di Franco Fortini
«Avanti!» 3 luglio 1949
[Avvertenza: riprendiamo il testo di questo articolo da una copia cartacea rovinata, per cui alcuni passi non sono leggibili. In quel caso è posta il simbolo […] ad indicare la mancanza. Inoltre – piccola nota filologica – quando Fortini usa l’aggettivo “virtuistico”, fa riferimento alla terminologia di Vilfredo Pareto e lo mutua dal suo maestro Giacomo Noventa, che ne fece grande uso. In generale l’aggettivo vale come “moralistico”, nel senso negativo del termine].
M’è avvenuto di leggere, nei giorni passati, la Breve storia della letteratura tedesca del critico e filosofo marxista Georg Lukács, tradotto in francese nelle edizioni Nagel. È questa una storia sociologica e politica della letteratura tedesca, un’essenziale discorso sulle vittorie e sugli errori di una cultura, espressa nelle forme letterarie, equivalenti, se non esattamente paralleli alle rare vittorie e ai molti funesti errori della evoluzione democratica tedesca. La leggevo con particolare attenzione, perché, da noi, si può dire quasi inesistente, o appena i suoi inizi, una critica letteraria di ispirazione marxista; e poi, perché è questo, di una critica letteraria ispirata a quei principi (ma bisognerebbe dire persino di una estetica rinnovata, di contro alla tradizione dell’idealismo; vedi l’importante lavoro di Galvano Della Volpe) uno degli argomenti di più frequente riso e critica, fra uomini non solo delle altre, ma anche delle nostre tendenze politiche.
E in questi giorni l’Avanti! ha ospitato una «Breve storia degli intellettuali italiani» che mi ha dato molto da riflettere. Iniziativa, quella di G. Peirce, lodevole, soprattutto se la sua forma giornalistica fosse stata la conseguenza di uno studio vero e proprio; ma, diversamente da quella del Lukács, molto pericolosa e ricca di equivoci. Diciamo subito che fare della critica “marxista” (metto deliberatamente tra virgolette questa parola per indicare il riferimento più o meno preciso al complesso della tradizione marxista, mentre parlando di marxismo tout court oggi, è impossibile non intendere il marxismo-leninismo nell’interpretazione stalinista, cioè comunista, e nelle sue applicazioni più recenti) non può voler dire cercare delle semplici corrispondenze e dei rapporti di causa-effetto tra fattori sociali e politici e strutture economiche, da una parte, e opere d’arte o di letteratura (espressioni delle sovrastrutture) dall’altra. Dire, come fa Peirce, e come molti dicono, che il movimento letterario e culturale rappresenta il tal momento politico o la tal altra esigenza di difesa o di offesa di classe (e dirlo, poi, con esasperante schematismo) non può non ridurre opere di pensiero e di letteratura a maschere ideologiche da “smascherare” secondo una locuzione troppo frequentemente e imprudentemente; in questo caso la storia di una letteratura sarà ridotta a una storia di maschere e di burattini; e la storia della filosofia ad una storia di ideologie, cioè di filosofia considerate soltanto nella loro fase di decadenza e di “applicazione” (e mi si permetto, a questo proposito lamentare che i socialisti stiano confermando l’uso improprio di chiamare “ideologica” ogni attività culturale e teorica di partito). Una critica di tal genere sembra covare in chiunque si illude che il marxismo sia una “riduzione all’economico” e in chi porta una intima incomprensione e forse un segreto dispetto e odio alla letteratura e all’arte, (che sono senza dubbio, uno dei più vistosi strumenti e aspetti della iniquità sociale e dello sfruttamento); una critica di tal genere non sarà una critica “partitica”, ma soltanto una critica virtuistica (e finalmente ingenua) che non potrà far altro se non “smascherare” falsità, menzogne, errori e brutture, tesa all’auspicio di una letteratura che…non mascheri nulla. Io mi permetto di consigliare (per qualche esperienza che ho di questo genere di discorsi) di stare molto attenti: si rischia di dire alcune clamorose sciocchezze, di ingannare dei compagni che mancano del modo di controllare i nostri errori, e di disgustarne inutilmente altri. Voglio dire che queste «storie brevi» sarebbe meglio considerarli saggi di sociologia delle lettere e delle arti. Se si dichiara che l’opera letteraria non ha altro senso che quello di rappresentare un momento della struttura economica e politica, non capisco perché si studino i grandi poeti e gli scrittori e non già la minore pubblicistica o le opere di mero successo che quei momenti rappresentano, documentano o denunciano tanto più chiaramente. Se invece (pur con la necessaria prudenza dopo i recenti abusi delle alleanze crociano-cattoliche e della critica idealistico-mistica) si maneggi il criterio della distinzione estetica, si arriverà forse ad una conclusione che si può sì compendiare come segue.
L’indagine dei rapporti fra la espressione artistica (nelle forme che siamo soliti chiamare «poesia» e «letteratura») e il mondo della società storica (indagine che non è nata con le ultime leve!) è una forma di filologia, serve cioè da strumento per una più esauriente comprensione di quella espressione, e, correlativamente, di quel mondo. Si tratta di stabilire anzitutto i limiti di questa, come di qualsiasi altro strumento di interpretazione. Cioè, se l’attività critica deve soltanto tradurre in termini di sociologia, di politica, di «sovrastrutture» l’opera letteraria, la categoria estetica sarà negata; se invece essa deve introdurre (e non sostituirsi), la sua indagine dovrà essere molto più profonda e delicata di quel che certa gente creda. Per fare un esempio: dire che la tal poesia di X è l’espressione della borghesia imperialista del paese Y nella fase Z è fare un giro inutile e costoso quando sarebbe infinitamente più semplice e redditizio ricercare altre forme di espressione della borghesia di Y in Z. Serve comunque a poco; e ci preclude […]biamente ogni possibile avvicinamento alla poesia di […] Bisognerà invece, servendosi naturalmente di tutti i mezzi filologici a nostra disposizione, avvicinarci alla differenza specifica che c’è tra l’espressione X, e le espressioni N, S, […] di Y in fase Z. Arriveremo molto probabilmente ad accertare in ogni espressione di arte e di poesia una certa particolare tensione ed equilibrio dinamico tra elementi volontari e involontari, fra plurimi significati ed echi fra valori «espressivi» e «comunicativi», ecc. in che facciamo consistere propriamente l’espressione artistica e (con le dovute distinzioni) quella cosiddetta letteraria. Insomma, per dirla molto grossolanamente, non si tratta di «passare» dal cosiddetto «contenuto» alla cosiddetta «forma»; ma da un contenuto esplicito ad uno implicito, e al rapporto tra i due. Vedremo che X «significa», « rappresenta», «maschera» Y in Z (e anche ben altro!) in modo, però, tale che, per comprenderlo e sentirlo convenientemente, (perché insomma il composto chimico, che X è, diventa disgregabile e assimilabile) è necessario un tempo diverso da quello che solitamente si impiega per comprendere manifestazioni e le espressioni, N.S.R… Tempo che nessuna sociologia può accelerare. Si potrà fabbricare il grano che, cresce in tre settimane ma non una autentica poesia capace di risolversi, di comunicarsi a favore della fretta dei distratti.
Affermazioni di questo genere ci paiono abbastanza ovvie, ed è abbastanza penoso che si sia ancora a doverle ripetere quando sarebbe tanto necessario lavorare molto seriamente a mettere in pratica critica una revisione, della nostra letteratura, specie contemporanea. Speriamo, paradossalmente, che la dichiarata fine delle speranze e delle illusioni di garibaldinismo culturale, il visibile trionfo della reazione culturale ci costringa a vendette non verbali, a serietà e furore di studi, per distruggere, ma davvero, quel che avevamo creduto sufficiente dimenticare, (e soprattutto per evitare che alcuni santoni naviganti eternamente fra due acque piangano le loro lacrime di coccodrillo sulla letteratura e sulla critica rivoluzionaria).
In quanto alle storie o alle cronache meramente sociologiche, esse sono necessarie, se condotte con l’opportuno senso dei loro limiti. E anzi bisognerebbe che le «piccole storie» dei letterati italiani fossero condotte fino ai nostri giorni, con fredda accettazione dello scandalo, descrivendo le subordinazioni economiche alle potenze politiche, i rapporti con il fascismo, con l’editoria, il costume, le bizze, i falsi scandali, le conversioni, i mestieri, i premi ecc. della casta letteraria. Proseguire Gramsci, insomma, non in modo aneddotico, naturalmente, ma come descrittiva di un «ceto» organico. Ma non dimenticavo davvero i fini di una simile indagine: una critica ad uomini-istituti, che non è, o non basta per essere, una critica alla loro poesia o letteratura. Apparirà allora chiaro quello che andiamo ripetendo da tanto tempo: che il mondo della cultura e della politica italiana seguitano, e volutamente, a giuocare con un equivoco; gli uni e gli altri, in fondo, lietissimi che l’equivoco si perpetui. «Impegnati» e «impegnatori», avversari o no dell’«impegno», tutti però concordi, in silenzio, su di un punto: gli uomini di cultura a non parlare mai della cultura dei loro politici, e i politici a non prender mai sul serio la cultura dei loro uomini di cultura. Questi solo desiderosi di lasciare la loro «organizzazione» in mano ai «pratici». E i «pratici», felicissimi, sempre, di tenersela.