«Il Contemporaneo-Rinascita», n. 24, 11 giugno 1971.
La scomparsa di György Lukács
La figura di György Lukács, scomparso a Budapest il 4 giugno scorso a 86 anni di età, è stata sin dagli anni venti al centro delle tematiche più avanzate della cultura europea e dei suoi rapporti difficili e fecondi col movimento operaio. Commissario del popolo all’Istruzione nella Repubblica dei Consigli di Béla Kun, esule a Vienna, Berlino e Mosca, prestigioso docente di filosofia e di estetica, al suo rientro in patria, espulso dal partito dopo i fatti del 1956 e riammesso nel 1967, egli non ha mai cessato di commisurare la sua ricerca teorica con le vicende del grande scontro storico in atto, che lo ha quindi avuto tra i protagonisti più appassionati e coraggiosi, sempre, anche negli errori e nel travaglio connaturato ad ogni ricerca che, come la sua, sappia porsi ai livelli più alti del pensiero mondiale.
Rinascita, che più volte ha avuto l’onore di accogliere i suoi scritti sulle proprie colonne, e in particolare negli ultimi anni, quando la vigile intelligenza del vecchio filosofo ha saputo dare alcuni dei più memorabili interventi sulle grandi questioni aperte nel campo socialista e in vista di quello che egli chiamava il «rinascimento del marxismo», si propone di dedicare al suo pensiero studi e analisi più precisi e dettagliati. Intorno al suo nome, del resto, sono in corso da anni nella cultura marxista italiana dibattiti di grande rilievo, a riprova del peso decisivo da lui esercitato, anche nei contrasti, sul pensiero del nostro tempo. Da questi dibattiti intendiamo partire, per continuarli: nella fiducia che questo sia il migliore contributo alla sua memoria. [redazionale]
di Franco Ottolenghi
Proviamo a chiederci – e non è facile nello smarrimento che segue oggi l’annuncio della morte – che cosa è per noi György Lukács. È un interrogativo che pone in causa le zone nevralgiche della produzione di coscienza teorica e della dinamica politica del movimento comunista, a partire da un cardine: quello del rapporto avanguardia-masse che si afferma con la teoria leninista dell’organizzazione. Di fatto, coinvolge tutte le scelte strategiche del movimento, dopo l’Ottobre, fino ai primi anni sessanta: dalla ipotesi di una rivoluzione come mediazione (nel senso strettamente hegeliano, «giacché mediazione è principio e passaggio a un secondo termine, in modo che questo secondo in tanto è in quanto vi si è giunti da un qualcosa che è altro rispetto ad esso»), alla politica dei fronti popolari lanciata dalla Terza Internazionale; dal convalidamento del modello di edificazione economica socialista nell’Unione Sovietica, alla questione della «coesistenza». Basta questo a darci la misura della esemplarità della vicenda di Lukács, e anche, più in particolare, di un modo di produrre teoria (e politica) dell’intellettuale, in cui sta una delle chiavi per comprendere questa straordinaria figura: levato l’antico privilegio della nascita, è la «vocazione» professionale al lavoro intellettuale di cui parla il suo maestro Max Weber a garantire a Lukács un rapporto con la classe e il movimento che si alimenta di un consapevole impegno etico.
Questa stessa «vocazione», se consente una linea di sutura col movimento politico espresso dal proletariato, determina d’altra parte uno scarto rispetto ad esso. Nonostante i suoi appassionati interventi sulla «partiticità» leninista, per tutta la vita Lukács conserverà orgogliosamente il carisma critico nei confronti del movimento e delle sue organizzazioni che quello scarto rendeva possibile.
C’è un senso profondo, tuttavia, in cui la morte di Lukács conferma quasi dolorosamente un silenzio. Proviamo a esaminare uno degli ultimi suoi grandi interventi, quello «Sul dibattito fra Cina e Unione Sovietica», risalente al 1963. Lo scritto, come si ricorderà, prende spunto dallo scambio di lettere fra i Comitati centrali dei partiti comunisti sovietico e cinese. Era uno dei momenti più drammatici del dissidio. Ne risentono le contrapposte formulazioni strategiche a proposito del nesso guerra-rivoluzione. Curiosamente, il filosofo, che pure richiama il detto leninista sulla necessità di compiere permanentemente «l’analisi concreta della situazione concreta», riduce la dimensione politica dello scontro alla contrapposizione ideologica tra realismo del pensiero rivoluzionario e settarismo. Quest’ultimo anzi essendo propriamente il settarismo staliniano (a sua volta proiezione di una «mentalità fondamentale» del settarismo), identificabile, del resto, secondo la lettura lukacsiana, anche nelle esperienze di edificazione economica (il «balzo in avanti») della società cinese. Ora, non c’è dubbio che il tentativo di comprensione fatto da Lukács sforzando il suo apparato categoriale risulti insufficiente. E lui stesso lo avverte quando osserva, all’inizio del suo scritto, che l’autore «sa con Lenin, che l’astuzia del processo reale, «che supera qualsiasi previsione, appartiene per necessità alla concretezza del mondo: sa che, non tenendone conto, non si può capire il mondo stesso con la sua mobilità».
Ciò nonostante il problema per Lukács resta quello di infliggere al «modernissimo settarismo» una «sconfitta teorica realmente distruttiva», il che avviene «soltanto se la teoria marxista confuta fino in fondo non solo le argomentazioni pratiche che esso ricava dalla vita, ma anche le sue premesse e i suoi metodi deduttivi».
Qual è la ragione dello slittamento? Quale la ragione del rovesciamento del rapporto di determinazione struttura-sovrastruttura in forza del quale la teoria diventa levatrice di una pratica congruente con se stessa e diventa essa stessa l’indice di «mobilità» del mondo?
Non tanto, ovviamente, una insufficienza delle categorie in quanto tali, quanto una modalità regressiva del loro uso che tende a correlarle per se stesse, come momenti di una struttura razionale dialettica, come regioni di una ontologia razionale dialettica, per adoperare un termine filosofico (ontologia come scienza dell’essere, sia pure sociale) che nell’ultimo Lukács tornerà sempre più spesso. L’apparato categoriale diventa allora, dal punto di vista euristico, cioè dal punto di vista della produzione di conoscenza effettiva, disfunzionale.
Tocchiamo qui il problema dell’irrisolto hegelismo di György Lukács. Che è anche il problema della sua ininterrotta ricerca del marxismo, la ragione del suo silenzio e della sua grandezza, il referente teorico della sua professione intellettuale. Nella disincantata autocritica con la quale, nel 1967, Lukács rende conto dei suoi furori filosofici a cavallo degli anni venti, Storia e coscienza di classe (1922), il testo-chiave in cui si riprende, a partire dalle ultime pagine del Capitale, il problema della determinazione del proletariato in classe, subisce a confronto con la compattezza della istanza materialistica assunta attraverso il leninismo, un drastico (e convincente, anche se fin troppo severo) ridimensionamento. Il superamento della reificazione, riconosce Lukács, viene dato nella sua opera come exploit della coscienza-di-classe del proletariato e si realizza quindi come piena trasparenza filosofica (hegeliana) del nesso soggetto-oggetto, anziché come funzione del rovesciamento del rapporto capitalistico di produzione. Non per caso, quindi, tutta la tematica della reificazione poté diventare il terreno di una controversia filosofica che vide scendere in campo anche Heidegger con Essere e tempo.
Ma a noi interessa notare una cosa. Scrive Lukács nella Distruzione della ragione: «I filosofi – che ne siano coscienti o meno, che lo vogliano o che non lo vogliano – sono sempre legati anche interiormente alla loro società, a una determinata classe in essa, alle aspirazioni progressive o retrograde di questa. Proprio ciò che rappresenta l’elemento realmente personale, realmente originale nella loro filosofia è nutrito, determinato, formato, guidato da questo terreno (e dal destino storico di questo terreno). Anche dove a prima vista sembra predominare una presa di posizione individuale nei confronti della propria classe, spinta fino all’isolamento, questa presa di posizione è legata nel modo più intimo con la situazione delle classi, con le alterne vicende della lotta di classe».
Sembra lecito leggere in questa osservazione qualcosa di più che un corretto ma generico richiamo a un canone interpretativo materialistico-storico. E neppure soltanto una ipotesi di lavoro valida per Descartes o Hegel. Il tono è troppo pressante. In filigrana vi si legge la vicenda del filosofo ungherese, vi si legge la destrutturazione dei ruoli sociali, compreso quello dell’intellettuale, provocata dall’acutissimo scontro di classe nell’Europa degli anni venti.
Lukács vive questa destrutturazione come crisi della propria figura sociale e come ricerca di una nuova collocazione di classe in grado di giustificare quella figura sociale. Di qui la curvatura culturale del suo marxismo, di qui ancora, in quegli anni, come egli stesso lucidamente riconosce, la crisi all’interno del suo stesso essere marxista (la partecipazione alla elaborazione della linea di «sinistra» che ebbe in Kommunismus il sue organo teorico e di battaglia, l’«utopismo messianico» come risvolto del settarismo politico, il salutare scontro con Lenin a proposito del rapporto con le istituzioni parlamentari borghesi).
Qui ancora va ricercato il senso profondo del suo voler essere uomo di partito tanto più quanto più la dotazione sociale originaria gli conferisce uno statuto d’autonomia: la crisi del ruolo sociale provoca uno sforzo incessante di adaequatio intellectus et rei, della strumentazione intellettuale originaria alla pratica quotidiana della istituzione. In questo senso, per Lukács, essere uomo di partito, essere dentro il partito era la sola garanzia che la ragione distrutta potesse essere ricostruita. «La tensione dialettica tra la formazione razionale dei concetti e la materia che le si offre nella realtà – è detto ancora nella Distruzione della ragione – è sì un fatto universale del rapporto conoscitivo con la realtà, ma il modo in cui questo problema si presenta di volta in volta, il modo in cui se ne affronta la soluzione oppure si scantona e si fugge dinanzi ad esso, è qualitativamente diverso a seconda della situazione storica, a seconda dello sviluppo storico delle lotte di classe».
Bene. Il partito era la garanzia che non si sarebbe «scantonato». Lukács lo seppe anche negli anni di Stalin. Il partito valeva bene qualche autocritica. Per questo Lukács fu, nel senso proprio, del termine, soprattutto un ideologo. Per questo aveva fortemente voluto la riammissione negli ultimissimi anni, senza preoccuparsi troppo del fatto che tra le maglie del materialismo dialettico della sua Estetica o della sua Ontologia affiorassero le venature dell’originario impianto hegeliano.