Bartók visto da Lukács

di Giampaolo SpinaLuigi Pestalozza

«Rinascita-Il contemporaneo», n. 43, 30 ottobre 1970


Caro direttore, bellissimo, forse, l’articolo di Giorgio Lukács sul Contemporaneo (Rinascita n. 37): ma è un articolo che si stenta a ritenere datato 1970. Potrebbe essere stato scritto vent’anni fa.

Come può stabilirsi la grandezza storica di un musicista senza entrare, sia pure con minima competenza, nel merito della sua musica? Può la valutazione sociologica di un prodotto dell’arte concepirsi ancora come compito di profani? Non può dirsi nemmeno che lo scritto di Lukács operi una «profanazione» dialettica della musica di Bartók: la scorciatoia sociologica che il grande e vecchio Lukács ci indica non è una falsa scorciatoia? Non conduce a un falso traguardo critico? La musica di Bartók non resta sempre oltre il termine di quel discorso? Sarei grato di una risposta di Pestalozza.

Cordiali saluti.

Gianpaolo Spina – Bologna

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Il retaggio di questa epoca

di György Lukács

da Problemi teorici del marxismo, «Critica marxista», 1976.

Il saggio di cui diamo qui la traduzione italiana non risulta sia stato mai pubblicato altrove. L’originale tedesco (20 cartelle dattiloscritte con correzioni di pugno dell’autore) è stato rintracciato fra le carte di Lukács dopo la sua morte e si trova ora registrato sotto la sigla LAK 11/94, nell’Archivio e Biblioteca Lukács dello Istituto di filosofia dell’Accademia ungherese delle scienze. La stesura del saggio viene fatta risalire ad un periodo che intercorre fra il 1935 ed il 1938. È da supporre, comunque, che sia stato scritto dopo il VII Congresso dell’Internazionale comunista, in un’atmosfera politico-culturale che sollevava, fra l’altro, il problema del rapporto fra il movimento operaio e la cultura borghese. Il significato di questo scritto va dunque oltre la semplice presa di posizione critica verso un libro e un autore, pur importante come Ernst Bloch. Per una breve presentazione critica del testo vedi F. Görgényi, «E. Bloch e i limiti del concetto di utopia», in Világosság, 1975, n. 8-9, pp. 524-525. Ringraziamo András Knopp e i dirigenti dell’Archivio Lukács per averci permesso di pubblicare questo saggio, (n.d.r.).

***

Ernst Bloch, l’autore del libro Erbschaft dieser Zeit (Il retaggio di questa epoca) (Oprecht e Helbing, Zurigo, 1935) che ci accingiamo a recensire, è una delle personalità più interessanti della letteratura teorica tedesca contemporanea. Il suo periodo giovanile cade nell’ultimo decennio antecedente la guerra mondiale, quando nella filosofia tedesca era generale l’aspirazione alla «Weltanschauung», quando procedeva vigorosamente il superamento del neokantismo. (Il primo scritto di Bloch, la sua tesi di laurea, è una critica a Rickert).

La tendenza di fondo di quel processo fu imperialistico-reazionaria. Spengler e Klages, Leopold Ziegler e il conte Keyserling sono i personaggi filosofici, ora celebri, che questo movimento ha prodotto. Bloch, il quale condivideva con i suoi contemporanei molte premesse gnoseologiche, se ne distinse fin dal principio su un punto estremamente importante. Il suo tendere all’idealismo oggettivo, quantunque assai di frequente si convertisse anche in lui in aperto misticismo, non aveva mai un intendimento apologetico. Nei confronti della propria epoca aveva un atteggiamento di opposizione, pur se ancora abbastanza confuso. La guerra imperialistica, poi, e il processo che porta alla guerra sono andati sempre più rafforzando questo atteggiamento di opposizione, hanno spinto Bloch sempre più a sinistra.

Già i saggi da cui nasce il suo primo libro, Geist der Utopie (Spirito di utopia), sono diretti contro la Germania della guerra mondiale. Vero è che Bloch allora criticava la guerra imperialistica della Germania dal punto di vista di un pacifismo largamente mistico, orientato in senso democratico-occidentale. Il secondo libro, Thomas Münzer als Theologe der Revolution (Thomas Münzer teologo della rivoluzione), contiene però ormai un’adesione alla rivoluzione, alla «figura liebknechtiana» di Münzer. Anche questo libro opera con un concetto idealistico-mistico della rivoluzione. Bloch crede che la dottrina economica del marxismo debba essere «approfondita» enucleando gli «eterni» momenti della ribellione umana contro lo sfruttamento e l’oppressione. Il suo Thomas Münzer, perciò, non è un personaggio storico, quale fu descritto da Engels. Al contrario, proprio per la sua «teologia» egli dev’essere indicato a modello delle lotte odierne: l’attuale lotta di liberazione del proletariato, secondo Bloch, dovrebbe pervenire all’altezza e profondità münzeriane del «pensiero utopico», per conseguire un potere realmente vittorioso.

In tal modo Bloch assume nella letteratura teorica tedesca una originale posizione di outsider. Egli combatte da anni lo svolgimento filosofico reazionario della Germania, ma lo combatte a partire da premesse filosofiche che hanno moltissimo in comune con gli orientamenti contro cui muove. Cosicché è finito in una posizione intermedia, abbastanza isolata, fra i due campi avversi.

Ma proprio questa discordia del suo atteggiamento di fondo, non superata dalla sua evoluzione verso sinistra, gli garantisce un’influenza ideologica nell’emigrazione antifascista. Infatti la discordia di fondo della posizione di Bloch è tipica di tutta una corrente nel campo dell’antifascismo borghese di sinistra. Il processo di fascistizzazione della Germania e in particolare la presa del potere da parte di Hitler hanno fatto non solo di Bloch, ma anche di molti altri scrittori borghesi di sinistra degli accaniti nemici del fascismo. Tuttavia questa evoluzione politica verso sinistra in molti di essi non è andata di pari passo con una revisione della base filosofica su cui poggia la loro attuale concezione del mondo, con una critica dell’idealismo e specialmente delle sue specifiche forme di manifestazione imperialistiche. Anche l’avvicinamento al marxismo da parte di Bloch, che ha proceduto molto più avanti rispetto alla gran maggioranza degli antifascisti borghesi di sinistra, non contiene nessuna critica dell’idealismo. Ma appunto per questo egli diviene una presenza affascinante per una grande parte di questa emigrazione. Per costoro Bloch diviene un’incarnazione del «marxismo» ad essi più agevolmente accessibile, più congeniale alla fase di sviluppo ideologico in cui si trovano. Come tale, come marxista e rivoluzionario che, però, possiede la giusta sensibilità per tutte le finezze della coltura, lo celebra Klaus Mann sulla rivista di Amsterdam Die Sammlung, parlando del suo nuovo libro come di «un ardito inventario del nostro patrimonio spirituale»; e altrettanto fa F. Burschell sulla Neue Weltbühne.

Bloch è sul piano politico notevolmente più a sinistra di quegli intellettuali che egli influenza sul piano spirituale. Egli non soltanto è un risoluto antifascista, ma è in più un avversario convinto del sistema capitalistico. Per lui non vi sono dubbi che solamente il proletariato rivoluzionario è la potenza in grado di abbattere Hitler e che il socialismo subentrerà al fascismo.

Quando, dunque, Bloch pone al centro del suo libro la questione del retaggio, egli lo fa a partire da tali convinzioni storico-politiche. Il problema centrale di questo libro, da cui scaturisce poi quello del retaggio, concerne gli alleati della rivoluzione proletaria, la conquista dei piccoli borghesi urbani e dei contadini alla rivoluzione socialista. Già l’aver posto energicamente tale questione onora il pensatore e combattente Bloch. Già questo atto mostra che egli, dopo i suoi primi libri, si è decisamente mosso verso sinistra.

Per rispondere a tale questione Bloch intende scegliere come filo conduttore il marxismo. Il lettore marxista, tuttavia, è subito colpito dal fatto che egli non collega la conquista degli alleati con quella della maggioranza della classe operaia alla rivoluzione proletaria sotto la guida del partito comunista, ma pone invece la prima del tutto indipendentemente dalla seconda. Questa debolezza di metodo, che qui appare in piena luce, nasce da una concezione volgarizzata e stravolta dell’economia marxista, che ha legami assai profondi con l’atteggiamento fondamentale, filosofico-idealistico, di Bloch. La conseguenza è che, laddove il marxismo vede problemi dell’essere materiale, Bloch è capace di osservare soltanto problemi meramente ideologici. A dispetto di questa debolezza fondamentale della sua posizione, su cui torneremo diffusamente, Bloch pone il problema del retaggio con chiarezza e nei suoi termini di principio. Egli guarda al tramonto del capitalismo e insieme a quello della cultura del capitalismo, quindi domanda: che cosa prenderà il proletariato, il costruttore del nuovo mondo, del socialismo, da questo mondo tramontante? Che cosa vi è che valga la pena di prendere? Che cosa diverrà parte integrante della nuova cultura? E considera l’entrare in possesso di questa eredità come una lotta ideologica. Solo più avanti ci fermeremo a criticare il metodo e il contenuto della sua teoria del retaggio. Qui dobbiamo anzitutto sottolineare il merito di Bloch per aver comunque posto la questione nei suoi termini di principio.

«La sassaia aurifera» – Anche nella concretizzazione dei suoi problemi Bloch parte da una piattaforma nettamente antifascista. Per lui, correttamente, il carattere del Terzo Reich è di essere una dittatura aperta e infame del capitale monopolistico. E da questa visione corretta sorgono per lui gli ulteriori problemi. Dopo aver riscontrato una «spinta» anticapitalistica anche fuori del proletariato, il suo sforzo onestamente rivoluzionario e antifascista è diretto a incanalare questa «spinta» anticapitalistica nella corrente della rivoluzione proletaria. Si tratta dunque di lottare per le vittime della propaganda demagogica del fascismo.

Si comprende allora come Bloch parta dalla ideologia di queste vittime traviate. Rincresce però che rimanga fermo all’ideologia. Tanto più rincresce, in quanto non si tratta di uno sbaglio casuale, ma invece della conseguenza necessaria dell’attuale metodo di Bloch. Abbiamo già indicato quale sia il suo rapporto con l’economia politica marxista. La concezione ristretta ed errata dell’economia politica marxista è tanto più pericolosa per Bloch in quanto vi è in essa qualcosa che si avvicina molto alla ideologia dell’anticapitalismo romantico, nella forma oggi assai diffusa. I piccoli borghesi, tormentati dai colpi di una terribile crisi economica, nella loro disperata impotenza vanno sognando di un assetto «senza economia»; molti credono che l’«economia» da cui vengono torturati sia una maligna invenzione di ebrei, liberali e marxisti, ma che per l’appunto debba essere, allora, qualcosa che è possibile abolire. Ora, tentando di dare chiarezza rivoluzionaria alla nostalgia anticapitalistica presente in tali torbide ideologie, Bloch finisce in un vicolo cieco ideologico, giacché egli stesso subisce l’influsso di questa ideologia. Bloch disconosce il nesso fra l’esistenza dell’uomo e la produzione materiale. Perciò non sottolinea nel socialismo il superamento dell’«asservente subordinazione» dell’uomo alla divisione del lavoro, il superamento della divisione sociale del lavoro fra città e campagna, fra lavoro fisico e intellettuale, ma opera invece con un concetto astratto, borghese, dell’«economia», la quale nel socialismo dovrebbe degradare a un’importanza periferica.

In tal modo Bloch non coglie a fondo il complicato nesso dialettico fra la situazione sociale dei «ceti medi» e la loro ideologia romantico-anticapitalistica. In tal modo egli finisce invece per riallacciarsi a questa ultima acriticamente. È vero che tenta, e persino con passione, di darne una critica, ma questa critica, priva di base materiale, non ha alcuna possibilità di essere realmente dialettica. Il suo metodo si riduce, alla fin fine, a una contrapposizione fra i lati «buoni» e quelli «cattivi» di questa ideologia.

È, questo, in generale un tratto caratteristico della mera critica ideologica al fascismo, che non parte dall’analisi realmente concreta della base materiale. E.H. Gast, ad esempio, nella sua recensione del romanzo di Thomas Mann su Giacobbe contrappone il «giusto» e «superiore» mito di Thomas Mann al «falso» e «inferiore» mito dei fascisti, l’irrazionalismo «autentico» di Mann all’«inautentico» e «barbaro» irrazionalismo dei fascisti. (Die Sammlung, 1934, gennaio). Altrettanto fa il filosofo socialdemocratico Herbert Marcuse, il quale mette a contrasto l’«autentica filosofia della vita» di Dilthey e Nietzsche con la falsa filosofia della vita dei fascisti (Zeitschrift für Sozialforschung, III, 2). I punti di vista di Bloch sono molto più profondi che non quelli di Gast o di Marcuse. Costoro vogliono separare completamente il fascismo dal «normale» sviluppo ideologico della borghesia, mentre Bloch intende mettere in luce tanto le connessioni quanto le differenze. Cosicché egli vede quanto c’è di reazionario e controrivoluzionario anche nella fase prefascista dell’imperialismo e al fascismo contrappone non un capitalismo «normale», ma la rivoluzione proletaria. Tuttavia l’erroneità del metodo spinge Bloch molto lontano dall’obiettivo cui mira, la dialettica rivoluzionaria, e conduce anche lui a un eclettico da-un-lato/dall’altro.

Questo restare impaniato di Bloch nell’ideologia dell’anticapitalismo romantico produce in lui una concezione fondamentalmente falsa del marxismo e del retaggio marxista. Dice: «Quando il socialismo scientifico si trasferì in Francia e Inghilterra, nell’illuminismo francese e nell’economia politica inglese, quando il marxismo volgare ebbe dimenticato, qui le guerre dei contadini tedeschi, là il retaggio della filosofia tedesca: i nazisti dilagarono nelle regioni originariamente münzeriane, ora vuote…» (p. 96). È molto probabile che Bloch intenda qui polemizzare contro il revisionismo, contro la liquidazione della dialettica rivoluzionaria, contro il completo abbandono dei contadini, ecc. Nel suo discorso, tuttavia, questo rimprovero rivolto al marxismo volgare trapassa in un rimprovero al marxismo stesso per aver raccolto l’eredità di Smith e Ricardo e dello sviluppo materialistico da Bacone a Feuerbach. A causa di questa falsa concezione Bloch perde ogni possibilità di condurre un’analisi reale delle correnti ideologiche da lui indagate. Può analizzarle soltanto come ideologie e, come tali, può «approfondirle» filosoficamente. Così resta, però, sempre sul terreno delle ideologie che va criticando.

Questo metodo falso non può che produrre nel concreto contenuti falsi. Bloch vede chiaramente come l’ideologia dei piccoli borghesi e dei contadini stia in contraddizione con i loro interessi reali, che dovrebbero renderli alleati della rivoluzione proletaria. Egli vede che queste ideologie sono fuorvianti, che portano i piccoli borghesi e i contadini in un vicolo cieco, e cerca di mettere allo scoperto tali contraddizioni in modo tale da aiutare i traviati a trovare la retta via. A questo scopo costruisce una sua teoria delle «contraddizioni inattuali». Contraddizione «attuale» è per Bloch l’antagonismo fra borghesia e proletariato; e perciò è possibile esprimerlo adeguatamente nel linguaggio del marxismo. L’esistenza dei contadini è invece una contraddizione «inattuale»: questi vivono «fuori» dal mondo del capitalismo e delle sue odierne contraddizioni «attuali». Da questa situazione sorge da un lato la possibilità per i fascisti di conquistare i contadini e i piccoli borghesi con la loro scadente demagogia, dall’altro il compito per il marxismo di assumere nella propria dialettica i problemi specifici che ne risultano, di farsi realmente «totale», di elaborare dialetticamente la contraddizione «inattuale».

Riscontriamo qui tutto un groviglio di false affermazioni. Anzitutto la piccola borghesia urbana e particolarmente il ceto impiegatizio è, anche secondo quanto dice lo stesso Bloch, un prodotto del capitalismo, e perciò dovrebbe, anche secondo la sua teoria, per ragioni di coerenza, essere oggetto della contraddizione «attuale». Ma Bloch, che ha letto sia Marx sia Lenin, dovrebbe sapere e, se non fosse impegolato nei pregiudizi idealistici dell’anticapitalismo romantico, saprebbe che nonostante tutti i residui precapitalistici la specifica situazione odierna delle campagne è prodotto e risultato dello sviluppo capitalistico. Se avesse inteso l’economia marxista in tutta la sua reale estensione e profondità, avrebbe visto che dovunque egli pensa di dover applicare la sua nuova teoria della «contraddizione inattuale», la teoria di Marx e Lenin ha già messo in luce i problemi concreti dello sviluppo capitalistico e della strategia rivoluzionaria del proletariato.

Bloch non vede come ciò che egli definisce «passato inelaborato» sia di continuo riprodotto dal capitalismo. Proprio il fatto che il fascismo sugli istinti ribellistici dei piccoli borghesi e dei contadini innesti una ideologia che è il rinascimento di ogni arretratezza e barbarie dovrebbe ammonire un onesto e convinto antifascista come Bloch alla massima cautela proprio su questo punto. In quanto nemico della bugiarda ebrezza dei fascisti, dovrebbe contrapporre a questa il sobrio pathos della reale conoscenza rivoluzionaria.

Purtroppo, fa il contrario. Nel torbido miscuglio di queste ideologie egli pensa di trovare, con i mezzi della critica ideologica, un contenuto autentico, rivoluzionario, non ancora scoperto dal marxismo. Questo contenuto rivoluzionario sarebbe il fondamento della «contraddizione inattuale», sarebbe quella «irratio autentica» che Bloch contrappone all’irrazionalismo bugiardo delle ideologie imperialistiche e fasciste. Tale concezione è un’eredità del suo periodo precedente. Egli prende le mosse dalla giusta idea secondo cui la rivoluzione proletaria si fa erede di tutte le lotte di classe contro lo sfruttamento e l’oppressione. Tuttavia proprio nella mistica confusione dei vecchi moti insurrezionali egli vede un retaggio attuale ancora non utilizzato dal marxismo, un elemento di sviluppo del marxismo.

Sfugge a Bloch quale sia il modo in cui procede l’elaborazione critica del retaggio, il suo superamento, nel materialismo dialettico. Il problema del superamento è inteso da lui in maniera puramente idealistico-ideologica. Gli sfugge il processo reale della storia nel quale vengono superate realmente contraddizioni reali. Certo, né nella storia reale, nel suo adeguato rispecchiamento nel pensiero, il marxismo-leninismo, questo superamento si verifica in modo lineare e meccanico. Tutto il problema marx-leniniano della liquidazione ad opera della rivoluzione proletaria dei problemi della rivoluzione borghese rimasti insoluti (questione agraria, questione nazionale, ecc.) è un esempio di questa concreta ineguaglianza dello sviluppo. Mentre però i problemi reali della rivoluzione borghese rimasti insoluti vengono realmente superati (superati anche nel senso di conservati) nella strategia della rivoluzione proletaria, questa conservazione superante non riguarda invece le ideologie che li accompagnano. Infatti queste ultime sono inseparabilmente connesse con la situazione economica dei contadini e dei piccoli borghesi, che presenta elementi ambigui e perciò necessariamente reazionari. Tale connessione non può non farsi sentire anche nelle ideologie dei loro più significativi rappresentanti rivoluzionari del passato. Il marxismo-leninismo eredita le reali tradizioni rivoluzionarie di questi vecchi movimenti popolari, le porta a un livello superiore (ed è, questo, un altro importante momento del superamento che Bloch trascura del tutto), ma va totalmente oltre le vecchie forme delle loro ideologie. Bloch, per contro, vede proprio in tali ideologie il momento da conservare. «Mancando però alla propaganda marxista ogni contraltare al mito, ogni trasformazione degli inizi mitici in sogni reali, dionisiaci, in sogni rivoluzionari: per effetto del nazionalsocialismo diviene visibile anche un pezzo di colpa, quella cioè del troppo corrente marxismo volgare» (p. 55). Fin quando egli critica il «settarismo compiaciuto di sé» di molti marxisti prima dell’avvento al potere di Hitler, ha ragione. E tanto maggiore è il suo merito, in quanto egli si è pronunciato con il suo libro prima del VII Congresso internazionale. Fin quando polemizza contro il fatto che molti comunisti hanno misconosciuto che «il fascismo specula anche sui migliori sentimenti delle masse, sul loro senso di giustizia e talvolta persino sulle loro tradizioni rivoluzionarie» (Dimitrov), egli si trova ancora sulla strada giusta. Ma in Bloch, nel corso della battaglia in difesa della propria linea, vanno confondendosi i confini tra il marxismo volgare e il marxismo reale. L’avversario primo di questa sua teoria del retaggio rivoluzionario è infatti Friedrich Engels, il quale in una lettera definisce quella ideologia, di cui Bloch vuol sapere quale sia il contenuto aureo, semplicemente e ruvidamente come «stupidità». Engels così prosegue: «Il basso
livello dello sviluppo economico nel periodo preistorico ha come complemento, ma anche in parte come condizione, e persino come causa, le false rappresentazioni della natura» (Lettera a C. Schmidt del 27 ottobre 1890), e Bloch polemizza assai aspramente contro questa proposizione «troppo illuministica». Egli dice sintetizzando: «Inverosimile che la qualità di tutte le mitologie e occultismi – nel loro lato esorcizzante e dissolvente – sia stata esclusivamente di essere ipostatizzazioni di un’economia indecifrata e non anche un concorrere di una natura indecifrata, ancora indecifrata in se stessa» (p. 137). È chiara, qui, la concezione ristretta che Bloch ha della economia marxista, un aspetto per lui fatale. Giacché misconosce il nesso dialetticamente enunciato da Engels fra lo sviluppo storico dell’economia e quello della conoscenza della natura, le rappresentazioni che gli uomini si fanno della natura acquistano per lui una mistica oggettività apparente. Nella sua visione la natura, che esiste indipendentemente dalla coscienza umana, non viene conosciuta sempre più adeguatamente in concomitanza con il processo di produzione materiale, ma invece proprio le rappresentazioni dei primi e primissimi gradi della conoscenza umana della natura rimanderebbero a connessioni ormai divenute di nuovo irraggiungibili per i gradi superiori (capitalismo). L’idealismo di Bloch qui si tramuta direttamente in fatto reazionario; perfino nell’occultismo egli rintraccia elementi da ereditare, «un segmento di contenuti designati (solo designati) mitologicamente che sono, a dir poco, estranei al segmento meccanico, anzi in parte forse giacciono al di sotto di ogni orizzonte monoblocco» (p. 130).

Tali brani mostrano a sufficienza a quali pericolose conseguenze pervenga Bloch andando fino in fondo con il suo metodo errato. Il che tanto più rincresce in quanto nella sua analisi della cultura contemporanea è rilevabile non soltanto una tendenza antifascista, ma anche un sano istinto plebeo. Proprio a causa della sua ampia e profonda cultura Bloch è lontanissimo da una cieca sopravvalutazione della cultura e civiltà del periodo odierno. Egli si distingue notevolmente, a suo vantaggio, da quegli antifascisti borghesi che, pur combattendo l’ideologia del fascismo, cercano di salvare l’ideologia imperialistica. La condanna blochiana della cultura borghese risale molto addietro rispetto al periodo imperialistico e intende costituirsi come critica dell’ideologia dell’intera epoca della decadenza. Quantunque anche qui si introduca a disturbare il discorso l’anticapitalismo romantico, facendogli dirigere il fuoco principale dell’attacco contro il periodo liberale dello sviluppo borghese, senza una critica abbastanza netta delle controtendenze reazionarie. Il tentativo blochiano di scoprire un nuovo metodo di lotta contro la ideologia del fascismo deve quindi considerarsi fallito. È fatica vana cercare l’«oro» nella ideologia di contadini e piccoli borghesi arretrati. L’«oro» è contenuto per questi ceti negli istinti anticapitalistici che scaturiscono dalla loro condizione sociale scissa, dall’oppressione e lo sfruttamento che esercita su di loro il capitalismo monopolistico. Questo «oro» non è però rintracciabile per la via di Bloch, – tale via conduce soltanto a eternare la loro confusione ideologica, – ma invece su quella della teoria e prassi marxiste-leniniste (come assai persuasivamente mostrano l’andamento delle cose in Urss e gli effetti della tattica del Fronte popolare). Esse, chiarendo le loro esperienze, li aiutano a superare nella pratica, nella lotta per i loro interessi reali, la confusione ideologica.

Montaggio dialettico – Il secondo importante problema posto dal libro di Bloch è quello del retaggio dell’attuale cultura capitalistica. Tale questione è per noi assai interessante perché Bloch fornisce molto materiale concreto sul formalismo nell’arte e tratta di numerosissimi problemi che nell’odierna discussione contro il formalismo sono di grande peso.

Egli vede chiarissimamente lo stato di catastrofico dissolvimento in cui si trova l’attuale cultura capitalistica. «Insegnanti, artisti, scrittori non trovano più nessuna cultura sul terreno del capitale, ad eccezione di quella ironica o stravagante, una cultura che è mancanza di patria, che s’identifica con la mancanza d’oggetto stessa» (p. 305). E ancora più decisamente sulla collocazione dei poeti nell’epoca attuale: «Così, importanti poeti non trovano più nei materiali da impiegarsi subito, ma solo dopo averli spezzati. Il mondo imperante non diffonde più per loro uno splendore rappresentabile, che sia da affabulare, ma solo vuotezza, e dentro scarti mescolabili». Aggiunge poi, alludendo in specie a Joyce, che questa situazione si verifica «perché all’uomo manca qualcosa, la cosa più importante…» (pp. 189-190).

Tale corretto giudizio, confermato da un’ampia analisi dei più significativi scrittori, musicisti e filosofi contemporanei, induce Bloch a considerare il problema stilistico del montaggio come il punto centrale delle attività artistiche e filosofiche attuali. E ovviamente egli pone il problema del retaggio a partire di qui. La questione in sé è certamente legittima. Molto meno lo è la risposta di Bloch. Il quale infatti afferma: «Pure alcunché, come anzitutto il singolare “montaggio” tardoborghese, comporta senza dubbio più che il tramonto» (p. 13). Dobbiamo perciò anzitutto conoscere la concezione blochiana del montaggio. Il concetto di montaggio – e ciò è assai interessante – per Bloch ha una estensione enorme: «Esso va dai collages a Joyce, fino a Brecht e oltre»; persino la filosofia ha attualmente il montaggio come suo principio metodologico fondamentale.

La sua teoria del montaggio prende le mosse dalla concezione, cui abbiamo fatto cenno, del rapporto degli artisti e del loro pubblico con la realtà contemporanea. Il punto basilare è la perdita di connessione. Secondo Bloch il montaggio ha di positivo che non tenta di mascherare la perdita della connessione, come fa ancora la Nuova oggettività, ma invece parte apertamente e consapevolmente dalla sconnessione della realtà per gli intellettuali borghesi dei nostri giorni. «Le parti non concordano più luna con l’altra, sono divenute distaccabili, rimontabili… Nel montaggio tecnico e culturale tuttavia viene disvelata la connessione della superficie vecchia… il montaggio appare sul piano culturale come la forma più alta di intermittenza spettrale sopra la dispersione, anzi in dati casi come forma attuale di inebriamento e irrazionalità… esso non simula una qualche stabilità, con cui s’intenda rendere solido il davanti… Da ruderi che non trovano il coraggio di fosforeggiare, da parte del vecchio mondo che vengono di continuo mutate di funzione solo per usarle nel vecchio mondo» (pp. 162-164).

Il montaggio in tal modo viene fissato concettualmente come tipico prodotto decompositivo dell’ultimo sviluppo ideologico della borghesia. Anzi per Bloch proprio la coerenza con cui tiene fermo alla sconnessione della realtà apparente dà al montaggio preminenza e superiorità rispetto alla Nuova oggettività. «C’è qui un’interruzione e una nuova connessura in un senso che va molto oltre lo scambio di parti tecniche o addirittura il fotomontaggio, eppure questa forma obbedisce ancora come a una vera “opera frammentaria”… esso improvvisa con la connessione scoppiata, trasforma gli elementi divenuti puri, con cui la Oggettività forma rigide facciate, in tentazioni e tentativi entro uno spazio vuoto. Questo spazio vuoto è sorto appunto perché è franata la cultura borghese; e in esso gioca non solo la razionalizzazione di un’altra società, ma più visibilmente una nuova figurazione nascente dalle particole del retaggio culturale divenuto caotico» (p. 156).

Tuttavia, quanto è corretta la messa a nudo che Bloch fa dei fondamenti ideologici del montaggio, tanto sono errate le conseguenze che tira dalle proprie costatazioni. Ma queste conclusioni sbagliate non tolgono valore alla sua analisi. Proprio il nostro dibattito sul formalismo ha mostrato quanto siano pochi gli artisti e i critici in possesso di una certa chiarezza sui presupposti ideologici del formalismo. Ecco perché ha valore durevole la sottolineatura blochiana dell’importanza ideologica che spetta al riflesso del mondo lacerato nella sua connessione e, di conseguenza, alla fine dello «splendore estetico». Coloro i quali, criticando apparentemente il contenuto del formalismo, glorificano però la «maestria» dei suoi rappresentanti, potrebbero imparare dall’analisi di Bloch che il formalismo deve necessariamente distruggere tutti i presupposti di una reale maestria (senza virgolette). Vale a dire la raffigurazione del tipico, il suo sviluppo artistico-organico dalla raffigurazione dell’individuale. Purtroppo l’analisi di Bloch anche in questo ambito resta ferma al piano idealistico. Egli anche qui distingue semplicemente in maniera eclettica il «lato buono» del montaggio dal «lato cattivo» e non si accorge che, laddove l’assenza di connessione viene sostituita da una connessione astratta, questa può essere appunto solo una «sostituzione» e non un reale superamento. E proprio per questo non vede la profonda affinità artistica che intercorre fra il montaggio «marxista» e quello borghese. Il primo argomento apparentemente di gran peso addotto da Bloch a favore della sviluppabilità del montaggio per la cultura socialista è il suo criterio generale dell’eredità. Egli trae questo criterio dal proprio orientamento di opposizione al capitalismo imperialistico, ma lo trae ancora una volta in modo astratto e formale. «Questo è anche qui il criterio delle parti di eredità utilizzabili: esse nel tardocapitalismo, che le forma, non possono non essere tanto imperfette e impedite quanto sospette» (p. 167). Il montaggio è quindi sospetto per l’odierno capitalismo, il quale ne impedisce lo sviluppo. Questo argomento, però, cade quando si approfondisce l’analisi. È tipico, cioè, della cultura borghese nel suo periodo tardo il fatto che nuovi fenomeni artistici o filosofici vengano dapprima sbeffeggiati e derisi, per essere poi considerati, in base a una fortissima sopravvalutazione, parti integranti della cultura capitalistica. Abbiamo qui un caso – interessantissimo e nelle sue cause concrete certamente meritevole di studio – di sviluppo ineguale. Tuttavia da questo fatto in sé non consegue per nulla che tali fenomeni artistici «sospetti» o «impediti» abbiano un significato che realmente indichi il futuro. A nessun marxista verrà in mente di considerare come retaggio in tale senso il poeta Maeterlinck o il filosofo Nietzsche, quantunque essi al loro apparire siano stati respinti dalla borghesia come molto «sospetti». Né Bloch ha argomenti per dimostrare che la borghesia del capitalismo monopolistico abbia combattuto il montaggio nell’arte con maggior energia rispetto a un qualsiasi indirizzo borghese precedente. Al contrario, il corteo trionfale del montaggio è stato assai più rapido e meno impedito che non quello dei precedenti indirizzi artistici. Se poi Bloch vuol discutere il problema del «sospetto» come criterio di ereditabilità, dovrebbe fare attenzione a quanto chiaramente sospetto e odioso sia per la borghesia fascista e in via di fascistizzazione il vero realismo. Naturalmente la borghesia reazionaria protesterà sempre quando un artista userà il metodo del montaggio per esprimere con esso contenuti scomodi o pericolosi. In tal caso, però, è «sospetto» il contenuto e non il metodo. Cosicché Bloch dovrebbe indagare nel concreto rispettivamente che cosa tale contenuto significhi sul piano di classe e artistico, e che cosa la forma espressiva del montaggio abbia da dire a questo contenuto. Ma per Bloch la questione sembra risolta a priori. E in un senso positivo per il montaggio. La sua prova a favore è null’altro che la prassi letteraria di Bert Brecht e quella «filosofica», fondata sul montaggio, di Walter Benjamin. Il secondo esempio è impossibile prenderlo sul serio. Il caso Brecht richiederebbe un’indagine molto accurata. Bloch invece non comincia neppure l’indagine: è tanto profondamente persuaso del puro carattere socialista dei contenuti di Brecht che ne difende persino gli «spregiudicati usi di modelli neomachisti». E quanto al carattere socialrealistico del montaggio brechtiano, non va più in là di una nuda asserzione.

Dietro tali argomenti formalistici e dogmatici c’è ancora una volta la blochiana teoria generale del salvataggio della «irratio autentica». Questa teoria è però ancora più storta e fragile qui, se possibile, di quanto non fosse quand’era applicata alle tradizioni ribellistiche dei piccoli borghesi e dei contadini. Bloch parla del montaggio come della forma «dell’inebriamento e della irrazionalità attuali». Ora, noi abbiamo già discusso la teoria blochiana delle contraddizioni «attuali» e «inattuali», concludendo che è insostenibile. Ma anche secondo l’ottica di questa teoria risulta incoerente attribuire un valore alla «irrazionalità attuale» (grande-borghese). Bloch stesso, infatti, nella prima parte della sua critica ha propugnato la teoria secondo cui questo residuo irrazionale, non-superato e valido, si riferisce soltanto a classi la cui esistenza, a suo giudizio, non è legata al capitalismo, alla lotta di classe fra borghesia e proletariato. Se dunque, come dice la teoria blochiana, la «irratio autentica» discende dalla «inattualità», con quale legittimità egli d’un tratto considera la «irrazionalità attuale» come valore e non come prodotto di decadenza all’interno della assai «attuale» grande borghesia? Quantunque, perciò, la sua teoria debba essere rifiutata come teoria anche in questa sua applicazione, nondimeno tale rifiuto non ci impedisce di riconoscere il valore del molto e ricchissimo lavoro compiuto da Bloch. Egli critica la letteratura, la musica e la filosofia moderne sulla base di una loro conoscenza intima e profonda, e spesso le critica con acutezza distruttiva e spirito abbagliante.

Bloch mostra come, nell’espressionismo, sia nata la forma del montaggio. Un ulteriore sviluppo verso la disintegrazione della forma si ha nel surrealismo. Quindi abbiamo la descrizione estremamente efficace del modo in cui il montaggio surrealistico si presenta in Joyce, che egli giustamente considera, accanto a Green e Proust, come punto culminante di queste tendenze. Sul linguaggio di Joyce dice: «Una bocca senza io è qui all’interno del meccanismo in scorrimento, li in mezzo lo beve, lo balbetta, lo fa sfogare. Il linguaggio si adegua pienamente a questa disintegrazione, è non finito e già formato, perfettamente regolare, ma aperto e confuso. Ciò che vedi nei periodi di stanchezza, nelle pause fra i discorsi o quando uno è sognante o anche distratto, parla, s’ingarbuglia, fa giochi di parole: qui tutto è fuor di misura. Le parole sono divenute disoccupate, licenziate dal loro rapporto di senso, ora il linguaggio va come un verme tagliuzzato, ora si condensa come in un cartone animato, ora sta sospeso e si ficca nell’azione come un soffitto teatrale» (p. 184). Ecco un’eccellente descrizione del linguaggio joyceano, forse la migliore dataci finora. Ma al contempo essa è, proprio per la sua penetranza descrittiva, la critica più distruttiva che sia finora stata scritta sul linguaggio di Joyce. Tale giudizio annientante, infatti, questa volta non è «montato» in un’analisi, ma è contenuto organicamente nella descrizione stessa. Altrettanto interessante, ma anche molto più consapevolmente critica, è l’analisi che Bloch conduce del musicista Stravinskij. Bloch inizia questa analisi con immagini del tutto caratteristiche: «Su una cosa cava si può fischiare bene. Così appunto fa Stravinskij con se stesso e le sue cose. Ha già sperimentato molto. Il vuoto rimbomba su se stesso seducente, si veste anche, indossa roba vecchia, diviene come una maschera e risuona in quella guisa». E dopo questa introduzione ci dà un contributo assai interessante sul nesso fra l’Edipo di Stravinskij e la stabilizzazione relativa. «La musica qui approva… il nastro scorrevole della necessità, nobilita il lavoro a catena senza pause, il destino senza luce… Questa rigidità è il tributo del successivo Stravinskij alla reazione parigina, anzi, alla stabilizzazione capitalistica del mondo, da cui discende anche quel che viene definito l’“oggettivismo” di questa musica». È ancora una volta una strana ironia che proprio qui, dopo questa analisi distruttiva dell’apologetica capitalistica nella musica di Stravinskij, proprio su costui egli applichi il suo criterio del retaggio autentico. Quanto nel caso concreto sia privo di valore il suo criterio, è dimostrato appunto dalla descrizione riassuntiva dell’effetto provocato da Stravinskij: «Sebbene alla Nuova oggettività abbia aggiunto la musica-macchina, insomma l’inumanità musicale, Stravinskij appare alla borghesia non meno sospetto che up to date; il “fascista” fa l’effetto di un “bolscevico della cultura”» (pp. 173-177).

Le medesime contraddizioni fra splendide descrizioni e analisi, da un lato, e false conclusioni, dall’altro, le ritroviamo quando Bloch si occupa della filosofia contemporanea. Vero è che di fronte a determinati fenomeni assume un atteggiamento inequivoco di rifiuto e che spesso conforta tale rifiuto con azzeccatissime irrisioni. Così definisce Klages un «deciso filosofo da fine-settimana»; sulla filosofia di questi dice in modo liquidatorio: «Un fiume cosmico deposita sulle rive frutti di letture» (p. 243). Con altrettanta pertinenza e arguzia a proposito di Spengler: «Lo storico Spengler è, non un profeta rivolto indietro, ma un antiquario rivolto in avanti» (p. 234). Tuttavia è nel medesimo tempo molto caratteristico che Bloch sia in Klages sia in Spengler critichi non le basi gnoseologiche, l’agnosticismo e la mistica, ma soltanto le conseguenze grottesche che, derivando da tali basi, vengono alla luce nella loro stravolta e apologetica «immagine del mondo». Questo non casuale difetto di critica nei confronti dell’idealismo indebolisce talvolta anche l’asprezza della sua critica verso l’essenza reazionaria di questi scrittori. In tali casi la critica si ferma alla battuta spiritosa e arguta, invece di svelare realmente l’elemento pericoloso delle tendenze reazionarie. Particolarmente chiara emerge tale debolezza quando la sua presa di posizione non è di netto rifiuto. In Nietzsche, per esempio, Bloch vuol salvare come retaggio il «lato buono» del principio dionisiaco. A tale scopo nel «dionisiaco» egli scopre un tratto plebeo: «…tuttavia “Dionisio” è appunto per la “morale da schiavi” un dio non ignoto, ma invece lieto, anzitutto un dio esplosivo. Saturnali si chiamavano le feste degli antichi schiavi, e la vite di Gesù, per quanto la Chiesa l’abbia completamente svigorita, nella cristianissima guerra dei contadini ha mostrato meno morale da schiavi di quel che piaccia ai signori» (p. 270). Bloch sa bene che tali vedute non hanno nulla a che vedere con Nietzsche. Il fine di Nietzsche è un fine «privato, camuffato in maniera aristocratico-reazionaria, un’utopia romantica, senza contatto con la storia, e per nulla con la classe oggi decisiva; ma la storia si prende da sé il suo contatto, l’astuzia della ragione è grande» (ibidem).

Qui la debolezza idealistica della concezione della storia in Bloch risulta straordinariamente chiara. In primo luogo, infatti, vuol dire sottovalutare fortemente il significato reazionario della filosofia di Nietzsche negarle il «contatto con la storia». Essa invece ha contatti addirittura saldissimi, ma per l’appunto puramente ed esplicitamente reazionari. In secondo luogo, non ci si può immaginare nulla di più antistorico di questa blochiana «astuzia della ragione» nella storia. Persino se Bloch avesse dimostrato un significato rivoluzionario dei Saturnali per le insurrezioni degli schiavi romani (cosa che egli non fa), dove sarebbe la loro relazione reale con il Dioniso «rivoluzionario»? E con le guerre dei contadini?! La prevenzione idealistica di Bloch, che nell’ideologia cristiana dei contadini insorti nel XVI secolo gli fa vedere, non un riflesso della debolezza e arretratezza del loro movimento, ma un valore attuale, da restaurare, per il moderno movimento operaio, lo conduce qui in una brutta confusione. Egli collega del tutto arbitrariamente l’un mito all’altro nell’intento di pervenire a una connessione storica generale. Cosicché perde ogni terreno reale, storico, sotto i piedi, soggiace in questo punto pienamente a quel «metodo» arbitrario, idealistico-mistico, divenuto predominante nella filosofia reazionaria in specie a partire da Nietzsche. Invece di aprire la strada a un nuovo retaggio per il marxismo, egli si pone nel quadro di quelle pseudofilosofie reazionarie la cui vuotezza e arbitrarietà in altri luoghi del suo libro combatte vivamente, la cui indole reazionaria egli, antifascista convinto, altrimenti respinge con passione. Tuttavia la contraddizione da noi individuata in Bloch opera anche in questi casi. Egli descrive, per esempio, con grande penetrazione, e non senza un certo rispetto e una certa simpatia, lo sviluppo della moderna Fenomenologia, la scuola di Husserl. Quando però analizza l’ultimo galoppino di questa scuola, Martin Heidegger, il suo istinto rivoluzionario lo costringe a descrivere in un modo distruttivamente ironico l’apologetismo formalmente complicato, ma assai scarso nel contenuto, di questa celebrità della Germania fascista. «La morte eterna rende alla fine il concreto assetto sociale “dell’uomo” così indifferente, che esso può anche restare capitalistico. L’affermazione della morte come destino assoluto e dell’unico “verso dove” è per la controrivoluzione di oggi quel che in passato era per essa la consolazione di un aldilà migliore» (pp. 220-221). Tale critica dei singoli rappresentanti della cultura borghese è l’aspetto più valido del libro di Bloch. Ed essa sta in stridente contrasto con la sua concezione generale del retaggio. A Bloch accade il contrario di ciò che accadde a quel mago del vecchio Testamento il quale era andato per maledire gli ebrei, ma le cui maledizioni furono mutate in benedizioni da Jahveh. Bloch vuol salvare il «contenuto in oro» della cultura borghese disintegrantesi. Siccome però in questa spedizione di salvataggio egli va con un reale dispendio di sapere e di intelligenza, distrugge strada facendo con critiche spietate tutto quel che vorrebbe salvare. Quando, dunque, dal mucchio di rovine, che egli stesso davanti agli occhi del lettore ha ulteriormente demolito, cerca di levar fuori un retaggio positivo, appare non organico, non convincente. Ed è appunto un suo merito che le sue stesse conclusioni appaiano tanto poco persuasive, che queste siano invalidate dalle sue stesse esposizioni. Tale contraddittorio autosopprimersi del suo metodo tramite l’applicazione al materiale concreto dà al lettore una speranza: che questo metodo idealistico-mistico non sia l’ultima fase dello sviluppo di Bloch, che la sua onesta e coraggiosa collaborazione alla lotta contro il fascismo lo aiuti a superare la odierna brusca contraddizione fra la sua chiara presa di posizione politica contro il fascismo e le sue concessioni filosofiche alle correnti idealistiche reazionarie.

(traduzione di Alberto Scarponi)