comunicazione visiva. Il processo della mescolanza degli stili (Auerbach) e dei generi (Bachtin) ha raggiunto la propria perfezione quando stili e generi hanno potuto fare la loro ricomparsa – come ai nostri anni – non più quali precetti fondati su di un consenso culturale ma quali citazioni di un universo di regole scomparse ossia come meri supporti merceologici. Con la semplice pressione di un telecomando, l’alto e il basso, il dimesso e il sublime, lo schifiltoso e il sotàdico, il tragico e il comico, il romanzesco e il lirico sono a nostra disposizione come nelle sezioni di un self service. Unico limite è la capienza catastale degli ordinatori.