Formalisti che ignorano le forme

di Vittorio Saltini

«L’Espresso», n. 21, 26 maggio 1968


Boris Ejchenbaum, Il giovane Tolstoj La teoria del metodo formale, De Donato, Lire 2000.

Ancora una volta la lettura d’un formalista russo, in questo caso Ejchenbaum, è deludente. Ejchenbaum qui affronta Tolstoj, ma la sua analisi si mostra di troppo inadeguata all’oggetto. Sarebbe utile confrontare queste pagine col più ampio giudizio di Lukács su Tolstoj (nei Saggi sul realismo): si scoprirebbe che proprio sulle differenze formali fra l’epica tolstoiana e le altre forme romanzesche dell’Ottocento, il contenutista Lukács (malgrado lo svantaggio iniziale di voler partire da una tesi di Lenin) ci sa dire cose ben più precise del formalista Ejchenbaum.

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La teoria lukacsiana del rispecchiamento estetico

di Béla Királyfalvi

da Lukács negli scritti di..., a c. di G. Oldrini, ISEDI, Mondadori, Milano 1979.


Béla Királyfalvi, di origine ungherese, insegna letteratura drammatica alla Wichita State University del Kansas.
Diamo qui di seguito la versione integrale di un capitolo, il IV («The Theory of Aesthetics Reflection»), del suo volume The Aesthetics of Gydrgy Lukacs, Princeton University Press, Princeton-London, 1975, pp. 54-70.

* * *

Una volta che Lukács comincia a dare contributi sistematici all’estetica marxista (dall’inizio degli anni trenta), la teoria del rispecchiamento estetico acquista un’importanza centrale nelle sue opere. Quattro decenni di scritti contengono innumerevoli esempi, illustrazioni, chiarificazioni, definizioni negative, analogie e riferimenti alle precedenti e contemporanee autorità in argomento, mai però l’ultima definizione conclusiva al modo, poniamo, di Aristotele. Il motivo è semplice: la dialettica materialistica non permette definizioni conclusive (che sono statiche), bensì soltanto «determinazioni» flessibili. La teoria continua a evolversi in lui fino all’Estetica (1963) e, mentre il concetto di rispecchiamento estetico è, nel suo nocciolo, semplice, la sua interrelazione con altri importanti principi estetici è notevolmente complessa. A causa della complessità del problema, quanto qui segue è un che di mutilo, benché speriamo non di distorto, senza il beneficio del contenuto dei tre capitoli successivi. Eppure è necessario, per amor di chiarezza, iniziare con una discussione relativamente isolata del concetto, perché la teoria del rispecchiamento estetico forma senza dubbio l’ossatura e la spina dorsale dell’intero sistema estetico di Lukács. Continua a leggere

Lukács di fronte all’etica di Dostoevskij

di Stefano Catucci

«il manifesto» 28 giugno 2000.


In una valigia ritrovata dopo la morte di Lukács i curatori del suo lascito scoprirono i materiali per un saggio dedicato a Dostoevskij, ora tradotti in italiano a cura di Michele Cometa in un libro appena uscito per le edizioni SE. La concentrazione del filosofo ungherese si sposta, qui, dal fronte dell’estetica a quello dell’etica, osservando come solo con Dostoevskij la narrazione superi l’impasse nostalgica e romantica, rinunciando a cercare un luogo “altro” per l’affermazione della propria anima, per riconoscere invece nel “qui” e “ora” l’unica realtà data all’uomo, la sola opportunità per il suo riconoscimento di se stesso. Continua a leggere

Tribuno di popolo o burocrate?

di György Lukács

in Il marxismo e la critica letteraria

I testiIl marxismo e la critica letteraria>Tribuno di popolo o burocrate?


«La letteratura si corrompe solo nella misura in cui gli uomini diventano più corrotti».

GOETHE

I. Il significato generale dell’impostazione leniniana.

L’opera di Lenin Che fare? servì a smascherare la filosofia opportunistica, assai diffusa al momento della sua pubblicazione (1902), degli «economisti». Costoro protestavano contro l’unità del movimento rivoluzionario russo sul piano teorico e su quello organizzativo; secondo loro, la sola cosa che contava era la lotta dei lavoratori per i loro interessi economici immediati, la loro spontanea rivolta contro le rappresaglie dei padroni delle fabbriche. Essi limitavano il compito del rivoluzionario cosciente all’aiuto da dare ai lavoratori nelle lotte locali, immediate. Interpretare i singoli scontri di classe come parti della generale missione storica del proletariato; chiarire i singoli momenti della lotta, mediante la propaganda politica, alla luce della dottrina socialista; unificare i singoli movimenti di resistenza in un moto politico rivoluzionario diretto al crollo del capitalismo e al trionfo del socialismo: tutto ciò significava, per gli «economisti», «far violenza» alle masse lavoratrici, col pericolo di isolare gli intellettuali rivoluzionari dalle masse. Gli «economisti» assicuravano che il movimento spontaneo diventa consapevole attraverso il suo stesso processo di crescenza. Continua a leggere

Il problema della prospettiva

I testi> Il marxismo e la critica letteraria>

di György Lukács

da Il marxismo e la critica letteraria, Einaudi, Torino 1969.

Intervento al IV Congresso degli scrittori tedeschi, Berlino, 11 gennaio 1956

Le difficoltà della nostra letteratura – Becher e Anna Seghers vi hanno già accennato nelle loro relazioni – derivano proprio dalla sua grandezza, dalla sua superiorità sociale e ideologica. Questa problematica diventa particolarmente acuta nella questione della prospettiva. Poiché oggi suona quasi banale affermare che la grande differenza tra realismo critico e realismo socialista sta giustappunto nella questione della prospettiva, e che in essa emerge nel modo più chiaro la superiorità della nostra letteratura.

Quando però consideriamo la faccenda concretamente, leggendo le varie opere — la maggior parte delle nostre opere —, ci accorgiamo che nella configurazione della prospettiva si celano moltissimi problemi. E oserei dire che una delle fonti dello schematismo che si riscontra nella nostra letteratura sta proprio nella configurazione erronea, nella configurazione meccanica o nella meccanica deformazione della prospettiva.

La prospettiva di cui parlo la posso in breve definire come segue. Continua a leggere

Lo straniamento nella polemica con Bertolt Brecht

di Luciano Albanese

«Il Contemporaneo-Rinascita», 30 luglio 1971.


Una discussione che toccò i grandi temi dell’estetica marxista e che non si è conclusa con la morte dei protagonisti

I termini della polemica tra Brecht e Lukács sono noti, ma sarà opportuno ricordarli brevemente. Nella Breve storia della letteratura tedesca Lukács parla in tal modo dell’opera di Brecht: «Brecht crede che un’arte ‘radicalmente nuova’ abbisogni di mezzi espressivi del tutto diversi e originali per eliminare l’indegnità e l’influsso socialmente nocivo del ‘culinario’ [cioè l’effetto ‘magico’ del teatro sullo spettatore moderno, che lo priva di ogni capacità di riflessione – n.d.r.] nell’arte (soprattutto nell’arte drammatica), e per reintegrare quest’ultima nella sua necessaria funzione sociale. Così anche la critica di Brecht rasenta il contenuto sociale senza toccarlo e riduce l’auspicato rinnovamento sociale della letteratura a un esperimento formale: indubbiamente interessante e intelligente»1. Continua a leggere

György Lukács inattuale? Una teoria politica del romanzo

di Emanuele Zinato

L’immaginario politico. Impegno, resistenza, ideologia, Eds. S. Albertazzi, F. Bertoni, E. Piga, L. Raimondi, G. Tinelli, Between, V.10 (2015), http://www.Betweenjournal.it/ 30/11/2015


I rapporti sociali sono sfuggiti al controllo degli uomini stessi assumendo la forma di cose.
G. Lukács, Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale

I. Il termine inattuale, presente nel titolo del mio intervento in forma interrogativa, vorrebbe risultare doppiamente sibillino. Al suo significato più comune, di segno negativo, che sta per “invecchiato”, come si sa, si affianca un senso orgogliosamente apologetico e irriverente, quello delle Considerazioni inattuali di Nietzsche o dell’inattualità come valore paradossale del saggismo frammentario di Karl Kraus.

In questo mio intervento, per azzardare delle risposte, cercherò innanzitutto di mettere a fuoco alcuni punti di forza di Lukács, limitatamente alla teoria del romanzo, degni di considerazione nel campo teorico attuale.

Come ha osservato Vittorio Strada (Strada, 1986: 21), i due maggiori teorici novecenteschi del romanzo, Lukács e Bachtin, si potrebbero leggere come una delle coppie oppositive su cui si fondano le Vite parallele di Plutarco. Lukács, infatti, è noto come il fautore di un’estetica normativa del marxismo ufficiale; Bachtin è stato viceversa una vittima, deportato e costretto al silenzio dallo stalinismo.

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Georg Lukács e il patto col diavolo

di George Steiner

[Georg Lukacs and His Devil’s Pact, «The Kenyon Review» Vol. 22, No. 1 (Winter, 1960), pp. 1-18, trad. it. Ruggero Bianchi, in G. Steiner, Linguaggio e Silenzio, Rizzoli, Milano 1972, pp. 327-342]

Nel ventesimo secolo non è facile per un uomo onesto fare il critico letterario. Vi sono tante cose più urgenti da fare. La critica è un’aggiunta. Giacché l’arte del critico consiste nel sottoporre le opere di letteratura proprio all’attenzione di quei lettori che forse hanno meno bisogno di un tale aiuto: forse che un uomo legge critiche di poesia o teatro o narrativa se non possiede già per conto suo una cultura letteraria di notevole livello? Su l’un lato e l’altro, per giunta, vi sono due tentatori. A destra, la Storia Letteraria, con la sua aria solida e le sue credenziali accademiche. Alla sinistra, la Recensione, non proprio un’arte, ma piuttosto una tecnica devota alla teoria poco plausibile che ogni giorno dell’anno viene pubblicato qualcosa che vale la pena di leggere. Anche la critica migliore può soccombere all’una o all’altra di queste tentazioni. Ansioso di raggiungere la rispettabilità intellettuale, la posizione salda dello studioso, il critico può diventare, come Sainte-Beuve, quasi uno storico della letteratura. O può cedere alle pretese del nuovo e dell’immediato: una parte significativa delle dichiarazioni critiche di Henry James non è sopravvissuta ai luoghi comuni di cui esse erano molto prodighe. Le buone recensioni sono ancor più effimere dei brutti libri.

Ma vi è ancora un’altra ragione importante per cui è difficile a una mente seria, nata in questo secolo tormentato e periglioso, dedicare il grosso delle proprie energie alla critica letteraria. La nostra è, in maniera preminente, l’epoca delle scienze naturali. Il novanta per cento di tutti gli scienziati vive oggi. Il ritmo delle conquiste in campo scientifico, il ritrarsi dell’orizzonte davanti allo spirito che indaga, non è più assolutamente confrontabile con quello del passato. Ogni giorno si scoprono nuove Americhe, sicché la tempra della nostra epoca è permeata di valori scientifici. Questi estendono la propria influenza e il proprio fascino molto al di là dei confini della scienza intesa in senso classico. La storia e l’economia sostengono di essere, in qualche misura fondamentale, delle scienze; e così pure la logica e la sociologia. Lo storico dell’arte affina strumenti e tecniche che considera scientifici. Il compositore di musica dodecafonica collega i suoi esercizi austeri a quelli della matematica. Durrell ha scritto nella prefazione all’Alexandria Quartet che il suo tentativo è quello di tradurre nel linguaggio e nello stile della sua narrativa la prospettiva della relatività. Vede la città di Alessandria in quattro dimensioni.

Tale ubiquità della scienza ha recato con sé nuove modestie e ambizioni nuove. Diffidando del semplice istinto, la scienza esige una mitologia di rigore e di prova. Come splendido compenso, offre il miraggio della certezza, della conoscenza sicura, del possesso intellettuale salvaguardato dal dubbio. Lo scienziato grandissimo rifiuterà tale prospettiva; persevererà nel dubbio anche nel cuore della scoperta. Ma la speranza della verità oggettiva e dimostrabile è sempre presente e ha attirato a sé le menti più vigorose dei nostri tempi.

Nella critica letteraria non vi sono terre promesse di fatti stabiliti, né utopie di certezza. Per la sua stessa natura, la critica è personale. Non è suscettibile di dimostrazione né di prova coerente. Non dispone di strumenti più esatti della barba di Housman che si rizzava quando la grande linea di poesia gli saettava nella mente. In tutta la storia, i critici hanno cercato di dimostrare che il loro métier era una scienza in fin dei conti, che aveva canoni oggettivi e strumenti per pervenire alle verità assolute. Coleridge imbrigliò il proprio genio intensamente personale e spesso instabile al giogo di un sistema metafisico. In un celebre manifesto, Taine proclamò che lo studio della letteratura non era meno esatto di quello delle scienze naturali. I. A. Richards ha sottoscritto la speranza che vi sia un’oggettiva base psicologica all’atto del giudizio estetico. Il suo discepolo più eminente, W. Empson, ha applicato alle arti della critica letteraria le modalità e i gesti della matematica.

Resta però il fatto: il critico letterario è un uomo singolo che giudica un dato testo secondo l’attuale disposizione del proprio spirito, secondo il proprio umore o l’edificio delle proprie convinzioni. Può darsi che il suo giudizio abbia un valore maggiore del vostro o del mio soltanto perché si basa su una gamma più vasta di conoscenze o perché è presentato con chiarezza più convincente. Non lo si può dimostrare in maniera scientifica, né può pretendere di essere durevole. I venti del gusto e della moda sono incostanti e ogni generazione di critici ricomincia da capo a giudicare. Le opinioni sui meriti di un’opera d’arte sono, per giunta, inconfutabili. Balzac riteneva che la Radcliffe fosse grande come Stendhal. Nietzsche, una delle menti più acute che mai si siano occupate di musica, finì per sostenere che Bizet era un compositore più genuino di Wagner. Possiamo essere profondamente convinti che tali opinioni sono ingiuste ed erronee. Ma non possiamo rifiutarle come uno scienziato può rifiutare una teoria falsa. E chissà che una qualche epoca futura non concordi con giudizi che oggi sembrano insostenibili? La storia del gusto è un po’ come una spirale. Le idee che in un primo momento vengono considerate oltraggiose o di avanguardia diventano le credenze reazionarie e consacrate della generazione successiva.

Il critico moderno si trova dunque doppiamente in pericolo. La critica ha intorno a sé qualcosa di un’epoca più agiata. È difficile, su basi morali, resistere alle fiere sollecitazioni dei problemi economici, sociali e politici. Se vi è la minaccia di una qualche forma di barbarie e di autodistruzione politica, lo scrivere saggi sulle belles-lettres pare un’occupazione piuttosto marginale. Il secondo dilemma è di natura intellettuale. Per eminente che sia, il critico non può partecipare all’avventura principale della mente contemporanea: l’acquisizione della conoscenza positiva, il dominio del fatto scientifico o l’esplorazione della verità dimostrabile. E se è onesto con se stesso, il critico letterario sa che i suoi giudizi non hanno una validità duratura, che domani possono essere capovolti. Una cosa soltanto può conferire alla sua opera un po’ di durevolezza: il vigore o la bellezza del suo stile. Grazie allo stile, la critica può a sua volta diventare letteratura.

I maestri della critica contemporanea hanno cercato di risolvere questi dilemmi in modi differenti. T. S. Eliot, Ezra Pound e Thomas Mann, per esempio, hanno fatto della critica un’appendice alla creazione. I loro scritti critici sono commentari alle proprie opere poetiche; specchi che l’intelletto presenta alla fantasia creativa. In D. H. Lawrence, la critica è autodifesa: pur discutendo apparentemente di altri scrittori, di fatto Lawrence stava difendendo il proprio concetto dell’arte del romanzo. Leavis ha accettato la sfida a testa bassa. Ha posto le sue energie critiche al servizio di un’appassionata visione morale. È tutto intento a stabilire standard di maturità e di ordine in letteratura perché la società nel suo complesso possa procedere in una maniera più matura e ordinata.

Ma nessuno ha offerto ai dilemmi morali e intellettuali che assediano la critica letteraria una soluzione più radicale di quella di Georg Lukács. Nelle sue opere si concretizzano due convinzioni. La prima, che la critica letteraria non è un lusso, che non è quello che il più sottile critico americano ha definito «un discorso per dilettanti». Ma che, al contrario, è una forza militante e fondamentale per la formazione della vita degli uomini. In secondo luogo, Lukács afferma che l’opera del critico non è né soggettiva né incerta. La critica è una scienza con un proprio rigore e una propria precisione. La verità del giudizio si può verificare. Georg Lukács è, naturalmente, marxista. Anzi, è l’unico grande talento critico che sia emerso dal grigio servaggio del mondo marxista.

II

In un saggio che risale al 1948, Lukács tracciò un’analogia significativa. Disse che la fisica newtoniana aveva dato alla coscienza settecentesca il suo principale impulso liberatore, insegnando alla mente a vivere la grande avventura della ragione. Secondo Lukács, tale ruolo dovrebbe essere svolto ai giorni nostri dall’economia politica. È attorno all’economia politica, in senso marxista, che dovremmo ordinare la nostra comprensione delle vicende umane. Lukács stesso giunse alla letteratura attraverso l’economia, così come si può dire che Aristotile si accostò al dramma tramite un’indagine sistematica in campo morale.

Il materialismo dialettico sostiene che la letteratura, come tutte le altre forme d’arte, è una «sovrastruttura ideologica», un edificio dello spirito costruito sulle fondamenta del fatto economico, sociale e politico. Nello stile e nel contenuto l’opera d’arte riflette esattamente la sua base storica e materiale. L’Iliade non era meno condizionata dall’ambiente sociale (un’aristocrazia feudale frantumata in piccoli regni rivali) di quanto non lo fossero i romanzi di Dickens, che riflettono con tale vigore l’economia della produzione in serie e la crescita di un nuovo pubblico di massa. Pertanto, sostiene il marxista, il progresso dell’arte è sottoposto alle leggi della necessità storica. Non possiamo concepire Robinson Crusoe prima della nascita dell’ideale mercantile. Nel declino del romanzo francese dopo Stendhal osserviamo l’immagine di un più vasto declino della borghesia francese.

Ma dove c’è legge c’è scienza. E quindi il critico marxista nutre la convinzione di essere impegnato non in cose opinabili ma in determinazioni di realtà oggettiva. Senza tale convinzione, Lukács non avrebbe potuto dedicarsi alla letteratura. Raggiunse la maturità intellettuale in mezzo alla ferocia caotica della guerra e della rivoluzione nell’Europa centrale. Giunse al marxismo per la strada tortuosa della metafisica hegeliana. Nei suoi primi scritti vi sono due note dominanti: la ricerca di una chiave per comprendere l’apparente tumulto della storia e il tentativo dell’intellettuale di giustificare la propria scelta della vita contemplativa. Come Simone Weil, cui egli spesso mi fa pensare, Lukács ha l’anima di un calvinista. Si può immaginare come abbia dovuto lottare per disciplinare in se stesso l’inclinazione naturale alla letteratura e all’aspetto estetico delle cose. Il marxismo gli offrì la possibilità fondamentale di restare critico letterario senza aver l’impressione di aver dedicato le proprie energie a uno scopo piuttosto frivolo e impreciso. Nel 1918 Lukács aderì al partito comunista ungherese. Durante il primo breve periodo di governo comunista a Budapest, prestò servizio come commissario politico e culturale con la quinta Armata Rossa. Dopo la caduta di Béla Kun, Lukács andò in esilio. Rimase a Berlino fino al 1933 e quindi si rifugiò a Mosca. Là rimase e lavorò per dodici anni, facendo ritorno in Ungheria soltanto nel 1945.

È questo un fatto di ovvia importanza. Il tedesco è la lingua principale di Lukács, ma l’uso che ne fa è diventato fragile e sgradevole. Il suo è lo stile dell’esilio; ha perso i caratteri della parlata viva. Più essenzialmente: tutto il tono di Lukács, il tenore fervido e a volte angusto della sua visione, riflette il fatto dell’esilio. Da Mosca, circondato da una piccola cerchia di compagni d’esilio, Lukács osservò l’estendersi della crisi sull’Europa occidentale. I suoi scritti sulla letteratura francese e tedesca divennero una difesa appassionata contro le menzogne e la barbarie del periodo nazista. E ciò spiega un grosso paradosso nella produzione di Lukács. Pur essendo comunista per convinzione, materialista dialettico in virtù del suo metodo critico, egli ha tenuto lo sguardo decisamente fisso al passato. Thomas Mann vide nelle opere di Lukács un senso eminente della tradizione. Nonostante le pressioni dei suoi ospiti russi, Lukács prestava soltanto un’attenzione distratta alle conquiste celebrate del «realismo sovietico». Insisteva invece sulla grande tradizione della poesia e della narrativa europea del Settecento e dell’Ottocento, su Goethe e su Balzac, su Walter Scott e Flaubert, su Stendhal e Heine. Quando scrive di letteratura russa, Lukács tratta di Puškin o di Tolstoj, non dei poetastri dell’epoca staliniana. La prospettiva critica è rigorosamente marxista, ma la scelta dei temi è «centroeuropea» e conservatrice.

In mezzo all’apparente trionfo del fascismo, Lukács mantenne una serenità appassionata. Si sforzò di scoprire la tragica pecca, il seme di caos, da cui era scaturita la follia di Hitler. Una delle sue opere, un libro in se stesso stridulo e spesso mendace, s’intitola La distruzione della ragione (1955). È il tentativo filosofico di risolvere il mistero drammatizzato da Thomas Mann nel Dottor Faustus. Come si scatenò l’ondata di tenebre sull’anima tedesca? Lukács fa risalire le origini del disastro all’irrazionalismo di Schelling. Ma al tempo stesso insisteva sull’integrità e la forza vitale dei valori umani. Essendo comunista, Lukács non dubitava che il socialismo avrebbe finito per prevalere. Considerava suo compito particolare quello di organizzare in vista del momento della liberazione le risorse spirituali presenti nella letteratura e nella filosofia europee. Quando le poesie di Heine tornarono a essere lette in Germania, era disponibile un saggio di Lukács che tracciava un ponte tra il futuro e il mondo semidimenticato del liberalismo cui Heine era appartenuto.

Lukács dunque ha offerto una soluzione al duplice dilemma del critico moderno. In quanto marxista, scorge nella letteratura l’azione delle forze economiche, sociali e politiche. Tale azione si basa su certe leggi di necessità storica. Per Lukács la critica è una scienza ancor prima di essere un’arte. La sua preferenza per Balzac su Flaubert non dipende dal consenso o dal gusto personale. È una determinazione oggettiva cui si è pervenuti tramite un’analisi del fatto materiale. In secondo luogo, Lukács ha conferito al suo stile un’intensa immediatezza. Affonda le proprie radici nelle battaglie e nelle circostanze sociali del tempo. I suoi scritti sulla letteratura, come quelli su Tolstoj, sono strumenti di combattimento. Comprendendo la dialettica del Faust di Goethe, dice Lukács, si è meglio attrezzati a leggere gli enigmi sanguinosi del presente. La caduta della Francia nel 1940 è scritta a grossi caratteri nella Comédie humaine. Gli argomenti di Lukács hanno a che fare con problemi fondamentali della nostra vita. Le sue critiche non sono una semplice eco alla letteratura. Anche quando è settario e polemico, un libro di Lukács ha sempre una curiosa nobiltà. Possiede quella che Matthew Arnold chiamò «alta serietà».

III

Ma, in pratica, quali sono i grossi risultati di Lukács come critico e storico delle idee?

Ironicamente, una delle sue opere più influenti risale a un periodo in cui il suo comunismo era venato di eresia. Storia e coscienza di classe (1923) è un caso quasi leggendario. È un livre maudit, un libro dato alle fiamme, di cui sono rimaste relativamente poche copie1. Si trova in esso un’analisi fondamentale della «reificazione» dell’uomo (Verdinglichung), della degradazione della persona umana a oggetto statistico tramite i processi industriali e politici. L’opera fu condannata dal partito e ritirata dall’autore. Ma ha portato a una tenace vita sotterranea e taluni scrittori, come Sartre e Thomas Mann, l’hanno sempre considerata il capolavoro di Lukács.

A mio parere, tuttavia, la sua preminenza si trova altrove: nei saggi e nelle monografie da lui scritte durante gli anni Trenta e Quaranta, che cominciarono a uscire in una sfilza di volumi imponenti dopo la fine della guerra. L’essenza di Lukács si trova nello studio di Goethe e i suoi tempi (1947), nei saggi sul Realismo russo nella letteratura mondiale (1949), nel volume intitolato Realisti tedeschi dell’Ottocento (1951), nel libro su Balzac, Stendhal e Zola (1952) e nella grande opera su Il romanzo storico (1955). A ciò bisognerebbe aggiungere alcuni volumi massicci di carattere più squisitamente filosofico, quali Contributi a una storia dell’estetica (1954), e quello che è forse il magnum opus di Lukács, lo studio di Hegel (di cui apparve il primo volume nel 1948).

È impossibile dare una descrizione breve e tuttavia accurata di una gamma così vasta di materiale. Ma vi sono alcuni motivi che emergono come classici arricchimenti della comprensione che noi abbiamo della letteratura.

Vi è l’analisi lukacsiana del declino del romanzo francese. Lukács è il più grande studioso vivente di Balzac e vede nella Comédie humaine il massimo monumento del realismo. La sua interpretazione di Les illusions perdues è un esempio perfetto del modo in cui la visione dello storico vien fatta pesare sulla struttura di un’opera d’arte. È questa visione a indurre direttamente Lukács a una condanna di Flaubert. Tra Balzac e Flaubert vi è la sconfitta del 1848. Lo splendore delle speranze liberali era sbiadito e la Francia si stava dirigendo verso la tragedia della Comune. Balzac guarda il mondo con l’ardore primitivo della conquista. Flaubert guarda il mondo come attraverso una lente, con disprezzo. In Madame Bovary il bagliore e l’artificio delle parole sono diventati fini a se stessi. Quando Balzac descrive un cappello, lo fa perché un uomo lo porta. La descrizione del berretto di Charles Bovary, dal canto opposto, è un pezzo di virtuosismo tecnico; sfoggia la padronanza che Flaubert ha del vocabolario dei sarti francesi. Ma la cosa è morta. E dietro questo contrasto nell’arte del romanzo, Lukács scorge la trasformazione della società attraverso il capitalismo maturo. In una società preindustriale, o in una società in cui l’industrialismo rimane su piccola scala, il rapporto dell’uomo con gli oggetti fisici che lo circondano ha un’immediatezza naturale. Questa viene distrutta dalla produzione in massa. L’arredamento della nostra vita è il frutto di processi troppo complessi e impersonali perché qualcuno li possa dominare. Isolato dalla realtà fisica, respinto dalla trasandatezza disumana del mondo delle fabbriche, lo scrittore cerca rifugio nella satira o nelle visioni romantiche del passato. Tutte e due le ritirate sono esemplificate in Flaubert: Bouvard et Pécuchet è un’enciclopedia del disprezzo, mentre Salammbô può essere considerato il sogno a occhi aperti di un antiquario un po’ sadico.

Da tale dilemma scaturì quella che Lukács definisce l’illusione del naturalismo, la convinzione che l’artista possa ricatturare un senso di realtà con la semplice forza dell’accumulazione. Mentre il realista seleziona, il naturalista enumera. Come l’insegnante di Hard Times di Dickens, esige fatti e ancora fatti. Zola aveva una fame inesauribile di particolari circostanziati, una passione per gli orari e gli inventari (viene in mente il catalogo dei formaggi in Le ventre de Paris). Provava piacere a infondere la vita in una citazione della Borsa valori. Ma la sua teoria del romanzo, sostiene Lukács, era radicalmente falsa. Porta alla morte della fantasia e al reportage.

Lukács non scende a compromessi con la propria visione critica. Esalta Balzac, realista e animato da princìpi clericali; e condanna Zola, progressista in senso politico e precursore del «realismo socialista».

Ancor più autoritario e originale è il trattamento che Lukács fa del romanzo storico. È questo un genere letterario la cui critica occidentale ha dedicato soltanto un’attenzione superficiale. È difficile focalizzare bene la sfera del romanzo storico. A volte, la sua testa è nelle stelle mitologiche, ma più sovente il grosso si può trovare nella buona terra della letteratura commerciale. Il concetto stesso evoca alla mente improbabili amorosi che inseguono giovinette terrificate eppure vestite vaporosamente attraverso copertine di libri riccamente decorate. Solo rarissimamente, quando interviene uno scrittore come Robert Graves, comprendiamo che il romanzo storico ha virtù ben precise e una nobile tradizione. È a queste che Lukács si rivolge in uno studio importante, Il romanzo storico.

Tale forma nacque da una crisi della sensibilità europea. La rivoluzione francese e l’epoca napoleonica avevano diffuso nella coscienza della gente comune un senso dello storico. Mentre Federico il Grande aveva chiesto che le guerre fossero condotte in maniera tale da non disturbare il corso normale degli eventi, le armate di Napoleone marciarono su e giù per l’Europa riplasmando il mondo lungo la strada. La storia non era più qualcosa che riguardava archivi e principi; era diventata la struttura della vita quotidiana. A tale mutamento i romanzi di Waverley reagirono in maniera profetica e diretta. Anche qui, Lukács si muove su un terreno fresco. Noi non prendiamo Walter Scott con assoluta serietà. Con ogni probabilità, commettiamo un’ingiustizia. Se ci teniamo a sapere che artista attento fosse Scott e quale penetrante senso storico sia all’opera in Quentin Durward o The Heart of Midlothian, la cosa migliore è leggere un libro scritto a Mosca da un critico ungherese.

Lukács prosegue esplorando l’evoluzione della narrativa storica nell’arte di Manzoni, Puškin e Victor Hugo. La sua lettura di Thackeray è particolarmente suggestiva. Egli sostiene che gli elementi archeologici in Henry Esmond e The Virginians esprimono la critica di Thackeray alle condizioni sociali e politiche dei suoi tempi. Togliendo la parrucca al Settecento, il romanziere satireggia la falsità delle convenzioni vittoriane (ciò che i marxisti chiamano zeitgenössische Apologetik). Personalmente ritengo che Lukács interpreti male Thackeray. Ma si tratta di un errore fruttuoso, come lo sono spesso gli errori della buona critica, e conduce a un’idea originalissima. Lukács nota che il discorso arcaico, per abilmente maneggiato che sia, di fatto non avvicina il passato alla nostra fantasia. I maestri classici del romanzo storico scrivono narrativa e dialogo nel linguaggio dei propri tempi. Creano l’illusione del presente storico tramite la forza della fantasia realizzata e perché essi stessi sperimentano il rapporto tra la storia passata e il proprio tempo come un rapporto di continuità viva. Il romanzo storico vacilla quando questo senso di continuità non è più prevalente, quando lo scrittore sente che le forze della storia trascendono la sua comprensione razionale. Egli allora si rivolge a un passato sempre più remoto o esotico per protestare contro la vita contemporanea. Invece del romanzo storico, troviamo laboriosa archeologia. Si confronti la poetica della storia implicita in La certosa di Parma con l’artificio erudito di Salammbô. Tra artefici meno abili di Flaubert questo senso dell’artificio è rafforzato dall’uso arcaico del linguaggio. Il romanziere si sforza di rendere autentica la propria visione del passato scrivendo i dialoghi in quella che suppone sia stata la sintassi e lo stile del periodo in questione. È, questo, un debole artificio. Forse che Shakespeare avrebbe fatto meglio a far parlare Riccardo II in inglese chauceriano?

Ora, come osserva Lukács, questo declino del concetto classico del romanzo storico coincide esattamente con il passaggio dal realismo al naturalismo. In entrambi i casi, la visione dell’artista perde la propria spontaneità: in un certo modo, egli è estraneo al proprio materiale. Ne consegue che i problemi di tecnica diventano predominanti a spese della sostanza. L’immagine di Glasgow in Rob Roy è storicamente percettiva, ma scaturisce in maniera più significativa dai conflitti sociali e personali della narrazione. Non è un pezzo di restauro antiquario. Ma questo è proprio ciò che è l’immagine di Cartagine in Salammbô. Flaubert ha costruito un sontuoso guscio vuoto attorno a un’azione autonoma. Come osservò Sainte-Beuve, è difficile conciliare le motivazioni psicologiche dei personaggi con l’ambiente storico presentato. Walter Scott credeva nello spiegarsi razionale e progressivo della storia inglese. Vedeva negli avvenimenti dei propri tempi una conseguenza naturale di energie liberate nel corso del Seicento e del Settecento. Flaubert, al contrario, si volse all’antica Cartagine o ad Alessandria perché trovava insopportabile la propria epoca. Non essendo in sintonia con il presente – vide nella Comune un tardo spasimo del Medioevo – non riuscì a raggiungere una comprensione fantastica del passato.

Si concordi o no con questa analisi, la sua originalità e la sua ampiezza di riferimenti sono evidenti. Essa illustra l’esercizio essenziale di Lukács: lo studio attento del testo letterario alla luce di problemi politici o filosofici di vasta portata. Lo scrittore o l’opera singola sono il punto di partenza. Di qui la discussione di Lukács si muove all’esterno attraverso un terreno complesso. Ma il tema o l’idea centrale sono tenuti continuamente di vista. Infine, la dialettica si fa serrata, ordinandone gli esempi e le convinzioni.

Analogamente, il saggio sulla corrispondenza tra Goethe e Schiller verte soprattutto sulla discussa questione della natura delle forme letterarie. La discussione dell’Hyperion di Hölderlin dà il via a uno studio del ruolo cruciale e tuttavia ambiguo svolto dall’ideale ellenico nella storia dello spirito tedesco. Nelle sue numerose considerazioni su Thomas Mann, Lukács s’interessa di quello che considera il paradosso dell’artista borghese in un secolo marxista. Lukács sostiene che Mann decise di star fuori dalla corrente della storia, pur rendendosi conto del carattere tragico della propria scelta. Il saggio su Gottfried Keller è un tentativo di chiarire il difficilissimo problema dell’arresto dello sviluppo della letteratura tedesca dopo la morte di Goethe. In tutti questi esempi, non è possibile separare il singolo giudizio critico dal più ampio contesto filosofico e sociale.

Essendo la sua discussione così serrata e fitta, è difficile offrire citazioni significative dalle opere di Lukács. Forse un breve passo tratto da un saggio su Kleist può comunicarne il tono dominante:

Il concetto di passione di Kleist porta il dramma vicino all’arte del racconto. Una singolarità intensificata è presentata in una maniera che ne sottolinea la unicità accidentale. Nel racconto ciò è assolutamente legittimo. Questo è infatti un genere letterario concepito appositamente per rendere reale il ruolo immenso della coincidenza e della contingenza nella vita umana. Ma se l’azione rappresentata resta al livello di coincidenza… e se riceve la dignità di dramma tragico senza prova alcuna della sua obiettiva necessità, si avrà inevitabilmente un effetto di contraddizione e di dissonanza. I drammi di Kleist, di conseguenza, non indicano la strada maestra del dramma moderno. Tale strada va da Shakespeare, attraverso gli esperimenti di Goethe e di Schiller, al Boris Godunov di Puškin. A causa del declino ideologico della borghesia, essa non ebbe un seguito adeguato. I drammi di Kleist rappresentano una strada laterale irrazionale. La passione individuale isolata distrugge il rapporto organico tra il fato della persona individuale e la necessità sociale e storica. Con la dissoluzione di tale rapporto, le basi poetiche e filosofiche del genuino conflitto drammatico sono a loro volta distrutte. La base del dramma si fa esile e angusta, esclusivamente privata e personale… Le passioni kleistiane rappresentano senza dubbio una società borghese. La loro dialettica interna riflette conflitti tipici di individui che sono diventati «monadi senza finestre» in un ambiente borghese.

Il riferimento a Leibniz è tipico. La qualità della mente di Lukács è filosofica, nel senso tecnico della parola. La letteratura concentra e concretizza quei misteri di significato che costituiscono l’interesse principale del filosofo. Sotto questo aspetto, Lukács appartiene a una tradizione notevole. La Poetica è critica filosofica (il dramma visto come il modello teorico dell’azione spirituale); come lo sono gli scritti critici di Coleridge, Schiller e Croce. Se l’andatura è pesante, è perché la materia in discussione è insistentemente completa. Come altri critici filosofi, Lukács affronta problemi che hanno tormentato l’indagine dai tempi di Platone. Quali sono le distinzioni fondamentali tra epica e dramma? Che cos’è la «realtà» in un’opera d’arte, l’antico enigma dell’ombra che pesa di più della sostanza? Qual è il rapporto tra la fantasia poetica e la percezione comune? Lukács solleva il problema del personaggio «tipico». Perché certi personaggi letterari – Falstaff, Faust, Emma Bovary – possiedono una carica di vita maggiore di quella di una moltitudine di altre creature fantastiche e anzi della maggior parte degli esseri viventi? È perché sono archetipi in cui i caratteri universali convergono e ricevono una forma memorabile?

Le indagini di Lukács attingono a un campo straordinario di documentazione. Egli dà l’impressione di possedere tutta la letteratura europea moderna e tutta la letteratura russa. Questo consente una rara combinazione di robusta esattezza filosofica e di ampiezza di visione. Per contrasto, Leavis, che non è meno moralista né lettore meno attento di Lukács, è cautamente provinciale. In fatto di universalità, l’equivalente di Lukács sarebbe Edmund Wilson.

Ma la medaglia ha un suo rovescio. La critica di Lukács ha la sua parte di cecità e di ingiustizia. A volte scrive con oscurità astiosa quasi ad affermare che lo studio della letteratura non dovrebbe essere un piacere ma una disciplina e una scienza, difficile da accostare come le altre scienze. Questo l’ha reso insensibile ai grandi musicisti del linguaggio. Lukács manca di orecchio; non possiede quel diapason interiore che consente a Ezra Pound di scegliere senza sbagliare l’istante di gloria di un lungo poema o di un romanzo dimenticato. Nell’omissione di Rilke da parte di Lukács vi è un’oscura protesta contro la meraviglia del linguaggio del poeta. In un certo senso, scrive troppo mirabilmente. Anche se lo negherebbe, inoltre, Lukács tende davvero all’errore fondamentale della critica vittoriana: il contenuto narrativo, la qualità della favola, influenza la sua valutazione. La sua incapacità di includere Proust, ad esempio, getta il dubbio su tutta la visione che Lukács ha del romanzo francese. Ma la trama della Recherche du temps perdu, il fasto e le perversità che Proust descrive, offendono ovviamente il moralismo austero di Lukács. Il marxismo ha un credo puritano.

Come tutti i critici, anch’egli ha le sue avversioni particolari. Lukács detesta Nietzsche ed è insensibile al genio di Dostoevskij. Ma essendo un marxista coerente, fa della cecità una virtù e attribuisce alle sue condanne un valore oggettivo e sistematico. Leavis si trova evidentemente a disagio con le opere di Melville. T. S. Eliot ha condotto una lunga e sottile polemica con la poetica di Milton. Ma in essa le cortesie fondamentali vengono rispettate. Le argomentazioni di Lukács sono ad hominem. Infuriato dalla visione del mondo di Nietzsche e Kierkegaard, egli ne consegna le persone e le fatiche all’inferno spirituale del prefascismo. Questa, naturalmente, è un’interpretazione erronea e grottesca dei fatti.

Di recente, questi difetti di visione si sono fatti più drastici. La distruzione della ragione e i saggi di estetica apparsi da allora, ne sono guastati. Senza dubbio, vi è un problema di età. Lukács aveva settant’anni nel 1955 e i suoi odii si sono irrigiditi. Vi è in parte il fatto che Lukács è ossessionato dalla rovina della civiltà della Germania e dell’Europa occidentale. Va a caccia dei colpevoli da consegnare al Giudizio Finale della storia. Ma vi è soprattutto, a parer mio, un intenso dramma personale. All’inizio della sua brillante carriera, Lukács strinse un patto con il demone della necessità storica. Il diavolo gli promise il segreto della verità oggettiva. Gli diede il potere di impartire benedizioni o pronunciare condanne in nome della rivoluzione e delle «leggi della storia». Ma dal ritorno di Lukács dall’esilio, il diavolo è rimasto in agguato nei dintorni, chiedendo il proprio onorario. Nell’ottobre del 1956, ha picchiato con forza alla porta.

IV

Accenniamo qui a fatti di natura personale. La parte svolta da Lukács nell’insurrezione ungherese e il monachismo successivo della sua vita personale hanno un ovvio interesse storico. Ma contengono un elemento di agonia privata cui un estraneo difficilmente può accedere. Un uomo che perde la propria religione perde le proprie convinzioni. Un comunista per cui la storia si mette a fare salti mortali corre il rischio di perdere la ragione. Forse, è peggio così. Quanti non l’hanno provato, tuttavia, difficilmente possono capire che cosa significhi un simile crollo di valori. Inoltre, nel caso di Lukács, i moventi dell’azione sono oscuri.

Accettò il posto di ministro della Cultura nel governo di Nagy. Non, ritengo, per essere tra le guide di un movimento antisovietico, bensì piuttosto per conservare il carattere marxista della vita intellettuale ungherese e proteggerne l’eredità fondamentale contro le forze rinascenti della destra agrario-cattolica. Più essenzialmente, forse, perché un Lukács non può aderire a un solo lato della storia anche quando questa assume forme assurde. Non può essere uno spettatore. Ma il 3 novembre, un giorno prima che l’Armata Rossa riconquistasse Budapest, Lukács si dimise. Perché? Aveva deciso che un marxista non deve opporsi alla volontà dell’Unione Sovietica in cui s’incarna, nel meglio e nel peggio, il futuro del materialismo dialettico? Fu convinto a ritirarsi da una causa persa da amici che temevano per la sua vita? Non sappiamo.

Dopo un periodo di esilio in Romania, Lukács ottenne il permesso di tornare in patria. Ma non gli fu più consentito di insegnare e la sua opera passata divenne oggetto di attacchi e di scherni sempre più feroci. Tali attacchi in realtà sono anteriori all’insurrezione di ottobre. L’Ungheria aveva la sua versione in miniatura di Ždanov, un omuncolo feroce di nome Joseph Revai. Dapprima allievo di Lukács, ma poi geloso della celebrità del maestro, Revai pubblicò un opuscolo sulla Letteratura e democrazia popolare nel 1954. In esso redasse un atto d’accusa stalinista di tutto il lavoro di Lukács. Accusò Lukács di aver costantemente trascurato la letteratura sovietica contemporanea. Lo accusò di essere pericolosamente antiquato nella sua concentrazione su Goethe e Balzac. Persino un romanzo mediocre di un comunista, sostiene Revai, è infinitamente preferibile a un grande romanzo di un reazionario o di un premarxista. Lukács pone gli ideali letterari «formalistici» al di sopra degli interessi di classe e di partito. Il suo stile è inaccessibile al lettore proletario.

Dopo ottobre, tali accuse si fecero meno stridule. I pubblicisti ungheresi e tedesco orientali tirarono fuori di nuovo le vecchie accuse di eresia rivolte ai primi scritti di Lukács. Rievocarono la sua ammirazione giovanile per Stefan George e scorsero tracce di «idealismo borghese» nelle sue opere mature. Il vecchio tuttavia non fu toccato e per uno di quei giudizi strani, kafkiani, ammessi a volte dai regimi comunisti, gli fu persino consentito di pubblicare un volumetto di saggi presso una casa editrice della Germania Occidentale (Wider den missverstandenen Realismus, Amburgo, 1958).

Può darsi che la relativa immunità di Lukács sia dovuta all’interesse che gli intellettuali socialisti al di fuori della cortina di ferro hanno avuto per il suo caso. Ma certamente il problema più importante è questo: come considerò Lukács stesso le sue convinzioni e i suoi risultati alla luce della tragedia di ottobre? Fu attirato dal grande limbo della delusione? I suoi dei finirono per abbandonarlo?

Questioni del genere non possono essere spinte molto lontano senza cadere nella futilità: esse coinvolgono quel luogo intimo di illusione vitale che conserva la coscienza religiosa o rivoluzionaria. Il giudizio espresso da Lukács sulla rivoluzione ungherese si trova in una prefazione da lui scritta nell’aprile del 1957: «Avvenimenti importanti si sono verificati in Ungheria e altrove, costringendoci a rimeditare molti problemi connessi con l’opera di tutta la vita di Stalin. La reazione a quest’ultimo, sia nel mondo borghese che nei paesi socialisti, sta assumendo la veste di una revisione degli insegnamenti di Marx e di Lenin. E ciò costituisce certamente la minaccia principale al marxismo-leninismo». Queste parole sembrano eludere disperatamente il punto. Ma teniamo bene in mente una cosa soltanto: per uomini come Koestler o Malraux, il comunismo fu un espediente temporaneo di passione. Il comunismo di Lukács è la fibra stessa della sua intelligenza. La sua interpretazione della crisi dell’ottobre 1956, qualunque possa essere, sarà stata ottenuta entro la cornice di una visione dialettica della storia. L’uomo che ha perso la vista continua a vedere quanto gli sta intorno in forma di immagini ricordate. Per sopravvivere intellettualmente, Lukács deve aver elaborato un compromesso interiore di qualche genere: simili spedizioni punitive nella propria coscienza sono tipiche della condizione marxista. Il suo commento sulla minaccia del revisionismo ci indica la strada. Se lo interpreto in maniera corretta, Lukács sta dicendo che l’episodio ungherese è un’estensione finale, una reductio ad absurdum della politica stalinista. Ma tale politica era una falsa partenza dalla dottrina marxista-leninista e la violenza con cui venne attuata ne prova soltanto il fallimento. La giusta reazione al disastro ungherese non implica pertanto un abbandono dei princìpi primi marxisti. Al contrario, bisogna tornare a tali princìpi nella loro formulazione genuina. O, come si esprimerebbe uno dei capi dell’insurrezione: «Opponiamoci all’Armata Rossa in nome del Soviet dei lavoratori di Leningrado del 1917». Vi è forse, in questa idea, l’antico, ingannevole sogno del comunismo separato dall’oscurantismo e dalle ambizioni particolari della dominazione russa.

Lukács si è sempre ritenuto responsabile verso la storia. Ciò gli ha consentito di produrre un corpo di opere critiche e filosofiche che esprimono intensamente lo spirito crudele e serio dell’epoca. Che noi ne condividiamo o no le convinzioni, non c’è dubbio che egli ha conferito alla Musa minore della critica una notevole dignità. Gli ultimi anni di solitudine e di pericolo ricorrente non fanno che sottolineare quanto ho osservato all’inizio: nel Novecento non è facile per una persona onesta fare il critico letterario. Ma, del resto, non lo è stato mai.

1 Storia e coscienza di classe è ora reperibile in francese. Viene inoltre ristampato anche nell’edizione tedesco-occidentale delle opere complete di Lukács, insieme con altri saggi giovanili che sono tra i suoi migliori prodotti in campo filosofico e fanno di lui un autentico predecessore di Walter Benjamin. Le autorità culturali dell’Est permettono queste pubblicazioni occidentali di libri marxisti eretici ma prestigiosi: è questo un tocco caratteristico di politica «bizantina».

Il campione del realismo socialista

di David Pike

«Lettera Internazionale, n. 23, 1990.

Nel saggio Il romanzo storico Lukács forniva una sua interpretazione della letteratura moderna, secondo la quale un nuovo culto dei fatti si era affermato nell’età dell’imperialismo. Nel naturalismo, in particolare, e in seguito anche nella letteratura della «Neue Sachlichkeit», si erano formate «correnti pseudorealistiche», sulla base di un culto dei fatti isolati, avulsi dal contesto, culto culminato nella teoria del montaggio come arte. Ma il montaggio, come surrogato dell’arte, era il condensato delle false tendenze del naturalismo – in quanto, a differenza del naturalismo originale, rinunciava persino a osservare la realtà empirica – e rappresentava al tempo stesso il trionfo del formalismo, perché la connessione tra i dettagli non aveva niente a che fare con la dialettica interna oggettiva dei personaggi e dei loro destini.

In una letteratura così decadente, secondo Lukács, non poteva esserci spazio per il realismo, dato che un tale genere di scrittura priva di intreccio era incapace di verificare la validità delle esperienze e delle emozioni dei personaggi al confronto col mondo esterno: «La dialettica intrinseca ai loro destini non può quindi trascendere le intenzioni dello scrittore, i suoi pregiudizi di fondo, né può sconfessare tali pregiudizi per mezzo dell’analisi coraggiosa del genuino processo della vita». Le prospettive di un trionfo del realismo, irrealizzabili fin tanto che il «mondo del capitalismo» veniva descritto in una condizione statica, finale, erano inversamente proporzionali alla capacità dello scrittore di manipolare arbitrariamente i propri personaggi e le loro azioni.

Le buone intenzioni dello scrittore, la sua scelta di essere politicamente e socialmente «rivoluzionario» restavano, secondo Lukács, del tutto irrilevanti al riguardo. Le intenzioni di molti autori che si ritenevano sinceri e appassionati avversari del capitalismo si limitavano a galleggiare in superficie, come un’astratta tendenza politico-sociale. Il grande realismo si era concluso, dunque, in un’era di declino ed era stato soppiantato da una letteratura apertamente reazionaria e apologetica, come pure da una lunga scia di correnti letterarie che «con uno stile molto radicale e di avanguardia, si sforzavano in realtà di sradicare le ultime tracce di realismo». Quali che fossero le intenzioni dei rappresentanti di questa scuola, concludeva Lukács, essi erano oggettivamente alleati della borghesia nella sua lotta contro il vero realismo.

La condanna dell’espressionismo

Il fatto che l’attacco di Lukács al modernismo – non importa che lo chiamasse naturalismo, formalismo, montaggio, reportage, surrealismo, soggettivismo o semplicemente decadenza – abbia avuto come punto di partenza il dibattito sull’espressionismo, fu probabilmente il risultato di una coincidenza iniziale. Già nel 1932, nel suo articolo su Ottwalt, Lukács aveva affrontato il tema dell’espressionismo, che considerava soltanto come una delle molte correnti antirealistiche. Più tardi, nel 1933, aveva scritto un saggio dedicato esclusivamente all’espressionismo, definito una forma letteraria dell’imperialismo avanzato, facilmente asservita alla demagogia fascista e alla combinazione di decadenza e regressione propria del fascismo. Il soggetto fu abbandonato fino al settembre 1937, quando Klaus Mann pubblicò su Das Wort un saggio dedicato alla breve infatuazione di Gottfried Benn per il nazionalsocialismo. Questa fu la coincidenza. Ma, nello stesso numero della rivista, all’articolo di Mann ne seguiva «casualmente» uno di Alfred Kurella, che conteneva una condanna sommaria dell’espressionismo e riprendeva molti dei giudizi espressi nel 1933 da Lukács. E questa non fu una coincidenza. Das Wort infatti pubblicò entrambi i saggi con l’annuncio che «l’espressionismo» era l’argomento di «discussione».

Kurella, scrivendo con lo pseudonimo di Bernard Ziegler, aggiungeva agli argomenti di Lukács un tema tipico del realismo socialista; l’opposizione tra popolarismo e formalismo. Per Kurella la letteratura antifascista doveva chiarire la propria posizione nei riguardi della storia dell’arte recente, di cui l’espressionismo costituiva l’ultimo movimento significativo. Avanzava quindi la seguente osservazione provocatoria: «In primo luogo, oggi è evidente quale spirito abbia prodotto l’espressionismo, e dove questo spirito ci abbia condotti: al fascismo. Inoltre … tutti noi dobbiamo ammettere onestamente di essere stati in qualche modo segnati da quegli anni». Se la letteratura antifascista doveva essere «qualcosa di più di un momento nella decadenza generale della letteratura tedesca», se si trattava di «dare inizio a una grande arte in grado di riprendere le autentiche tradizioni della cultura nazionale e internazionale»; ciò sarebbe dipeso in gran parte dalla capacità di eliminare i residui espressionisti. Kurella, sostenendo che l’espressionismo aveva contribuito alla «liquidazione» dell’eredità classica e non aveva offerto alcun contributo alla lotta antifascista, domandava agli scrittori emigrati di prendere posizione su tre problemi che riguardavano: l’atteggiamento verso i classici, il formalismo («il principale nemico di una letteratura che aspira veramente alle grandi vette»), e il popolarismo, cioè l’attenzione per il popolo («criterio di base di ogni autentica grande arte»).

L’intenzione di Mosca era certamente quella di far scoppiare una polemica e di utilizzarla per imporre anche agli scrittori che non vivevano in Urss un codice letterario già imperativo per i letterati sovietici. I moscoviti contavano, senza dubbio, su una grande reazione alla provocazione di Kurella; ma, almeno all’inizio, ve ne furono ben poche. Ernst Bloch domandò se l’articolo di Ziegler fosse stato scritto prima o dopo il discorso di Hitler a Monaco che denigrava l’espressionismo come «arte degenerata», una coincidenza imbarazzante che tuttavia non fu sufficiente a impedire agli esiliati in Unione Sovietica di portare avanti la loro polemica. Erpenbeck rispose che in effetti l’articolo di Ziegler era stato scritto prima del discorso di Hitler e invitò quindi Bloch a contribuire con un suo articolo.

Bloch e l’arte d’avanguardia

Bloch ne scrisse due, in collaborazione con Hanns Eisler, ma le aspettative di Mosca circa l’apertura di un dibattito rimasero ugualmente deluse. Infatti, non solo gli articoli furono inviati al Die neue Weltbühne invece che al Das Wort, ma per di più in essi si ignorava volutamente la questione dell’espressionismo. Bloch e Eisler si erano resi conto che l’articolo di Kurella sull’espressionismo non rappresentava che un modo indiretto e poco significativo di riproporre il punto di vista di Lukács sul realismo e sulla decadenza, senza coinvolgere almeno per il momento lo stesso Lukács. Nel primo dei saggi, dal titolo Avantgardekunst und Volksfront (Arte d’avanguardia e fronte popolare), Bloch e Eisler sottolineavano l’esigenza di un’incessante sperimentazione nell’arte d’avanguardia: «Oggi un artista può dirsi d’avanguardia solo se riesce a mettere le nuove tecniche artistiche al servizio della vita e della lotta delle masse». Il saggio seguente, Die Kunst zu erben (l’Arte da ereditare), centrava l’attenzione sulla lotta per il riscatto della tradizione dalla manipolazione fascista. L’obiettivo all’ordine del giorno al di fuori della Germania era quello di contribuire a «selezionare e a preparare il materiale classico utilizzabile ai fini di questa lotta». Per quanto riguardava Lukács, Eisler e Bloch osservavano che gli artisti non erano certo incoraggiati dall’affermazione che tutta l’arte moderna non poteva che essere decadente e che sempre lo sarebbe stata. Gli artisti avevano bisogno della comprensione e della consapevolezza dei problemi specifici in cui si imbattevano nello scrivere. «Per questo motivo, sarebbe opportuno che il teorico, che, per di più, si compiace a volte di vestire i panni del maestro di scuola, fosse più cauto nei suoi consigli agli artisti moderni», continuavano Bloch e Eisler, aggiungendo: «Che ignoranza dell’arte moderna traspare dalle loro (di Lukács e dei suoi sostenitori) prese di posizione! Che pregiudizi, che cecità! Tutto quello che accade nella nostra epoca viene considerato qui come pura e semplice putrefazione, sommariamente, a priori, senza fare nessuna distinzione». Era del tutto assurdo invitare tutti gli scrittori a prendere a modello i classici: «Si tratta di un nuovo tipo di donchisciottismo, ma di genere tutt’altro che cavalleresco».

Thomas Mann e la barbarie fascista

Un vasto dibattito si sviluppò ugualmente sui numeri successivi di Das Wort, sebbene dovessero passare alcuni mesi prima che Bloch mutasse opinione e accettasse di contribuirvi. Nel frattempo Das Wort ricevette e pubblicò nel numero di dicembre del 1937 e nei numeri di febbraio, marzo e maggio del 1938, cinque diversi saggi sull’espressionismo, dichiarando infine chiuso il dibattito con la pubblicazione di altre sette saggi nel fascicolo di giugno. Fino a giugno Lukács rimase in silenzio, seguendo quasi certamente un piano d’azione preordinato. Una risposta a Eisler e Bloch, intitolata Wozu brauchen wir das klassische Erbe (Perché abbiamo bisogno dell’eredità classica), non venne mai pubblicata. In questo saggio Lukács si mostrava più rude del solito, aggredendo Bloch per aver giudicato figure come Dos Passos e Brecht rappresentative dell’arte contemporanea e aver ignorato, invece, «i realisti veramente significativi della nostra epoca»: Romain Rolland, Thomas Mann e Heinrich Mann. Le tendenze progressive dell’arte contemporanea si riducevano dunque unicamente alla distruzione delle forme antiche, «quale veniva massicciamente praticata da Dos Passos nella prosa epica e da Brecht nella drammaturgia?» L’arte narrativa tradizionale di un Gor’kij, di un Rolland, o di un Thomas Mann non si era forse mostrata di gran lunga superiore, tanto nei suoi esiti artistici quanto in rapporto agli obiettivi democratici e culturali del fronte popolare, al confronto con questi esperimenti di distruzione della forma? Egli non intendeva affatto respingere in blocco l’arte contemporanea, ma solamente l’influsso delle «correnti antirealistiche». Bloch e Eisler, faceva quindi notare Lukács, avevano espresso la propria soddisfazione per la lotta condotta in Urss contro la sociologia volgare, ma avevano ignorato il risultato più significativo di questa lotta, «cioè, il concetto secondo il quale l’atteggiamento politico o ideologico di uno scrittore nei confronti di un certo sistema sociale non offre alcuna garanzia che la sua descrizione di questa società sia profonda e veritiera». Alcuni scrittori potevano essere politicamente e socialmente radicali, combattere contro le tendenze reazionarie della loro epoca e, nel contempo, aderire a correnti artistiche antiumanistiche. Di contro, esistevano scrittori politicamente molto meno radicali che opponevano tuttavia un’ostinata resistenza alle tendenze barbariche della loro epoca, attraverso un’analisi approfondita dei personaggi. Thomas Mann, per esempio. La sua opposizione alla barbarie, culminata nel fascismo, era stata «molto più radicale, determinata e coerente di quella di Brecht o di Dos Passos». La soluzione non era un astratto pro o contro, ma il «come sia possibile realizzare una forma di scrittura realista». In Brecht Lukács si esprimeva così:

Non discutiamo il talento. Brecht è uno scrittore estremamente dotato. Ma esaminiamo attentamente la sua interpretazione della Madre di Maksim Gor’kij, opera meravigliosa, umanamente matura e profonda. Il ritratto penetrante di Gor’kij, così ricco di prospettive, è stato tradotto da Brecht in un concitato e insipido dialogo attorno ad alcune tesi plagiate dal Das Kapital e dalla tattica comunista. Nella descrizione dei personaggi, Brecht si è sottomesso coscientemente a quelle tendenze dell’evoluzione moderna che soffocano tutto ciò che è umano e che accettano come esito immutabile, come «fato» la riduzione dell’uomo a numero. So bene che Brecht, sia come individuo sia come politico, è un accanito oppositore di questa evoluzione; tutta la teoria e la prassi della sua drammaturgia «anti-aristotelica» si basano, tuttavia, sull’accettazione dogmatica e acritica dell’attuale situazione sociale.

Gli scrittori contemporanei, presi nella morsa dei pregiudizi barbarici dell’epoca dell’imperialismo, avevano virtualmente perduto, secondo Lukács, ogni criterio qualitativo della narrazione; prendevano per vita reale un’accumulazione di dettagli superficiali e insignificanti, oppure scambiavano, uno schema astratto per la quintessenza della realtà. Diverso era il caso di Gor’kij, di Rolland, di Thomas e Heinrich Mann, che avevano passato la vita a combattere contro queste tendenze antiumanistiche e acritiche. Proprio per questo motivo «le loro opere sono intrise dello spirito grande, vitale e liberatorio del periodo classico». Bloch avrebbe dovuto riflettere un istante sul «popolarismo dell’arte classica», che nasceva dalla capacità degli autori classici di descrivere quelle energie umane, insite nel popolo, a cui era sufficiente una scintilla per diventare forze produttive e creative nella vita della società. «Osservare con occhio attento e descrivere il risveglio di queste forze nei popolo tedesco asservito dal fascismo, in modo tale che ne possa derivare un incitamento per le masse popolari», era questo il compito della letteratura del fronte popolare.

Realismo e tradizione

Anche se quest’articolo non fu mai pubblicato, Lukács ebbe ugualmente l’ultima parola nei dibattito sull’espressionismo con un altro saggio che fece seguito alle Diskussionen über Expressionismus di Ernst Bloch. Bloch aveva esordito dichiarando il suo proposito di riprendere le fila dell’intero dibattito, partendo dal saggio del 1933 di Lukács sull’espressionismo che, affermava Bloch, era alla base degli articoli di Ziegler e di Franz Leschnitzer. Bloch ribadiva il suo stupore per le scarse conoscenze mostrate da Lukács nel campo dell’arte moderna che «egli consegna, senza molti rimpianti, alla putrefazione capitalistica – e non solo, come sarebbe accettabile, in parte, ma completamente, in toto». Bloch comprendeva benissimo cosa si nascondeva dietro quest’atteggiamento intransigente: «La volontà di classificare la quasi totalità delle manifestazioni di opposizione alla classe dominante, che non siano sin dal principio comuniste, come espressioni della stessa classe dominante». Bloch affermava che la prosecuzione di una «tecnica del bianco e nero» era inappropriata all’epoca del fronte popolare. Respingeva, inoltre, le «tre domande» poste da Kurella-Ziegler facendo notare che erano state formulate in modo sleale, allo scopo di insinuare che chi rispondeva negativamente a quelle domande, o le considerava semplicemente malposte, nascondesse dentro di sé «vestigia espressioniste».

Lukács colse così l’opportunità per intervenire nel dibattito con il suo saggio Es geht um den Realismus. Il contrasto di opinioni non riguardava la letteratura moderna in opposizione ai classici, bensì la seguente domanda: «Quali autori, quali correnti letterarie rappresentano il progresso nella letteratura contemporanea? È una questione di realismo». Lukács ripeteva poi i concetti già esposti in altri suoi saggi: la letteratura come riflesso della realtà obiettiva; l’unita dialettica dell’apparenza e dell’essenza; la tendenza soggettiva, antirealistica, delle tecniche letterarie moderne a rimanere a livello della realtà immediata, superficiale; e l’idea centrale che, da un lato, uno scrittore non aveva bisogno di essere cosciente del suo ruolo per scoprire le tendenze segrete della realtà oggettiva ma che, dall’altro lato, il desiderio più fervido di rivoluzionare l’arte e di creare qualcosa di «radicalmente nuovo» non era sufficiente a fare di uno scrittore un anticipatore delle future tendenze dello sviluppo.

«La via che porta all’inferno è lastricata di buone intenzioni» scriveva Lukács, inoltrandosi in una disamina del popolarismo e della tradizione. «Essere in un rapporto profondo con la tradizione significa essere figlio di un popolo, essere trascinato dalla corrente dello sviluppo di un popolo». L’atteggiamento dell’avanguardia nei confronti della tradizione era invece l’opposto; gli artisti d’avanguardia si avvicinavano alla storia popolare «come a un gigantesco mercato di cianfrusaglie», continuava Lukács, e denunciava l’uso da parte di Bloch di espressioni quali: «parti utilizzabili della tradizione». Per lo stesso motivo criticava Hanns Eisler che proponeva, secondo Lukács, di rubacchiare qua e là dai classici e poi di amalgamare tra loro «i pezzi idonei» per impiegarli nella lotta antifascista. Lukács riconosceva che lo sviluppo popolar-realista della letteratura contemporanea tedesca non era così pronunciato come in altri paesi, ma proprio per questo motivo si doveva concentrare l’attenzione sulla «letteratura popolar-realista tedesca del passato»; questa letteratura esisteva, e il Simplizissimus di Grimmelhausen ne costituiva un esempio di rilievo. «Lasciamo pure agli Eisler gli apprezzamenti sul valore del montaggio delle parti smembrate di questo capolavoro – per una letteratura tedesca viva esso continuerà ad esistere … in tutta la sua grandezza come una totalità vitale e simbolica».

Opere di questo genere, consentendo la comprensione delle epoche democratiche e progressive dell’evoluzione umana, preparavano, secondo Lukács, tra le grandi masse un terreno fertile per «una democrazia rivoluzionaria di un nuovo tipo, rappresentata dal fronte popolare». Quanto più profondamente la letteratura militante antifascista era radicata in questo suolo, tanto maggiore sarebbe stata la sua influenza sul popolo. «Il fronte popolare significa: lotta per un autentico popolarismo, abbondanza di legami con l’intera vita del proprio popolo; significa individuare linee d’azione, parole d’ordine che, sulla base di questa vita del popolo, risveglino le inclinazioni verso una vita nuova, politicamente attiva». L’emigrazione e la lotta per il fronte popolare in Germania avevano rafforzato queste tendenze, benché esistessero ancora tradizioni antirealistiche che avevano profonde radici tra molti progressisti e leali militanti del fronte popolare.

La protesta di Brecht

I redattori moscoviti speravano ancora di indurre Bertold Brecht a una replica, alla quale avrebbero senza dubbio ribattuto con una risposta adeguata di Lukács. L’ironia era che tutto ciò avveniva sul giornale di Brecht! Quest’ultimo però si rendeva lucidamente conto dell’inutilità di un dibattito pubblico con Lukács e con i suoi sostenitori. L’approccio di Lukács alla letteratura era talmente estraneo all’estetica di Brecht da rendere inutile ogni discussione, per quanto prolungata. Tuttavia, il saggio di Lukács Es geht um den Realismus, e in particolare i pesanti commenti su Eisler, avevano provocato la sua ira. Venuto a conoscenza del manoscritto destinato al numero di giugno di Das Wort e, almeno teoricamente, in attesa della sua approvazione per essere pubblicato, Brecht protestò, ma la sua protesta fu ignorata: il saggio di Lukács fu pubblicato contro la sua volontà. Poco tempo dopo, Brecht scrisse di nuovo a Kurella, evidentemente in risposta a una lettera che gli era stata indirizzata. Brecht allegava una breve nota destinata ad essere pubblicata su Das Wort, riguardante il passo del saggio di Lukács che si riferiva a Eisler, e comunicava a Kurella il prossimo invio di un suo saggio dal titolo Volkstümlichkeit und Realismus (Popolarismo e realismo).

La voce di Brecht non fu l’unica a levarsi in segno di protesta. Il 20 agosto Hanns Eisler inviò a Das Wort un Antwort an Lukács (Risposta a Lukács), esprimendo la speranza che la sua replica fosse immediatamente pubblicata. Sarebbe stato «assolutamente imperdonabile» che gli fosse negata l’opportunità di rispondere all’«incredibile ingiuria» di Lukács, tanto più che «il mio amico Brecht mi ha scritto che avete rifiutato di pubblicare le sue considerazioni sull’argomento».

Ma Erpenbeck, il direttore di fatto della rivista moscovita, si rifiutò di pubblicare anche l’Antwort di Eisler, con il pretesto di averla ricevuta in ritardo, a dibattito ormai concluso. Se fosse arrivata prima, assicurava Erpenbeck, «l’avremmo senz’altro pubblicata … Non c’è bisogno di dire che tutti i nostri collaboratori, compreso Lukács, hanno un uguale diritto ad esprimere le loro opinioni», in cambio, si chiedeva ad Eisler di scrivere un saggio sul popolarismo o Volksnähe, poiché il dibattito sarebbe continuato in questa direzione, e Eisler avrebbe avuto migliori opportunità di polemizzare con Lukács con un articolo su questo tema, che non nella Antwort. Erpenbeck suggeriva ad Eisler di esporre il proprio punto di vista seguendo queste linee: «si può porre questa equazione: realismo equivale a popolarismo, ma quest’equazione è schematica». Avrebbe potuto usare Lukács come «esempio negativo».

Il compromesso proposto da Erpenbeck non riuscì a placare Eisler. Questi si diceva disposto a scrivere un articolo sul popolarismo, ma ciò non aveva niente a che fare con una replica a Lukács, una «risposta necessaria, una volta per tutte, ad un modo inaccettabile di discutere e di travisare le cose». Inutile a dirsi, Eisler avrebbe potuto in qualsiasi momento pubblicare l’Antwort sulla Neue Weltbühne; ma ciò avrebbe dato l’impressione che esistessero delle divergenze tra le due riviste e vi avrebbe quindi fatto ricorso solo in caso estremo. Finì per pubblicarlo sulla Neue Weltbühne.

Nel frattempo, Lukács aveva espresso un altro giudizio sprezzante su Brecht. Nel numero di luglio dell’«Internationale Literatur», Lukács aveva pubblicato la traduzione tedesca di Marx und das Problem des ideologischen Verfalls. Si diceva in essa che gli scrittori antirealisti potevano essere «onesti e appassionati oppositori del capitalismo» ma che queste inclinazioni socio-politiche rimanevano al livello di una tendenza socialmente e politicamente astratta. «Il risultato è, in casi del genere, un utilitarismo letterario astrattamente rivoluzionario, come in certi drammi di Brecht o nei romanzi di Erenburg». La pubblicazione di questo scritto, che faceva seguito all’apparizione del saggio di Lukács nel numero di giugno di Das Wort, colmava veramente la misura per Brecht. In una lettera a Willi Bredel, a Parigi, egli scrisse che il lavoro a Das Wort diveniva sempre più problematico; la rivista sembrava aver preso un andamento strano in cui «una ristretta cerchia, capeggiata evidentemente da Lukács e Hay, sta costruendo una forma ideale ben definita, che implica l’opposizione a
tutto ciò che non si accorda con questo tipo di forma, che si rifà sostanzialmente ai romanciers borghesi del secolo scorso». L’importante battaglia contro il formalismo stava per trasformarsi a sua volta in formalismo. Brecht così continuava:

Nel settimo numero dell’«Internationale Literatur» c’è un nuovo attacco di Lukács, che mi definisce un decadente borghese … Ogni tanto ricevo da Erpenbeck la richiesta di partecipare al dibattito, ma non ho alcun interesse a farlo, ovviamente; considero infatti questi dibattiti dannosi e generatori di confusione, in particolare in un momento come questo, in cui l’opinione del virtuoso Lukács finisce sempre per essere apprezzata (almeno dallo stesso Lukács) come l’autentica posizione marxista.

Per il momento, continuava Brecht, non riceveva da Das Wort che materiale già selezionato e le sue obiezioni non venivano mai prese in considerazione. «Posso assicurarti» diceva a Bredel, «che non sopporterò a lungo questo stato di cose. Dopo tutto, per noi è importante avere questo giornale ed è estremamente importante che sia un buon giornale. Cosa si può fare?» Non venne fatto nulla, e nessuno degli articoli e delle note di Brecht fu mai pubblicato, né Volkstümlichkeit und Realismus, il pezzo su Eisler, né la monografia di Brecht su di lui, mentre non è ancora chiaro se l’articolo sul popolarismo sia mai stato spedito a Mosca. Dopo l’articolo di Lukács del luglio, Brecht potrebbe aver deciso che ormai fosse inutile inviarlo a Erpenbeck.

Questioni di potere

Brecht rispose però privatamente agli affronti subiti, con vari articoli e con i commenti dei suo Arbeitsjournal. Lesse inoltre i suoi saggi a Benjamin, chiedendogli un consiglio sull’opportunità di pubblicarli. Dal momento che Lukács occupava a Mosca «un’importante posizione», come gli aveva detto Brecht, Benjamin ne concluse che si trattava di questioni di potere; era necessario che a Mosca qualcuno si alzasse in piedi per far sentire la sua voce. «Hai ancora degli amici laggiù, dopo tutto», disse Benjamin a Brecht, che rispose: «Al momento non ho più amici laggiù. Neppure i moscoviti ne hanno – come i morti». Così i saggi in questione rimasero tutti inediti, con una sola eccezione, fino al 1966. In essi Brecht ribadiva un unico concetto: «Fare del realismo una questione di forma, legarlo a una sola e unica forma (e per di più antiquata), significa sterilizzarlo», scriveva in Die Expressionismusdebatte. In un secondo articolo aggiungeva che «il realismo non è una questione di forma. Non si può prendere la forma da un autore realista … e chiarmarla la forma realista. Non è realistico … Nella critica occorre guardarsi dal formalismo. È una questione di realismo». In un terzo saggio, invitava i critici a comprendere che, rifiutandosi di considerare le questioni formali nell’ottica della lotta per il socialismo, condannavano se stessi al formalismo critico.

Questi articoli, per quanto fossero, come disse Benjamin, «veementi», conservavano ancora una sorta di riserbo e di correttezza, né contenevano giudizi sprezzanti su Lukács. Ben diverso è il tono degli appunti del diario di Brecht dei mesi di luglio, agosto e settembre 1938 e di un ultimo commento del gennaio 1939. Lukács, la cui «importanza consiste nel fatto che scrive da Mosca», era un «morxista», affermava Brecht, e aggiungeva sardonicamente: «Nelle pagine letterarie dei giornali pubblicati dai marxisti è riaffiorato frequentemente, di recente, il concetto di decadenza. Ho scoperto che anch’io sono parte di questa decadenza. Naturalmente la cosa mi ha interessato moltissimo. Leggendo Marx und das Problem des ideologischen Verfalls di Lukács, Brecht ne criticava il concetto di rappresentazione (Gestaltung). Balzac e Tolstoj «rappresentavano» e quindi riflettevano la realtà, proprio come Šolochov e Thomas Mann. Ma in questo modo, scriveva Brecht, «non c’è più conflitto tra il realismo della borghesia e quello del proletariato … per rappresentare non c’è bisogno di sapere nulla (Thomas Mann, per esempio, rappresenta e, in fin dei conti, non sa nulla). Mentre rappresentano, questi half-wits lasciano che la realtà abbia il sopravvento sui loro pregiudizi, senza accorgersene. È un processo di esperienza diretta: prendi un calcio, dici ahi! Lui prende un calcio e dirà ahi! O beata semplicità!» Per «i Lukács» la lotta di classe era un concetto svuotato, prostituito, saccheggiato: nient’altro che un vuoto principio. Dal momento che la lotta di classe esisteva realmente, allo scrittore bastava ritrarre la realtà per catturarla nelle sue opere. Dopotutto, era noto che la lotta di classe era presente ovunque, proseguiva ironicamente Brecht: «Una tale ottusità è gigantesca».

Scrittori e professori

Brecht comprendeva perfettamente il significato della distinzione tra narrazione e descrizione operata da Lukács, ma riteneva che la forma narrativa di Balzac e di Tolstoj fosse stata definitivamente superata da un «prosaico complesso di cose» quali le miniere, il denaro e così via – i temi di Zola. Gli ammonimenti dei «professori» non avrebbero rimesso insieme i pezzi della vecchia forma narrativa realista, diceva Brecht, aggiungendo in inglese: «all the king’s horses and all the king’s men couldn’t put Humpty Dumpty together again». Brecht comprendeva, inoltre, perfettamente il carattere intimidatorio degli articoli di Lukács. Se avesse seguito questa falsariga, il dibattito sul realismo avrebbe finito col bloccare la produzione letteraria, confidava Brecht a Benjamin; e, riferendosi a Lukács, Gábor e Kurella, aggiungeva: «Questi sono nemici della produzione. Ai loro occhi, la produzione è sospetta: è l’imprevedibile. Non se ne possono conoscere in anticipo i risultati. Per quello che li riguarda, non vogliono produrre niente. Vogliono giocare agli apparatčik e controllare gli altri. Ciascuna delle loro critiche contiene una minaccia».

Alla fine dell’estate del 1938 il dibattito sull’espressionismo, che i Moscoviti si sforzavano di orientare sulla questione del «popolarismo», cominciò a dare segni di stanchezza, nonostante la recensione dell’Enrico Quarto di Heinrich Mann pubblicata da Lukács nel numero di agosto di Das Wort, che ripeteva sostanzialmente gli argomenti a favore del popolarismo esposti precedentemente in Der Historische Roman. Nel numero di settembre egli pubblicò, inoltre, un articolo sul popolismo di Tolstoj, estratto dal suo lungo saggio sullo scrittore russo. Il dibattito vero e proprio si concluse con un articolo ipocrita di Kurella, che dichiarava di non aver voluto, con quanto aveva scritto su Benn e con le successive osservazioni sull’espressionismo, dare il via a una polemica. Erpenbeck tentò quindi di aprire un nuovo dibattito sul tema del popolarismo, sottolineandone il ruolo centrale nell’arte antifascista. Ma con gli scritti di Kurella e di Erpenbeck, il dibattito sull’espressionismo e il popolarismo si chiuse definitivamente, probabilmente per lo scarso interesse degli interlocutori occidentali; dopo tutto, non aveva molto senso impegnarsi in una discussione su Das Wort o su Internationale Literatur con emigrati tedeschi a Mosca che non avrebbero potuto o voluto comunque dissentire su questi temi. La questione si riaffacciò brevemente nel maggio 1939, quando I.L. pubblicò uno scambio di lettere tra Anna Seghers e Lukács. In seguito, dopo la guerra, gli stessi temi furono di nuovo ripresi e dibattuti nella Germania orientale.

Le illusioni di Roth

Verso la fine del 1939, Lukács prese parte all’ultimo dibattito letterario del suo esilio sovietico. Questa volta, però, le parti si erano invertite. Il primo segnale che mise a repentaglio il prestigio goduto da Lukács nei tre anni precedenti venne da un editoriale della Literaturnaja gazeta del 10 agosto 1939. L’editoriale attaccava le idee della sociologia volgare come «antimarxiste e perniciose», «sebbene non se ne debba trarre la conclusione che una caduta nel sociologismo volgare trasformi automaticamente qualcuno in un nemico dei popolo». La rivista aggiungeva che la sociologia volgare aveva utilizzato un’analisi di classe per «smascherare» i grandi artisti del passato. Ora, però, si stava verificando l’opposto: qualsiasi forma di analisi di classe era stata bandita dalla critica letteraria e l’uso eccessivo dei «concetti di “umanesimo” e “popolarismo”» aveva tolto loro ogni significato; «la sociologia volgare e l’umanesimo volgare sono due manifestazioni di una stessa debolezza, il passaggio da un estremo all’altro», concludeva l’editoriale.

Cinque giorni dopo, Lukács pubblicò sulla stessa rivista un breve articolo su Marcia di Radetzsky di Joseph Roth, nel quale fece un’osservazione che gli si ritorse immediatamente contro: «È un fenomeno curioso: i significativi meriti artistici di quest’opera, anche se non derivano dalla debolezza ideologica dell’autore, sono, tuttavia, ad essa intimamente connessi. Se Roth non avesse sofferto a causa delle proprie illusioni, difficilmente avrebbe saputo penetrare così profondamente nel mondo interiore dei suoi funzionari e ufficiali».

Questa affermazione fu la fonte principale dell’accusa rivolta a Lukács di mettere in relazione la mentalità reazionaria di un autore con i suoi meriti artistici. Vladimir Ermilov la isolò e se ne servì per il primo importante attacco contro Lukács e contro le «idee perniciose di Literaturnyj kritik. Secondo Ermilov, Lukács riteneva che la capacità di descrivere veridicamente la realtà fosse proporzionale alla quantità di false illusioni coltivate da un autore. Non era certamente questo che Lukács aveva inteso dire, almeno non in questa forma volgarizzata e ipersemplificata, tuttavia, si era servito di una «frase pericolosa», come la definì Lifšic nel 1977, e aveva scritto in modo troppo «incauto, senza considerare le circostanze» (3). Come ebbe a dire, poi, Igor Sac, segretario di redazione della Literaturnyj kritik, il dibattito che seguì fu talmente fumoso che gli stessi contendenti non riuscivano a distinguere chiaramente la posizione dei propri avversari (4).

Spengler sul trono

La disputa vera e propria si accese intorno a K istorii realizma (Per la storia del realismo) una raccolta di saggi scritti e per la maggior parte già pubblicati da Lukács negli anni 1934-36. Le idee contenute in quei saggi divennero improvvisamente sospette. Evgenija Knipovič attaccò il volume e lo stesso Lukács, accusandolo di aver sostenuto, nel suo saggio su Balzac e Stendhal, che la posizione «più aperta, più limpida, più progressista» di Stendhal, rispetto a quella di Balzac, gli aveva impedito di divenire uno scrittore autenticamente realista. Si trattava, dunque, del ribaltamento della tesi secondo la quale l’ideologia reazionaria di uno scrittore ne favoriva il realismo. Lifšic rispose alla Knipovič all’inizio del 1940, sempre sulla Literaturnaja gazeta, che conduceva ora il dibattito, con un articolo intitolato Basta, nel quale sosteneva che la Knipovič non era seriamente interessata a un sincero scambio di opinioni. Le basi per una vera discussione erano pregiudicate da «accuse politiche sotterranee». In passato, la Knipovič aveva sostenuto la tesi della sociologia volgare ma ora, dopo la sconfitta di quest’ultima, aveva mutato di 180 gradi la propria posizione. Secondo Lifšic, alle analisi di classe della sociologia volgare e al settarismo autocompiaciuto nei riguardi degli scrittori occidentali, ormai screditati e sconfitti, si era sostituita adesso una «terminologia liberal-democratica volgare e non-marxista», che adottava un atteggiamento acritico nei confronti della rivoluzione francese e accusava Lukács di essere un «termidoriano».

Con l’intensificarsi degli attacchi, gli avversari di Lukács battezzarono «Corrente» o «Nuova corrente» la scuola di Lukács, Lifšic e di Literaturnyj kritik. Nessun critico, però, si mostrò così abile come N.N. Viljam-Vilmont, che usò contro Lukács e Lifšic le loro stesse dottrine. In un articolo il cui titolo illustrava eloquentemente il contenuto (L’intronizzazione di Oswald Spengler), Viljam-Vilmont denunciava la «revisione del marxismo-leninismo che da diversi anni era stata pilotata da Lifšic e da Lukács». Le teorie di Lifšic non erano dissimili da quelle degli «ideologi della decadenza»: Lifšic era il «revisionista». Erano proprio Lukács e Lifšic, irriconciliabili nemici di ogni «volgarizzazione», che interpretavano la teoria leninista del rispecchiamento in «maniera volgare». Le loro «chiacchiere sui benefici di una Weltanschauung reazionaria», sull’ibrido incrocio tra «reazionario e plebeo» erano comprensibili solo nei termini di Spengler. L’arte, ammoniva Viljam-Vilmont, non si limitava a rispecchiare la lotta di classe, ma era anche l’«arena» della lotta di classe. Infine, concludeva Viljam-Vilmont, i rappresentanti della Corrente non solo avevano soppresso e mutilato con i loro «gelidi schemi» la grande eredità del passato, ma cercavano anche di «distorcere le impressioni dei lettori sovietici sugli sviluppi della letteratura occidentale contemporanea». Il «marxismo leninismo» di Lukács e Lifšic era completamente fagocitato dalla filosofia di Spengler.

Lukács rispose agli attacchi. Questa volta, però, i ruoli assunti da Brecht e da Lukács ai tempi del dibattito sull’espressionismo si invertirono: nessuno dei cinque saggi scritti da Lukács fu pubblicato, tranne uno, dal titolo Prinzipielle Fragen einer prinzipienlosen Polemik (Questioni di principio di una polemica senza principi). «Uno spettro di aggira per la nostra teoria letteraria – scriveva Lukács –. La sociologia volgare, sconfitta in seguito ai dibattiti degli anni Trenta, ha ammesso saggiamente di essere morta, ha rinunciato alle sue indifendibili posizioni e ha mutato la sua terminologia, anzi si è perfino appropriata, con consumata abilità mimetica, di quelle dei suoi avversari. Ma il suo modo di pensare è rimasto sostanzialmente lo stesso». Che cos’è che stava più a cuore alla sociologia volgare? «I dibattiti degli anni Trenta» lo avevano rivelato chiaramente: il progresso non contraddittorio che, avviato dalla borghesia liberale, procedeva fino al socialismo. Era questo il punto su cui Lukács concentrò i suoi attacchi contro la nuova sociologia volgare: la sua inclinazione a giudicare acriticamente la borghesia liberale e progressista, denunciando qualsiasi critica alla borghesia come un attacco al progresso in generale, come pessimismo, come reazione. «Una ritirata strategica è sempre la preparazione di una nuova offensiva», affermava Lukács, «ed ecco che gli assalti dei sociologi volgari si sono fatti da qualche tempo più frequenti». L’articolo della Knipovič costituiva un esempio interessante di questi «assalti» condotti dalla risorta sociologia volgare. Criticando l’articolo di Lukács su Balzac, la Knipovič resuscitava («contraddicendo Engels») la tesi obsoleta della supremazia di Zola su Balzac, del naturalismo sul realismo autentico. Alcuni anni prima la stessa tesi, sostenuta in un assalto frontale, aveva dovuto subire una disastrosa sconfitta. Si assisteva ora ad un mutamento di tattica: Stendhal non significava nulla per la Knipovič; il suo «grande nome è stato strumentalizzato per una manovra sul fianco».

Contro il sociologismo volgare

In Verwirrungen über den Sieg des Realismus, Lukács tornava a precisare la sua interpretazione del concetto engelsiano di trionfo del realismo. Tale trionfo poteva assumere forme diverse in scrittori diversi appartenenti a differenti epoche e classi. Gli avversari della Corrente, rifiutando di ammettere le limitazioni, le inesattezze, le illusioni della Weltanschauung progressista-borghese e credendo, invece, a uno sviluppo storico lineare e non contraddittorio, dividevano meccanicamente la letteratura e gli scrittori in due gruppi: quelli con una visione del mondo progressista, che potevano favorire la letteratura, e quelli con una visione reazionaria, che potevano solo danneggiarla. Questa concezione chiaramente si scontrava con la dottrina di Lukács, secondo la quale una visione reazionaria non riusciva a volte a nascondere la veridicità di una rappresentazione, mentre una Weltanschauung progressista non offriva di per sé nessuna garanzia di realismo. Per i «compagni» Knipovič e Kirpotin non esisteva su questo punto nessuna difficoltà: né una contraddizione dialettica tra Weltanschauung, realtà e letteratura, né un insieme di problemi artistici. Essi potevano ragionare soltanto in termini di «solo reazionario» o «solo progressista».

Secondo Lukács, tutti i suoi avversari applicavano alla letteratura uno «standard democratico-formale» che li spingeva ad assumere come figure letterarie centrali Byron, Hugo e Zola, invece di Goethe, Puškin Shelley, Balzac e Tolstoj. Questi critici (chiamati da Lukács «progressivisti») giudicavano ancora le opere sulla base delle concezioni dell’autore. Kirpotin, per esempio, prendeva le mosse dallo studio del punto di vista intellettuale di uno scrittore e delle sue opinioni politiche. In seguito, ricercava l’espressione di queste opinioni nella sua opera, negando ogni possibile influenza diretta della realtà stessa. Le cose erano cambiate soltanto in questo, continuava Lukács: che Kirpotin e C. non avevano più il coraggio di rifiutare in toto Shakespeare o Balzac a causa delle loro concezioni, come ai tempi d’oro della sociologia volgare. Si trattava, però, di una riconciliazione superficiale con il marxismo, che non intaccava la sostanza del loro modo di valutare la letteratura.

In realtà, che cosa avevano fatto i collaboratori di Literaturnyj kritik? Essi avevano semplicemente epurato la loro estetica da espressioni di decadenza letteraria, anche quando i singoli scrittori, nel corso della loro «zigzagante carriera», esprimevano concezioni che avevano conquistato i «progressivisti». Ma Lukács era sicuro che, anche questa volta, «come nei dibattiti sulla Rapp», i metodi poco scrupolosi dei sociologi volgari nulla avrebbero potuto contro la verità del marxismo-leninismo.

Lukács riassumeva, così, la sua posizione: l’ingenuo errore dei «volgarizzatori» consisteva nel situare le Weltanschauungen al di fuori del tempo, dello spazio e delle circostanze sociali; essi consideravano solo l’astratto schema «reazionario o progressista» e abbassavano le opere d’arte al loro volgare livello. Ma l’elemento progressista di un Balzac o di un Tolstoj era invece intimamente connesso con i limiti, e le idee di retrività pure presenti in questi autori, così come avveniva per qualsiasi corrente progressista borghese. Occorreva sottolineare con forza questo punto, proseguiva Lukács. I suoi avversari invece procedevano da una visione assiomatica secondo la quale le concezioni progressiste in senso borghese, non hanno alcun limite, e l’engelsiano trionfo del realismo – la vittoria della verità della vita sui pregiudizi di uno scrittore – è possibile e necessario solo nel caso di scrittori reazionari (sempre in senso borghese). Lukács concludeva esprimendo la convinzione che si dovesse combattere l’applicazione meccanica di standard democratico-formali, perché avrebbe condotto alla liquidazione del marxismo-leninismo.

La liquidazione della Corrente

Fu la Corrente, invece, e non il marxismo-leninismo ad essere liquidata, in seguito a una risoluzione speciale del Comitato Centrale del Soviet che stabiliva la cessazione della Literaturnyj kritik con il numero di marzo. Il mese successivo Krasnaja nov riassumeva così tutte le «perniciose opinioni» di Literatumyj kritik: sotto il «vessillo della lotta contro l’ipersemplificazione della sociologia volgare» la rivista aveva sostenuto che la storia dell’arte e della letteratura è estranea alla lotta di classe. «Il gruppo riunitosi attorno a Literaturnyj kritik ha rimpiazzato le classi e la lotta di classe con i concetti astratti di “popolo” e di “popolarismo”» – scriveva Krasnaja nov, precisando che tutto ciò che Engels aveva scritto su Balzac e Lenin su Tolstoj (le citazioni preferite di Lukács) contraddicevano apertamente le asserzioni della Corrente lukacciana. Citando il commento di Lukács su Joseph Roth, la rivista sottolineava, come aveva già fatto Ermilov, che Balzac e Tolstoj avevano scritto grandi opere non «grazie» alla loro concezione reazionaria, ma «nonostante» ciò. Naturalmente, questa era sempre stata la posizione di Lukács, ma lo scopo del dibattito non era quello di ristabilire la verità storica.

L’accusa più grave rivolta contro la Corrente fu, comunque, quella di essersi isolata dal mondo della letteratura sovietica e dalla maggioranza degli scrittori sovietici. Basando le loro idee su una teoria del declino, Lukács e Lifšic erano indotti a vedere anche l’arte sovietica come una manifestazione decadente (6). Literatumyj kritik e i suoi redattori, concludeva Krasnaja nov, avevano «un atteggiamento sprezzante nei confronti della letteratura sovietica».

Il realismo socialista e l’Occidente

Non c’è alcun dubbio sull’influenza esercitata da Lukács nell’ambito della Sezione tedesca dell’Unione degli scrittori sovietici: su tutte le questioni di teoria letteraria, era lui il portavoce del gruppo. I suoi saggi lasciano poco spazio a speculazioni sulle sue opinioni, alla letteratura sovietica sia su quella occidentale. Resta, invece, aperta la questione della connessione tra gli sviluppi politico-letterari in Occidente e quelli in Unione Sovietica, e del ruolo che Lukács ebbe in questo contesto. Fu soltanto una coincidenza che il fronte popolare politico-letterario sostenuto dall’Unione Sovietica si affermasse in Occidente nei 1936, contemporaneamente all’avvento in Urss di una nuova scuola di pensiero teorico-letteraria che rinnegava in gran parte quei concetti di teoria letteraria il cui perdurare avrebbe creato una contraddizione tra la politica letteraria sovietica e la politica culturale del fronte popolare? E sarebbe stata possibile la formazione in Occidente di un fronte popolare sostenuto dall’Urss, finché in Unione Sovietica si fosse continuato a basare la valutazione della letteratura borghese classica su una volgarizzazione dell’analisi di classe marxista? Nel 1936, c’era urgente bisogno di un «metodo creativo» che potesse essere applicato sia alla letteratura sovietica, sia, mutatis mutandis, agli scrittori borghesi occidentali.

Il metodo materialistico dialettico della Rapp, che esigeva da tutti gli scrittori una coscienza marxista, era chiaramente inutilizzabile in Occidente. Nel 1931-32 Lukács poteva ancora applicare, nei saggi di Linkskurve, degli standard estetici virtualmente identici a quelli della Rapp agli scrittori rivoluzionari proletari, ma gli sarebbe stato impossibile applicare gli stessi criteri ai compagni di strada occidentali. C’era bisogno di un nuovo metodo creativo, che potesse essere interpretato come un ridimensionamento degli imperativi del marxismo: «scrivi la verità», «rifletti la realtà». Il realismo socialista sovietico non si limitava a sostenere dei concetti moderati come «umanesimo» e «popolarismo», ma implicava anche dei tabù – il formalismo, il naturalismo, l’estremismo radicale di sinistra – e perciò rappresentava per l’appunto quell’arma a doppio taglio che le autorità letterarie sovietiche stavano cercando: uno strumento più tollerante, in linea teorica, del programma della Rapp, grazie all’enfasi posta sul retaggio sul popolarismo e sul trionfo del realismo, ma ugualmente autoritario e censorio nella sua foga «antidecadente».

E in seguito fu soltanto un caso che, non appena il patto Hitler-Stalin ebbe definitivamente seppellito il fronte popolare, Lukács, Lifšic e la Corrente fossero posti sotto accusa per le stesse tesi che avevano goduto dell’approvazione ufficiale negli anni dal 1936 al 1939; e il che, nel giro di pochi mesi, la Corrente venisse disciolta e che l’intera controversia scoppiasse improvvisamente intorno a un libro che conteneva saggi scritti fra il 1934 e il 1936? Perché queste idee non erano mai state giudicate pericolose prima dei 1939? Con ciò non si intende suggerire che Lukács abbia formulato la propria dottrina estetica per seguire delle direttive politiche. Le sue teorie erano già ampiamente maturate prima del 1936, anno in cui venne formulata la dottrina del realismo socialista, e anche in seguito la relazione tra Lukács e il realismo socialista ufficiale fu di simbiosi più che di identità. Ma, se è vero che i concetti teorici di Lukács emersero indipendentemente dal realismo socialista, sta di fatto che essi si prestarono perfettamente ad essere impiegati nella politica culturale del fronte popolare e, probabilmente, la loro specifica applicazione venne studiata a livello strategico nei circoli politici. Nessun altro critico sovietico o marxista avrebbe potuto sostituire Lukács in questo compito. Se Lukács non fosse esistito, negli anni dal 1933 al 1939, i sovietici avrebbero dovuto inventarlo.

  1. L’articolo di Brecht fu effettivamente spedito a Mosca. In marzo, Ruth Berlau inviò due aggiunte dello stesso Brecht, che avrebbero dovuto essere la conclusione dell’articolo.
  2. Venne discussa l’opportunità di pubblicare l’articolo di Erpenbeck con uno pseudonimo. Ma Erpenbeck telegrafò da Jaita: «Mettete senz’altro il mio nome sotto l’articolo, personalmente non ho nessuna intenzione di identificarmi con la visione teorica di Brecht».
  3. Dalla conversazione dell’autore con Lifšic nel 1977.
  4. Dalla conversazione dell’autore con Igor Sac nel 1979.
  5. Lukács si riferisce qui agli attacchi rivolti contro la Rapp, in particolare al dibattito sul Litfront. La Rapp era l’agguerrita Associazione degli scrittori proletari che si richiamava programmaticamente all’ortodossia ideologica. La Rapp esercitò la propria egemonia sulla letteratura sovietica dal 1925 al 1932, quando venne disciolta dal partito. Ricordando il dibattito di quegli anni, Lukács non dice che all’epoca la sua posizione era molto vicina a quella della Rapp.
  6. Lukács aveva scritto in Su i due tipi di artista (Liateratunyj kritik, I, 1939) che il socialismo aveva distrutto le basi economiche e sociali del sistema capitalistico: «Soltanto le vestigia borghesi ancora presenti nello spirito degli artisti sovietici, soltanto la loro arretratezza culturale può renderli sensibili alla crescente influenza del decadentismo e spingerli ad ammirare le “innovazioni” e le “conquiste” estetiche prodotte dagli artisti dell’Occidente capitalistico».

Poesia di partito

di György Lukács

[Pártköltészet (1945). Traduzione di Fausto Codino. Pubblicato in Irodalom és demokrácia, 2a edizione corretta, Budapest 1948, pp. 111-33; traduzione italiana in G. L., Marxismo e politica culturale, Einaudi, Torino 1968]


Nelle considerazioni che seguono non ci occupiamo espressamente del solo Attila József. Cercheremo, più in generale, di delineare con chiarezza un problema assai attuale che oggi è considerato da molti, dentro il partito e fuori, estremamente spinoso: il problema della poesia di partito. Non è un caso che ne discutiamo proprio qui e adesso. Dobbiamo affrontarlo ora proprio per aver modo di esporre le nostre diverse tendenze letterarie, e non per venire magari a un compromesso. Il momento non è scelto a caso. La personalità e la poesia di Attila József ci pongono problemi attuali. Se non ci occupassimo di Attila József non potremmo capire il rapporto tra partito e poesia; né potremmo giudicare nel suo valore la poesia di Attila József se non definissimo seriamente la natura della poesia di partito.

I.

L’opinione pubblica, almeno in ampi settori, crede di scorgere qui un dilemma. Da un lato starebbe la poesia di partito, dall’altro la poesia «pura», che si ritira in una torre d’avorio. Questo falso dilemma ha una storia più che secolare. Circa un secolo fa Freiligrath, non ancora rivoluzionario, aveva proclamato: «Il poeta si trova in un osservatorio più alto dei torrioni del partito». Herwegh controbatteva proclamando con passione il diritto all’esistenza della poesia di partito. E la «Rheinische Zeitung», diretta dal giovane Marx «che pure a quel tempo non era ancora socialista, ma democratico rivoluzionario «prese posizione decisa a favore di Herwegh.

La falsità del dilemma appare nella forma più chiara, istruttiva e comprensibile, come appare spesso nella prassi, se lo prendiamo sotto un aspetto caricaturale. Comincerò da un caso al quale io stesso ho assistito. Circa quindici anni fa il noto poeta comunista Erich Weinert si presentò disperato all’associazione degli scrittori proletari rivoluzionari tedeschi. La causa della sua disperazione era piuttosto tragicomica. Un’associazione operaia, un sindacato, se ricordo bene, gli aveva chiesto di scrivere un inno. La melodia era già composta e il testo doveva comprendere diciotto versi. Ma l’organizzazione, nella sua richiesta, aveva posto la condizione che nei diciotto versi fossero inserite ventidue parole d’ordine. L’esperto Weinert risolse il compito a gran fatica. Ma quando il testo fu pronto, l’organizzazione gli chiese d’introdurvi altre due parole d’ordine, che intanto erano diventate necessarie. In queste circostanze, Weinert si presentò disperato al nostro gruppo…

L’altro lato del falso dilemma si presenta in verità come segue: nel numero di novembre di «Magyarok» [Ungheria] István Vas discute l’opinione secondo cui «oggi, dopo che la vita ha compiuto una conversione di 180 gradi rispetto alla situazione di un anno fa, nessuna persona spassionata può continuare dal punto in cui era rimasta». Egli dice che questa è l’opinione di un dirigente politico, fatta propria da un nostro buon poeta. L’autore dell’articolo sostiene invece questo punto di vista: «Noi non abbiamo né motivo né voglia di continuare da un punto di vista diverso da quello da cui abbiamo cominciato». L’autore aveva precisato anche chi fossero questi «noi»: «Noi che siamo andati avanti sotto lo stimolo di Kosztolányi e Babits…»

L’autore è dunque fermamente convinto che né Babits, Kosztolányi, né i loro scolari debbano imparare qualche cosa dall’oppressione fascista, dalla distruzione dell’Ungheria, dalla liberazione e dalla ricostruzione. Budapest è ridotta in macerie, ma la torre d’avorio resta intatta al vecchio posto. Questa è senza dubbio una manifestazione caricaturale dell’altro estremo. Nelle descrizioni di guerra si legge spesso che dappertutto sibilavano e grandinavano i proiettili, ma la coccinella continuava tranquilla la sua passeggiata sul prato. D’altronde la coccinella lo fa senza la pretesa di voler pronunciare neppure un giudizio superficiale sulla guerra e sulla situazione postbellica.

Le due caricature sono esempi viventi di una problematica sbagliata. Il carattere caricaturale del caso Weinert è evidente. Naturalmente anche il secondo caso è una caricatura della realtà, che essa ha creato per certe necessità. Non si può fare propaganda di massa senza sintesi pregnanti e appariscenti: i manifesti e le poesie servono a questo scopo. Questi metodi per influenzare le masse non sono stati inventati dal partito, ma dalla grande industria capitalistica che produce articoli per il fabbisogno di massa. Ma, poiché questi metodi esistevano, nelle condizioni sociali date nessun partito poteva lasciarli inutilizzati.

La pregnanza efficace di un manifesto o di un verso di propaganda spesso non coincide che casualmente con l’autentico valore pittorico o poetico. Se fanno fermare i passanti per la strada, se impongono loro l’intento della propaganda, essi adempiono appieno la loro funzione, indipendentemente dalla presenza o dalla mancanza di un valore artistico «casuale». Se è poco probabile che i due valori coincidano, ciò è dovuto alla determinazione prosaicamente rigida, strettamente circoscritta del contenuto, che limita troppo il libero movimento della fantasia artistica. Una propaganda non può per esempio incitare alla pulizia, non pone le questioni generali e umane dell’igiene, ma fa soltanto pubblicità per un certo tipo di sapone.

Questa limitazione alla fantasia avviene anche nelle questioni della vita politica d’ogni giorno. La propaganda quotidiana di partito cerca per lo più d’inculcare un certo numero di parole d’ordine concrete e strettamente circoscritte nella testa della gente, in cui le grandi prospettive storiche e ideologiche del partito esistono soltanto come uno sfondo più o meno confuso. Anche qui il contenuto per lo più è inteso in maniera troppo ristretta e precisa perché la fantasia poetica, artistica, possa svolgersi appieno.

Ancora più chiaro è l’errore che si trova all’altro estremo. Qui lo scrittore dà alla sua forma, alla sua esperienza una cornice così larga, generale e astratta che ogni contenuto essenziale si decompone, e anzi è distrutto. Se nella sua creazione il poeta vuole tenere insieme questo contenuto, proprio per questo il contenuto considerato resterà limitato, proprio per questo perderà l’essenziale e quindi diverrà inessenziale. Nel pensiero borghese è diffusa l’illusione secondo cui l’esperienza poetica ha carattere esclusivamente individuale. È ovvio che l’esperienza individuale è un momento decisivo della creazione poetica: senza di essa non c’è poesia. L’illusione borghese sta nel fatto che essa identifica l’esperienza individuale, come forma essenziale del processo della creazione poetica, col contenuto dell’esperienza. Ma questo contenuto, non soltanto nei suoi elementi meramente contenutistici, bensì in tutta la sua struttura, nell’effetto esercitato su forme vissute e poetiche di questa struttura, comprende in sé tutta la società nel suo movimento e nelle sue trasformazioni, e anzi tutto il mondo.

Se un poeta si attiene all’opinione dell’articolista sopra citato, limita il mondo della propria esperienza. Negli scrittori si formano – spesso per effetto di forze sociali da essi non riconosciute – certe forme individuali di esperienza e poetiche. Il nostro autore consiglia agli scrittori di fissarle come definitive. Ma allora queste forme d’esperienza, la cui funzione originaria, produttiva, era di afferrare e diffondere mediante l’esperienza poetica il mondo intero in corso di trasformazione, diventerebbero una barriera tra l’esperienza poetica e i mutamenti della società; impedirebbero al poeta di vivere nuove realtà nella loro essenza e di rappresentarle.

Nel corso di grandi trasformazioni sociali questo modo di perpetuare l’essenza pura, individuale di un’esperienza poetica e un metodo d’espressione poetica già raggiunto assume un certo aspetto donchisciottesco, senza però l’eroismo del cavaliere spagnolo. Questo donchisciottismo trova infatti – proprio durante grandi rivoluzioni sociali – molti sostenitori nel campo della reazione, tanto più che la reazione, preoccupata per le sue posizioni e intenta a difenderle, si accontenta se almeno una parte degli intellettuali più autorevoli non è schierata nelle file degli innovatori democratici: proprio durante grandi rivolgimenti sociali una simile «eletta» neutralità significa di solito un appoggio alla reazione.

In simili circostanze esterne e interne il distaccarsi dalla nuova realtà e il rifiutare i suoi effetti fecondi deve necessariamente produrre deformazioni nel poeta. Attila József riconobbe presto queste deformazioni: egli vide che questo estetismo può condurre a un’inferiorità morale.

Kóró a lelke, ül azon
Kis varasbéka ékül;
Vartyog s mig zizzen a haszon
Vénebb békákkal békül.
Ha hitted messzirül smaragdnak,
Csak fogd megd, ujjaid ragadnak1.

II.

Considerando questo stato di cose si arriva alla questione decisiva. Il rifiutare così la vita sociale e politica in nome della poesia «pura» non è infatti esclusivamente un problema concernente il contenuto e l’espressione poetica. È anche questo, naturalmente, in quanto, come abbiamo visto, comporta chiusura, impoverimento, irrigidimento. Ma al fondo c’è di più: il ritiro nella torre d’avorio, cioè un superbo distacco dalla vita sociale quotidiana, può avere facilmente, che uno se ne renda conto o no, un duplice significato.

L’ideologia della torre d’avorio è inestirpabile perché ha serie ragioni sociali. È una protesta contro la fondamentale tendenza antiartistica della società capitalistica, che si manifesta in tutti i fenomeni della vita, sia pure in maniere molto diverse e con varia intensità. La protesta dell’arte «pura» contro l’orrore e l’ottusità del mondo capitalistico può tuttavia rivolgersi in avanti o all’indietro, può essere progressista o reazionaria: si tratta di vedere quando, contro chi e con quale accentuazione essa si esprime. È comprensibile che nel venticinquennio della controrivoluzione, specie negli ultimi anni terribili, una parte notevole della letteratura ungherese si difendesse in questo modo. Ma non si deve dimenticare che questa difesa era estremamente debole: il «brusio», come lo definiva Pál Ignótus, aveva per lo più un contenuto soltanto negativo; solo il distacco assumeva una forma plastica, ma anche debole; verso dove ci si dovesse rivolgere, restava affatto nel vago. Anche se all’incirca si poteva intuire la direzione, il suo carattere progressista era quanto mai dubbio.

Il continuare questa difesa dopo la liberazione – come appunto dichiara programmaticamente l’autore dell’articolo della rivista «Magyarok» – vuol dire riassumere quell’atteggiamento: naturalmente con la coscienza, politicamente oscura, che dal punto di vista del poeta sarebbe affatto indifferente che ora sia al potere il fascismo o la democrazia. Egli si rinchiude e rifiuta indifferentemente tutto ciò che gli viene «dall’esterno», dalla società; egli nega (consapevolmente o no) che la funzione di un poeta nella vita di un popolo liberato sia diversa dalla sua funzione in un popolo oppresso.

Questo atteggiamento sociale-ideologico, che inconsapevolmente si fonda sull’esperienza e sulla convinzione che il capitalismo è un terreno sterile per l’arte, non comporta solo un impoverimento, ma trascina in una vuota astrattezza, perché cancella la realtà. Esso cancella le differenze decisive tra periodi di sviluppo democratici e antidemocratici. Un atteggiamento simile si converte – senza volerlo, è da sperare – in una negazione della democrazia, così come prima voleva essere una negazione della tirannide.

A questo punto non sarà quindi sbagliato ricordare brevemente il diario di Sándor Márai. Qui naturalmente non possiamo giudicare tutta l’opera, benché ci rincresca di non poter accennare, per esempio, al momento culminante della giusta critica sulla classe media ungherese. Qui possiamo soltanto chiarire su qualche esempio i metodi di questo diario, e dobbiamo farlo per poter illustrare l’atteggiamento che c’interessa richiamandoci a uno dei suoi rappresentanti eminenti.

Gli attacchi di Márai contro Petöfi sono già famigerati. Che scrive sulla controversia tra Napoleone III e Victor Hugo? Secondo Márai Napoleone era «un uomo straordinariamente generoso, sognatore e dotato di talento, che voleva il bene dei lavoratori…» E altrove: «Come aveva ragione, Napoleone III, quando per due decenni donò alla Francia la pace, lo splendore e l’ordine del secondo impero…» Basta conoscere anche soltanto nelle grandi linee la storia francese reale per valutare meglio questo «splendore». Ma la conseguenza necessaria di questo «splendore» del secondo impero non fu solo la distruzione di Sedan, ma anche la corruttela sociale e morale dell’epoca napoleonica. Essa aveva talmente infettato il popolo francese che la terza repubblica soffrì per decenni di questa eredità e cominciò a riprendersi dalla degradazione solo durante lo scandalo di Panama, l’affare Boulanger e il processo Dreyfus. Anche se non è questa l’intenzione di Márai, la sua argomentazione dà impulso a coloro che nei tempi duri di oggi rimpiangono «la pace, l’ordine e lo splendore» dell’epoca di Horthy e Bethlen. Ispirandosi a questa concezione, Márai parla con entusiasmo della «grandezza» di Chamberlain e afferma che gli avvenimenti della guerra mondiale avrebbero confermato la sua politica chiaroveggente, mentre tutte le persone ragionevoli sanno bene che la politica «di Monaco», perseguita da Chamberlain e Daladier, permise l’aggressione hitleriana in tutta Europa.

Infine vale la pena di notare che Márai approva esplicitamente la sottomissione a Hitler in nome dello «spirito»: «… Quali sono i compiti dei francesi su questa terra? Essi devono sopportare Hitler precisamente come la sofferenza di una malattia. Non hanno il compito di battersi e di comportarsi come imperialisti. Il loro compito sta nel pensare e lavorare in conformità del loro ruolo». In questo ragionamento si possono mettere in evidenza due momenti. Primo, Márai scredita il movimento della resistenza francese, paragonandolo all’imperialismo. Secondo, egli considera naturale che i presupposti per uno sviluppo libero e superiore dello spirito francese fossero dati durante l’occupazione.

Come si vede, una simile rivelazione della poesia «pura», dello spirito, induce a considerare come un vantaggio l’avvilimento più profondo di una nazione, l’oppressione brutale della libertà. Per il popolo francese fu una fortuna che i suoi intellettuali respinsero decisamente queste rivelazioni dello «spirito», pur se vi furono anche voci isolate di altro genere. Da noi, va detto con rammarico, non vi furono questa capacità di scelta e questa risolutezza. Se il popolo ungherese non si è liberato con le proprie forze, la colpa è stata soprattutto dei banditi che patteggiavano con Hitler. Ma è colpevole anche quella parte dell’intelligentsia che aveva capitolato in campo intellettuale e sosteneva che questo era l’unico atteggiamento degno di una persona colta.

Qui abbiamo una tendenza generale dell’intelligentsia, una tendenza generale della letteratura. Essa è così forte che trascende i confini tra gruppi letterari che per il resto si combattono tra loro. Queste correnti, così pericolose per lo sviluppo nazionale, si trovano nella cerchia degli «urbani» come in quella dei «populisti». Non è un caso che a questo punto possiamo richiamarci proprio al «populista» László Németh, che qui concorda pienamente con l’«urbano» Sándor Márai. Non è un caso, perché in Ungheria non c’è tendenza intellettuale antiprogressista, ostile alla democrazia, il cui padre o nonno spirituale non sia stato László Németh.

In un’altra pagina egli parla di Montherlant, e mette in risalto con lode le sue tesi principali: «Lo stato attuale della Francia [durante l’occupazione (G. L.)] è favorevole per la libertà spirituale… Lo sporco traffico della letteratura tace: il mondo gli ha voltato le spalle. In questo stato di abbandono la creazione è di nuovo come dovrebbe essere; il vuotarsi dell’anima colma, senza riguardo per il mondo». Approvando queste affermazioni, anche László Németh accenna al rinnovamento dello spirito francese. «È anche la vecchia Francia, che fu sommersa da quella degli “avvocati”», cioè dalla Francia della democrazia. László Németh crede perciò di scorgere in queste tesi un «profondo programma francese». Chi non aveva ancora capito quanto fosse pericolosa l’opposizione «ungherese profondo – ungherese diluito», che risale a László Németh, ora vede bene dove questa teoria «storico-spirituale» debba necessariamente condurre nella prassi sociale.

Questi esempi isolati sono però caratteristici e importanti. Indicano quali contenuti nascono dalla forma, dalla superba autoidolatria dello spirito. Indicano altresì fino a che punto la «sovrasocialità» e la posizione apolitica del poeta siano solo illusioni dell’autoinganno. Ogni scrittore, come scrive, fa politica, e quindi prende partito. Si tratta solo di sapere con quale consapevolezza lo faccia.

III.

Definendo la «consapevolezza», veniamo ai nostri veri problemi: cioè a definire la collocazione del poeta politico, del poeta di partito, tra le varie possibilità della creazione letteraria. La consapevolezza può essere suddivisa schematicamente in tre gradi. Il primo sarebbe rappresentato, come abbiamo visto, dal poeta che fa politica inconsapevolmente, spesso contro le proprie intenzioni e la propria volontà. Da noi il rappresentante principale di questo tipo è stato Mihály Babits, soprattutto perché egli aveva un sentimento amaro e profondo della problematica tragicomica del suo atteggiamento, pur senza riuscire a superarne i limiti. La sua poesia sul profeta Giona è un bell’esempio di lotta onesta ma disperata con se stesso.

Sarebbe schematico opporre direttamente a questo tipo, senza transizione, i grandi tribuni popolari dell’arte poetica, i Petöfi e gli Ady. Scrittori grandi come Goethe o Balzac, Tolstoj o Thomas Mann sono ugualmente lontani dal tipo Babits come dal tipo Petöfi. Goethe, questo caso apparente di arte apolitica, di fronte alla Rivoluzione francese o di fronte alla restaurazione non si ritirò nella torre d’avorio della poesia «pura». Al contrario, egli non negò mai che tutte le grandi svolte sociali e politiche esercitano un influsso decisivo anche sulla poesia. I contenuti mutati e la struttura del mondo richiedono forme poetiche nuove. Perciò egli seguiva con occhio vigile quei mutamenti e voleva sempre prendere posizione consapevole di fronte ad essi. Valutava la loro progressività sociale e le loro ripercussioni sull’ascesa del genere umano, sullo sviluppo interno ed esterno del vero umanismo. Questa presa di posizione, cioè questa presa di partito, che fece di Goethe un seguace entusiasta dell’età napoleonica, nel suo caso (come pure nel caso di numerosi rappresentanti di questo tipo) non ebbe come conseguenza necessaria che egli si gettasse sempre con passione nella vita politica quotidiana.

Nei rappresentanti di questo tipo la tendenza poetica fondamentale è un’altra. Fielding si definiva uno storico della vita sociale; Balzac ripete quasi alla lettera questa definizione nella prefazione alla «Commedia umana». È così indicata la tendenza centrale: dare un quadro ampio, profondo e comprensivo dello sviluppo della vita sociale; combattere per il progresso del genere umano, per il suo sviluppo superiore; rappresentare con i mezzi della poesia la via del progresso, le sue forze motrici e le potenze interne ed esterne che vi si oppongono. Qui un rispecchiamento vero e fedele della vita della società è un mezzo essenziale per influenzare gli uomini.

Parlando di tipi, tuttavia, indichiamo soltanto i lineamenti generali del problema. Possono esistere tendenze del tutto opposte tra loro. Nello stesso scrittore possiamo scoprire che l’intento d’intervenire nella vita quotidiana varia molto d’intensità; all’oggettività dei grandi romanzi di Tolstoj si contrappone nettamente il pathos profetico della sua produzione più tarda. Ma nella sua opera le due tendenze erano collegate in quanto raggiungevano il fine voluto dal poeta mediante il rispecchiamento oggettivo dell’intera vita sociale.

A questo proposito si deve sottolineare che anche il grado della consapevolezza è diverso: Goethe e Keller hanno indicato con sufficiente esattezza lo scopo che volevano raggiungere con la rappresentazione oggettiva del mondo. L’immagine del mondo da essi delineata riproduce in gran parte solo ciò che essi volevano nella loro tendenza a immischiarsi nella vita. La «Commedia umana» dimostra invece il contrario di ciò che Balzac intendeva quando la scrisse. La grandiosa raffigurazione sociale di Resurrezione confuta completamente la profezia religiosa e morale di Tolstoj. Nonostante simili e analoghi contrasti, in questo tipo resta qualche cosa che assicura la durata: esso solleva uno specchio davanti alla società e favorisce lo sviluppo ulteriore dell’umanità con un aiuto che comprende, svela tutta la società e sviluppa le sue leggi.

Di qui, attraverso passaggi complicati, arriviamo al tipo del poeta politico vero e proprio: al poeta di partito. Il numero dei fenomeni di transizione è infinito. Nella realtà i punti di transizione sono sempre confusi. Ma ciò vale per tutti i fenomeni di questo mondo. Se appena gettiamo uno sguardo su fenomeni letterari così diversi come Béranger, Balzac, Shelley, Walter Scott, Goethe, Gor’kij, Tolstoj…, abbiamo di fronte il tipo del vero poeta politico, del poeta di partito.

Ma, prima di tutto, abbiamo a che fare con un poeta, con un tipo primario di poeta. Lo sviluppo storico reale rivela proprio il contrario di ciò che solitamente affermano le denigrazioni borghesi della poesia di partito. Queste per lo più sostengono quanto segue: un tempo c’era una letteratura «pura», poi vennero i partiti e la vita democratica. Essi hanno «guastato» i poeti. In realtà tutto è andato proprio all’opposto. La poesia politica è esistita molto tempo prima dei partiti organizzati moderni. Non parliamo della lirica delle età primitive: allora, infatti, dominava una vita di partito molto evoluta. Durante l’ascesa della società borghese appaiono l’uno dopo l’altro grandi poeti di partito, anche là dove non esistono ancora partiti politici o dove essi cominciano appena a formarsi. Così Lessing, Shelley e ancora Heine sono poeti di partito senza partito. Converrà forse esaminare un po’ da presso questo stato di cose, perché illumina la sostanza del problema.

Innanzi tutto balza agli occhi la maggiore e più profonda consapevolezza del poeta: una consapevolezza dell’essenza dell’uomo e dell’intrecciarsi tra i suoi valori più intimi e la vita della società. Così si manifesta nuovamente l’errore del dilemma che abbiamo considerato all’inizio: ciò che là appariva come poesia politica – in forma di caricatura – manca di valore poetico non perché il suo oggetto non è un problema del giorno, ma perché il suo pathos non tocca le questioni più profonde della vita. Le parole d’ordine quotidiane dei partiti politici nascono dalla vita. Se sono intese giustamente nel loro contenuto esse diventano parole d’ordine politiche attraverso un’astrazione giusta e adeguata allo scopo. Il poeta politico esaminato nelle nostre considerazioni iniziali è quindi soltanto la caricatura di un poeta, perché non traduce le parole d’ordine del giorno in quel linguaggio umano dal quale sono sorte; perché non risale alla fonte da cui tutte le parole d’ordine scaturiscono. Lo scrittore apolitico, che agisce analogamente, e il presunto poeta di partito che si perde in un siffatto praticismo quotidiano senza profondità umana e sociale, sono pertanto simili nella mancanza di consapevolezza. Entrambi si appropriano senza critica e senza consapevolezza i fenomeni superficiali della società capitalistica, come se la vita pubblica e la vita privata fossero separate o tra loro contrapposte. Nessuno di loro osserva che la produzione capitalistica ha provocato una fatale mutilazione e atomizzazione dell’uomo. Dal punto di vista sociale come da quello – superiore – letterario è decisivo il vedere quale parte dell’uomo atomizzato gli scrittori cerchino artisticamente di presentare come un tutto, come un uomo intero.

Ma qual è la differenza tra la consapevolezza del grande poeta che rispecchia oggettivamente la vita e quella del poeta politico? Essi hanno in comune il contenuto della consapevolezza: l’uomo intero. Hanno in comune la tendenza umanistica, che è viva in tutti i grandi poeti: la lotta per l’uomo intero, pienamente sviluppato. La differenza sta nella tendenza – presente in entrambi – del pathos sociale. Anche in scrittori del tipo di un Balzac o di un Tolstoj esiste la volontà d’intervenire, di trasformare, di migliorare (e quindi la volontà di prendere partito). Ma essi si muovono attraverso la scoperta oggettiva in direzione della dialettica oggettiva della realtà. Da ciò deriva poi la singolare possibilità che il fine consapevole dei desideri di questi poeti sia sbagliato o addirittura reazionario. Resta tuttavia presupposto che il rispecchiamento della realtà oggettiva sia compiuto con sincerità inesorabile. Così Lenin dice che le opere di Tolstoj sono uno specchio della trasformazione della struttura agraria tra il 1861 e il 1905, e della rivoluzione contadina che coronò questa trasformazione. Ma aggiunge subito che Tolstoj non aveva capito realmente nulla del processo di cui dava una raffigurazione fedele e geniale.

Lessing o Shelley, Heine o Petöfi, Gor’kij o Ady vogliono intervenire direttamente negli avvenimenti. In questo caso la falsa autocoscienza di Balzac e Tolstoj comporterebbe conseguenze catastrofiche. Infatti i romanzi di Balzac possono tranquillamente confutare la sua legittima utopia senza che ciò pregiudichi minimamente il loro valore artistico. Anche le poesie di Petöfi e Ady dovettero essere giustamente meditate, all’origine, perché potessero diventare poesie realmente buone, tanto più che in esse la concezione, il pensiero soggettivo e il sentimento del poeta non servono solo a dar forma all’oggetto, ma costituiscono lo stesso oggetto direttamente rappresentato. Perciò qui è necessaria una superiore consapevolezza della via di sviluppo dell’umanità. Non è certo un caso che Heine prima del 1848, Petöfi nel 1848 e Ady prima del 1918 furono non solo i maggiori poeti della loro epoca, ma anche i suoi maggiori interpreti. Né è un caso che una parte essenziale della loro interpretazione sia giusta ancora oggi, a differenza di quelle di Balzac e Tolstoj. Per l’Ungheria basta ricordare János Arany o Zsigmond Móricz.

IV.

Un simile livello di consapevolezza ha necessariamente, ripercussioni sulla forma artistica e sul rapporto dello scrittore con l’arte.

Non a caso i poeti politici in senso stretto, i poeti di partito, sono in maggioranza lirici. Ci sono certo anche drammaturghi, come Lessing, il giovane Schiller, Beaumarchais, romanzieri come Saltykov-Šcedrin. Ma la lirica resta il modo d’espressione più naturale e la forma più omogenea per i poeti di partito. Le forme oggettive, il dramma e l’epica, non si prestano altrettanto all’espressione diretta delle opinioni dello scrittore. Se un grande temperamento politico vince questa resistenza (il giovane Schiller), in parte la forma viene allargata, ma spesso è anche spezzata. E se il dramma di Lessing e di Beaumarchais, il romanzo di Saltykov-Šcedrin riuscirono a fare di questa forma oggettiva il mezzo d’espressione dell’intervento politico diretto senza spezzare soggettivamente la forma, ciò avvenne soltanto perché la volontà d’intervenire direttamente andò perduta dietro la plasticità della rappresentazione oggettiva. La forma epica o drammatica conservarono la loro anteriore oggettività. Mentre sotto altri aspetti l’esistenza o la non esistenza di quella contraddizione tra la concezione del poeta e il linguaggio oggettivo del mondo rappresentato è una caratteristica molto importante (ricorderemo come esempi Balzac e Tolstoj), qui ciò non costituisce una differenza decisiva.

Sotto questo aspetto è anche essenziale che si potessero afferrare con spirito realmente poetico, in forme oggettive, solo grandi problemi decisivi per un’epoca, e di preferenza proprio nella loro portata decisiva, non nel loro rapporto con le questioni quotidiane: qui le questioni quotidiane in senso stretto sono necessariamente respinte sullo sfondo. Senza dubbio, la lotta della borghesia e della nobiltà (Lessing, Beaumarchais…), la corruttela dell’aristocrazia sono di fatto problemi decisivi. Sono ugualmente attuali per tutta un’epoca e quindi possono costituire la tematica della poesia di partito, che esige l’intervento risoluto nella vita quotidiana.

Eppure la lirica è stata e rimane sempre il genere artistico naturale per l’intervento diretto nel presente. Qui la soggettività di un poeta dotato di coscienza politica può diventare subito operante e in pari tempo esprimere ciò che è imperituro, proprio perché un vero poeta politico, un poeta di partito, esprime quasi sempre questioni decisive per la sua epoca, anche quando esprime questioni quotidiane. Ady formula bene la cosa: «La mia intenzione è un’intenzione antica di molti secoli».

In ogni buona lirica la soggettività e l’esperienza, i desideri, i sentimenti e le impressioni diventano direttamente universali e si raggruppano come contorni dell’esistenza momentanea dell’individuo. Se il poeta di partito è un vero poeta, la sua lirica si svolge secondo lo stesso processo. Certo, il soggetto delle esperienze è un uomo tra gli uomini, attivo, che prova desideri e che lotta in una società concreta. Il mondo che si accentra nella soggettività del poeta mostra soltanto in un attimo indivisibile la corrente secolare della storia e gli scogli del presente, battuti dalle sue onde.

Non è vero dunque che la poesia politica, la poesia di partito sia problematica per la lirica pura. Al contrario, non solo vediamo che la poesia di partito in forma moderna – e non in una copia formale – può rinnovare e sviluppare ciò che l’io puro dell’eccessivo individualismo attuale aveva soppresso nelle tradizioni della lirica antica: cioè, in particolare, l’ode e l’inno. Dobbiamo anche riconoscere che per questo, per la più intensa consapevolezza, si dilegua il mito dell’arte moderna, quel mito in cui i massimi poeti e storici potevano profondamente immedesimarsi.

Le confessioni di grandi poeti oggettivi, dal Tasso di Goethe all’Epilogo di Ibsen e fino a Thomas Mann, culminano nella questione: a che giova l’arte? È moralmente ammissibile il sacrificare l’esistenza umana di un artista per la mera riuscita della creazione artistica? Tolstoj, nel rispondere a questa domanda, talvolta si rivolgeva decisamente contro l’arte. Ma la problematica non è casuale e non dipende dalla disperazione personale di singoli grandi artisti. Lo sviluppo della società capitalistica, la funzione dell’arte in questa società aveva fatto sorgere questa problematica. Quanto più elevata è l’oggettività artistica di un poeta, quanto più profondamente egli afferra i problemi decisivi dell’epoca, e quanto maggiore è la perfezione con cui li esprime, tanto più sradicati essi gli possono apparire nella vita quotidiana della società capitalistica. (E tanto più profonde, naturalmente, sono le sue radici nello sviluppo complessivo del genere umano). Da questo sviluppo sociale deriva la disperazione dell’artista, sia pure soltanto dello scrittore realmente grande e veramente pensante; ne deriva quell’esperienza secondo cui l’arte stessa e soprattutto la vita individuale che si esaurisce nell’attività artistica diventano il centro dei conflitti essenzialmente problematici, irrimediabilmente tragici. Un poeta veramente grande e pensante non si appaga mai dell’autoidolatria estetica di una perfezione da atelier. Egli sente profondamente nell’anima la missione sociale di ogni arte veramente grande. La società capitalistica non assegna né all’opera né all’artista il posto che gli spetta. Di qui deriva questa problematica, col suo tono di fondo tragico, che riecheggia da Goethe fino a Thomas Mann.

È caratteristico e significativo per la filosofia della storia dell’arte che poeti come Shelley o Petöfi non hanno neppure riconosciuto il problema (János Arany lo capiva benissimo!) Ma questa mancanza di comprensione non va ricondotta a difetto di coscienza, al contrario: essa esprime un grado superiore di coscienza; è la fede incrollabile nella funzione storico-sociale della poesia.

I seguaci di questi poeti, nati in tempi più tardi, più problematici, hanno già risposto alla questione: quando Lajos Hatvany richiama Ady alle prescrizioni della tradizione flaubertiana – che è parte della linea sopra descritta, cominciata con Goethe – Ady le respinge nella sua Nuova leggenda unna:

A tolakodó gráciát ellöktem,
Én nem büvésznek, de mindennek jöttem2.

E spiega anche che cosa sia questo «tutto»:

Zsinatokat doboltam, hogyha tetszett
S parancsoltam élére seregeknek
Hangos Dózsát s szapora Jacques Bonhomme-ot3.

Qui Attila József riprende interamente l’eredità di Ady. Nel Ricordo di Ady esprime mirabilmente che cosa sia quel «tutto» nel cui nome Ady rifiutava, con pathos così orgoglioso, ogni problematica flaubertiana nell’arte moderna:

Verse törvény és édes ritmusában
Kö hull s a kastély ablaka zörög4.

Perciò Attila József, nei primi versi della sua Arte poetica, può variare questo pathos adyano:

Költö vagyok – mit érdekelne
Engem a költészet maga5?

In questo senso egli poi parla della poesia e della sua vocazione di poeta:

Én nem fogom be pörös számat.
A tudásnak teszek panaszt.
Ràm tekint, partfogón, e szazad:
Rám gondol, szántván, a paraszt;
Engem sejdít a munkás teste
Két merev mozdulat között;
Rám vár a mozi elött este
Suhanc, a rosszul öltözött.
S hol táborokba gyült bitangok
Verseim rendjét üldözik,
Fölindulnak testvéri tankok
Szertedübögni rímeit6.

In tal modo la secolare problematica della poesia, la sua condizione di senzapatria nella società capitalistica, ottiene grazie alla poesia di partito, e solo in virtù di questa, una soluzione positiva e senza compromessi, che salva l’essenza poetica della poesia. La poesia di partito è un precursore, un avamposto molto avanzato che libererà definitivamente il genere umano e quindi metterà fine ai conflitti tragici di ogni poesia e di tutte le arti, che infatti in ultima analisi sono sempre sorti dalla problematica sociale.

V.

Le nostre considerazioni non ci portano né a un idillio né a un happy end. La soluzione di questi conflitti non significa affatto che la poesia di partito sia ormai immune da qualsiasi problematica. Per giungere a una prospettiva giusta dobbiamo riprendere l’osservazione da noi fatta sopra. Il poeta di partito appare sulla scena della vita prima delle organizzazioni moderne dei partiti; vi sono stati numerosi grandi poeti di partito – da Shelley e Heine fino a Ady – che non appartenevano a nessun partito né potevano appartenervi perché la storia non aveva ancora fatto sorgere il partito al quale essi come poeti erano destinati. Questa è la tragedia oggettiva dell’attività di Petöfi; e di ciò anche Heine e Ady ebbero una coscienza soggettivamente tragica.

Ma quando i partiti esistono, quando partito e poeta di partito s’incontrano, il loro rapporto non è però immune da problemi. Ciò ha cause profonde, attinenti all’essenza della società e della poesia. Il banale individualismo borghese moderno compie una semplificazione troppo volgare quando contrappone la macchina del partito, in cui ogni individuo ha soltanto la funzione di una rotella, il «santuario» dell’individuo e specialmente dell’individuo poetico.

Qui non ci soffermiamo neppure a parlare delle grandi personalità storiche, da Cromwell e Marat fino a Lenin e Stalin, in cui la personalità e il compito storico, cioè le funzioni di partito, sono congiunti in una tale unità che l’una e l’altro raggiungono una classicità nuova ed esemplare in questa sintesi superiore. Ma anche a un livello più basso l’individualismo banale è semplicemente incapace di vedere la feconda interazione tra soggetto e oggetto e gli effetti che un grande sviluppo esercita sulla personalità.

Nell’uomo medio la questione può essere risolta in ultima analisi senza problemi, anche se sempre tra conflitti. In un grande dirigente politico essa si risolve senza problemi. Per lui le cerchie della vita privata e della vita sociale di un dato periodo sono concentriche. La grandezza di un genio politico sta nell’estensione che il raggio della sua cerchia privata ha raggiunto in rapporto a quello della società. Spesso nell’uomo medio i punti centrali delle due cerchie non coincidono. La problematica della vita politica, ovvero la mancanza di problemi, decide dell’ampiezza delle parti che nelle due cerchie coincidono.

Nel poeta, invece, quando voglia essere anche un poeta di partito, questo problema è sempre suscitato dai conflitti insiti nella profondità della sua anima. Senza volere spingere troppo oltre il paragone, diremo che nel poeta i due centri non coincidono mai. Se però egli è un vero poeta di partito, il centro della cerchia sociale è sempre una parte della vita personale e della sua poesia, e precisamente una parte prossima al centro individuale. Dovremo ora considerare da presso la problematica qui accennata.

Nella prassi si presenta il più delle volte un conflitto teoricamente non necessario: l’urto tra lo spirito settario e la poesia. Questo settarismo esiste sempre nei partiti e non di rado arriva al potere. I settari considerano poeta di partito solo il poeta dallo stile cartellonesco. Ogni deviazione nella formulazione è definita un atto ostile contro la partiticità. La considerazione astratta del problema dà origine a giudizi addirittura ridicoli sui grandi poeti di partito del passato. Ma ciò che a una certa distanza fa solo un effetto grottesco, nel presente può provocare conflitti tragici. La radice dei conflitti è tuttavia più profonda: un vero poeta di partito è sempre un cantore della grande missione nazionale, umanistica e storica del partito. Se a causa dello spirito settario – come nella prassi settaria del partito «proprio questa coscienza della missione si attenua nel partito, allora sorgono per necessità conflitti incessanti. Anche questi conflitti scompaiono solo se il partito ritrova se stesso liquidando il settarismo.

Nello sviluppo di un poeta di partito l’individuo come personalità ha una funzione qualitativamente diversa che nell’individuo comune. Lo sviluppo individuale del poeta e la natura della sua personalità decidono dove, quando, fino a che punto e in che misura egli entra in contatto con i fini, i principi e la prassi del partito. Qui l’autoeducazione del poeta, ma anche il fecondo influsso reciproco tra poeta e partito, possono fare molto, anche se non possono mai fare tutto. La personalità del poeta, come fonte di ogni vera poesia, ha dunque per questa una funzione indispensabile e non modificabile.

Innanzi tutto, l’opera intera di un poeta di partito veramente grande non si è mai esaurita soltanto in una vasta poesia di partito. Petöfi fu un vero poeta di partito, nel senso della nostra definizione. Nella sua breve vita la poesia di partito non fu naturalmente mai al centro della sua produzione come nei periodi tanto critici della rivoluzione del 1848. Eppure proprio a quel tempo egli stesso pone la questione: «Perché cantate ancora, poeti devoti?» Ma egli pone la questione della legittimità di una lirica soggettiva, indipendentemente dalla politica, solo per dare una risposta decisamente positiva:

Önmagától száll a dal szívünkböl,
Ha bú vagy kedv érintette meg,
Száll a dal, mint szállanak a szélben
A letépett rózsalevelek.
Énekeljünk, társak, söt legyen most
Hangosabb, mint eddig volt, a lant,
Hadd vegyüljön e zavaros földi
Zajba egy-két tiszta égi hang!
Rombadolt a fél vilag… kietlen
Látomany, mely szemet s szívet bánt!
Hadd boruljon a rideg romokra
Dalunk, lelkünk zöld repkény gyanánt7!

Anche in Petöfi, senza dubbio, nonostante le decise proclamazioni non c’è mera giustapposizione di lirica individuale e politica. Come abbiamo visto, anche nella proclamazione dell’individualità questa lirica tende ad avere carattere pubblico. È generalmente nota l’intensità con cui anche la lirica più soggettiva di Petöfi sia alimentata dal suo temperamento politico; si pensi soltanto al profondo nesso poetico tra le immagini, di paesaggio della pianura (Alföld) e il suo desiderio rivoluzionario di libertà.

A questo proposito sarebbe un compito molto interessante e utile, ma anche istruttivo, ricondurre le immagini di paesaggio della lirica del XIX secolo ai loro toni di fondo politici e sociali; verrebbero alla luce molti nessi finora inosservati. Qui mi permetto di osservare che in Attila József è nettamente chiaro un convertirsi dello stato d’animo puramente individuale nel sentimento politico, anche se questo convertirsi non è sempre messo in risalto con le parole corrispondenti, per esempio in vari versi di Pioggia, Terra morta. In Attila József le immagini di paesaggio possono ancora comunicare sentimenti rivoluzionari.

Ma non si tratta solo di questo. Da una parte, per necessità, il partito affronta tutte le questioni prosaiche della vita pratica e cerca in esse quell’anello della catena che rivela e mette in movimento nella vita quotidiana gli obiettivi nazionali e storico-universali. D’altra parte gl’inconvenienti determinati dagli avvenimenti quotidiani o annuali, con le loro oscillazioni e le loro crisi, in mezzo all’apparente disperazione mantengono incrollabile la tendenza verso un futuro migliore. Un poeta di partito, che non può staccarsi dal mondo della sua esperienza poetica, necessariamente individuale, di rado trarrà ispirazione dagli «anelli della catena», oggettivamente essenziali e indispensabili, della vita politica quotidiana. (Benché anche questi possano fornire l’occasione per le grandi poesie, in particolare nel caso di Petöfi)8. Del resto né il proprio destino, né le esperienze di un poeta possono mettere in condizione di seguire con fede incrollabile la strada certa, formatasi nel corso e nella logica della storia. Proprio nei tempi più difficili, il partito ha la funzione importante e il merito di definire questo obiettivo e di mantenerlo.

Il singolo può essere disperato, può crollare sotto i colpi del destino. Se è un vero poeta, anche se è un poeta di partito, deve poter esprimere la sua condizione disperata. Una di queste voci di disperazione si leva per esempio nelle ultime poesie di Attila József, commoventi nella loro onestà:

Tejfoggal köbe mért haraptál?
Mért siettél, ha elmaradtál?
Miért nem éjszaka álmodtál?
Végre mi kellett volna, mondd9?

Lenin, il grande dirigente di partito, aveva sempre affermato che non esistono situazioni disperate; ma ciò si riferisce soltanto alle azioni politiche delle nazioni, delle classi e dei partiti. L’individuo invece, il poeta, anche se è soltanto poeta di partito, può e anzi deve addirittura diventare sempre il troubadour della disperazione della propria vita. Della libertà poetica fa parte la libertà della disperazione. L’esprimerla è antica tradizione poetica. In occasione di grandi avvenimenti essa è strettamente connessa al destino sociale del poeta. A questo proposito è interessante e caratteristico che il Werther di Goethe, quando si batte per il suo diritto al suicidio, perché questo è un diritto umano della personalità, nel dibattito fa questo paragone: il singolo possiede questo sacro diritto, di spezzare rivoluzionariamente le sue catene, proprio come lo possiede un popolo oppresso.

Ma la questione ha anche un altro aspetto essenziale. Anche un dirigente rivoluzionario lucido come Lenin, noto per la fredda chiarezza del suo pensiero, dice che spesso il rivoluzionario ha addirittura il dovere di sognare. Questi sogni esprimono la solida fede nella certa attuazione degli obiettivi lontani. Un rivoluzionario deve sognare per non perdere di vista questi obiettivi lontani nella lotta quotidiana.

Abbiamo sottolineato che il rapporto del poeta con l’unità dialettica della vita quotidiana e con l’obiettivo storico è essenzialmente diverso da quello del grande dirigente politico. Ma qui, nella sfera dei fenomeni psicologici superficiali, il contrasto è apparentemente massimo; tuttavia esiste anche la tendenza alla convergenza. Proprio nella capacità di vivere intensamente le proprie esperienze, che nelle situazioni senza scampo spinge il poeta alla disperazione, si cela la sua capacità di scorgere quegli obiettivi lontani e di renderli percettibili mediante visioni poetiche che poi vengono giustificate dal futuro: anche se queste visioni non sono realizzabili per l’uomo medio. Marx diceva che Balzac, il grande pensatore dell’oggettività sociale, era stato profetico nel delineare i suoi tipi. Egli aveva visto e rappresentato figure che al suo tempo esistevano solo in germe e che solo molto più tardi si erano sviluppate in tipi sociali concreti. Noi ungheresi abbiamo visto attuarsi visioni simili nel caso di Endre Ady.

Dopo queste argomentazioni, crediamo, si può riconoscere chiaramente la problematica del rapporto tra partito e poeta di partito. È insolubile questa problematica? Io non credo. Tra partito e poeta di partito esiste certo un rapporto affatto specifico.

Per esprimerlo in breve: il poeta di partito non è mai un comandante o un soldato semplice, ma sempre un partigiano. Cioè, se è un vero poeta di partito, c’è una profonda unità con la missione storica del partito, con la grande linea strategica che viene definita dal partito. Ma, all’interno di questa unità, egli deve rivelarsi con mezzi propri sulla propria responsabilità. Con ciò non diciamo che predomini l’anarchia o un legame puramente casuale, ma semplicemente indichiamo il giusto riconoscimento dei rapporti tra l’attività di partito e le caratteristiche decisive del poeta di partito, e indichiamo il corrispondente impiego pratico di questi rapporti.

I grandi dirigenti del movimento operaio avevano conoscenza di tutto ciò e la tradussero sempre in pratica. Pensiamo solo ai rapporti di Marx con Freiligrath, con Heine e con Herwegh; pensiamo ai rapporti di Lenin con Gor’kij. Erano rapporti che non chiedevano mai al poeta un meschino adeguamento alle esigenze quotidiane; il poeta considerava le cosiddette oscillazioni con indulgenza affettuosa e comprensiva. D’altra parte ciò non comporla mancanza di principi. Tra comandante e partigiano il rapporto era intimo e comprensivo fintanto che l’azione individuale del partigiano procedeva di fatto sulla via della strategia storica del partito. Quando Freiligrath era diventato infedele alla democrazia rivoluzionaria del 1848, quando nel suo sviluppo cominciò quel periodo che durante la guerra degli anni settanta lo portò a comporre poesie nello stile di Hurrah Germania, Marx aveva assunto verso di lui un atteggiamento di netto e freddo distacco. Conflitti simili, senza però che si arrivasse mai alla rottura, vi furono spesso anche tra Gor’kij e Lenin.

In questo contesto crediamo di dover trattare un problema spesso frainteso dagli intellettuali e perciò impopolare: il problema della disciplina di partito. Gli equivoci per lo più nascono perché il soggettivismo, che degenera in stati d’animo anarchici quali si conoscono nei tempi moderni, non conosce più la vera fedeltà e spesso – non soltanto nei riguardi del partito – addirittura la rifiuta. La fedeltà consiste nell’aderire all’essenziale anche quando i fenomeni del momento sembrano contraddirlo. Nella mentalità dei borghesi questo senso della fedeltà è talmente indebolito, anzi quasi già scomparso, che nella letteratura borghese la fedeltà ormai compare spesso soltanto come un sentimento patologico, di un gusto degradato. La disciplina di partito è invece un grado superiore, astratto, di fedeltà. La fedeltà di una persona nei rapporti pubblici è una relazione ideologica verso una tendenza storicamente data: e resta fedeltà anche se su qualche questione concreta non c’è accordo completo con questa tendenza storica. Perché questa fedeltà dovrebbe essere un ostacolo per lo sviluppo individuale e artistico di un poeta di partito? Ciò è tanto meno comprensibile in quanto la missione storica del partito rappresenta l’avvenimento più vivo proprio per il poeta di partito veramente grande. Per lui la missione storica diventa viva, in visione, nella sua concretezza.

Certo, se la questione della disciplina di partito è posta da un burocrate settario, se quindi si perde il rapporto tra la disciplina di partito e la vocazione storica e nazionale del partito, se il principio della disciplina è capovolto proprio nelle piccole lotte quotidiane e così la disciplina di partito diventa una disciplina morta, allora questo legame va perduto, non è più il vero rapporto tra partito e poeta di partito, ma la sua caricatura settaria.

Porre la questione in modo giusto, significa invece: da un lato sta il poeta di partito, come il partigiano di una grande causa, che opera fedelmente e tuttavia in maniera individuale; dall’altro lato stanno un comprensivo senso della misura e la fermezza dei principi di Marx e di Lenin, raccolta in un’unità organica. Se è posta in modo giusto, la questione del rapporto tra partito e poeta di partito può essere in tutto risolta, anche se spesso ciò avviene attraverso conflitti. Solo così il poeta può collegarsi come poeta al partito e quindi condurre la lotta per gli obiettivi comuni insieme con la parte migliore del popolo lavoratore. Proprio in questa lotta il poeta può sviluppare il meglio di sé: quella vocazione e consapevolezza poetica di cui in questo saggio abbiamo parlato più volte. Il poeta di partito ha possibilità di sviluppo affatto diverse. Egli può appoggiarsi al partito e trovare in esso, come Anteo, il suo terreno stabile.

Non è un caso che questi problemi si pongano in occasione delle celebrazioni del PCU per Attila József. Non si può capire la poesia di Attila József senza chiarire seriamente la natura della poesia di partito. Se noi comunisti, impegnati a promuovere e a costruire la democrazia ungherese senza compromessi, con profonda serietà, riconosciamo in Attila József uno dei nostri, possiamo e dobbiamo farlo sotto due aspetti. Innanzi tutto il nostro movimento è espressione dell’altezza fin qui raggiunta da quella grande linea alla quale conducono tutti i movimenti del passato che aspirano alla liberazione; da questa altezza si può riconoscere chiaramente che cosa Petöfi e Ady abbiano cercato e raggiunto, Attila József ci appartiene anche per un’altra ragione: perché amava ciò che noi amavamo, odiava ciò che noi abbiamo odiato, era addolorato da ciò che addolorava noi. Nelle sue poesie trovarono espressione i sentimenti più veri e profondi degli operai, dei contadini e degli intellettuali progressisti ungheresi che soffrivano sotto il regime di Horthy. Egli appartenne a noi finché visse, e resta tra noi anche nella sua immortalità.

1 [«Un cardo è la sua anima, e in cima | per ornamento, un rospiciattolo da niente | gracida, e finché il suo vantaggio sente | con le rane più anziane s’accontenta. | Se lontano uno smeraldo ti pareva, | prendilo! ti resterà un poco di bava sulle dita». (Le traduzioni dei versi ungheresi riportati in questo saggio sono di Bonaventura Menato)].

2 [«La grazia ho respinto che si fa largo a spintoni. | Non son venuto a incantare. Io son venuto per tutto»].

3 [«Il tamburo ho battuto dei concili, se mi andava, | e in testa a lacere schiere ho guidato | Dózsa voce sonora, Jacques Bonhomme lo svelto»].

4 [«Legge è il suo verso, e nel suo ritmo esatto | cade la pietra e geme la finestra del castello»].

5 [«Poeta sono «e allora che m’importa della pura poesia?»]

6 [«Non mi tappo la bocca litigiosa, | Sporgo querela alla sapienza. | Mi dà un’occhiata di consenso il secolo: | il contadino, arando, pensa a me; | di me è presago l’operaio quando | il suo corpo è costretto tra due gesti , | la sera, c’è il monello malvestito | sulla porta del cine che m’aspetta. | E dove tutte le canaglie in banda | si scaglian contro l’ordine dei miei versi | rombano già fraterni carri armati | lanciandone le rime tutt’intorno»].

7 [«Dai nostri cuori vola il canto, appena dolore o gioia li ha sfiorati appena. | Il canto, come petali di rosa | strappati, se ne vola via nel vento. | Cantiamo, fratelli! più alta risuoni | la lira sinora suonata, | in questo confuso rumore di terra si levi | qualche pura voce di cielo! | Mezzo mondo è crollato… oh desolata | visione, che gli occhi ferisce ed il cuore! | Sulle ghiacciate rovine s’addensi | come l’edera verde il nostro canto e l’anima nostra!»]

8 Cfr. la poesia «Impiccate i re!»

9 [«Perché hai morso la pietra con denti di latte? | Perché t’affrettavi, se poi sei rimasto per strada? | Perché non hai fatto di notte i tuoi sogni? | Cosa volevi, infine, dimmi?»]