Da Lukács a Burgum. La storia, il romanzo e la società

di Giansiro Ferrata

«Rinascita», n. 40, 9 ottobre 1965.


L’importanza dello studio del filosofo ungherese sta nell’energia chiarificatrice degli esempi, delle lezioni grandi e intense che il romanzo storico è venuto offrendo per decenni a vantaggio del nuovo realismo narrativo in genere e dei suoi capolavori in particolare. Ma il libro entra in crisi in quel centinaio di pagine dedicate al rapporto tra il romanzo storico e la crisi del romanzo borghese. L’esperienza letteraria nell’opera di un critico marxista americano.

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Tecnica, contenuti e problemi di linguaggio

di György Lukács

[Intervista di Yvette Biró e Szilárd Ujhelyi a Lukács apparsa sulla rivista ungherese “Film Kúltura” e poi in traduzione italiana su “Cinema nuovo”, n. 196, novembre-dicembre 1968]


Nei mesi scorsi il filosofo György Lukács ha assistito alla proiezione di quei nuovi film ungheresi che hanno ottenuto particolari riconoscimenti in patria e all’estero, e che sono considerati tra i più rappresentativi. Tra le opere di Miklós Jancsó, Igy jöttem (Sono venuto così), Szegénylegények (I disperati di Sandor), Csillagosok, katonák (Stellati, soldati [L’armata a cavallo, Ndr]) e Csend és Kiáltás (Silenzio e grido); tra quelle di András Kovács, Nehéz emberek (Uomini difficili), Hideg napok (I giorni freddi) e Falak (I muri); di István Szabó, Apa (Il padre); e di Zoltán Fábri, Húsz óra (Venti ore); di Ferenc Kósa, Tizezer nap (Diecimila soli). Il complesso dei film ungheresi con i loro temi variati solleva un grande numero di problemi sia artistici, sia legati alla nostra società di oggi, sui quali “Film Kúltura” ha posto alcune domande a Lukács. L’intervista – che pubblichiamo integralmente, per gentile concessione della rivista ungherese e nella traduzione di Ivan Lantos – ha avuto luogo il 10 maggio in casa del filosofo; le domande sono state poste dai redattori Yvette Biró e Szilárd Ujhelyi.

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Dopo cinquanta anni

con György Lukács, Arnold Hauser e altri

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.

Una conversazione per radio tra György Lukács, a Budapest, e Arnold Hauser, a Londra, registrata dalla radio ungherese nell’anno 1969.


Conduttore – Trasmettiamo una conversazione che si sta realizzando tra la BBC londinese e la radiodiffusione ungherese. Nello studio londinese si trova il professore Arnold Hauser, il quale potremo chiamare semplicemente Arnold Hauser, poiché il famoso sociologo dell’arte nacque in Ungheria. Cominciò i suoi studi nella Facoltà di Filosofia dell’Università di Budapest, studiò filologia tedesca e francese, fece amicizia con Karl Mannheim e successivamente con Georg Lukács. Ci è noto il “Circolo della domenica”, sorto nel 1916, tra i cui membri figuravano, oltre a Lukács, Bela Balázs, Karl Mannheim, Frederich Antal, Anna Lesznai[1], Arnold Hauser e altri. È anche conosciuta la “Scuola libera delle Scienze dello spirito”, che sorse da questo circolo e nella quale i membri del “Circolo della domenica” tenevano conferenze di elevato livello accademico, malgrado fosse aperta a tutti. Durante il regime di Horthy la maggioranza dei partecipanti del circolo emigrò: lo stesso Hauser da mezzo secolo sta vivendo all’estero. Lì ha scritto, tra le altre cose, la sua opera principale, la Storia sociale della letteratura e dell’arte, pubblicata recentemente in ungherese. Questo avvenimento ci ha dato l’opportunità di invitare il professore Hauser a partecipare a questa conversazione. Per questo motivo si trovano invitati negli studi di Budapest gli accademici Georg Lukács e Julius Ortutay, il sociologo Tibor Huszár e l’editrice dell’opera di Hauser, Beatrix Kézdy.

In considerazione dell’antica amicizia esistente tra i due saggi chiediamo a Georg Lukács che lo saluti. Continua a leggere

L’ultima intervista

di György Lukács

Intervista registrata il 16 aprile 1971, in una località non distante da Budapest. Tale intervista fu pubblicata per la prima volta in francese, in versione ridotta, da Yvon Bourdet nella rivista L’Homme et la société, n. 20, 1971, pp. 3-12.

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.


Bourdet – La ringrazio di cuore per aver accettato di parlare con me in francese.

Lukács – Deve sapere però che parlo francese molto male, con accento ungherese e una grammatica tedesca. (Lukács ride divertito)

Bourdet – Non è vero. Ho presente la sua intervista alla televisione francese e devo dire che lei si esprime benissimo.

I. Giudizi di Lukács sull’austromarxismo

 

Bourdet – Vorrei prima di tutto porle alcune domande sull’austromarxismo: quando lei andò a Vienna, dopo la prima guerra mondiale e dopo la sconfitta della Repubblica ungherese dei consigli, ha avuto rapporti con i socialisti austriaci?

Lukács – Sì. Sono stato in ottimi rapporti con Otto Bauer. Non bisogna tuttavia dimenticare la situazione di allora: eravamo dei fuoriusciti coi quali, voglio dire contro i quali, il regime poteva, in ogni momento, prendere delle misure anche illegali. Ognuno di noi aveva dovuto dare alla polizia la propria parola d’onore di non immischiarsi minimamente negli affari della politica interna austriaca. Nonostante ciò, come spesso avviene nei circoli dei fuoriusciti, ero stato incaricato, dal Partito comunista ungherese, di tenere certi rapporti, e in particolare il Partito mi aveva ordinato di prendere contatto con Otto Bauer ogni volta che uno di noi fosse, per esempio, minacciato di estradizione, e anche per discutere tutta una serie di altri problemi. Continua a leggere

Weber, Lukács e il marxismo “occidentale”

di Maurice Merleau-Ponty

da Lukács negli scritti di..., a c. di G. Oldrini, ISEDI, Mondadori, Milano 1979.


Maurice Merleau-Ponty (1908-1961), noto esponente dell’esistenzialismo francese di sinistra, ha insegnato filosofia alla Sorbona, all’École Normale e, dal 1952 in poi, al Collège de France. Tra le sue opere: La structure du comportement, Paris, 1942 (trad. it. Bompiani, Milano, 1963); Phénoménologie de la perception, Paris, 1945 (trad. it. Il Saggiatore, Milano, 1965); Humanisme et terreur. Essai sur le problème communiste, Paris, 1947 (trad. it. Sugar, Milano, 1965); Sens et non sens, Paris, 1948 (trad. it. Il Saggiatore, Milano, 1962); Les aventures de la dialectique, Paris, 1955 (trad. it. SugarCo, Milano, 1965); Signes, Paris, 1960 (trad. it. Il Saggiatore, Milano, 1967); Le visible et l’invisible, Paris, 1964 (trad. it. Bompiani, Milano, 1969).

Il saggio che segue è tratto, per stralci, dal cap. II delle già cit. Aventures de la dialectique, nella traduzione di Franca Madonia (Umanesimo e terrore e Le avventure della dialettica, con pref. di Andrea Bonomi, SugarCo, Milano, 1965, pp. 238-42, 248-56, 263-65). Continua a leggere

Sul problema del lavoro intellettuale

di György Lukács

[Zur Frage der Bildungsarbeit, 1921]

Scritti politici giovanili 1919-1928, Laterza, Bari 1972.


La questione di metodo e di principio dominerà presumibilmente le future discussioni sul problema culturale. Nelle tesi dei compagni ungheresi è stata proclamata la questione della preminenza della scienza sociale e storica sulle scienze naturali; esse hanno trovato il consenso del compagno Röbig (nel n. 6, II annata, della «Jugend-Internationale»), ma è probabile che incontreranno anche una grande resistenza. Quindi forse non sarà del tutto superfluo addentrarci con alcune brevi note sulla parte del problema che si riferisce al metodo1. Continua a leggere

Arte contro religione

di Nicola Abbagnano

«La Stampa» 3 febbraio 1971

L’Estetica di Lukács

A chi abbia anche una scarsa familiarità con l’arte contemporanea può apparire sorprendente la definizione che György Lukács dà dell’arte nella sua Estetica (1600 pagine ora tradotte presso l’Editore Einaudi: il solo primo volume dell’opera che dovrebbe comprenderne altri due): l’arte è il rispecchiamento della realtà. Coloro che visitino qualche galleria o mostra d’arte contemporanea o siano appena al corrente della varietà di indirizzi, di stili e di gusti che sono proposti, difesi e illustrati da artisti e da critici, si rendono subito conto che «il rispecchiamento della realtà» è ciò di cui l’arte contemporanea si preoccupa meno, anche quando non lo rifiuta esplicitamente o non lo disprezza come una degradazione dell’arte. E, d’altronde, non è quello un altro nome dell’imitazione (o mimési) che già Platone e Aristotele consideravano come la sola funzione dell’arte e che l’estetica moderna, da Vico in poi, ha combattuta e respinta?

Lukács ritiene che non solo l’arte, ma tutta la vita umana, in tutti i suoi aspetti, non fa che rispecchiare la realtà. Solo questa tesi, egli dice, consente di respingere definitivamente l’idealismo, che considera la realtà come la creazione della coscienza. E solo il rifiuto dell’idealismo consente di negare alla realtà il carattere sovratemporale o atemporale, cioè «eterno», e di considerarla come mutamento e divenire, cioè come storia. L’intera opera di Lukács è stata e rimane diretta soprattutto alla difesa dello storicismo; cioè di una concezione che vede nel mondo una realtà che si sviluppa e diviene con un ritmo razionale o dialettico e che perciò coincide con lo sviluppo e il divenire della Ragione. Non per nulla egli è stato frequentemente accusato di idealismo da parte dei suoi critici marxisti e non marxisti, nonostante le sue pretese di essere un materialista seguace di Marx e Lenin. Ma, dal suo punto di vista, l’arte non è rispecchiamento nel senso di essere la copia fotografica della realtà. La realtà è in continuo mutamento per opera del lavoro umano, e della scienza che ne continua e rafforza l’azione. L’arte rispecchia a ogni istante questo mutamento, lo simboleggia, quale esso è qui e ora, e ne coglie la radice profonda che sta nella stessa umanità dell’uomo. Quando Lukács dice che l’arte rispecchia la realtà, intende per «realtà» il rapporto indissolubile uomo-mondo. Questo rapporto è mediato dal lavoro. Una cosa naturale diventa un oggetto solo in quanto diventa oggetto di lavoro o mezzo di lavoro, sicché solo con il lavoro nasce un autentico rapporto tra l’uomo e il mondo. Lukács su questo punto non vede alcuna differenza tra Hegel e Marx: afferma che «solo la teoria hegeliano-marxiana dell’autocreazione dell’uomo attraverso il proprio lavoro» ha messo in luce il principio che (secondo le parole di Gordon Childe) «l’uomo crea se stesso». Il rispecchiamento dell’arte è allora il rispecchiamento di questa autocreazione: e cioè la via, sia pure obliqua, approssimativa e imperfetta, attraverso la quale l’umanità giunge alla propria autocoscienza. Anche quando l’arte rappresenta, o si propone di rappresentare, cose o eventi del mondo naturale, pretendendo di esserne la semplice copia fotografica, essa include nel suo prodotto (sia esso romanzo, poesia o raffigurazione) un rapporto inscindibile della cosa o dell’evento con l’umanità e precisamente con quel momento della storia di essa, cui l’artista appartiene. «L’oggetto di questo rispecchiamento — scrive Lukács — deve apparire non soltanto come è in sé, ma anche come momento dell’interazione tra società e natura, tra le sue cause e le conseguenze nella società. Nella posizione degli oggetti, comprende quindi anche il rapporto umano, la reazione umana agli oggetti stessi». Non è indispensabile che l’artista abbia consapevolezza di questo rapporto, che è l’oggetto autentico della sua arte, giacché anche se lo nega, esso è presente a lui come uomo che vive tra gli altri uomini e nel mondo. Ma se tutta la vita è un rispecchiamento della realtà, in che modo l’arte si distingue dalle altre forme dell’attività umana, e per esempio dalla scienza? Fin dai suoi primordi nel mondo greco, la scienza ha cercato di «disantropomorfizzare» il mondo, cioè di interpretarlo prescindendo da ogni carattere o attività umana. Questa disantropomorfizzazione conferisce alla conoscenza scientifica la sua validità oggettiva e ne fa uno strumento indispensabile per l’esistenza umana nel mondo: ma essa accentua pure il distacco, anzi la frattura, tra il rispecchiamento scientifico e il rispecchiamento estetico. La scienza vede nella natura un oggetto completamente indipendente e staccato dall’uomo; l’arte vede nella natura un oggetto che è in rapporto essenziale con l’uomo: un rapporto sociale, perché mediato dal lavoro e dalle relazioni tra gli uomini che il lavoro comporta. Perciò l’oggetto, di cui si occupa l’arte, non è la natura nella sua universalità né l’individuo nella sua particolarità: e piuttosto un tipo nel quale il rapporto uomo-natura si specifica in un dato momento della storia. Ma, dall’altro lato, l’arte si allea alla scienza contro la religione in quanto entrambe tendono ad eliminare dal mondo il soprannaturale, l’eterno, il trascendente. La scienza e l’arte, secondo Lukács, sono gli organi creati dall’umanità per se stessa, per conquistarsi la realtà, per sottometterla, per trasformarla in un possesso durevole e sempre disponibile del genere umano. Ma la scienza può procedere su questa via solo fino ad un certo punto: si rifiuta di dare una «visione del mondo», si avvale soprattutto di astratti strumenti o di modelli matematici, e così lascia ancora libero il campo al bisogno religioso. Solo l’arte può liberare definitivamente l’uomo da tale bisogno e realizzare la catarsi definitiva. Solo la catarsi estetica rivelerà all’uomo la sua vera essenza, tacendogli vedere che la storia è latta da lui stesso, e non da una forza trascendente, e dandogli l’autocoscienza che gli permette di viverla e di parteciparvi in quanto lotta di forze e debolezze umane, di virtù e di vizi umani.

Lukács identifica perciò l’avvenire socialista della società umana con il trionfo dell’arte. Solo l’arte porta l’uomo alla coscienza dei suoi rapporti con gli altri uomini, gli fa scorgere la propria essenza e gli consente di rispondere al vecchio imperativo del «conosci te stesso». Ma «conoscere se stesso» significa per l’uomo riconoscersi come l’unico Soggetto della storia, come vera e sola divinità che domina e dirige lo sviluppo progressivo della società umana. Come autocoscienza dell’umanità, l’arte non solo tende a eliminare il bisogno religioso che fa appello a una Realtà trascendente, sia pure indefinita o indefinibile, ma anche limita e subordina a sé le altre attività umane, il lavoro e la scienza. E perché non l’economia e la politica? Questa estetica di Lukács non è un’analisi dei fenomeni artistici ma un sistema di filosofia che, sulla scia del romanticismo del secolo scorso, scorge nell’arte il solo strumento adeguato per la conoscenza dell’Assoluto. Le strutture economiche e sociali, per quanto episodicamente richiamate da Lukács, perdono ogni importanza in questo contesto. Sembra che tutte le speranze dell’uomo, per uscire dalle strettoie in cui oggi si trova e dai conflitti che lo tormentano, devono appuntarsi sull’arte. Ma questa esaltazione dell’arte, questa specie di delirio idealistico, non è una fuga dalla realtà più che esserne il rispecchiamento?

Marxismo e romanzo storico

di Guido Piovene

«La Stampa» 30 giugno 1965

La più importante opera critica di Giorgio Lukács Marxismo e romanzo storico

Per il filosofo, il romanzo vivo e classico è sempre “storico”: rievocando il passato (Manzoni) o rappresentando il presente (Balzac), fa della società la vera protagonista – Mancando questa coscienza, decade: da Dostoevskij a Kafka, il giudizio di Lukács è negativo

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Pubblicato e discusso nell’Unione Sovietica, dove il famoso pensatore ungherese risiedeva a quel tempo, pochi anni prima della guerra, Il romanzo storico di Giorgio Lukács è uscito ora presso Einaudi. Nella sua bella introduzione, Cesare Cases lo definisce «il libro più fuso e articolato che il Lukács critico e storico letterario abbia scritto»; ma ammette che il nostro interesse nel leggere qualche parte del libro è più storico che attuale; ci troviamo di fronte al monumento critico di un periodo «ormai concluso». Il marxismo di Lukács, ricordiamo qui di passaggio, suscitò controversie e riprovazioni settarie. Lukács fu imprigionato, poi liberato, dopo la rivolta di Budapest. Nel complesso Lukács ci ha dato l’espressione più vera e più completa della critica marxista di quel periodo, giacché non possiamo chiamare vera la critica di quelli che toglievano all’arte qualsiasi autonomia per farne un semplice strumento del potere politico. Il concetto su cui Lukács impernia il suo discorso è l’eccellenza, il valore esemplare del romanzo «classico» e, a contrasto, l’inferiorità di tutto quello che rientra nella categoria molto vasta del «decadente». L’apertura, o chiusura, all’ispirazione storica di chi scrive romanzi costituisce il criterio discriminante. Il titolo, Il romanzo storico, non deve indurre a credere che vi siano per Lukács altri generi di romanzi di pari dignità. Il romanzo che ammira e accetta è sempre storico, rappresenti la storia passata (Walter Scott, Manzoni, tenuto molto in alto), o «il presente come storia» (Balzac, Stendhal). Il romanzo, nel periodo d’oro, è stato l’epopea della società borghese ancora progressiva, e potrà esserlo domani di quella socialista, purché vi ritrovi lo stesso grado di libertà nel descrivere, senza sovrapporvisi arbitrariamente, tutte le varietà e i conflitti d’una società reale. I più grandi romanzi sono nati dall’affermarsi della «consapevolezza storicistica»; o il romanziere sente, rappresenta dal vivo, il moto e il dramma della storia, ed è realista e progressivo; o, se prende altra strada, esce dalla realtà, cade nel falso, fa opera reazionaria. La «consapevolezza storicistica», e il romanzo storico che ne deriva, hanno il loro grande prologo nella rivoluzione francese. Si apre il periodo d’oro del romanzo storico, anzi del romanzo tout court, che si chiude approssimativamente con la reazione successiva ai moti del 1848. Il romanzo storico sostituisce l’antica epopea perché la psicologia degli uomini, «le circostanze economico-morali della loro vita», si sono così complicate da rendere necessaria una descrizione vasta e differenziata. L’arte del grande romanziere come Balzac, che per Lukács costituisce il vertice, sta nell’essere dentro «la varietà e molteplicità d’aspetti della vita di un popolo», nel subbuglio delle «aspirazioni e tendenze individuali», ma di vederle miste al «contenuto sociale dei conflitti», da cui non si possono scindere. «Gli elementi complessi e capillari di tutta la società dell’epoca trovano il loro giusto posto nel quadro»; «lo sviluppo delle circostanze oggettive» emerge dal «graduale manifestarsi dei caratteri individuali che ne scaturiscono». Ma il grande romanziere, realista e non naturalista, non copia la realtà; la concentra nelle sue invenzioni, la esprime in individui tipici. Le grandi personalità della storia sono rappresentate nella loro giusta luce se il romanziere fa sentire com’esse sorgano dalle oscure correnti del popolo, a cui danno voce; sono, nel tempo stesso, dominatrici ed accessorie. La società coi suoi conflitti è la vera protagonista. Il secondo periodo, quasi del tutto negativo, si estende dalla reazione borghese dopo il 1848, che separa borghesia e popolo come «due nazioni diverse», alla soglia dei nostri giorni. Il senso della storia decade e si corrompe. Il romanzo la elimina, o la conserva come ambiente ornamentale-esotico di psicologie private, di destini personali chiusi. Nel soffio di tendenze destoricizzanti, metafisiche, mistiche, la storia d messa in causa solo per tradire se stessa. Un esempio cospicuo della «disumanizzazione» o «privatizzazione» della storia in un grande artista è Salammbô di Flaubert; l’immenso e indifferente scenario di Cartagine, in cui si accumula l’atroce, l’inumano, lo strano, l’anormale, il mostruoso, è costruito solo per fare da sfondo alle agitazioni isteriche della protagonista e per fuggire come in sogno l’odioso presente. Il popolo non è più fatto d’individui diversi e veri ma diventa una massa amorfa. Esistono gli scrittori dalla parte del popolo (Zola). Ma, costretti a rappresentarlo diviso dall’insieme della società, ne danno un’immagine falsa, astratta, generica, e cadono negli stessi vizi del romanzo borghese a cui vogliono contrapporsi. Vi è poi il terzo periodo, quello più vicino a noi. Anche tra i migliori, che aspirano a ritrovare il contatto col popolo, il rapporto tra idea e rappresentazione è «troppo diretto, troppo intellettualistico, troppo generale». Necessario, secondo Lukács, «il superamento della funesta eredità dell’evoluzione ideologica tardo-capitalistica», la sua «liquidazione artistica», il ricollegamento al romanzo storico classico della borghesia progressiva, (Balzac, Tolstoj, ecc.), ideologico senza forzature, solo perché sentiva la realtà dal suo interno. Il marxismo deve spiegare che l’intermezzo decadente ha dato opere senza verità, inadeguate anche artisticamente, anche quando si devono ad artisti con grandi doti. È una conclusione che certo non ci può rendere contenti. La visione di Lukács, conservando la propria forza, rivela oggi tutto quanto v’è in essa di antistorico e d’irreale. Tolstoj è glorificato; Dostoevskij, proprio in un libro imperniato sul grande romanzo dell’Ottocento, è taciuto. Negato ogni valore all’eccentrico, al soggettivo, e naturalmente al perverso. Il repertorio dei salvati e quello dei respinti, la graduatoria dei valori, non sono ammissibili. Si dà un peso eccessivo ad Anatole France, a Romain Rolland romanziere, a Gorkij («il più grande scrittore del nostro tempo»); Joyce e Musil sono citati di passaggio e soltanto a titolo di biasimo, e di Proust e di Kafka nemmeno e fatto il nome. Al loro posto compaiono nella scena scrittori comprimari o anche dimenticati. Anche nel mondo socialista ogni sforzo intellettuale autentico è volto a demolire questo genere di restrizioni. La realtà ha un numero troppo grande di stanze perché si possa aprirle tutte con una chiave sola, come in quel periodo s’illusero anche critici e storici dell’altezza di Lukács. Con i suoi criteri parziali, egli ne apre una parte; penetra a fondo nel romanzo, che gli è congeniale, della prima metà del secolo XIX; scrive pagine geniali e fertili su quel romanzo, sui rapporti tra romanzo e dramma, e su altri argomenti che qui dobbiamo sorvolare. Ma altri reparti gli rimangono chiusi. La stessa critica marxista successiva (vedi Edwin Perry Burgun) investe la letteratura forse con meno impeto e calore ideologico, ma anche con maggiore ricchezza di strumenti, il che la rende più prudente nell’eliminare i maestri. E rimane il fatto che i versi di Baudelaire citati da Lukács («Emporte-moi, wagon! enlève-moi, frégate!», con quel che segue) malgrado la «infinita e disperata, delusione» che esprimono, la loro ispirazione antistorica, bastano da soli a seppellire le buone intenzioni di cento romanzieri «storici» secondari.

La comprensione estetica del mondo

«Se oggi èico (1) possibile una cultura, potrà trattarsi soltanto di una cultura estetica». Così scriveva Lukács nel 1910, in un momento cruciale della sua esperienza giovanile.
Tra il declino dell’universo mitteleuropeo e il sorgere del ‘nuovo mondo’ annunciato dalla cultura dell’avanguardia; tra la fine del ‘mondo della sicurezza’ e la grande lacerazione della guerra; tra la fine dell’economia di mercato ed il sorgere della società dell’equivalenza; l’elaborazione intellet­tuale del giovane Lukács si muove tra queste coordinate storiche, ricavan­done un elemento formale paradossalmente comune ad esse, il privilegio assoluto dell’occhio estetico, preso a metro dell’esistenza e del mondo, proposto in alternativa alla crisi dell’ordine ideologico ottocentesco, indicato come prerogativa di una nuova soggettività.
Il giovane Lukács mostra di muoversi in una problematica comune, nei temi e in certe soluzioni, a quella espressionista, svolge una posizione di filosofia della storia incentrata sull’identificazione individuale con la totalità e sull’azzeramento del divenire temporale, e rivela un dualismo concettua­le di fondo, elaboratore delle grandi idee come delle più minute.

Lukács e Heidegger

goldicoLa filosofia tradizionale, della borghesia progressista e rivoluzionaria e della borghesia al potere, aveva separato radicalmente il soggetto e l’oggetto: da una parte l’uomo che conosce e agisce, lo scienziato, il politico, l’ingegnere, ecc. dall’altra il mondo naturale che essi dovevano comprendere e trasformare. Da questa prima divisione si sviluppa tutta una serie di dicotomie che costituiscono il tessuto ideologico della società borghese. Lukács e Heidegger rompono radicalmente con questa tradizione, con strumenti e esiti diversissimi. Il confronto critico che Goldmann propone, con quest’opera postuma (e non finita), apre una dialettica tra questi esiti, ripropone cioè dei problemi nei confronti di queste due prospettive filosofiche «classiche» che rischiano altrimenti di rimanere chiuse nella «storia della filosofia», o meglio nell’ideologia filosofica.