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György Lukács

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Poesia di partito

04 mercoledì Nov 2015

Posted by György Lukács in I testi

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di György Lukács

[Pártköltészet (1945). Traduzione di Fausto Codino. Pubblicato in Irodalom és demokrácia, 2a edizione corretta, Budapest 1948, pp. 111-33; traduzione italiana in G. L., Marxismo e politica culturale, Einaudi, Torino 1968]


Nelle considerazioni che seguono non ci occupiamo espressamente del solo Attila József. Cercheremo, più in generale, di delineare con chiarezza un problema assai attuale che oggi è considerato da molti, dentro il partito e fuori, estremamente spinoso: il problema della poesia di partito. Non è un caso che ne discutiamo proprio qui e adesso. Dobbiamo affrontarlo ora proprio per aver modo di esporre le nostre diverse tendenze letterarie, e non per venire magari a un compromesso. Il momento non è scelto a caso. La personalità e la poesia di Attila József ci pongono problemi attuali. Se non ci occupassimo di Attila József non potremmo capire il rapporto tra partito e poesia; né potremmo giudicare nel suo valore la poesia di Attila József se non definissimo seriamente la natura della poesia di partito.

I.

L’opinione pubblica, almeno in ampi settori, crede di scorgere qui un dilemma. Da un lato starebbe la poesia di partito, dall’altro la poesia «pura», che si ritira in una torre d’avorio. Questo falso dilemma ha una storia più che secolare. Circa un secolo fa Freiligrath, non ancora rivoluzionario, aveva proclamato: «Il poeta si trova in un osservatorio più alto dei torrioni del partito». Herwegh controbatteva proclamando con passione il diritto all’esistenza della poesia di partito. E la «Rheinische Zeitung», diretta dal giovane Marx «che pure a quel tempo non era ancora socialista, ma democratico rivoluzionario «prese posizione decisa a favore di Herwegh.

La falsità del dilemma appare nella forma più chiara, istruttiva e comprensibile, come appare spesso nella prassi, se lo prendiamo sotto un aspetto caricaturale. Comincerò da un caso al quale io stesso ho assistito. Circa quindici anni fa il noto poeta comunista Erich Weinert si presentò disperato all’associazione degli scrittori proletari rivoluzionari tedeschi. La causa della sua disperazione era piuttosto tragicomica. Un’associazione operaia, un sindacato, se ricordo bene, gli aveva chiesto di scrivere un inno. La melodia era già composta e il testo doveva comprendere diciotto versi. Ma l’organizzazione, nella sua richiesta, aveva posto la condizione che nei diciotto versi fossero inserite ventidue parole d’ordine. L’esperto Weinert risolse il compito a gran fatica. Ma quando il testo fu pronto, l’organizzazione gli chiese d’introdurvi altre due parole d’ordine, che intanto erano diventate necessarie. In queste circostanze, Weinert si presentò disperato al nostro gruppo…

L’altro lato del falso dilemma si presenta in verità come segue: nel numero di novembre di «Magyarok» [Ungheria] István Vas discute l’opinione secondo cui «oggi, dopo che la vita ha compiuto una conversione di 180 gradi rispetto alla situazione di un anno fa, nessuna persona spassionata può continuare dal punto in cui era rimasta». Egli dice che questa è l’opinione di un dirigente politico, fatta propria da un nostro buon poeta. L’autore dell’articolo sostiene invece questo punto di vista: «Noi non abbiamo né motivo né voglia di continuare da un punto di vista diverso da quello da cui abbiamo cominciato». L’autore aveva precisato anche chi fossero questi «noi»: «Noi che siamo andati avanti sotto lo stimolo di Kosztolányi e Babits…»

L’autore è dunque fermamente convinto che né Babits, Kosztolányi, né i loro scolari debbano imparare qualche cosa dall’oppressione fascista, dalla distruzione dell’Ungheria, dalla liberazione e dalla ricostruzione. Budapest è ridotta in macerie, ma la torre d’avorio resta intatta al vecchio posto. Questa è senza dubbio una manifestazione caricaturale dell’altro estremo. Nelle descrizioni di guerra si legge spesso che dappertutto sibilavano e grandinavano i proiettili, ma la coccinella continuava tranquilla la sua passeggiata sul prato. D’altronde la coccinella lo fa senza la pretesa di voler pronunciare neppure un giudizio superficiale sulla guerra e sulla situazione postbellica.

Le due caricature sono esempi viventi di una problematica sbagliata. Il carattere caricaturale del caso Weinert è evidente. Naturalmente anche il secondo caso è una caricatura della realtà, che essa ha creato per certe necessità. Non si può fare propaganda di massa senza sintesi pregnanti e appariscenti: i manifesti e le poesie servono a questo scopo. Questi metodi per influenzare le masse non sono stati inventati dal partito, ma dalla grande industria capitalistica che produce articoli per il fabbisogno di massa. Ma, poiché questi metodi esistevano, nelle condizioni sociali date nessun partito poteva lasciarli inutilizzati.

La pregnanza efficace di un manifesto o di un verso di propaganda spesso non coincide che casualmente con l’autentico valore pittorico o poetico. Se fanno fermare i passanti per la strada, se impongono loro l’intento della propaganda, essi adempiono appieno la loro funzione, indipendentemente dalla presenza o dalla mancanza di un valore artistico «casuale». Se è poco probabile che i due valori coincidano, ciò è dovuto alla determinazione prosaicamente rigida, strettamente circoscritta del contenuto, che limita troppo il libero movimento della fantasia artistica. Una propaganda non può per esempio incitare alla pulizia, non pone le questioni generali e umane dell’igiene, ma fa soltanto pubblicità per un certo tipo di sapone.

Questa limitazione alla fantasia avviene anche nelle questioni della vita politica d’ogni giorno. La propaganda quotidiana di partito cerca per lo più d’inculcare un certo numero di parole d’ordine concrete e strettamente circoscritte nella testa della gente, in cui le grandi prospettive storiche e ideologiche del partito esistono soltanto come uno sfondo più o meno confuso. Anche qui il contenuto per lo più è inteso in maniera troppo ristretta e precisa perché la fantasia poetica, artistica, possa svolgersi appieno.

Ancora più chiaro è l’errore che si trova all’altro estremo. Qui lo scrittore dà alla sua forma, alla sua esperienza una cornice così larga, generale e astratta che ogni contenuto essenziale si decompone, e anzi è distrutto. Se nella sua creazione il poeta vuole tenere insieme questo contenuto, proprio per questo il contenuto considerato resterà limitato, proprio per questo perderà l’essenziale e quindi diverrà inessenziale. Nel pensiero borghese è diffusa l’illusione secondo cui l’esperienza poetica ha carattere esclusivamente individuale. È ovvio che l’esperienza individuale è un momento decisivo della creazione poetica: senza di essa non c’è poesia. L’illusione borghese sta nel fatto che essa identifica l’esperienza individuale, come forma essenziale del processo della creazione poetica, col contenuto dell’esperienza. Ma questo contenuto, non soltanto nei suoi elementi meramente contenutistici, bensì in tutta la sua struttura, nell’effetto esercitato su forme vissute e poetiche di questa struttura, comprende in sé tutta la società nel suo movimento e nelle sue trasformazioni, e anzi tutto il mondo.

Se un poeta si attiene all’opinione dell’articolista sopra citato, limita il mondo della propria esperienza. Negli scrittori si formano – spesso per effetto di forze sociali da essi non riconosciute – certe forme individuali di esperienza e poetiche. Il nostro autore consiglia agli scrittori di fissarle come definitive. Ma allora queste forme d’esperienza, la cui funzione originaria, produttiva, era di afferrare e diffondere mediante l’esperienza poetica il mondo intero in corso di trasformazione, diventerebbero una barriera tra l’esperienza poetica e i mutamenti della società; impedirebbero al poeta di vivere nuove realtà nella loro essenza e di rappresentarle.

Nel corso di grandi trasformazioni sociali questo modo di perpetuare l’essenza pura, individuale di un’esperienza poetica e un metodo d’espressione poetica già raggiunto assume un certo aspetto donchisciottesco, senza però l’eroismo del cavaliere spagnolo. Questo donchisciottismo trova infatti – proprio durante grandi rivoluzioni sociali – molti sostenitori nel campo della reazione, tanto più che la reazione, preoccupata per le sue posizioni e intenta a difenderle, si accontenta se almeno una parte degli intellettuali più autorevoli non è schierata nelle file degli innovatori democratici: proprio durante grandi rivolgimenti sociali una simile «eletta» neutralità significa di solito un appoggio alla reazione.

In simili circostanze esterne e interne il distaccarsi dalla nuova realtà e il rifiutare i suoi effetti fecondi deve necessariamente produrre deformazioni nel poeta. Attila József riconobbe presto queste deformazioni: egli vide che questo estetismo può condurre a un’inferiorità morale.

Kóró a lelke, ül azon
Kis varasbéka ékül;
Vartyog s mig zizzen a haszon
Vénebb békákkal békül.
Ha hitted messzirül smaragdnak,
Csak fogd megd, ujjaid ragadnak1.

II.

Considerando questo stato di cose si arriva alla questione decisiva. Il rifiutare così la vita sociale e politica in nome della poesia «pura» non è infatti esclusivamente un problema concernente il contenuto e l’espressione poetica. È anche questo, naturalmente, in quanto, come abbiamo visto, comporta chiusura, impoverimento, irrigidimento. Ma al fondo c’è di più: il ritiro nella torre d’avorio, cioè un superbo distacco dalla vita sociale quotidiana, può avere facilmente, che uno se ne renda conto o no, un duplice significato.

L’ideologia della torre d’avorio è inestirpabile perché ha serie ragioni sociali. È una protesta contro la fondamentale tendenza antiartistica della società capitalistica, che si manifesta in tutti i fenomeni della vita, sia pure in maniere molto diverse e con varia intensità. La protesta dell’arte «pura» contro l’orrore e l’ottusità del mondo capitalistico può tuttavia rivolgersi in avanti o all’indietro, può essere progressista o reazionaria: si tratta di vedere quando, contro chi e con quale accentuazione essa si esprime. È comprensibile che nel venticinquennio della controrivoluzione, specie negli ultimi anni terribili, una parte notevole della letteratura ungherese si difendesse in questo modo. Ma non si deve dimenticare che questa difesa era estremamente debole: il «brusio», come lo definiva Pál Ignótus, aveva per lo più un contenuto soltanto negativo; solo il distacco assumeva una forma plastica, ma anche debole; verso dove ci si dovesse rivolgere, restava affatto nel vago. Anche se all’incirca si poteva intuire la direzione, il suo carattere progressista era quanto mai dubbio.

Il continuare questa difesa dopo la liberazione – come appunto dichiara programmaticamente l’autore dell’articolo della rivista «Magyarok» – vuol dire riassumere quell’atteggiamento: naturalmente con la coscienza, politicamente oscura, che dal punto di vista del poeta sarebbe affatto indifferente che ora sia al potere il fascismo o la democrazia. Egli si rinchiude e rifiuta indifferentemente tutto ciò che gli viene «dall’esterno», dalla società; egli nega (consapevolmente o no) che la funzione di un poeta nella vita di un popolo liberato sia diversa dalla sua funzione in un popolo oppresso.

Questo atteggiamento sociale-ideologico, che inconsapevolmente si fonda sull’esperienza e sulla convinzione che il capitalismo è un terreno sterile per l’arte, non comporta solo un impoverimento, ma trascina in una vuota astrattezza, perché cancella la realtà. Esso cancella le differenze decisive tra periodi di sviluppo democratici e antidemocratici. Un atteggiamento simile si converte – senza volerlo, è da sperare – in una negazione della democrazia, così come prima voleva essere una negazione della tirannide.

A questo punto non sarà quindi sbagliato ricordare brevemente il diario di Sándor Márai. Qui naturalmente non possiamo giudicare tutta l’opera, benché ci rincresca di non poter accennare, per esempio, al momento culminante della giusta critica sulla classe media ungherese. Qui possiamo soltanto chiarire su qualche esempio i metodi di questo diario, e dobbiamo farlo per poter illustrare l’atteggiamento che c’interessa richiamandoci a uno dei suoi rappresentanti eminenti.

Gli attacchi di Márai contro Petöfi sono già famigerati. Che scrive sulla controversia tra Napoleone III e Victor Hugo? Secondo Márai Napoleone era «un uomo straordinariamente generoso, sognatore e dotato di talento, che voleva il bene dei lavoratori…» E altrove: «Come aveva ragione, Napoleone III, quando per due decenni donò alla Francia la pace, lo splendore e l’ordine del secondo impero…» Basta conoscere anche soltanto nelle grandi linee la storia francese reale per valutare meglio questo «splendore». Ma la conseguenza necessaria di questo «splendore» del secondo impero non fu solo la distruzione di Sedan, ma anche la corruttela sociale e morale dell’epoca napoleonica. Essa aveva talmente infettato il popolo francese che la terza repubblica soffrì per decenni di questa eredità e cominciò a riprendersi dalla degradazione solo durante lo scandalo di Panama, l’affare Boulanger e il processo Dreyfus. Anche se non è questa l’intenzione di Márai, la sua argomentazione dà impulso a coloro che nei tempi duri di oggi rimpiangono «la pace, l’ordine e lo splendore» dell’epoca di Horthy e Bethlen. Ispirandosi a questa concezione, Márai parla con entusiasmo della «grandezza» di Chamberlain e afferma che gli avvenimenti della guerra mondiale avrebbero confermato la sua politica chiaroveggente, mentre tutte le persone ragionevoli sanno bene che la politica «di Monaco», perseguita da Chamberlain e Daladier, permise l’aggressione hitleriana in tutta Europa.

Infine vale la pena di notare che Márai approva esplicitamente la sottomissione a Hitler in nome dello «spirito»: «… Quali sono i compiti dei francesi su questa terra? Essi devono sopportare Hitler precisamente come la sofferenza di una malattia. Non hanno il compito di battersi e di comportarsi come imperialisti. Il loro compito sta nel pensare e lavorare in conformità del loro ruolo». In questo ragionamento si possono mettere in evidenza due momenti. Primo, Márai scredita il movimento della resistenza francese, paragonandolo all’imperialismo. Secondo, egli considera naturale che i presupposti per uno sviluppo libero e superiore dello spirito francese fossero dati durante l’occupazione.

Come si vede, una simile rivelazione della poesia «pura», dello spirito, induce a considerare come un vantaggio l’avvilimento più profondo di una nazione, l’oppressione brutale della libertà. Per il popolo francese fu una fortuna che i suoi intellettuali respinsero decisamente queste rivelazioni dello «spirito», pur se vi furono anche voci isolate di altro genere. Da noi, va detto con rammarico, non vi furono questa capacità di scelta e questa risolutezza. Se il popolo ungherese non si è liberato con le proprie forze, la colpa è stata soprattutto dei banditi che patteggiavano con Hitler. Ma è colpevole anche quella parte dell’intelligentsia che aveva capitolato in campo intellettuale e sosteneva che questo era l’unico atteggiamento degno di una persona colta.

Qui abbiamo una tendenza generale dell’intelligentsia, una tendenza generale della letteratura. Essa è così forte che trascende i confini tra gruppi letterari che per il resto si combattono tra loro. Queste correnti, così pericolose per lo sviluppo nazionale, si trovano nella cerchia degli «urbani» come in quella dei «populisti». Non è un caso che a questo punto possiamo richiamarci proprio al «populista» László Németh, che qui concorda pienamente con l’«urbano» Sándor Márai. Non è un caso, perché in Ungheria non c’è tendenza intellettuale antiprogressista, ostile alla democrazia, il cui padre o nonno spirituale non sia stato László Németh.

In un’altra pagina egli parla di Montherlant, e mette in risalto con lode le sue tesi principali: «Lo stato attuale della Francia [durante l’occupazione (G. L.)] è favorevole per la libertà spirituale… Lo sporco traffico della letteratura tace: il mondo gli ha voltato le spalle. In questo stato di abbandono la creazione è di nuovo come dovrebbe essere; il vuotarsi dell’anima colma, senza riguardo per il mondo». Approvando queste affermazioni, anche László Németh accenna al rinnovamento dello spirito francese. «È anche la vecchia Francia, che fu sommersa da quella degli “avvocati”», cioè dalla Francia della democrazia. László Németh crede perciò di scorgere in queste tesi un «profondo programma francese». Chi non aveva ancora capito quanto fosse pericolosa l’opposizione «ungherese profondo – ungherese diluito», che risale a László Németh, ora vede bene dove questa teoria «storico-spirituale» debba necessariamente condurre nella prassi sociale.

Questi esempi isolati sono però caratteristici e importanti. Indicano quali contenuti nascono dalla forma, dalla superba autoidolatria dello spirito. Indicano altresì fino a che punto la «sovrasocialità» e la posizione apolitica del poeta siano solo illusioni dell’autoinganno. Ogni scrittore, come scrive, fa politica, e quindi prende partito. Si tratta solo di sapere con quale consapevolezza lo faccia.

III.

Definendo la «consapevolezza», veniamo ai nostri veri problemi: cioè a definire la collocazione del poeta politico, del poeta di partito, tra le varie possibilità della creazione letteraria. La consapevolezza può essere suddivisa schematicamente in tre gradi. Il primo sarebbe rappresentato, come abbiamo visto, dal poeta che fa politica inconsapevolmente, spesso contro le proprie intenzioni e la propria volontà. Da noi il rappresentante principale di questo tipo è stato Mihály Babits, soprattutto perché egli aveva un sentimento amaro e profondo della problematica tragicomica del suo atteggiamento, pur senza riuscire a superarne i limiti. La sua poesia sul profeta Giona è un bell’esempio di lotta onesta ma disperata con se stesso.

Sarebbe schematico opporre direttamente a questo tipo, senza transizione, i grandi tribuni popolari dell’arte poetica, i Petöfi e gli Ady. Scrittori grandi come Goethe o Balzac, Tolstoj o Thomas Mann sono ugualmente lontani dal tipo Babits come dal tipo Petöfi. Goethe, questo caso apparente di arte apolitica, di fronte alla Rivoluzione francese o di fronte alla restaurazione non si ritirò nella torre d’avorio della poesia «pura». Al contrario, egli non negò mai che tutte le grandi svolte sociali e politiche esercitano un influsso decisivo anche sulla poesia. I contenuti mutati e la struttura del mondo richiedono forme poetiche nuove. Perciò egli seguiva con occhio vigile quei mutamenti e voleva sempre prendere posizione consapevole di fronte ad essi. Valutava la loro progressività sociale e le loro ripercussioni sull’ascesa del genere umano, sullo sviluppo interno ed esterno del vero umanismo. Questa presa di posizione, cioè questa presa di partito, che fece di Goethe un seguace entusiasta dell’età napoleonica, nel suo caso (come pure nel caso di numerosi rappresentanti di questo tipo) non ebbe come conseguenza necessaria che egli si gettasse sempre con passione nella vita politica quotidiana.

Nei rappresentanti di questo tipo la tendenza poetica fondamentale è un’altra. Fielding si definiva uno storico della vita sociale; Balzac ripete quasi alla lettera questa definizione nella prefazione alla «Commedia umana». È così indicata la tendenza centrale: dare un quadro ampio, profondo e comprensivo dello sviluppo della vita sociale; combattere per il progresso del genere umano, per il suo sviluppo superiore; rappresentare con i mezzi della poesia la via del progresso, le sue forze motrici e le potenze interne ed esterne che vi si oppongono. Qui un rispecchiamento vero e fedele della vita della società è un mezzo essenziale per influenzare gli uomini.

Parlando di tipi, tuttavia, indichiamo soltanto i lineamenti generali del problema. Possono esistere tendenze del tutto opposte tra loro. Nello stesso scrittore possiamo scoprire che l’intento d’intervenire nella vita quotidiana varia molto d’intensità; all’oggettività dei grandi romanzi di Tolstoj si contrappone nettamente il pathos profetico della sua produzione più tarda. Ma nella sua opera le due tendenze erano collegate in quanto raggiungevano il fine voluto dal poeta mediante il rispecchiamento oggettivo dell’intera vita sociale.

A questo proposito si deve sottolineare che anche il grado della consapevolezza è diverso: Goethe e Keller hanno indicato con sufficiente esattezza lo scopo che volevano raggiungere con la rappresentazione oggettiva del mondo. L’immagine del mondo da essi delineata riproduce in gran parte solo ciò che essi volevano nella loro tendenza a immischiarsi nella vita. La «Commedia umana» dimostra invece il contrario di ciò che Balzac intendeva quando la scrisse. La grandiosa raffigurazione sociale di Resurrezione confuta completamente la profezia religiosa e morale di Tolstoj. Nonostante simili e analoghi contrasti, in questo tipo resta qualche cosa che assicura la durata: esso solleva uno specchio davanti alla società e favorisce lo sviluppo ulteriore dell’umanità con un aiuto che comprende, svela tutta la società e sviluppa le sue leggi.

Di qui, attraverso passaggi complicati, arriviamo al tipo del poeta politico vero e proprio: al poeta di partito. Il numero dei fenomeni di transizione è infinito. Nella realtà i punti di transizione sono sempre confusi. Ma ciò vale per tutti i fenomeni di questo mondo. Se appena gettiamo uno sguardo su fenomeni letterari così diversi come Béranger, Balzac, Shelley, Walter Scott, Goethe, Gor’kij, Tolstoj…, abbiamo di fronte il tipo del vero poeta politico, del poeta di partito.

Ma, prima di tutto, abbiamo a che fare con un poeta, con un tipo primario di poeta. Lo sviluppo storico reale rivela proprio il contrario di ciò che solitamente affermano le denigrazioni borghesi della poesia di partito. Queste per lo più sostengono quanto segue: un tempo c’era una letteratura «pura», poi vennero i partiti e la vita democratica. Essi hanno «guastato» i poeti. In realtà tutto è andato proprio all’opposto. La poesia politica è esistita molto tempo prima dei partiti organizzati moderni. Non parliamo della lirica delle età primitive: allora, infatti, dominava una vita di partito molto evoluta. Durante l’ascesa della società borghese appaiono l’uno dopo l’altro grandi poeti di partito, anche là dove non esistono ancora partiti politici o dove essi cominciano appena a formarsi. Così Lessing, Shelley e ancora Heine sono poeti di partito senza partito. Converrà forse esaminare un po’ da presso questo stato di cose, perché illumina la sostanza del problema.

Innanzi tutto balza agli occhi la maggiore e più profonda consapevolezza del poeta: una consapevolezza dell’essenza dell’uomo e dell’intrecciarsi tra i suoi valori più intimi e la vita della società. Così si manifesta nuovamente l’errore del dilemma che abbiamo considerato all’inizio: ciò che là appariva come poesia politica – in forma di caricatura – manca di valore poetico non perché il suo oggetto non è un problema del giorno, ma perché il suo pathos non tocca le questioni più profonde della vita. Le parole d’ordine quotidiane dei partiti politici nascono dalla vita. Se sono intese giustamente nel loro contenuto esse diventano parole d’ordine politiche attraverso un’astrazione giusta e adeguata allo scopo. Il poeta politico esaminato nelle nostre considerazioni iniziali è quindi soltanto la caricatura di un poeta, perché non traduce le parole d’ordine del giorno in quel linguaggio umano dal quale sono sorte; perché non risale alla fonte da cui tutte le parole d’ordine scaturiscono. Lo scrittore apolitico, che agisce analogamente, e il presunto poeta di partito che si perde in un siffatto praticismo quotidiano senza profondità umana e sociale, sono pertanto simili nella mancanza di consapevolezza. Entrambi si appropriano senza critica e senza consapevolezza i fenomeni superficiali della società capitalistica, come se la vita pubblica e la vita privata fossero separate o tra loro contrapposte. Nessuno di loro osserva che la produzione capitalistica ha provocato una fatale mutilazione e atomizzazione dell’uomo. Dal punto di vista sociale come da quello – superiore – letterario è decisivo il vedere quale parte dell’uomo atomizzato gli scrittori cerchino artisticamente di presentare come un tutto, come un uomo intero.

Ma qual è la differenza tra la consapevolezza del grande poeta che rispecchia oggettivamente la vita e quella del poeta politico? Essi hanno in comune il contenuto della consapevolezza: l’uomo intero. Hanno in comune la tendenza umanistica, che è viva in tutti i grandi poeti: la lotta per l’uomo intero, pienamente sviluppato. La differenza sta nella tendenza – presente in entrambi – del pathos sociale. Anche in scrittori del tipo di un Balzac o di un Tolstoj esiste la volontà d’intervenire, di trasformare, di migliorare (e quindi la volontà di prendere partito). Ma essi si muovono attraverso la scoperta oggettiva in direzione della dialettica oggettiva della realtà. Da ciò deriva poi la singolare possibilità che il fine consapevole dei desideri di questi poeti sia sbagliato o addirittura reazionario. Resta tuttavia presupposto che il rispecchiamento della realtà oggettiva sia compiuto con sincerità inesorabile. Così Lenin dice che le opere di Tolstoj sono uno specchio della trasformazione della struttura agraria tra il 1861 e il 1905, e della rivoluzione contadina che coronò questa trasformazione. Ma aggiunge subito che Tolstoj non aveva capito realmente nulla del processo di cui dava una raffigurazione fedele e geniale.

Lessing o Shelley, Heine o Petöfi, Gor’kij o Ady vogliono intervenire direttamente negli avvenimenti. In questo caso la falsa autocoscienza di Balzac e Tolstoj comporterebbe conseguenze catastrofiche. Infatti i romanzi di Balzac possono tranquillamente confutare la sua legittima utopia senza che ciò pregiudichi minimamente il loro valore artistico. Anche le poesie di Petöfi e Ady dovettero essere giustamente meditate, all’origine, perché potessero diventare poesie realmente buone, tanto più che in esse la concezione, il pensiero soggettivo e il sentimento del poeta non servono solo a dar forma all’oggetto, ma costituiscono lo stesso oggetto direttamente rappresentato. Perciò qui è necessaria una superiore consapevolezza della via di sviluppo dell’umanità. Non è certo un caso che Heine prima del 1848, Petöfi nel 1848 e Ady prima del 1918 furono non solo i maggiori poeti della loro epoca, ma anche i suoi maggiori interpreti. Né è un caso che una parte essenziale della loro interpretazione sia giusta ancora oggi, a differenza di quelle di Balzac e Tolstoj. Per l’Ungheria basta ricordare János Arany o Zsigmond Móricz.

IV.

Un simile livello di consapevolezza ha necessariamente, ripercussioni sulla forma artistica e sul rapporto dello scrittore con l’arte.

Non a caso i poeti politici in senso stretto, i poeti di partito, sono in maggioranza lirici. Ci sono certo anche drammaturghi, come Lessing, il giovane Schiller, Beaumarchais, romanzieri come Saltykov-Šcedrin. Ma la lirica resta il modo d’espressione più naturale e la forma più omogenea per i poeti di partito. Le forme oggettive, il dramma e l’epica, non si prestano altrettanto all’espressione diretta delle opinioni dello scrittore. Se un grande temperamento politico vince questa resistenza (il giovane Schiller), in parte la forma viene allargata, ma spesso è anche spezzata. E se il dramma di Lessing e di Beaumarchais, il romanzo di Saltykov-Šcedrin riuscirono a fare di questa forma oggettiva il mezzo d’espressione dell’intervento politico diretto senza spezzare soggettivamente la forma, ciò avvenne soltanto perché la volontà d’intervenire direttamente andò perduta dietro la plasticità della rappresentazione oggettiva. La forma epica o drammatica conservarono la loro anteriore oggettività. Mentre sotto altri aspetti l’esistenza o la non esistenza di quella contraddizione tra la concezione del poeta e il linguaggio oggettivo del mondo rappresentato è una caratteristica molto importante (ricorderemo come esempi Balzac e Tolstoj), qui ciò non costituisce una differenza decisiva.

Sotto questo aspetto è anche essenziale che si potessero afferrare con spirito realmente poetico, in forme oggettive, solo grandi problemi decisivi per un’epoca, e di preferenza proprio nella loro portata decisiva, non nel loro rapporto con le questioni quotidiane: qui le questioni quotidiane in senso stretto sono necessariamente respinte sullo sfondo. Senza dubbio, la lotta della borghesia e della nobiltà (Lessing, Beaumarchais…), la corruttela dell’aristocrazia sono di fatto problemi decisivi. Sono ugualmente attuali per tutta un’epoca e quindi possono costituire la tematica della poesia di partito, che esige l’intervento risoluto nella vita quotidiana.

Eppure la lirica è stata e rimane sempre il genere artistico naturale per l’intervento diretto nel presente. Qui la soggettività di un poeta dotato di coscienza politica può diventare subito operante e in pari tempo esprimere ciò che è imperituro, proprio perché un vero poeta politico, un poeta di partito, esprime quasi sempre questioni decisive per la sua epoca, anche quando esprime questioni quotidiane. Ady formula bene la cosa: «La mia intenzione è un’intenzione antica di molti secoli».

In ogni buona lirica la soggettività e l’esperienza, i desideri, i sentimenti e le impressioni diventano direttamente universali e si raggruppano come contorni dell’esistenza momentanea dell’individuo. Se il poeta di partito è un vero poeta, la sua lirica si svolge secondo lo stesso processo. Certo, il soggetto delle esperienze è un uomo tra gli uomini, attivo, che prova desideri e che lotta in una società concreta. Il mondo che si accentra nella soggettività del poeta mostra soltanto in un attimo indivisibile la corrente secolare della storia e gli scogli del presente, battuti dalle sue onde.

Non è vero dunque che la poesia politica, la poesia di partito sia problematica per la lirica pura. Al contrario, non solo vediamo che la poesia di partito in forma moderna – e non in una copia formale – può rinnovare e sviluppare ciò che l’io puro dell’eccessivo individualismo attuale aveva soppresso nelle tradizioni della lirica antica: cioè, in particolare, l’ode e l’inno. Dobbiamo anche riconoscere che per questo, per la più intensa consapevolezza, si dilegua il mito dell’arte moderna, quel mito in cui i massimi poeti e storici potevano profondamente immedesimarsi.

Le confessioni di grandi poeti oggettivi, dal Tasso di Goethe all’Epilogo di Ibsen e fino a Thomas Mann, culminano nella questione: a che giova l’arte? È moralmente ammissibile il sacrificare l’esistenza umana di un artista per la mera riuscita della creazione artistica? Tolstoj, nel rispondere a questa domanda, talvolta si rivolgeva decisamente contro l’arte. Ma la problematica non è casuale e non dipende dalla disperazione personale di singoli grandi artisti. Lo sviluppo della società capitalistica, la funzione dell’arte in questa società aveva fatto sorgere questa problematica. Quanto più elevata è l’oggettività artistica di un poeta, quanto più profondamente egli afferra i problemi decisivi dell’epoca, e quanto maggiore è la perfezione con cui li esprime, tanto più sradicati essi gli possono apparire nella vita quotidiana della società capitalistica. (E tanto più profonde, naturalmente, sono le sue radici nello sviluppo complessivo del genere umano). Da questo sviluppo sociale deriva la disperazione dell’artista, sia pure soltanto dello scrittore realmente grande e veramente pensante; ne deriva quell’esperienza secondo cui l’arte stessa e soprattutto la vita individuale che si esaurisce nell’attività artistica diventano il centro dei conflitti essenzialmente problematici, irrimediabilmente tragici. Un poeta veramente grande e pensante non si appaga mai dell’autoidolatria estetica di una perfezione da atelier. Egli sente profondamente nell’anima la missione sociale di ogni arte veramente grande. La società capitalistica non assegna né all’opera né all’artista il posto che gli spetta. Di qui deriva questa problematica, col suo tono di fondo tragico, che riecheggia da Goethe fino a Thomas Mann.

È caratteristico e significativo per la filosofia della storia dell’arte che poeti come Shelley o Petöfi non hanno neppure riconosciuto il problema (János Arany lo capiva benissimo!) Ma questa mancanza di comprensione non va ricondotta a difetto di coscienza, al contrario: essa esprime un grado superiore di coscienza; è la fede incrollabile nella funzione storico-sociale della poesia.

I seguaci di questi poeti, nati in tempi più tardi, più problematici, hanno già risposto alla questione: quando Lajos Hatvany richiama Ady alle prescrizioni della tradizione flaubertiana – che è parte della linea sopra descritta, cominciata con Goethe – Ady le respinge nella sua Nuova leggenda unna:

A tolakodó gráciát ellöktem,
Én nem büvésznek, de mindennek jöttem2.

E spiega anche che cosa sia questo «tutto»:

Zsinatokat doboltam, hogyha tetszett
S parancsoltam élére seregeknek
Hangos Dózsát s szapora Jacques Bonhomme-ot3.

Qui Attila József riprende interamente l’eredità di Ady. Nel Ricordo di Ady esprime mirabilmente che cosa sia quel «tutto» nel cui nome Ady rifiutava, con pathos così orgoglioso, ogni problematica flaubertiana nell’arte moderna:

Verse törvény és édes ritmusában
Kö hull s a kastély ablaka zörög4.

Perciò Attila József, nei primi versi della sua Arte poetica, può variare questo pathos adyano:

Költö vagyok – mit érdekelne
Engem a költészet maga5?

In questo senso egli poi parla della poesia e della sua vocazione di poeta:

Én nem fogom be pörös számat.
A tudásnak teszek panaszt.
Ràm tekint, partfogón, e szazad:
Rám gondol, szántván, a paraszt;
Engem sejdít a munkás teste
Két merev mozdulat között;
Rám vár a mozi elött este
Suhanc, a rosszul öltözött.
S hol táborokba gyült bitangok
Verseim rendjét üldözik,
Fölindulnak testvéri tankok
Szertedübögni rímeit6.

In tal modo la secolare problematica della poesia, la sua condizione di senzapatria nella società capitalistica, ottiene grazie alla poesia di partito, e solo in virtù di questa, una soluzione positiva e senza compromessi, che salva l’essenza poetica della poesia. La poesia di partito è un precursore, un avamposto molto avanzato che libererà definitivamente il genere umano e quindi metterà fine ai conflitti tragici di ogni poesia e di tutte le arti, che infatti in ultima analisi sono sempre sorti dalla problematica sociale.

V.

Le nostre considerazioni non ci portano né a un idillio né a un happy end. La soluzione di questi conflitti non significa affatto che la poesia di partito sia ormai immune da qualsiasi problematica. Per giungere a una prospettiva giusta dobbiamo riprendere l’osservazione da noi fatta sopra. Il poeta di partito appare sulla scena della vita prima delle organizzazioni moderne dei partiti; vi sono stati numerosi grandi poeti di partito – da Shelley e Heine fino a Ady – che non appartenevano a nessun partito né potevano appartenervi perché la storia non aveva ancora fatto sorgere il partito al quale essi come poeti erano destinati. Questa è la tragedia oggettiva dell’attività di Petöfi; e di ciò anche Heine e Ady ebbero una coscienza soggettivamente tragica.

Ma quando i partiti esistono, quando partito e poeta di partito s’incontrano, il loro rapporto non è però immune da problemi. Ciò ha cause profonde, attinenti all’essenza della società e della poesia. Il banale individualismo borghese moderno compie una semplificazione troppo volgare quando contrappone la macchina del partito, in cui ogni individuo ha soltanto la funzione di una rotella, il «santuario» dell’individuo e specialmente dell’individuo poetico.

Qui non ci soffermiamo neppure a parlare delle grandi personalità storiche, da Cromwell e Marat fino a Lenin e Stalin, in cui la personalità e il compito storico, cioè le funzioni di partito, sono congiunti in una tale unità che l’una e l’altro raggiungono una classicità nuova ed esemplare in questa sintesi superiore. Ma anche a un livello più basso l’individualismo banale è semplicemente incapace di vedere la feconda interazione tra soggetto e oggetto e gli effetti che un grande sviluppo esercita sulla personalità.

Nell’uomo medio la questione può essere risolta in ultima analisi senza problemi, anche se sempre tra conflitti. In un grande dirigente politico essa si risolve senza problemi. Per lui le cerchie della vita privata e della vita sociale di un dato periodo sono concentriche. La grandezza di un genio politico sta nell’estensione che il raggio della sua cerchia privata ha raggiunto in rapporto a quello della società. Spesso nell’uomo medio i punti centrali delle due cerchie non coincidono. La problematica della vita politica, ovvero la mancanza di problemi, decide dell’ampiezza delle parti che nelle due cerchie coincidono.

Nel poeta, invece, quando voglia essere anche un poeta di partito, questo problema è sempre suscitato dai conflitti insiti nella profondità della sua anima. Senza volere spingere troppo oltre il paragone, diremo che nel poeta i due centri non coincidono mai. Se però egli è un vero poeta di partito, il centro della cerchia sociale è sempre una parte della vita personale e della sua poesia, e precisamente una parte prossima al centro individuale. Dovremo ora considerare da presso la problematica qui accennata.

Nella prassi si presenta il più delle volte un conflitto teoricamente non necessario: l’urto tra lo spirito settario e la poesia. Questo settarismo esiste sempre nei partiti e non di rado arriva al potere. I settari considerano poeta di partito solo il poeta dallo stile cartellonesco. Ogni deviazione nella formulazione è definita un atto ostile contro la partiticità. La considerazione astratta del problema dà origine a giudizi addirittura ridicoli sui grandi poeti di partito del passato. Ma ciò che a una certa distanza fa solo un effetto grottesco, nel presente può provocare conflitti tragici. La radice dei conflitti è tuttavia più profonda: un vero poeta di partito è sempre un cantore della grande missione nazionale, umanistica e storica del partito. Se a causa dello spirito settario – come nella prassi settaria del partito «proprio questa coscienza della missione si attenua nel partito, allora sorgono per necessità conflitti incessanti. Anche questi conflitti scompaiono solo se il partito ritrova se stesso liquidando il settarismo.

Nello sviluppo di un poeta di partito l’individuo come personalità ha una funzione qualitativamente diversa che nell’individuo comune. Lo sviluppo individuale del poeta e la natura della sua personalità decidono dove, quando, fino a che punto e in che misura egli entra in contatto con i fini, i principi e la prassi del partito. Qui l’autoeducazione del poeta, ma anche il fecondo influsso reciproco tra poeta e partito, possono fare molto, anche se non possono mai fare tutto. La personalità del poeta, come fonte di ogni vera poesia, ha dunque per questa una funzione indispensabile e non modificabile.

Innanzi tutto, l’opera intera di un poeta di partito veramente grande non si è mai esaurita soltanto in una vasta poesia di partito. Petöfi fu un vero poeta di partito, nel senso della nostra definizione. Nella sua breve vita la poesia di partito non fu naturalmente mai al centro della sua produzione come nei periodi tanto critici della rivoluzione del 1848. Eppure proprio a quel tempo egli stesso pone la questione: «Perché cantate ancora, poeti devoti?» Ma egli pone la questione della legittimità di una lirica soggettiva, indipendentemente dalla politica, solo per dare una risposta decisamente positiva:

Önmagától száll a dal szívünkböl,
Ha bú vagy kedv érintette meg,
Száll a dal, mint szállanak a szélben
A letépett rózsalevelek.
Énekeljünk, társak, söt legyen most
Hangosabb, mint eddig volt, a lant,
Hadd vegyüljön e zavaros földi
Zajba egy-két tiszta égi hang!
Rombadolt a fél vilag… kietlen
Látomany, mely szemet s szívet bánt!
Hadd boruljon a rideg romokra
Dalunk, lelkünk zöld repkény gyanánt7!

Anche in Petöfi, senza dubbio, nonostante le decise proclamazioni non c’è mera giustapposizione di lirica individuale e politica. Come abbiamo visto, anche nella proclamazione dell’individualità questa lirica tende ad avere carattere pubblico. È generalmente nota l’intensità con cui anche la lirica più soggettiva di Petöfi sia alimentata dal suo temperamento politico; si pensi soltanto al profondo nesso poetico tra le immagini, di paesaggio della pianura (Alföld) e il suo desiderio rivoluzionario di libertà.

A questo proposito sarebbe un compito molto interessante e utile, ma anche istruttivo, ricondurre le immagini di paesaggio della lirica del XIX secolo ai loro toni di fondo politici e sociali; verrebbero alla luce molti nessi finora inosservati. Qui mi permetto di osservare che in Attila József è nettamente chiaro un convertirsi dello stato d’animo puramente individuale nel sentimento politico, anche se questo convertirsi non è sempre messo in risalto con le parole corrispondenti, per esempio in vari versi di Pioggia, Terra morta. In Attila József le immagini di paesaggio possono ancora comunicare sentimenti rivoluzionari.

Ma non si tratta solo di questo. Da una parte, per necessità, il partito affronta tutte le questioni prosaiche della vita pratica e cerca in esse quell’anello della catena che rivela e mette in movimento nella vita quotidiana gli obiettivi nazionali e storico-universali. D’altra parte gl’inconvenienti determinati dagli avvenimenti quotidiani o annuali, con le loro oscillazioni e le loro crisi, in mezzo all’apparente disperazione mantengono incrollabile la tendenza verso un futuro migliore. Un poeta di partito, che non può staccarsi dal mondo della sua esperienza poetica, necessariamente individuale, di rado trarrà ispirazione dagli «anelli della catena», oggettivamente essenziali e indispensabili, della vita politica quotidiana. (Benché anche questi possano fornire l’occasione per le grandi poesie, in particolare nel caso di Petöfi)8. Del resto né il proprio destino, né le esperienze di un poeta possono mettere in condizione di seguire con fede incrollabile la strada certa, formatasi nel corso e nella logica della storia. Proprio nei tempi più difficili, il partito ha la funzione importante e il merito di definire questo obiettivo e di mantenerlo.

Il singolo può essere disperato, può crollare sotto i colpi del destino. Se è un vero poeta, anche se è un poeta di partito, deve poter esprimere la sua condizione disperata. Una di queste voci di disperazione si leva per esempio nelle ultime poesie di Attila József, commoventi nella loro onestà:

Tejfoggal köbe mért haraptál?
Mért siettél, ha elmaradtál?
Miért nem éjszaka álmodtál?
Végre mi kellett volna, mondd9?

Lenin, il grande dirigente di partito, aveva sempre affermato che non esistono situazioni disperate; ma ciò si riferisce soltanto alle azioni politiche delle nazioni, delle classi e dei partiti. L’individuo invece, il poeta, anche se è soltanto poeta di partito, può e anzi deve addirittura diventare sempre il troubadour della disperazione della propria vita. Della libertà poetica fa parte la libertà della disperazione. L’esprimerla è antica tradizione poetica. In occasione di grandi avvenimenti essa è strettamente connessa al destino sociale del poeta. A questo proposito è interessante e caratteristico che il Werther di Goethe, quando si batte per il suo diritto al suicidio, perché questo è un diritto umano della personalità, nel dibattito fa questo paragone: il singolo possiede questo sacro diritto, di spezzare rivoluzionariamente le sue catene, proprio come lo possiede un popolo oppresso.

Ma la questione ha anche un altro aspetto essenziale. Anche un dirigente rivoluzionario lucido come Lenin, noto per la fredda chiarezza del suo pensiero, dice che spesso il rivoluzionario ha addirittura il dovere di sognare. Questi sogni esprimono la solida fede nella certa attuazione degli obiettivi lontani. Un rivoluzionario deve sognare per non perdere di vista questi obiettivi lontani nella lotta quotidiana.

Abbiamo sottolineato che il rapporto del poeta con l’unità dialettica della vita quotidiana e con l’obiettivo storico è essenzialmente diverso da quello del grande dirigente politico. Ma qui, nella sfera dei fenomeni psicologici superficiali, il contrasto è apparentemente massimo; tuttavia esiste anche la tendenza alla convergenza. Proprio nella capacità di vivere intensamente le proprie esperienze, che nelle situazioni senza scampo spinge il poeta alla disperazione, si cela la sua capacità di scorgere quegli obiettivi lontani e di renderli percettibili mediante visioni poetiche che poi vengono giustificate dal futuro: anche se queste visioni non sono realizzabili per l’uomo medio. Marx diceva che Balzac, il grande pensatore dell’oggettività sociale, era stato profetico nel delineare i suoi tipi. Egli aveva visto e rappresentato figure che al suo tempo esistevano solo in germe e che solo molto più tardi si erano sviluppate in tipi sociali concreti. Noi ungheresi abbiamo visto attuarsi visioni simili nel caso di Endre Ady.

Dopo queste argomentazioni, crediamo, si può riconoscere chiaramente la problematica del rapporto tra partito e poeta di partito. È insolubile questa problematica? Io non credo. Tra partito e poeta di partito esiste certo un rapporto affatto specifico.

Per esprimerlo in breve: il poeta di partito non è mai un comandante o un soldato semplice, ma sempre un partigiano. Cioè, se è un vero poeta di partito, c’è una profonda unità con la missione storica del partito, con la grande linea strategica che viene definita dal partito. Ma, all’interno di questa unità, egli deve rivelarsi con mezzi propri sulla propria responsabilità. Con ciò non diciamo che predomini l’anarchia o un legame puramente casuale, ma semplicemente indichiamo il giusto riconoscimento dei rapporti tra l’attività di partito e le caratteristiche decisive del poeta di partito, e indichiamo il corrispondente impiego pratico di questi rapporti.

I grandi dirigenti del movimento operaio avevano conoscenza di tutto ciò e la tradussero sempre in pratica. Pensiamo solo ai rapporti di Marx con Freiligrath, con Heine e con Herwegh; pensiamo ai rapporti di Lenin con Gor’kij. Erano rapporti che non chiedevano mai al poeta un meschino adeguamento alle esigenze quotidiane; il poeta considerava le cosiddette oscillazioni con indulgenza affettuosa e comprensiva. D’altra parte ciò non comporla mancanza di principi. Tra comandante e partigiano il rapporto era intimo e comprensivo fintanto che l’azione individuale del partigiano procedeva di fatto sulla via della strategia storica del partito. Quando Freiligrath era diventato infedele alla democrazia rivoluzionaria del 1848, quando nel suo sviluppo cominciò quel periodo che durante la guerra degli anni settanta lo portò a comporre poesie nello stile di Hurrah Germania, Marx aveva assunto verso di lui un atteggiamento di netto e freddo distacco. Conflitti simili, senza però che si arrivasse mai alla rottura, vi furono spesso anche tra Gor’kij e Lenin.

In questo contesto crediamo di dover trattare un problema spesso frainteso dagli intellettuali e perciò impopolare: il problema della disciplina di partito. Gli equivoci per lo più nascono perché il soggettivismo, che degenera in stati d’animo anarchici quali si conoscono nei tempi moderni, non conosce più la vera fedeltà e spesso – non soltanto nei riguardi del partito – addirittura la rifiuta. La fedeltà consiste nell’aderire all’essenziale anche quando i fenomeni del momento sembrano contraddirlo. Nella mentalità dei borghesi questo senso della fedeltà è talmente indebolito, anzi quasi già scomparso, che nella letteratura borghese la fedeltà ormai compare spesso soltanto come un sentimento patologico, di un gusto degradato. La disciplina di partito è invece un grado superiore, astratto, di fedeltà. La fedeltà di una persona nei rapporti pubblici è una relazione ideologica verso una tendenza storicamente data: e resta fedeltà anche se su qualche questione concreta non c’è accordo completo con questa tendenza storica. Perché questa fedeltà dovrebbe essere un ostacolo per lo sviluppo individuale e artistico di un poeta di partito? Ciò è tanto meno comprensibile in quanto la missione storica del partito rappresenta l’avvenimento più vivo proprio per il poeta di partito veramente grande. Per lui la missione storica diventa viva, in visione, nella sua concretezza.

Certo, se la questione della disciplina di partito è posta da un burocrate settario, se quindi si perde il rapporto tra la disciplina di partito e la vocazione storica e nazionale del partito, se il principio della disciplina è capovolto proprio nelle piccole lotte quotidiane e così la disciplina di partito diventa una disciplina morta, allora questo legame va perduto, non è più il vero rapporto tra partito e poeta di partito, ma la sua caricatura settaria.

Porre la questione in modo giusto, significa invece: da un lato sta il poeta di partito, come il partigiano di una grande causa, che opera fedelmente e tuttavia in maniera individuale; dall’altro lato stanno un comprensivo senso della misura e la fermezza dei principi di Marx e di Lenin, raccolta in un’unità organica. Se è posta in modo giusto, la questione del rapporto tra partito e poeta di partito può essere in tutto risolta, anche se spesso ciò avviene attraverso conflitti. Solo così il poeta può collegarsi come poeta al partito e quindi condurre la lotta per gli obiettivi comuni insieme con la parte migliore del popolo lavoratore. Proprio in questa lotta il poeta può sviluppare il meglio di sé: quella vocazione e consapevolezza poetica di cui in questo saggio abbiamo parlato più volte. Il poeta di partito ha possibilità di sviluppo affatto diverse. Egli può appoggiarsi al partito e trovare in esso, come Anteo, il suo terreno stabile.

Non è un caso che questi problemi si pongano in occasione delle celebrazioni del PCU per Attila József. Non si può capire la poesia di Attila József senza chiarire seriamente la natura della poesia di partito. Se noi comunisti, impegnati a promuovere e a costruire la democrazia ungherese senza compromessi, con profonda serietà, riconosciamo in Attila József uno dei nostri, possiamo e dobbiamo farlo sotto due aspetti. Innanzi tutto il nostro movimento è espressione dell’altezza fin qui raggiunta da quella grande linea alla quale conducono tutti i movimenti del passato che aspirano alla liberazione; da questa altezza si può riconoscere chiaramente che cosa Petöfi e Ady abbiano cercato e raggiunto, Attila József ci appartiene anche per un’altra ragione: perché amava ciò che noi amavamo, odiava ciò che noi abbiamo odiato, era addolorato da ciò che addolorava noi. Nelle sue poesie trovarono espressione i sentimenti più veri e profondi degli operai, dei contadini e degli intellettuali progressisti ungheresi che soffrivano sotto il regime di Horthy. Egli appartenne a noi finché visse, e resta tra noi anche nella sua immortalità.

1 [«Un cardo è la sua anima, e in cima | per ornamento, un rospiciattolo da niente | gracida, e finché il suo vantaggio sente | con le rane più anziane s’accontenta. | Se lontano uno smeraldo ti pareva, | prendilo! ti resterà un poco di bava sulle dita». (Le traduzioni dei versi ungheresi riportati in questo saggio sono di Bonaventura Menato)].

2 [«La grazia ho respinto che si fa largo a spintoni. | Non son venuto a incantare. Io son venuto per tutto»].

3 [«Il tamburo ho battuto dei concili, se mi andava, | e in testa a lacere schiere ho guidato | Dózsa voce sonora, Jacques Bonhomme lo svelto»].

4 [«Legge è il suo verso, e nel suo ritmo esatto | cade la pietra e geme la finestra del castello»].

5 [«Poeta sono «e allora che m’importa della pura poesia?»]

6 [«Non mi tappo la bocca litigiosa, | Sporgo querela alla sapienza. | Mi dà un’occhiata di consenso il secolo: | il contadino, arando, pensa a me; | di me è presago l’operaio quando | il suo corpo è costretto tra due gesti , | la sera, c’è il monello malvestito | sulla porta del cine che m’aspetta. | E dove tutte le canaglie in banda | si scaglian contro l’ordine dei miei versi | rombano già fraterni carri armati | lanciandone le rime tutt’intorno»].

7 [«Dai nostri cuori vola il canto, appena dolore o gioia li ha sfiorati appena. | Il canto, come petali di rosa | strappati, se ne vola via nel vento. | Cantiamo, fratelli! più alta risuoni | la lira sinora suonata, | in questo confuso rumore di terra si levi | qualche pura voce di cielo! | Mezzo mondo è crollato… oh desolata | visione, che gli occhi ferisce ed il cuore! | Sulle ghiacciate rovine s’addensi | come l’edera verde il nostro canto e l’anima nostra!»]

8 Cfr. la poesia «Impiccate i re!»

9 [«Perché hai morso la pietra con denti di latte? | Perché t’affrettavi, se poi sei rimasto per strada? | Perché non hai fatto di notte i tuoi sogni? | Cosa volevi, infine, dimmi?»]

Il paradigma inattuale: Pirandello, Lukács e la tragedia

15 sabato Nov 2014

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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di Gaetano Compagnino

da «Letterature e lingue nazionali e regionali. Studi in onore di Nicolò Mineo
a cura di S. C. Sgroi e S. C. Trovato, Roma 1996, pp. 89-119.


C’è, per Pirandello, un luogo in cui la sfera dell’arte e quella della ‘vita’ si intersecano e sembra si sovrappongano fin quasi a coincidere: è il luogo in cui si produce la rappresentazione di sé e del mondo – da parte degli uomini in carne ed ossa nella vita, da parte dell’artista nella creazione dei personaggi e del mondo dell’arte sua.

Dall’Umorismo del 1908 a Trovarsi (del 1932), lo scrittore torna di frequente sulla questione e spesso con le stesse parole1. Se mai, fra le pagine di un testo e quelle dell’altro è possibile trovare delle differenze di tono, poiché ora, come nella prima edizione del saggio sull’Umorismo, egli sottolinea (più di quanto non accada nella seconda) la comune natura illusoria delle due rappresentazioni2, ora ne accentua la differenza, come in Trovarsi, precisamente in relazione alla ‘libertà’ che è propria della disinteressata creazione dell’artista e agli ostacoli cui invece non riesce a sottrarsi la interessata rappresentazione della propria ‘realtà’, che è poi il problema donde prende le mosse Il fu Mattia Pascal3:

«La volontà, sì, la volontà di farcela, una vita, il bisogno di farla consistere in qualche modo, com’è possibile… – eh sì, com’è possibile, perché non dipende più da noi soltanto, ci sono gli altri – i casi – le condizioni – e chi ci sta più vicino – che possono contrariarci, ostacolarci – non sei più tu sola, in mezzo a tutto questo increato che vuol crearsi e non ci riesce – non sei più libera! E allora… allora dove la vita è creata liberamente, è là invece, nel teatro! Ecco perché mi ci sono sempre trovata subito, sicura – là sì! E il vago, l’incerto che sentivo prima, non dipendevano dal non avere io ancora una vita mia: ma che! no! è peggio, è peggio averla! Non comprendi più nulla, se t’abbandoni ad essa perdutamente. Riapri gli occhi, e se non vuoi lasciarti andare a tutto ciò che è solito, che diventa abitudine, solco, monotonia che non ha più colore, sapore, allora è tutto incerto di nuovo, instabile; ma con questo: che non sei più come prima; che ti sei legata, compromessa con ciò che hai fatto, e in cui è così difficile, impossibile trovarti tutta intera, sicura»4.

Non diversa da quella di Donata Genzi, la «vera attrice […] che “vive” sulla scena», è l’insofferenza per il ‘consueto’ del pittore Elj Nielsen. Anch’egli se ne sente soffocare, come quanti durano la rappresentazione della propria illusione dentro la ‘maschera’, anch’egli ne sogna l’improvvisa rottura; di essa appunto e di ciò che allora si rivela, sognando di fare l’oggetto della sua arte:

«Dipingo male – grazie – lo so; ma perché non è facile, sai, dipingere come vorrei io… le cose come appajono in certi momenti… lo scoppio, lo scompiglio di tutti gli aspetti consueti che hanno ridotto la vita, la natura, oh Dio, come una moneta logora, senza più valore. Io non capisco: è come volersi umiliare… subire… Il solito cielo che t’ammicca con le solite stelle, sulle solite case che ti sbadigliano con le solite finestre, e tu che vai sul solito lastricato delle solite strade… Ah, che soffocazione! Ti sarà avvenuto qualche volta – non sai come – non sai perché – di vedere all’improvviso, la vita, le cose, con occhi nuovi… – palpita tutto, a fiati di luce – e tu, sollevata in quel momento e con l’anima tutta spalancata in un senso di straordinario stupore… – Io vivo così! In questo stupore! E non voglio sapere mai nulla!»5.

La similitudine cui ricorre Elj Nielsen appare, da questo punto di vista, estremamente significativa. Come ha mostrato Harold Weinrich, la metafora che assimila la parola alla moneta attraversa tutta la cultura letteraria europea dall’antichità in poi6; qui però usurata non è la lingua della rappresentazione letteraria, ma l’oggetto stesso di essa e, in genere, dell’arte: la vita, la natura.

C’è insomma nelle parole di Elj (cioè di Pirandello – com’è evidente: ma questo è un altro problema) come la ormai piena consapevolezza di una crisi definitiva. Ed è, naturalmente, la crisi del paradigma di rappresentazione della realtà sociale e umana prodotto da quel processo di risemiotizzazione di essa succeduto alla desemiotizzazione della sfera del cerimoniale7 proprio della società signorile di ancien régime, in conseguenza del quale – bollata questa come ‘finzione’ (la cui rappresentazione dà luogo alle menzogne del romance) – si privilegia la sfera del privato (dalla civil society alla Bürgergesellschaft): ed è il novel, la rappresentazione del bourgeois. Che per il pirandelliano pittore di Trovarsi, la ‘realtà’ – quella su cui il ‘realismo’ si legittimava come history – sia ormai «come una moneta logorata» importa il bisogno (il sogno?) di un’arte che sia rappresentazione dell’epifania di un di là vivente e luminoso, delle «cose come appaiono in certi momenti … lo scoppio, lo scompiglio di tutti gli aspetti consueti».

Non sarebbe difficile ricordare i numerosissimi casi in cui nella storia della produzione artistica delle avanguardie novecentesche la poetica immanente di un’opera evidentemente appare come generata da esigenze analoghe. Sembra tuttavia più proprio osservare che ciò di cui qui si tratta ha poco a che fare con l’‘artificio dello straniamento’ assunto dai formalisti russi a carattere universale dell’arte: il priëm ostrannenija proclamato da Šklovskij è appunto priëm, ‘artificio’ che fa saltare gli automatismi verbali8. Molto più appropriatamente ci sembra siano da ricordare le pagine del saggio giovanile dedicato all’amico Paul Ernst in cui Lukács oppone all’«anarchia del chiaroscuro» dell‘«esistenza» [Leben] l’«univocità» [Eindeutige] della «vita reale» [wirklichen] che vi «irrompe imprevedibilmente»: «Si sprigiona una luce, avviene un sussulto, come in un lampo, che oltrepassa i suoi banali sentieri, qualcosa che disturba e che affascina, un che di pericoloso e di soprendente, il caso, il grande momento [Augenblick], il miracolo» e «quando scocca il lampo del miracolo l’anima si ritrova nuda [in nackter Wesenheit]»: su di essa s’è posato lo sguardo di Dio. Ed è il dramma: «un gioco tra l’uomo e il destino; un gioco dove Dio è lo spettatore»9.

Naturalmente l’approdo di Pirandello è diverso: privo dell’altissima tensione metafisica di cui lo dotava Lukács, il neoclassicismo che questi deduceva (e auspicava) dalla denunzia di un presente «senz’anima», non poteva che configurarglisi nei modi di un accademismo pompière. Altrove erano dunque da cercare i percorsi della nuova arte. Non che ciò significasse alcuna rimozione del problema – e precisamente nei termini in cui l’abbiamo visto porre da Lukács –: il tempo del novel era ormai rivolto per sempre. Significava invece che appunto nella opposizione insuperabile fra il bisogno di dramma e la viltà d’una interiorità filistea che vuol continuare a sognare «paradisi imprevedibili ed eternamente irraggiungibili»; appunto in essa, nel loro scontrarsi senza tuttavia incontrarsi, mai se non nell’«istante» tragico, nel luogo, confuso per definizione, in cui facendosi immanente il Deus absconditus, sembra, sembra, che si dia infine come possibile, nella vita, la forma: ebbene, lì bisognava ‘ficcar lo viso a fondo’. Implicava questa scelta che ciò che era in Lukács opposizione irredimibile di contrari si configurasse in Pirandello come contraddizione e, dunque, processo?

Lukács aveva opposto al Dio spettatore della tragedia, innanzi al quale «ogni differenza tra apparenza e essenza, tra fenomeno e idea, tra evento [Geschenis] e destino scompare», gli «dèi della realtà [Wircklichkeit], della storia»: «prematuri e capricciosi», «la loro ambizione non si contenta della forza e della bellezza della pura rivelazione, di far da spettatrice al suo compimento. Vogliono esser loro a guidarla e a realizzarla. Affondano sfacciatamente le loro mani nell’inestricabile, palese imbroglio delle fila del destino e lo rimescolano fino a fare dell’assurdità un sistema. Entrano in scena e la loro comparsa abbassa gli uomini a livello di marionette, la sorte [Schicksal] a livello di preveggenza e fanno diventare l’impegnativo atto [Tat] della tragedia un dono [Geschenk] della redenzione ottenuto senza fatica»10. Che qui possa leggersi la logica della storia che dalla ‘premessa’ della Coda del diavolo di Verga giunge, passando per Il fu Mattia Pascal, all’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia e ai Sei personaggi, potrà anche apparire singolare; ma non è meno vero11.

In Pirandello invece quel che si dà nella tragedia è, hegelianamente12, la possibilità-necessità che il carattere si mostri conforme al suo concetto: la coincidenza, dunque, del carattere con l’etico, cioè con il sostanziale: la determinatezza di quello come implica la collisione in questo, anche fonda la legittimità delle potenze che in essa si affrontano; insomma: la tragedia come forma della contraddizione determinata. Non solo, ma Pirandello sa anche che nel dramma moderno non è più questione dell’«universale ed essenziale del fine che gli individui realizzano», sì invece della «passione personale, la cui soddisfazione può riguardare un fine soggettivo, in generale il destino di un individuo e di un carattere particolare entro rapporti specifici»13. E qui precisamente si mostrava per lui – ben più evidente che per Hegel – la problematicità della forma tragica: la tensione di essa verso l’universalità dell’essenza non potendosi più comporre adeguatamente con la molteplicità delle determinazioni empiriche: «fondere la subbiettiva individualità d’un carattere con la specialità sua nel dramma, trovare la parola che, pur rispondendo ad un atto immediato della situazione su la scena, esprima la totalità dell’essere della persona che la proferisce: ecco la somma difficoltà che il poeta deve superare»14.

Ed ecco anche, possiamo aggiungere noi: dopo Il fu Mattia Pascal e dopo i Sei personaggi, il dilemma cui Pirandello si sottrae. Non l’epicizzazione della forma drammatica: ‘dramma’ nel 1903 e ‘romanzo’ nel 1905 Dal tuo al mio, per restare all’Italia, era lì a dimostrarne, ove ce ne fosse stato bisogno, gli improbabili esiti: naturalismo più ‘tesi’ (proprio come, poco più di dieci anni prima, e sia pure a livello ben più alto, I tessitori di Gerhart Hauptmann); né l’idealistica tragedia neoclassica che Lukács apprezzava in Paul Ernst.

E neppure la contraddizione, se con questo s’intenda la collisione non mediata che si risolve nella ‘conciliazione’ del ‘superamento’. Ma l’uno dei due termini del dilemma e anche l’altro: il conflitto insomma, ma non il processo, l’accidentalità e la necessità, l’empiria e la trascendenza: insieme.

Il trascendimento ‘umoristico’ delle forme, di quella epica come di quella drammatica, ne era, dal punto di vista del metodo della rappresentazione, la conseguenza: il ‘superamento’ della contraddizione, impossibile nell’oggetto della rappresentazione, diventava la cifra più propria del modo in cui, in Pirandello, si risolveva il confronto con le forme di rappresentazione della totalità: meta-romanzo e metadramma. E anche venivano, dal «procedimento» che Pirandello si accingeva a sperimentare, due altre conseguenze. La prima: al rifiuto della storia, vale a dire: al rifiuto di risolvere la contraddizione comunque dentro la sfera dell’eticità – vista ormai come positività estraniata ed estraniante, s’accompagna e vi s’intreccia la tentazione della storia – magari configurantesi come momento della biografia del personaggio. Analogamente: al trascendimento umoristico delle forme di genere non segue una loro confusa contaminatio, sì invece il tentativo sempre di nuovo rinnovato di tenerne ferma – comunque – la costitutiva differenza.

Che la tensione la quale se ne produceva fra storia e forme importasse che la questione dei generi letterari si ponesse come problema non solo estetico, ma anche etico, era naturalmente inevitabile.

Così nel 1905, nell’‘Introduzione’ all’Illustrissimo di Alberto Cantoni, Pirandello opponeva ai tentativi di restaurazione classicistica – respinti in nome dell’insuperabile determinazione storica delle forme – non un confuso neoromanticismo vitalistico, ma – e proprio in nome della «vita» perpetuamente rinnovantesi – la immanente e autonoma legalità dell’arte, dell’opera d’arte, come forma della generalizzazione donde essa si genera15.

L’energia con cui il processo di idealizzazione viene spogliato d’ogni implicazione di tipo classicistico e inteso come, solo, processo di generalizzazione, spingendo fino alle conseguenze ultime – sulle orme di De Sanctis: come indica il riferimento alla logica della vita – la distinzione – che è però ormai in lui, più di quanto non accadesse nel critico irpino, vera e propria opposizione – fra Ideal e ideell16, è da questo punto di vista assolutamente significativa:

«La realtà materiale, quotidiana della vita limita le cose, gli uomini e le loro azioni, li contraria, li deforma. Nella realtà le azioni che mettono in rilievo un carattere si stagliano su un fondo di contingenze senza valore, di particolari comuni. Mille ostacoli impreveduti, improvvisi, deviano le azioni, deturpano i caratteri; minute, volgari miserie spesso li sminuiscono. L’arte invece libera le cose, gli uomini e le loro azioni di queste contingenze senza valore, di questi particolari comuni, di questi volgari ostacoli o minute miserie; in certo senso, li astrae; cioè, rigetta, senza neppur badarvi, tutto ciò che contraria la concezione dell’artista e aggruppa invece tutto ciò che, in accordo con essa, le dà più forza e più ricchezza. Crea così un’opera che non è, come la natura, senz’ordine (almeno apparente) ed irta di contraddizioni, ma quasi un piccolo mondo in cui tutti gli elementi si tengono a vicenda e a vicenda cooperano. In questo senso appunto l’artista idealizza. Non già che egli rappresenti tipi o dipinga idee; semplifica e concentra. L’idea che egli ha dei suoi personaggi, il sentimento che spira da essi evocano le immagini espressive, le aggruppano e le combinano. I particolari inutili spariscono, tutto ciò che è imposto dalla logica vivente del carattere è riunito, concentrato nell’unità d’un essere meno reale e tuttavia più vero»17.

Che qui Pirandello – quando ormai Il fu Mattia Pascal era stato pubblicato da più di tre anni – ponga la questione nei termini stessi secondo cui si scandisce la vicenda del protagonista di quel romanzo o che, soprattutto, alla fine egli anticipi addirittura una battuta del ‘Padre’ nei Sei personaggi, è cosa che importa poco, in definitiva: serve se mai, qualora ve ne fosse bisogno, a confermare la compatta coerenza dei problemi (non si dice, ovviamente, delle soluzioni di essi) intorno a cui si arrovellò la sua coscienza artistica. Importa di più, invece, notare come non diversamente si proponesse al giovane Lukács metafisico della tragedia la questione della generalizzazione estetica come trascendimento della sfera del quotidiano (e con essa anche, né poteva non accadere, il problema del romanzo di Pirandello).

«Nella vita comune gli uomini esperiscono solo la periferia di se stessi: oggetto di questa esperienza sono le loro motivazioni e le loro relazioni. In esse la nostra esistenza umana non ha alcuna reale necessità, se non quella dell’esserci empiricamente, quella di essere inghiottiti da mille fili in mezzo ai mille legami e alle mille relazioni accidentali. Ma il fondamento di tutto questo tessuto di necessità è casuale ed assurdo; tutto ciò che è, potrebbe anche essere altrimenti, soltanto il passato appare come veramente necessario, perché non vi si può togliere né aggiungere nulla. Ma il passato è veramente necessario? Il flusso casuale del tempo, lo spostamento arbitrario del punto di vista arbitrario verso le esperienze può alterare la sua essenza? È possibile creare dalla casualità una certa necessità, una certa essenzialità? Si può trasformare la circonferenza in un centro? Spesso pare che ciò sia possibile, ma è solo un’apparenza. Infatti soltanto il nostro sapere momentaneo e casuale fa del passato qualcosa di concluso e di immutabilmente necessario. Ma il minimo mutamento di codesto sapere, prodotto da un caso qualsiasi, getta nuova luce sull’“immutabile” – e in questa nuova illuminazione tutto muta di senso, tutto diviene altro. Ibsen è solo in apparenza un seguace dei greci, un continuatore del ciclo di Edipo. Il senso reale dei suoi drammi analitici è che il passato non contiene in sé nulla di immutabile, ma che esso è fluente, luccicante e mutevole, passibile di trasformazioni, non appena subentrano nuove conoscenze.

Anche il momento privilegiato introduce una nuova conoscenza, ma solo in apparenza essa s’inserisce nella serie delle permanenti, eterne trasformazioni di valori. In verità essa è una fine e un inizio. Essa elargisce agli uomini una nuova memoria, una nuova etica e una nuova giustizia»18.

La generalizzazione artistica come idealizzazione disinteressata non può, d’altra parte, non configurarsi come astrazione, come stilizzazione metafisica della vita e dunque anche come un sapere che si dà oltre la vita, che la esclude. Lukács aveva scritto che con il «dar vita all’essenza», «il dramma compone “uomini” reali [“gestaltet” wirkliche Menschen]» siffatti che «tutte le manifestazioni della loro esistenzialità [Lebens] non sono che simboli cifrati delle connessioni fondamentali, la loro esistenzialità è una pallida allegoria delle loro idee platoniche» così che «questa esistenza [Dasein] non ha spazio né tempo; ogni suo evento [Geschehnisse] si sottrae a qualsiasi motivazione [Begründungen], le anime dei suoi uomini si sottraggono alla psicologia»19. E Pirandello, dieci anni dopo:

«L’arte è arte, perché ciò che è realtà, vale a dire appunto questa composizione dei nostri sentimenti, rischiarata dal nostro intelletto e mossa dalla nostra volontà, cosa infinitamente varia e continuamente mutevole, condizionata sempre nella sua molteplicità (e appunto perché molteplice) di spazio e di tempo – è fissata per sempre dalla fantasia in un momento o in più momenti essenziali, fuori di questo molteplice (e dunque dello spazio e del tempo) – eterna e una – ma non nell’assoluto di un’astrazione, bensì eterna perché di tutti i tempi, ed una perché quella, che ha vita nel consenso di tutti e in tutti, naturalmente, in un suo particolar modo: liberata da tutto ciò che è comune, ovvio, caduco, da tutti quegli ostacoli che, nella creazione della nostra propria vita, spesso ci distraggono, ci arrestano, ci deformano»20.

Né cambia i termini del problema la circostanza che l’uno e l’altro, Lukács e Pirandello, si servano della opposizione casualità-necessità per distinguere tra forme diverse della rappresentazione artistica: quello, come si è visto, per distinguere Ibsen dai «greci», questi per opporre Verga agli umoristi21 (che è poi la distanza che separa, come si disse altrove, La coda del diavolo dal Fu Mattia Pascal). Resta invece, nell’uno e nell’altro, che appunto la questione della generalizzazione estetica non può non avere implicazioni di ordine etico.

E dunque, nel Frammento di cronaca di Marco Leccio (1916):

«Che la strategia moderna abbia ridotto l’ufficio del duce supremo d’una guerra non molto dissimile da quello a cui Marco Leccio attende con tenace costanza da circa tredici mesi: studio indefesso lì sulle carte dei punti, delle linee, delle posizioni, è per Marco Leccio in fondo una assai magra consolazione.
Fa il duce supremo, lo stratega, lì nello studio, davanti a Tiralli che lo segue e l’aiuta con funebre obbedienza; ma grazie! perché non può far altro…
Certo, se una mossa prevista da lui in questo o in quel teatro della guerra, dati quei punti strategici e quelle linee e quelle posizioni, s’effettua proprio come lui l’ha prevista, se ne compiace; guarda con occhi lustri ridenti e tutto il volto abbagliato di soddisfazione Tiralli, appena ne arriva la notizia nei bollettini degli stati maggiori, non badando più nemmeno se la mossa indovinata sia in favore dei tedeschi e a danno degli alleati, poiché veramente l’arte, di qualunque genere sia, è il regno del sentimento disinteressato, ragion per cui spesso diventa la funzione più crudele che si possa immaginare, come può darne esempio un medico che si compiaccia della giustezza di una sua prognosi letale se questa prognosi l’abbia fatta su se stesso e voglia dire:
– Benone, caro: tu sei morto.
Ma non è questo! non vorrebbe far questo Marco Leccio! Gl’importa assai che i duci supremi oggi combattano le guerre, come lui, su la carta! Che duce supremo del corno! Soldato, soldato raso, come il suo Giacomino partito jeri per il fronte, ecco quello che avrebbe voluto esser lui. E non ha potuto!»22.

Qui la questione della relazione fra la sfera estetica e quella etica viene posta da Pirandello in tutta la sua problematicità. La concezione dell’arte come «regno del sentimento disinteressato» importa infatti una sua estraneità di principio al mondo della vita sul quale solo, dunque, può legittimamente esercitarsi quella valutazione morale di cui l’‘interessata’ sympátheia23 costituisce il fondamento. Le conclusioni estreme, apertamente estetizzanti, cui Pirandello potrà anche, in qualche caso, pervenire (in Diana e la Tuda, per es.) trovano qui le loro premesse; ma non più di tanto. E tuttavia non è senza significato che proprio in questo Frammento il «crudele» sapere dell’arte si configuri come sapere della morte e ciò precisamente in quanto esso è sapere estraneo al suo ‘oggetto’24, così che il disinteresse non possa non apparire come un gioco25, garantito bensì dai pericoli della vita e da essa separato, ma – insieme – esso stesso contagiato dalla macabra estraneità in cui si pone: sapere della morte, insomma, come sapere morto (che è poi, in certa misura, il tema, così pirandelliano, della vita come esperienza vissuta – e sia pure derisoria – o come scrittura).

Precisamente in ciò è la ragione della ineludibilità della relazione tra l’etica e l’estetica, tra la vita – qualunque significato si dia alla parola – e la forma. Anzi: quanto più si sottolinei la eterogeneità di questa rispetto a quella, quanto meno, dunque, si distingua come possibile, nella vita, una configurazione – una oggettivazione formativa – propriamente etica, come appunto accade in Pirandello, tanto più la formazione estetica della vita si mostrerà come inaccettabile frivolezza (oltre che come unica possibilità di costituire la vita come esperienza dotata di senso).

E però: nella misura in cui si attribuisca alla forma uno statuto meramente ‘formale’, kantianamente aprioristico rispetto alla vita26, anche dovrà postularsi in essa forma un’implicazione assiologica rispetto alla ‘materia’ (la vita) che ne viene strutturata: la forma diventa un «giudizio sulla vita», è, costitutivamente, una concezione del mondo che si pone come criterio di valutazione di esso. La teoria dei generi letterari importa non una loro gerarchia estetica (come accadeva in Aristotele, in conseguenza della sua concezione della forma), ma una gerarchia delle ‘vite’: che è appunto quel che accade nella metafisica del conflitto tragico del giovane Lukács.

Posto il conflitto del dramma come un conflitto il cui contenuto è bensì un problema vitale, la cui universalità è tuttavia solo formale, così che solo nella forma diventi possibile, con la coincidenza di carattere e destino, il combaciare di tutte le facce del poliedro ‘vita’ sull’unico fronte dello scontro, non solo ne viene che in esso – nella collisione tragica – si dà l’unico possibile compimento della vita, ma anche che – per essere quella collisione non risolvibile – tale compimento si identifichi con la morte. L’adeguatezza del singolo – che solo di lui si tratta – alla forma diventa il segno della sua superiorità27.

Ciò che potrebbe sembrare solo un’estremizzazione delle poetiche classicistiche (retoriche e sociologiche: da Teofrasto in poi)28 della tragedia è tuttavia qualcosa di radicalmente diverso: ciò che si giudica dalle altezze vertiginose – propriamente: mortali – della forma tragica è la vita nell’epoca della compiuta peccaminosità29. E dunque, mentre se ne teorizza il trascendimento ateo30 nell’immanenza del senso solo alla forma tragica, anche se ne elabora la critica più radicale. Si esplorano altre possibili forme che siano strutturazioni sensate della vita ma tali che essa non ne sia consegnata alla morte: il dramma non-tragico e, immediatamente dopo, il romanzo; e si rileva la ‘frivolità’ del pantragismo classicistico à la Ernst rifiutandone l’«elitarismo della morte»31.

Il fatto è che il problema posto dal particolarissimo rapporto che nella tragedia si instaura tra il contenuto e la forma, lascia fuori da ogni possibile elaborazione estetica non aspetti e momenti specifici della particolarità empirica, ma, per il configurarsi (nel presente) dell’empiria come mera accidentalità, appunto l’empiria come tale: la vita, che diventa autentica solo nella morte.

D’altra parte la soluzione ‘naturalistica’ di questa impasse appare insomma inaccettabile: anche se alcune delle perplessità su Hauptmann drammaturgo presenti nello studio sul Dramma moderno saranno da Lukács superate già nell’’11, il suo tentativo di «introdurre i poveri in ispirito nella tragedia» resterà comunque «un’azione vana» e la stessa «ricchezza dei particolari», nella quale si riconosce (insieme a quella della «lirica») la ragione della «bellezza» delle sue opere, si mostra in definitiva come solo sovrabbondanza di dettagli incongrui che «non solo sostituisce il drammatico, ma lo soffoca», salvandosi solo la ‘fiaba’ (Märchendichtung) Und Pippa tanzt!, cioè appunto un «dramma non tragico»32.

Il romance costituisce infatti in definitiva, più ancora che una nuova epica romanzesca (peraltro solamente auspicabile), la sola alternativa possibile all’aristocratica tragedia. Nella Metafisica della tragedia Lukács aveva prescritto che solo si dà la tragedia quando Dio rimanga lontano dalla scena, spettatore e che invece allorché gli dèi della realtà e della storia appaiono sulla scena «la loro comparsa abbassa gli uomini al livello di marionette»33. Questo appunto accade nella fiaba, «corrispettivo epico» del romance, i cui «personaggi non sono uomini, sono soltanto spunti decorativi per gesta marionettistiche»; e questo anche, in certo modo, accade nel dramma non-tragico: «Dal punto di vista psicologico, infatti (ovvero dal punto di vista umano-causale), il contatto diretto tra l’uomo e Dio, l’intromissione delle potenze trascendenti nei fatti della vita, tutto ciò può manifestarsi solo come follia e assurdità, scissione totale dell’io umano e disgregazione dei suoi limiti»34. (Che è il problema del Fu Mattia Pascal, com’è evidente; ma di ciò più avanti). L’assenza di un senso immanente all’azione che, in opposizione alla tragedia, è propria del romance ne fa un’allegoria: esso «rinvia al di là di se stesso»35.

Parecchi anni dopo, Walter Benjamin rintracciando in Nietzsche il fondamento lontano delle idee di Lukács (e di Rosenzweig) sull’insuperabile conflitto fra modernità e tragedia, appunto a Nietzsche rimprovererà di avere eluso la necessità d’una critica generale contro la concezione della tragedia «secondo cui le azioni e i comportamenti di personaggi di fantasia possono essere utilizzati per l’illustrazione di problemi morali quanto il manichino per lo studio dell’anatomia». È vero invece il contrario: «i personaggi di fantasia esistono soltanto nell’opera poetica di fantasia. Come soggetti di arazzi sul loro canovaccio, essi sono così cointessuti nel tutto dell’opera poetica che in nessun modo ne possono essere estrapolati nella loro singolarità»36. Il problema del rapporto fra la tragedia attica e l’epos omerico, che era stato uno dei luoghi cruciali della polemica antinietzescheana di Wilamowitz37, riproponeva dunque l’immagine, heiniana in origine, del rapporto tra figure e sfondo nei termini del conflitto tra apollineo e dionisiaco38. Alla romanza di Heine invece era ricorso Pirandello, quasi vent’anni dopo La nascita della tragedia, per mostrare con l’evidenza dell’immagine poetica la relazione oppositiva fra l’arazzo epico della saga e i personaggi del dramma: per le immanenti esigenze di formalizzazione presenti nel soggetto che inducono a strutture dell’intreccio differenti (drammatiche o narrative)39 e per il diverso statuto che in ciascuna di esse assumono i personaggi40. Scrive dunque Pirandello:

«Ogni sostegno descrittivo o narrativo dovrebbe essere abolito su la scena. Ricordate la bella fantastica romanza di Enrico Heine su Jaufré Rudel e Melisenda? “Nel castello di Blaye tutte le notti si sente un tremolìo, uno scricchiolìo, un sussurro: le figure degli arazzi cominciano a un tratto a muoversi. Il trovadore e la dama scuotono le addormentate membra di fantasmi, scendono dal muro e passeggiano sù e giù per la sala”. Ebbene, lo stesso prodigio operato dal raggio di luna nel vecchio castello disabitato, il poeta drammatico dovrebbe operare. E non l’avevan già operato i sommi tragici greci spirando, Eschilo sopra tutti, una possente anima lirica nelle grandiose figure del magnifico arazzo dell’epopea omerica? E le figure s’eran mosse parlando. Dalle pagine scritte del dramma i personaggi, per prodigio d’arte, dovrebbero uscire, staccarsi vivi, semoventi, come dall’arazzo antico il signor di Blaia e la contessa di Tripoli»41.

Per Nietzsche «nell’effetto totale della tragedia lo spirito dionisiaco conquista di nuovo il sopravvento», producendosi per essa quella schopenhaueriana perdita della «confidenza nelle forme conoscitive del fenomeno» che egli definisce come «frattura del principium individuationis» e di cui Apollo è «la magnifica incarnazione divina»42: la filosofia della storia e la teoria dei generi che ne viene è già qui implicata. Da una parte, contro quelle che il Versilov di Dostoevskij chiamava «idee ginevrine», tagliate via cioè le radici rousseauiane del naïve schilleriano, si postula l’equazione ‘ingenuo’-apollineo-epos omerico43 e, poi, a partire dal ‘socratismo’ del «sacrilego Euripide», e dalla scelta di lui di «costruire il dramma soltanto su elementi non-dionisiaci», «l’epos drammatizzato: dominio artistico apollineo dove certamente non è raggiungibile l’effetto tragico»44. Dall’altra, riprendendo la classica distinzione goethiana fra mimo e rapsodo, si oppone il principium stilisationis di entrambi a quello della tragedia (cioè: Eschilo e Sofocle), beninteso piegando la metafora goethiana nel verso del rapporto fra il poeta e il mondo dell’opera:

«Il poeta dell’epos drammatizzato, come del resto il rapsodo greco, non può mai fondersi completamente con le sue immagini; egli rimane il quieto e impassibile contemplante che guarda con occhi ben aperti le figure che gli si fanno incontro. L’attore in questo epos drammatizzato in fondo rimane sempre un rapsodo; alla base di tutte le sue azioni sta sempre la consacrazione del suo sogno interiore, sicché non è mai del tutto soltanto attore»45.

Di qui la funzione, costitutiva bensì e tuttavia strumentale, del mito – nel duplice senso, come subito si vedrà, di saga eroica e di mythos, intreccio – nella tragedia: non generatore dell’autocoscienza catartica ma gradus al nichilistico naufragio del mondo apollineo dell’individuatio nel «grembo della realtà unica e vera»46:

«Fra il valore universale della sua musica e l’ascoltatore dionisiacamente disposto alla commozione, la tragedia interpone una sublime allegoria [Gleichniss], il mito, e suscita nell’ascoltatore l’illusione [Schein] che la musica altro non sia che un supremo strumento di rappresentazione per accendere di vita il mondo plastico del mito. Affidandosi a questo nobile inganno [Täuschung], essa può muovere le membra alla danza ditirambica e abbandonarsi spensieratamente a un orgiastico sentimento di libertà, il che alla musica pura, senza quella illusione [Musik an sich … Täuschung], non sarebbe concesso. Il mito ci protegge dalla musica, ed esso d’altra parte concede alla musica la più ampia libertà. Perciò la musica come ricompensa dà al mito tragico una significazione metafisica così penetrante e persuasiva, quale non potrebbero mai raggiungere, senza il suo ausilio, la parola e l’immagine; e specialmente per virtù della musica è riservato allo spettatore della tragedia il presentimento certo della gioia suprema a cui conduce la via che passa per la morte e la negazione, tanto che gli sembra d’udire chiaramente le voci che salgono dal più profondo abisso delle cose»47.

La questione del rapporto saga-tragedia diventava insomma, e in questi termini veniva ormai formulata, la questione del rapporto carattere-destino; cioè, inseparabilmente, problema estetico (della teoria dei generi) e problema etico (il rapporto necessità-libertà).

Così, Pirandello, appunto nell’Azione parlata, non solo ribadisce l’opposizione fra rappresentazione narrativa e rappresentazione drammatica come opposizione fra due diversi modi di composizione della «favola», ma – ed è questo che ora importa – oppone, nel dramma, la favola ai personaggi, come, rispettivamente, il luogo in cui prende forma propriamente estetica l’individualità dell’autore48 e i soggetti autonomi di un agire che è totalmente loro proprio. Precisamente in questo nesso fra autore e intreccio, tuttavia, si mostra il rischio: già nel Taccuino di Bonn Pirandello individuava nell’«alessandrinismo», nell’assenza di una adeguata «concezione della vita e dell’uomo» la radice delle difficoltà e della problematicità estetica della drammaturgia fin de siècle49. Quando la concezione della vita e dell’uomo manchi accade infatti che la favola si riduca ad astratta combinatoria, all’artificio d’una «trama» che violenta la natura vera del personaggio50 o che ne faccia il pretestuoso ‘manichino’ d’una argomentazione aprioristicamente postulata dallo scrittore.

L’autonomia del personaggio, d’altra parte, diventa, per ciò, costitutiva dell’opera drammatica. La dipendenza genetica di esso dall’autore non ne compromette l’indipendenza51 e la libera realizzazione nell’opera, «quando l’autore si sia veramente immedesimato con la sua creatura fino a sentirla com’essa si sente, a volerla com’essa si vuole»52. E, con l’autonomia costitutiva, anche la priorità del personaggio: una priorità che è cronologica (genetica) nella misura in cui è eminenza logica (originaria): «Non il dramma fa le persone; ma queste, il dramma. E prima d’ogni altro dunque bisogna aver le persone: vive, libere, operanti. Con esse e in esse nascerà l’idea del dramma, il primo germe dove staran racchiusi il destino e la forma; che in ogni germe già freme la quercia con tutti i suoi rami»53.

Il senso e le implicazioni della metafora organicistica non sono da trascurare, com’è evidente. Nella Tragedia d’un personaggio essa tornerà all’interno d’una più compiuta ‘costellazione’ metaforica che ne chiarisce gli intendimenti; a concludere la sua apologia del personaggio, il dottor Fileno dice: «Morrà l’uomo, lo scrittore, strumento naturale della creazione; la creatura non muore più! E per vivere eterna, non ha mica bisogno di straordinarie doti o di compiere prodigi. Mi dica lei chi era Sancho Panza! Mi dica lei chi era don Abbondio! Eppure vivono eterni perché – vivi germi – ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire per l’eternità»54. Che cosa, infine, debba precisamente intendersi nel concetto pirandelliano di fantasia, non sarà difficile determinare, quando si ricordi che essa è la «servetta sveltissima […] un po’ dispettosa e beffarda» e vestita di nero dell’incipit famoso della ‘Prefazione’ alla nuova edizione (1925) dei Sei personaggi, quella stessa, però, che compare anche (nel 1906) in Personaggi come lettrice di «libri di filosofia»55: la fantasia insomma è la soggettività dell’artista donde si genera quella «favola» di cui s’è vista la sostanza ‘filosofica’ (la «concezione della vita e dell’uomo»). E dunque: la priorità del personaggio importa insomma – nei modi in cui ormai ciò poteva formularsi da Pirandello – la natura comunque mimetica della relazione fra rappresentazione artistica e realtà: Fantasia «si diverte a portarmi in casa, perché io ne tragga novelle e romanzi e commedie, la gente più scontenta del mondo, uomini, donne, ragazzi, avvolti in casi strani…».

Il nesso fantasia-filosofia anche importa, tuttavia, che il personaggio sia, come dice il dottor Fileno e dirà poi il Padre, piuttosto che reale, vero: nato dunque, come personaggio, dalla generalizzazione estetica che la fantasia elabora dalla ‘persona’ reale, così da essere «creatura chiusa nella sua realtà ideale, fuori delle transitorie contingenze del tempo»56, «destino e forma» – Bestimmung, insomma – del «germe». Le ‘note’ che concorrono alla definizione pirandelliana del concetto di personaggio sono null’altro che la conseguenza di questa fondamentale determinazione di esso. Il personaggio come «libera individualità umana», soggetto autonomo d’un agire in cui esso rivelandosi si realizza: «ogni azione e ogni idea racchiusa in essa, perché appariscano in atto vive e spiranti innanzi agli occhi nostri, han bisogno della libera individualità umana, in cui, per usare una frase hegeliana, si mostrino come pathos motore: bisogno insomma di caratteri»57. E ancora: il personaggio come soggetto attivo del proprio agire e, dunque, carattere, che «sarà tanto più determinato e superiore» quanto più «farà vedere in ogni suo atto quasi tutto un proprio essere e, insieme, una concreta specialità» in ciò appunto solo potendosi costituire come organica e non estrinseca la relazione sua, della sua «fisionomia essenziale», con l’intreccio («l’argomento») in ognuno dei momenti del suo svolgimento (la «situazione»)58.

E qui appunto insorgeva la difficoltà, non più dissimulabile. I rimandi all’Estetica di Hegel, che fin qui hanno scandito la ‘ripetizione’ del breve saggio pirandelliano del ’99, non volevano certo significare la mera indicazione della ‘fonte’; intendevano invece ellitticamente mostrare il senso di esso: era della tragedia che Pirandello si occupava. E ciò a partire da due presuposti – nient’affatto hegeliani, questi, tuttavia: l’identificazione pura e semplice fra dramma e tragedia, così che tutto il discorso sulla commedia veniva a esser tagliato via (con un movimento del discorso non dissimile da quello donde prenderà le mosse, undici anni dopo, il Lukács della Metafisica della tragedia), e la cancellazione della distinzione hegeliana – ma non solo hegeliana, ovviamente – fra tragedia antica e tragedia moderna (che sarà ben presente invece, come si sa, nel Fu Mattia Pascal).

La difficoltà di cui si diceva nasce precisamente nel momento in cui la teoria hegeliana della tragedia si trova a doversi confrontare con la lucida diagnosi di Arte e coscienza d’oggi (1893)59. Scrive dunque Pirandello: «In ogni nostro atto è sempre tutto l’essere; quello che si manifesta è soltanto relazione a un altro atto immediato o che appare immediato; ma nello stesso tempo si riferisce alla totalità dell’essere; è come la faccia d’un poliedro che combaci con la faccia rispettiva d’un altro, pur non escludendo le altre facce che guardano per ogni verso»60.

Sono parole, queste, che l’autore trascrive (senza apportarvi alcuna modifica, salvo l’aggiunta indicata dal corsivo) da un precedente scritto del ’96, Rinunzia, intimamente connesso ad Arte e coscienza d’oggi. Significativamente diverso, però, è quel che segue, nei due scritti:

L’azione parlata

«Ora, fondere la subbiettiva individualità d’un carattere con la specialità sua nel dramma, trovar la parola che, pur rispondendo a ogni atto immediato della situazione su la scena, esprima la totalità dell’essere della persona che la proferisce: ecco la somma difficoltà che l’artista deve superare. Ma quanti oggi sanno superarla?» 61.

Rinunzia

«Ogni conseguenza ricavata da questa manifestazione è perciò necessariamente unilaterale. E da qui l’impossibilità d’abbracciar tutto l’essere, come è impossibile abbracciare un poliedro a un tempo in tutte le sue facce.
Come dunque sperare, se la scienza ci manca e l’essere ci sfugge?»62.

In Rinunzia dunque la ‘cecità’ conseguente alla perdita della totalità si configurava come problematicità etica, subordinazione della coscienza, della coscienza morale, a una oggettività estraniata e l’unilateralità, che anche da quella perdita veniva, come condizione insuperabile dell’autocoscienza – ma non dall’essere, si badi: aprendosi così fra l’omnilateralità di questo e l’unilateralità dell’altra una distanza insuperabile.

Il rifiuto, in Arte e coscienza d’oggi, d’ogni estrinseco incarico ideologico, e dunque – inevitabilmente – apologetico, per la rappresentazione artistica della realtà rendeva, d’altra parte, tanto più ineludibile il compito che, in presenza d’una tale disperante condizione, ad essa si poneva: «la somma difficoltà che l’artista deve superare». E qui precisamente anche diventava ineludibile l’allontanamento da Hegel, dai presupposti concettuali di fondo della teoria hegeliana della tragedia. Il filosofo di Stoccarda aveva parlato nelle sue lezioni dell’unilateralità del personaggio della tragedia – sia antica sia (se pure in modi profondamente diversi) moderna («romantica») –, ma aveva nettamente escluso che, comunque, la «particolarizzazione dei fini, delle passioni e dell’interiorità soggettiva», che nella tragedia moderna succede alla «legittimità etica» che essi possedevano in quella antica, anche importasse la disgregazione dell’identità complessiva del personaggio: in Shakespeare «gli individui pur in questa determinatezza restano sempre uomini interi». Non solo: Hegel aveva anche affermato che la «conciliazione tragica», il superamento cioè dell’unilateralità che si produce «allorquando gli individui in conflitto si presentano […] ognuno in se stesso come totalità», se pure naturalmente si configuri diversamente nelle due ‘epoche’ della storia della tragedia, tuttavia ne costituisce un momento imprescindibile in quanto in essa prende forma la riconciliazione «nella cosa», nella totalità etica63.

Delle due totalità tra le quali si dispiega la teoria hegeliana della tragedia – quella unilaterale del personaggio come uomo intero e quella del mondo etico che armonicamente si ricompone nell’«esito» dell’opera – una sola rimane dunque in Pirandello: la prima; e solo nell’essere: smarrita dalla coscienza e, dunque, tale da porsi come, al tempo stesso, compito e problema dell’arte (tragica). Ed erano, l’uno tanto più urgente e l’altro tanto più difficile quanto meno lo scrittore intendeva sottrarsi all’esigenza posta da Hegel come propria del «dramma in generale»: «la manifestazione per la coscienza rappresentante di attuali azioni e rapporti umani in una estrinsecazione che è l’estrinsecazione parlata dei personaggi esprimenti l’azione», così che solo nel dialogo «gli individui in azione possono esprimere gli uni contro gli altri il loro carattere e il loro fine rispetto sia alla loro particolarità che al lato sostanziale del loro pathos, possono entrare in lotta e quindi portare avanti l’azione con movimento reale», fino al «risultato finale in se stesso fondato di tutto questo traffico umano di volontà e atti reciprocamente incrociantisi e alla fine pacificati»64. Il nesso che così Hegel poneva fra parola drammatica e riconciliazione conclusiva diventava infatti tanto più difficile a sostenersi quanto più se ne accoglieva il primo termine – il dialogo drammatico come azione parlata65 – e, al tempo stesso, si fosse assunta precisa coscienza della problematicità di ogni tentativo di perseguire l’altro.

«Lotta nella cosa è scissura nella parola, né l’arte vi si poteva sottrarre», aveva scritto il De Sanctis con linguaggio hegeliano (la ‘cosa’ è Sache, non Ding!): il rapporto fra ideale e reale posti l’uno come astratto dover essere e l’altro come mero essere produceva necessariamente le «diverse forme letterarie sviluppatesi tra le diverse forme sociali, le une riflesso delle altre»: il «dualismo oratorio, scettico, umoristico, lirico». Il romanzo storico, in cui l’ideale calandosi nel reale vi aveva trovato limite e misura, era stata la risposta del Manzoni66; l’immedesimazione con il personaggio, con ciascuno dei personaggi del dramma, la direzione in cui Pirandello cerca la sua: «parole, espressioni, frasi che non s’inventano, ma che nascono, quando l’autore si sia veramente immedesimato con la sua creatura fino a sentirla com’essa si sente, a volerla com’essa si vuole»67.

Quel che Pirandello cerca insomma è una forma drammatica in cui le contraddizioni si possano ‘muovere’ e che dunque ne consenta una soluzione prospetticamente ‘reale’. Ciò implicava il rifiuto di ogni metodo compositivo che pervenisse a una feticizzazione di esse e dunque sia di quelle teorie del tragico che intendevano il conflitto come prodotto dalla opposizione soggettiva dell’‘eroe’ (donde la ideologia della ‘colpa tragica’) contro la ‘necessità’ e come risolventesi con il riconoscimento da parte sua dell’inevitabilità della propria rovina (Vischer), sia di quelle altre che, ontologizzando le contraddizioni, per un verso ne confinano il senso alla sfera ‘disperante’ dell’estetico e, per l’altro, ne rimandano la soluzione, oltre l’eticità (i.e., la realtà storico umana), agli esiti ‘religiosi’ della crisi di essa (Kierkegaard). Era questo, in definitiva, il significato dell’esigenza espressa da Pirandello quando individuava nell’essenza della «concezione della vita e dell’uomo» le ragioni delle deficienze del dramma e indicava nella systasis mythica il luogo proprio della soggettività autoriale nel dramma: era questo, dopo Hebbel e Wagner, il modo in cui si configurava in lui il nesso tra filosofia della storia e teoria del genere letterario tragedia; era questo, cioè, il modo in cui egli formulava – in presenza di D’Annunzio – il suo rifiuto di un altro nesso, quello fra il ‘mito’ e il ‘tragico’ (che è poi anche la ragione donde viene il suo ‘ritorno’ – che era però un andare oltre Hegel, non un tornare indietro – ai problemi ‘romantici’ dell’ironia e dell’umorismo).

In fatti – disse egli – imagina l’intervallo tra due sinfonie sceniche in cui tutti i motivi concorrano ad esprimere l’essenza interiore dei caratteri che lottano nel drama, a rivelare il fondo intimo dell’azione, come per esempio nel gran preludio beethoveniano della Leonora o in quello del Coriolano. Quel silenzio musicale, in cui palpita il ritmo, è come l’atmosfera vivente e misteriosa ove soltanto può apparire la parola della poesia pura. Le persone sembrano quivi emergere dal mare sinfonico come dalla verità stessa del celato essere che opera in loro. E il loro linguaggio parlato avrà in quel silenzio ritmico una risonanza straordinaria, toccherà l’estremo limite della potenza verbale, poiché sarà animato da una continua aspirazione al canto, che non si potrà placare se non nella melodia risorgente dall’orchestra alla fine dell’episodio tragico. Hai tu compreso?
– Tu poni dunque l’episodio tra due sinfonie che lo preparano e lo compiono, poiché la musica è il principio e la fine del verbo umano»68.

Qui viene perfettamente chiarito, mi pare, il senso che, per quest’aspetto, deve attribuirsi al wagnerismo del Fuoco: posto il teatro, in quanto ‘evento scenico’, come momento in cui l’opera d’arte si costituisce (e non, dunque, come luogo in cui essa, eventualmente, si rappresenta), il senso dell’opposizione fra presente drammatico e passato epico propria della teoria ‘classica’ ne viene dislocato. Non si tratta più d’un problema di costituzione dell’intreccio (la questione degli antefatti, ecc.), ma del problema del senso dei singoli momenti di esso che dunque si risolve, dal punto di vista della forma drammaturgica, nella ricerca del medium adeguato a ‘mostrare’ l’immanenza del passato nell’evento teatrico presente. L’esteriorità drammaturgica di principio fra l’uno e l’altro, che nelle ‘opere romantiche’ si configurava come opposizione, nella Tetralogia nibelungica si rivela apertamente come relazione ‘posta’ fra mito e azione scenica, derivando questa da quello sia il proprio significato ultimo sia la rete delle connessioni ‘drammatiche’, nascoste bensì ai soggetti del dramma ma esibita anche, ‘eloquentemente’, agli spettatori69. E D’Annunzio:

«Io avvicino così le persone del dramma allo spettatore […] facendole apparire nel silenzio ritmico, facendole accompagnare dalla musica alle soglie del mondo visibile, io le avvicino meravigliosamente poiché rischiaro i fondi più segreti della volontà che le produce. […] La loro intima essenza è là, discoperta e messa in comunione con l’anima della folla che sente sotto le Idee significate dalle voci e dai gesti la profondità dei Motivi musicali che a quelle corrispondono nelle sinfonie. […] E per mezzo della musica, della danza e del canto lirico creo intorno ai miei eroi un’atmosfera ideale in cui vibra tutta la vita della Natura così che in ogni loro atto sembrino convergere non soltanto le potenze dei loro destini prefissi ma pur anche le più oscure volontà delle cose circostanti, delle anime elementari che vivono nel gran cerchio tragico; poiché vorrei che, come le creature di Eschilo portano in loro qualche cosa dei miti naturali onduscirono, le mie creature fossero sentite palpitare nel torrente delle forze selvagge, dolorare al contatto con la terra, accomunarsi con l’aria, con l’acqua, col fuoco, con le montagne, con le nubi nella lotta patetica contro il Fato che deve esser vinto, e la Natura fosse intorno a loro quale fu veduta dagli antichissimi padri: l’attrice appassionata di un eterno dramma»70.

Com’è chiaro, qui il lascito schopenaueriano, riletto alla luce della positivistica ‘spiegazione’ naturalistica del mito, è momento nient’affatto trascurabile della ricezione del wagnerismo da parte di un D’Annunzio soprattutto volto a ‘fondare’ sulla cancellazione del tempo nella originaria «unità della vita» una ben prammatistica equazione, quella che consentiva a Stelio Èffrena di riproporre, in positivo, l’accostamento, già nietzescheano, Wagner-Bismark71.

Ma non è questo che ora importa; interessa piuttosto rilevare come in tal modo diventasse possibile eludere la questione fondamentale d’ogni teoria e pratica drammaturgica consapevolmente collocantisi nel moderno e insieme anche simulare un superamento dell’impasse cui s’era ridotto il dramma naturalistico in ordine all’essenziale problema della ‘motivazione’ degli svolgimenti dell’intreccio quando aveva sostituito il milieu alla storia. Che il ‘mito’ venisse ora a prendere il posto dei determinismi sociologico-naturalistici, come non ne eliminava l’astratta ‘monumentalità’ – che anzi ne risultava esteticamente enfatizzata –, così accentuava la ‘patologia’ dei caratteri già riccamente censita dalla letteratura del naturalismo. Quel che insomma in tal modo si eludeva era, ancora di nuovo, la determinazione storica della relazione carattere-destino e di ognuno dei due momenti di essa. Da questo punto di vista, sia il radicalismo della lukacsiana Metafisica della tragedia sia l’‘hegelismo’ problematico della pirandelliana Azione parlata costituiscono un tentativo di rifiuto della decadence diagnosticata dal Nietzsche antiwagneriano (e antibismarkiano): si trattava, in definitiva, di ribadire che, nonostante tutto, la tragedia era, ancora nel presente ‘peccaminoso’, una forma d’arte drammatica possibile.

Nonostante tutto…; vale a dire: nonostante le analisi che la nuova sociologia, da Weber a Simmel, impietosamente veniva proponendo della eticità ‘disincantata’ propria del moderno. Non è un caso infatti che proprio alla diagnosi simmeliana della «tragedia della cultura» siano riconducibili anche la polemica antinaturalistica di Paul Ernst (Das Drama und die moderne Weltanschauung, 1899) e la riproposizione della forma tragica come realizzazione ‘utopica’, nella forma artistica, d’un non ancora realizzato bisogno di liberazione (Die Möglichkeit der klassische Tragödie, 1904). E nemmeno è un caso che, come Ernst, anche Samuel Lublinski pervenisse a una poetica neoclassicista della tragedia come forma del conflitto fra l’‘eroe’ e la società (Der Ausgang der Moderne, 1907) dopo un’attiva partecipazione alle lotte della socialdemocrazia tedesca che l’aveva indotto a polemizzare contro l’astoricità della letteratura naturalistica (Bilanz der Moderne, 1904) o che Wilhelm von Scholz appuntasse la sua polemica contro la degradazione del dramma a occasione di entertainment emozionale in nome di un dramma che fosse forma d’un conflitto realmente contraddittorio seppure ‘auto-generantesi’ nella soggettività dell’eroe (Gedanken zum Drama, 1905). Insomma: interrogarsi sulle possibilità della tragedia voleva dire interrogarsi sulla natura e i limiti (Grenzen, non Schranken: limiti costitutivi, non ostacoli che si possano rimuovere) della ‘libertà dei moderni’; e voleva dire, anche, chiedersi che cosa ne fosse, di là dal feticismo donde per Simmel si generava la «tragedia della cultura», della storia e dell’‘uomo intero’.

1 Cfr. L. Pirandello, L’umorismo, 19202, in Id., Saggi, Poesie, Scritti vari, a cura di M. Lo Vecchio-Musti, Milano 1977 (d’ora in avanti SPSV), pp. 80-82 e Giovanni Verga (Discorso di Catania, 1920), ivi, pp. 419-21 e Ironia (1920), ivi, pp. 1027-28.

2 Si cfr. L’umorismo. Saggio, Lanciano 1908, pp. 80-82 (d’ora in avanti UM1) con le pp. dell’Umorismo del ’20 cui sopra ci si è riferiti.

3 Nel non averne tenuto conto è uno dei limiti dell’analisi del romanzo condotta dal Debenedetti il quale, in definitiva ancora suggestionato dalla banalizzazione crociana (si v. B. Croce, L. Pirandello, in Id., La letteratura della nuova Italia, vol. VI, Roma-Bari 1974, p. 339: «C’era qui materia soltanto per un piccolo racconto scherzoso, che si sarebbe potuto intitolare: Il trionfo dello stato civile…»), vorrebbe insomma che Mattia, invece di ‘crearsi’ per un fine pratico (così che la sua è una «rappresentazione [che] non si vuole […] per se stessa ed è effettuata secondo i fini e gli interessi del sentimento che l’ispira»: UM1, p. 91), lo facesse disinteressatamente, «indugiando alla ricerca della propria identità autentica». Che è appunto quel che non Mattia – personaggio: cioè rappresentazione artistica dell’individuo ‘reale’ –, ma il suo creatore avrebbe, solo, potuto fare; ma ad una condizione, che il problema del romanzo fosse – e non è – quello cui Debenedetti lo ‘riduce’: «superare un caso di inadattabilità personale, e […] prospettare un più vasto malinteso tra l’uomo e il suo ambiente pratico e sociale» (cfr. G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano 1981, pp. 340-41).

4 L. Pirandello, Trovarsi, in Id., Maschere nude, Milano 1965 (d’ora in avanti MN), II, p. 243.

5 Ivi, pp. 904 e 928-929 (cfr. l’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, in L. Pirandello, Tutti i romanzi, a cura di G. Macchia e M. Costanzo, Milano 1973, d’ora in avanti TR), I, p. 583.

6 Si v. H. Weinrich, Moneta e parola. Ricerche su di un campo metaforico, in Id., Metafora e menzogna: la serenità dell’arte, Bologna 1976, pp. 31-48.

7 Cfr. J.M. Lotman, Il problema del segno e del sistema segnico nella tipologia della cultura russa prima del XX secolo, in J.M. Lotman-B.A. Uspenskij (a cura di), Ricerche semiotiche, tr. it., Torino 1973, pp. 40-63.

8 V. Šklovskij, L’arte come procedimento (1917), in T. Todorov (a cura di), I formalisti russi, tr.it., Torino 1968, pp. 73-94.

9 G. Lukács, Metafisica della tragedia, in Id., L’anima e le forme, tr. it., Milano 1963, pp. 305-8 passim.

10 Ivi, pp. 308-9. Non è forse inutile ricordare che per Kant l’incapacità della ragione speculativa di fondare conoscitivamente la destinazione pratica dell’uomo al sommo bene garantisce l’autonomia della coscienza morale, che verrebbe meno se «Dio e l’eternità, nella loro tremenda maestà, ci stessero continuamente davanti agli occhi (poiché quello che possiamo dimostrare perfettamente, rispetto alla certezza vale altrettanto per noi che se ce ne accertassimo mediante la vista). La trasgressione della legge sarebbe certamente impedita, quello che è comandato sarebbe eseguito; ma siccome l’intenzione, per cui le azioni devono accadere, non può essere introdotta in noi mediante nessun comandamento, e il pungolo dell’attività qui sarebbe sempre alla mano ed esterno, e quindi la ragione non avrebbe bisogno di sforzarsi a raccoglier le forze per resistere alle inclinazioni mediante la rappresentazione della dignità della legge; così la maggior parte delle azioni conformi alla legge avverrebbe per il timore, soltanto poche per la speranza, e nessuna affatto per il dovere; un valore morale delle azioni, dal quale solo dipende agli occhi della saggezza suprema il valore della persona, e anche quello del mondo, non esisterebbe punto. La condotta dell’uomo, rimanendo la sua natura qual è adesso, sarebbe dunque mutata in un semplice meccanismo, in cui, come nel teatro delle marionette, il tutto gesticolerebbe bene, ma nelle figure non si troverebbe vita alcuna» (I. Kant, Critica della ragion pratica, tr. it., Bari 1955, pp. 180-181); ma soprattutto si v. ivi, pp. 124-25: «se le azioni dell’uomo, come appartengono alle sue determinazioni nel tempo, non fossero semplici determinazioni dell’uomo come fenomeno ma come cosa in sé, la libertà non potrebbe esser salvata. L’uomo sarebbe una marionetta, un automa di Vaucanson, fabbricato e caricato dal maestro supremo di tutte le opere d’arte, e la coscienza di sé lo renderebbe invero un automa pensante, nel quale però la coscienza della spontaneità, se venisse ritenuta per libertà, sarebbe semplice illusione, poiché solo comparativamente essa merita di esser chiamata così, perché le cause determinanti prossime del suo movimento, e una lunga serie di queste cause sino alle loro cause determinanti, sono bensì interne, ma la causa ultima e suprema si trova interamente in una mano estranea».

11 Si legga comunque il primo capoverso del ‘racconto’ verghiano:
«Questo racconto è fatto per le persone che vanno colle mani dietro la schiena, contando i sassi, per coloro che cercano il pelo nell’uovo e il motivo per cui tutte le cose umane danno una mano alla ragione e l’altra all’assurdo; per quegli altri cui si rizzerebbe il fiocco di cotone sul berretto da notte quando avessero fatto un brutto sogno, e che lascerebbero trascorrere impunemente gli Idi di Marzo; per gli spiritisti, i giuocatori di lotto, gli innamorati, e i novellieri; per tutti coloro che considerano col microscopio gli uncini coi quali un fatto ne tira un altro, quando mettete la mano nel cestone della vita; per i chimici e gli alchimisti che da 5000 anni passano il loro tempo a cercare il punto preciso dove il sogno finisce e comincia la realtà, e a decomporvi le unità più semplici della verità nelle vostre idee, nei vostri principii, e nei vostri sentimenti, investigando quanta parte del voi della notte ci sia nel voi desto, e la reciproca azione e reazione, gente sofistica la quale sarebbe capace di dirvi tranquillamente che dormite ancora quando il sole vi sembra allegro, o la pioggia vi sembra uggiosa – o quando credete d’andare a spasso tenendo sotto il braccio la moglie vostra, il che sarebbe peggio. Infine, per le persone che non vi permetterebbero di aprir bocca, fosse per dire una sciocchezza, senza provare qualche cosa, questo racconto potrebbe provare e spiegare molte cose, le quali si lasciano in bianco apposta, perché ciascuno vi trovi quel che vi cerca» (G. Verga, Tutte le novelle, a cura di C. Riccardi, Milano 1979, p. 46).

12 Cfr. per es. G.W.F. Hegel, Estetica, tr. it., Milano 1963, pp. 1609 e 1623-24.

13 Ivi, pp. 1598-99.

14 L. Pirandello, La ‘Francesca da Rimini’ di G.A. Cesareo (1905), in SPSV, p. 979; ma si legga tutto il capoverso:
«Ora è certo che il carattere sarà tanto più determinato e superiore, quanto meno sarà o si mostrerà soggetto alla intenzione e ai modi del poeta, alle necessità dello sviluppo del fatto immaginato, quanto meno insomma si mostrerà strumento passivo d’una data azione, e quanto più invece farà vedere in ogni suo atto tutto un proprio essere e, insieme, una concreta specialità. Certo nel dramma i caratteri sono più circoscritti e più determinati che nell’epopea, per l’incalzare violento dell’azione, per l’urto dei conflitti. In essi, la più stretta circoscrizione e determinazione proviene, per dirla con Hegel, dal pathos speciale che si esprime con una essenziale fisionomia, la quale campeggia per tutto il dramma e conduce a determinati scopi, a determinate risoluzioni e azioni. Ma in ogni nostro atto è sempre tutto l’essere: quello che si manifesta è soltanto in relazione con un altro atto immediato o che appare immediato; nello stesso tempo, però, si riferisce alla totalità del nostro essere; è insomma come la faccia d’un poliedro che combaci con la faccia rispettiva d’un altro, pur non escludendo le altre facce che guardano per ogni verso. Ora, fondere la subbiettiva individualità d’un carattere con la specialità sua nel dramma, trovar la parola che, pur rispondendo a un atto immediato della situazione su la scena, esprima la totalità dell’essere della persona che la proferisce: ecco la somma difficoltà che il poeta deve superare».

15 Si legge per es. nell’‘Introduzione’ (1905) all’Illustrissimo di A. Cantoni (Un critico fantastico, in SPSV, pp. 368-69):
«[…] disquisizioni, dispute vecchie e vane, che fece in ogni tempo la Retorica, e che si faranno sempre, finché non s’intenderà che non bisogna partire da leggi esterne a cui l’opera d’arte dovrebbe esser soggetta, ma scoprire la legge che ciascun’opera d’arte ha in sé necessariamente; la legge che la determina e le dà carattere, la legge insomma della propria vita, se quest’opera d’arte è veramente vitale, legge che non può essere arbitraria, per quanto libera o capricciosa possa apparire; e finché non si considererà l’opera della fantasia come opera di natura, come creazione organica e vivente e, come tale, non se ne studieranno la nascita, lo sviluppo, ed i caratteri; finché non si vedrà in lei la natura stessa che si serve dello strumento della fantasia umana per creare un’opera superiore, più perfetta, perché scevra di tutte le parti comuni, ovvie, caduche, più determinata, semplificata, vivente solo nella sua idealità essenziale. D’arte astrattamente non si può parlare, in quanto che l’essenza dell’arte è nella particolarità; e la critica può esercitarvisi a un solo patto, a patto cioè che essa penetri a volta a volta nell’intimo dell’artista, a patto che indovini e scopra in ciascun’opera d’arte il germe da cui essa è nata e si è sviluppata, dati il temperamento, le condizioni, l’educazione, la natura insomma, la coltura e il temperamento dell’artista, che rappresentano quasi il terreno in cui quel germe è caduto e il clima e l’ambiente in cui si è sviluppato».

16 Cfr. G. Compagnino, Dal romanzo storico al verismo: Gramsci, De Sanctis e il problema del realismo moderno, in Naturalismo e verismo (Atti del convegno internazionale di studi, Catania 10-13 febbraio 1986), Catania 1988, II, 547-81: pp. 575-79.

17 L. Pirandello, Illustratori, attori e traduttori (1908), in SPSV, pp. 217-18.

18 G. Lukács, Metafisica della tragedia, cit., pp. 314-15.

19 Ivi, pp. 312-13.

20 L. Pirandello, Giovanni Verga (Discorso di Catania), cit., in SPSV, p. 421.

21 Cfr. ivi, p. 419: «Non ha poi senso il dire “nella realtà egli vede il mondo quale esso è, e si spiega che non può essere diverso da quello che è”. Il mondo non è per se stesso in nessuna realtà, se non gliela diamo noi; e dunque, poiché gliel’abbiamo data noi, è naturale che ci spieghiamo che non possa esser diverso. Bisognerebbe diffidar di noi stessi, della realtà del mondo posta da noi. Per sua fortuna il Verga non ne diffida se si spiega che il mondo non può esser diverso da quello che è. E dunque il Verga non è, né può essere, nel senso vero e proprio della parola, un umorista».

22 L. Pirandello, Frammento di cronaca di Marco Leccio, in NA, II, 1156-57.

23 O magari kantianamente la coscienza morale: ma sono appunto le ‘serene’ distinzioni della Critica del giudizio (cfr. per es. i §§ 2-5) che ormai non reggono più.

24 Lukács aveva scritto del momento in cui si trascende l’esistenza empirica: «Questo momento è un inizio e una fine. Non può derivarne nulla come conseguenza, nulla che si leghi all’esistenza. È un momento, non intenziona la vita, esso è la vita, ma una vita esclusivamente contrapposta ad ogni vita comune» (G. Lukács, Metafisica della tragedia, cit., p. 316); e si cfr. L. Pirandello, Teatro nuovo e teatro vecchio (1922-1934), in SPSV, p. 236, a proposito dei «problemi» rappresentati in una nuova opera d’arte: «La forma perfetta li ha staccati interamente, essi vivi, e concreti, cioè fluidi e indistinti, dal tempo e dallo spazio, e li ha fissati per sempre, li ha raccolti in sé, lei che è immarcescibile, quasi imbalsamati vivi».

25 Un gioco per nulla schilleriano, dal momento che è ormai venuto meno quel nesso Spieltrieb-Schonheit il quale, come ricordava lo stesso Pirandello dell’Umorismo citando la XV delle lettere Über die aesthetische Erziehung des Menschen, fondava il valore umanistico dell’educazione estetica (cfr. L. Pirandello, L’umorismo, in SPSV, p. 23-24).

26 Cfr. G. Lukács, Osservazioni sulla teoria della storia letteraria (1910), in Id., Sulla povertà di spirito. Scritti (1907-1918), a cura di P. Pullega, Bologna 1981, pp. 70-71.

27 Cfr. G. Lukács, II dramma moderno (1911), tr. it. (parziale), I, Milano 1976, pp. 26-27: «la lotta deve significare l’intera vita del dato uomo (o più esattamente – poiché anch’egli è rappresentativo –: di un dato tipo d’uomo); l’intera vita deve essere vista dall’angolo visuale del conflitto che interessa nel dramma specifico. Dunque, la condizione posta dalla forma drammatica al conflitto riguarda il contenuto: la lotta deve costituire il problema vitale centrale del dato uomo (tipo d’uomo), ma questo problema ovviamente deve essere al tempo stesso un problema altrettanto centrale per la massa in quest ione. La condizione formale, per contro, è: il conflitto deve essere tale da consentire all’uomo di realizzare, anche, un massimo della sua vita, cioè proprio quella parte di sé in cui si condensi tutta la sua vita con la maggior forza possibile e in tutta la sua poliedricità [Vielseitigkeit]; ma per soddisfare la condizione contenutistica posta dalla forma drammatica l’uomo – dal punto di vista del problema specifico – deve essere il “massimo”, l’espressione culminante del suo tipo, un esempio capace del massimo dispiego di forza. Questa è la ragione drammaturgica, la giustificazione della condizione per la quale nel dramma deve esserci un eroe, del bisogno cioè che riecheggia nelle parole di Byron: “I want a hero”; ciò tuttavia definisce nel contempo i limiti della giustificazione stessa di tale condizione. La grandezza dell’eroe è assoluta in confronto ad altri esemplari del suo tipo. L’eroe infatti rappresenta il punto culminante, è il compendio decorativo di tutti i tipi molto più deboli (perché più sparsi e meno puri) esistenti nella realtà. È necessario che nell’eroe l’elemento volontaristico che ha provocato la lotta sia presente con grandissima veemenza, anzi è addirittura necessario – se la natura del conflitto è tale per cui alle riflessioni e ai sentimenti può derivare un ruolo fortemente impeditivo nei confronti della volontà – che anche questi impedimenti siano presenti nel soggetto drammatico ad un grado altrettanto massimale, di modo che l’eroe, esaurendo tutte le possibilità del suo tipo, ne rappresenti pur sempre l’esempio insuperabile»; e pp. 42-43: «Carattere e azione sono indivisibili: l’azione è il destino dell’eroe e l’eroe è sempre tutt’uno col proprio destino, anzi nel suo destino egli realizza ciò che è. Carattere e azione sono un’unica cosa, come per la sensibilità primitiva il reo era identificabile con la sua azione, come per la filosofia della natura la natura naturans e la natura naturata si identificavano. La direzione della stilizzazione del carattere, il concreto e insieme astratto dell’uomo drammatico, la simbolica della vita sono fissati da questa relazione: l’uomo drammatico forma un tutt’uno con la propria azione, in cui non c’è nulla che non giustifichi il suo agire o il suo non agire. L’uomo drammatico è l’uomo in cui l’intera superficie della sua intima natura [ganzen Fläche seines Wesens] combacia perfettamente con il suo destino, è l’uomo che non conosce in sé niente che non sia – artisticamente – liberato e non trasformi in musica il grande appuntamento col destino. L’uomo drammatico è l’astrazione della volontà»; e si v. pure pp. 46-47.
E inoltre: Id., Filosofia dell’arte. Primi scritti sull’estetica (1912-1918), tr. it., I, Milano 1973, p. 157; Id., Metafisica della tragedia, cit., pp. 324 e 330-31; si v. anche A. Heller, Quando la vita si schianta nella forma, in F. Fehér et al., La scuola di Budapest: sul giovane Lukács, Firenze 1978, pp. 15, 26 e G. Márkus, L’anima e la vita. Il giovane Lukács e il problema della cultura, ivi, pp. 88-89.

28 L’irrigidimento precettistico-retorico in cui si risolve la sistemazione teofrastea della teoria aristotelica della tragedia importa, già nel primo scolarca del Liceo, una determinazione sociologica dei ‘caratteri’. Basti pensare alla modificazione che subisce la dottrina secondo cui, come si legge nella Poetica, l’ethos del personaggio tragico dev’essere conforme alla tradizione, allorché Teofrasto distingue l’historia della tragedia dal mito (falso) dell’epica e dal verosimile della commedia. Ne veniva, già in lui, la definizione della tragedia come heroiches tyches peristasis e che, dunque, i personaggi di essa non sono più, semplicemente, spoudaioi e beltiones, ma – come avrebbe prescritto Diomede – heroes, duces, reges. Naturalmente sono queste le premesse, oltre che le ‘fonti’, donde deriverà tutta la successiva teoria del genere tragico, fino alla Ständeklausel delle poetiche ‘classicistiche’: da G.C. Scaligero al Castelvetro, da d’Aubignac a Batteux e a Gottsched (si v. l’ancora utile ricostruzione di questa tradizione di A. Ph. Mahon, Seven Questions on Aristotelian Definition of Tragedy and Comedy, in «H S C Ph», 40, 1929).

29 Com’è noto, le parole di Fichte, citate nella Teoria del romanzo, oltre ad esprimere l’anticapitalismo radicale del giovane Lukács, hanno per lui precise ed essenziali implicazioni etiche ed estetiche; si legga per es. questa pagina dal saggio in forma di dialogo Sulla povertà di spirito (in G. Lukács, Sulla povertà di spirito. Scritti 1907-1918, cit., pp. 102-03): «Qui si tratta della vita. Si può vivere anche senza vita. E spesso si deve anche. Ma allora deve avvenire con chiara coscienza. Naturalmente la maggior parte degli uomini vive senza la vita e non se ne accorge. La loro vita è solo sociale, solo infraumana; questi, guardi, possono accontentarsi dei loro doveri e dell’adempiere ad essi. Anzi, per essi l’adempiere agli obblighi è l’unica possibilità di alzare più in alto la vita. Perché ogni etica è formale: il dovere è postulato, forma – e quanto più è perfetta una forma, tanto più vive una vita propria, tanto più cade lontano da ogni immediatezza. La forma è un ponte che ci distanzia; ponte in cui andiamo e veniamo e arriviamo sempre in noi stessi, senza incontrarci mai. Ma quegli uomini non potrebbero neanche uscire da se stessi, perché il contatto tra essi, nel migliore dei casi, è soltanto una spiegazione dei segni psichici, ed è solo la severità del dovere a dare alla loro vita una forma abbastanza stabile e sicura, anche se non profonda e non intima. La vera vita è oltre le forme, la vita ordinaria invece è al di qua delle forme e la bontà è la grazia per spezzare queste forme».

30 Cfr. E. Bloch, Geist der Utopie [la ed. 1918], Frankfurt a. M. 1971 (= Gesamtausgabe, vol. XVI), pp. 58 e 69-70.

31 Cfr. G. Lukács, Scritti sul romance, a cura di M. Cometa, Bologna 1982; Id., Cultura estetica (1912), tr. it., Roma 1977, pp. 21-22 e Id., Il manoscritto Dostoevskij (la cui redazione è da collocare fra il 1914 e il 1916), tr. it. a cura di M. Cometa, in «Metaphorein», III, 8 (nov. 1979 – febbr. 1980), pp. 21-36; si v. anche F. Fehér, Al bivio dell’anticapitalismo romantico: tipologia e contributo alla storia dell’ideologia tedesca a proposito del carteggio tra Paul Ernst e György Lukács, in F. Fehér et al., La scuola di Budapest: sul giovane Lukács, cit., 157-246, in partic. le pp. 231-36.

32 G. Lukács, «Il percorso di Hamptmann», in Id., Scritti sul romance, cit., pp. 67-69 passim e cfr. i luoghi (non tr. in it.) di A modem dráma cit. da M. Cometa, ivi, p. 70 n. 4 e da L. Boella, Il giovane Lukács. La formazione intellettuale e la filosofia politica 1907-1929, Bari 1977, p. 34.

33 G. Lukács, Metafisica della tragedia, cit., pp. 308-9.

34 G. Lukács, L’estetica del romance. Tentativo di fondazione metafisica della forma del dramma non-tragico, in Id., Scritti sul romance, cit., pp. 92 + 100-1.

35 Ivi, p. 96.

36 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco (1928), tr. it., Torino 1971, pp. 101-2; ma cfr. anche il saggio «Le affinità elettive» di Goethe (1924) in Id., Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-22, a cura di G. Agamben, Torino 1982, p. 189.

37 I testi sono tradotti in it. nel vol. curato da F. Serpa, Nietzsche-Rohde-Wilamowitz-Wagner, La polemica sull’arte tragica, Firenze 1972.

38 Cfr. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, ivi, p. 172: «Il dramma che si svolge dinanzi a noi con l’aiuto della musica, con una chiarezza internamente illuminata di tutti i movimenti e di tutte le figure, sicché quasi lo vediamo nascere come un tessuto [Gewebe] sul telaio dall’andirivieni della spola, raggiunge come totalità un effetto [als Ganzes eine Wirkung] che è riposto al di là di tutti gli effetti artistici apollinei. Nell’effetto totale della tragedia lo spirito dionisiaco riconquista di nuovo il sopravvento; essa si chiude con un accordo che non potrebbe mai risuonare dal regno dell’arte apollinea».

39 Cfr. L. Pirandello, L’azione parlata (1899), in SPSV, p. 1015: «[…] una favola d’indole narrativa, in generale, mal si lascia ridurre e adattare al congegno delle scene. […] Tolse, è vero, anche lo Shakespeare l’argomento d’alcuni drammi da novelle italiane; ma qual drammaturgo mise in azione più di lui, dal principio alla fine, una favola, nulla mai sacrificando alle esigenze sciocche d’una tecnica solo esteriormente rigorosa?».

40 Cfr. ivi, pp. 1016-17: «Non il dramma fa le persone; ma queste il dramma. E prima d’ogni altro dunque bisogna aver le persone: vive, libere, operanti. Con esse e in esse nascerà l’idea del dramma, il primo germe dove staran racchiusi il destino e la forma…»; sicché, «lo stile, l’intima personalità d’uno scrittore drammatico non dovrebbe affatto apparire nel dialogo, nel linguaggio delle persone del dramma, bensì nello spirito della favola, nell’architettura di essa, nella condotta, nei mezzi di cui egli si sia valso per lo svolgimento».

41 Ivi, p. 1015. Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, cit., pp. 1534, 1605. La romanza di Heine sarà di nuovo citata da Pirandello in Illustratori, autori e traduttori (1908; si v. SPSV, p. 214), ma in una prospettiva ormai diversa (v. G. Gompagnino, Statuto e funzione del personaggio nella poetica pirandelliana, in «Le forme e la storia», III (1982) ,17-36, p. 25).

42 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 70.

43 Cfr. ivi, p. 78.

44 Ivi, pp. 112 e 120.

45 Ivi, pp. 120-21. La coppia rapsodo-mimo viene com’è evidente dall’Aufsätze goetiano del 1797 Über epische und dramatische Dichtung, donde deriva anche il motivo del quieto contemplare del primo.

46 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 173.

47 Ivi, p. 167.

48 L. Pirandello, L’azione parlata (1899), in SPSV, pp. 1016-17: «lo stile, l’intima personalità di uno scrittore drammatico non dovrebbe affatto apparire nel dialogo, nel linguaggio delle persone del dramma, bensì nello spirito della favola, nell’architettura di essa, nella condotta, nei mezzi di cui egli si sia valso per lo svolgimento».

49 L. Pirandello, Taccuino di Bonn (1889-93), in SPSV, p. 1228: «E noi lamentiamo, che alla nostra letteratura manchi il dramma […]. Opera vana: il vero marcio non si vede o non si vuol vedere. Manca la concezione della vita e dell’uomo. […] Arido e stupido alessandrinismo – il nostro». (Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, cit., pp. 1540-41). Non troppo diverso nella sostanza, pur se più consapevolmente articolato, è il ruolo che Lukács attribuisce alla Weltanschauung nel dramma: cfr. G. Lukács, Il dramma moderno, cit., pp. 35-38 (sulla ostilità all’art pour l’art – l’alessandrinismo di Pirandello – implicita in queste posizioni, si v. F. Fehér, Filosofia della storia del dramma, cit., p. 252).

50 Cfr. L. Pirandello, Personaggi (1906), in Id., Sei personaggi in cerca d’autore, a cura di G. Davico Bonino, Torino 1993, pp. 161-62: «tutto, in questo mondo di carta, è combinato, congegnato, adattato ai fini che lo scrittore, piccolo Padreterno, si propone. Mai nessuno di quei tanti ostacoli improvvisi che, nella realtà, contrariano graziosamente e limitano e deformano i caratteri degli individui e la vita. La natura senza ordine almeno apparente, irta (beata lei!) di contraddizioni, è lontanissima – credetelo – da questi minuscoli mondi artificiali, in cui tutti gli elementi, visibilmente, si tengono a vicenda e a vicenda cooperano. Vita concentrata, vita semplificata, senza realtà vera. Nella realtà vera le azioni che mettono in rilievo un carattere non si stagliano forse su un fondo di vicende ordinarie, di particolari comuni? Ebbene, gli scrittori non se n’avvalgono, come se queste vicende, questi particolari non abbiano valore e sieno inutili. L’oro, in natura, non si trova frammisto alla terra? Ebbene, gli scrittori buttano via la terra e presentano l’oro in zecchini nuovi, ben colato, ben fuso, ben pesato e con la loro marca e il loro stemma bene impressi. Ma le vicende ordinarie, i particolari comuni, la materialità della vita insomma, così varia e complessa, non contraddicono poi aspramente tutte queste semplificazioni ideali e artificiose? non costringono ad azioni, non ispirano pensieri e sentimenti contrarii a tutta quella logica armoniosa dei fatti e dei caratteri concepiti dagli scrittori? E l’impreveduto che è nella vita? e l’abisso che è nelle anime? Perdio, non mi sento io guizzar dentro, spesso, pensieri strani, quasi limpidi di follia, pensieri inconseguenti, inconfessabili, come sorti da un’anima diversa da quella che normalmente mi riconosco? E quante occasioni imprevedute, imprevedibili occorrono nella vita, ganci improvvisi che arraffano le anime in un momento fugace, di grettezza o di generosità, in un momento nobile o vergognoso, e le tengono poi sospese o sull’altare o alla gogna per l’intera esistenza, come se questa fosse tutta assommata in quel momento solo, d’ebrezza passeggera o d’incosciente abbandono?… L’arte, signori miei, ha l’ufficio di rendere immobili le anime, di fissar la vita in un momento o in varii momenti determinati: la statua in un gesto, il paesaggio in un temporaneo immutabile. Ma che tortura! E la perpetua mobilità degli aspetti successivi? e la fusione continua in cui le anime si trovano?»; e La tragedia di un personaggio (1911), in NA, I, pp. 715-17 (e si v. anche il confronto fra Herodes und Marianne di Hebbel e Britannicus di Racine, in G. Lukács, Realisti tedeschi del XIX secolo, tr. it., Milano 1963, p. 214).

51 Cfr. L. Pirandello, Personaggi, cit., p. 165: «Ora diremo ciò che avviene allorché lo spirito umano esprime positivamente un pensiero o un desiderio ben netto. Il pensiero assume essenza plastica, si tuffa per così dire in essa e vi si modella istantaneamente sotto forma d’un essere vivente, che ha un’apparenza che prende qualità dal pensiero stesso; e quest’essere, appena formato, non è più per nulla sotto il controllo del suo creatore, ma gode d’una vita propria, la cui durata è relativa all’intensità del pensiero e del desiderio che l’hanno generato: dura, infatti, a seconda della forza del pensiero che ne tiene aggruppate le parti.
Il dottor Leandro Scoto chiude il libro e mi guarda:
– Ebbene, – soggiunse, – nessuno meglio di Lei può sapere che questo è vero. Ed io, per quanto ancora non sia libero e indipendente da Lei, ne sono la prova. Ne sono una prova tutti i personaggi creati dall’arte. Alcuni han pur troppo vita efimera; altri immortale. Vita vera, più vera della reale, sto per dire! Angelica, Rodomonte, Shylock, Amleto, Giulietta, Don Chisciotte, Manon Lescaut, Don Abbondio, Tartarin: non vivono d’una vita indistruttibile, d’una vita indipendente ormai dai loro autori?
Lo guardo a mia volta il dottor Leandro Scoto che mi si dimostra così erudito e gli domando:
– Scusi, dove vuole arrivare con codesta dissertazione teosofico-estetica?
– Alla vita! – esclama lui, allora, con un gesto melodrammatico».

52 L. Pirandello, L’azione parlata, cit., p. 1015.

53 Ibidem. (Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, cit., pp. 1134 e 1537-38, 1599).

54 L. Pirandello, La tragedia di un personaggio, cit., NA, I, p. 821; sono parole che torneranno, in bocca al Padre, nei Sei personaggi (cfr. Sei personaggi in cerca d’autore, Torino 1993, pp. 105 e 31, rispettivamente ed. 1921 e 1925). Ma forse è anche opportuno non dimenticare che già il De Sanctis aveva adoperato metafore non dissimili per determinare la relazione fra oggettività reale e soggettività artistica nel processo di generalizzazione estetica: cfr. G. Compagnino, Dal romanzo storico al verismo, cit., pp. 577-81.

55 Cfr. L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. 3 e Personaggi, cit., p. 162. Sulla fantasia-«servetta» non sarà forse inutile ricordare che Karl August Musaus legittimava la fantasia come «una graziosa servetta» della ragione in un testo (Wolksmarchen der Deutschen, 1782) forse non ignoto al Pirandello traduttore delle favole di Lessing.

56 L. Pirandello, Colloqui con i personaggi (1915), in Id., Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. 173 (Cfr.: G.W.F. Hegel, Estetica, pp. 240, 1599).

57 L. Pirandello, L’azione parlata, cit., in SPSV, pp. 1017-18. (Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, cit., pp. 1539, 1597-602, 1559, 1603, 1609).

58 L. Pirandello, L’azione parlata, cit., in SPSV, p. 1018. (Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, pp. 1609-10).

59 «Non mai credo, la vita nostra eticamente ed esteticamente fu più disgregata».

60 L. Pirandello, L’azione parlata, cit., in SPSV, p. 1018.

61 Ibidem. È opportuno ricordare che tutto intero questo capoverso è di nuovo trascritto da Pirandello nella rec. alla «Francesca da Rimini» di G.A. Cesareo, ivi, p. 979.

62 L. Pirandello, Rinunzia (1896), in SPSV, p. 1059.

63 Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, cit., pp. 1610-29 passim.

64 Ivi, pp. 1535 e 1554.

65 Cfr. L. Pirandello, L’azione parlata, cit., in SPSV, 1015-16: «[…] la parola che sia l’azione stessa parlata, la parola che muova, l’espressione immediata, connaturata con l’azione, la frase unica, che non può esser che quella, propria a quel dato personaggio in quella data situazione».

66 F. De Sanctis, Manzoni, a cura di C. Muscetta e D. Puccini, Torino 1983, pp. 76-77. (Si pensi, in tutt’altro ambito spirituale ma in risposta ai medesimi problemi, alla polemica di Georg Büchner contro i cosiddetti Idealdichter e alla sua scelta della storia come luogo del dramma – «Der dramatische Dichter ist in meinen Augen nichts als ein Geschichtschreiber»: «Was noch die sogennanten Idealdichter anbetrifft, so finde ich, das sie fast nichts als Marionetten mit himmelblauen Nasen und affektierten Pathos, aber nicht Menschen von Fleisch und Blut gegeben haben, deren Leiden und Freude mich mitempfinden macht und deren Tun und Handeln mit Abscheu oder Bewunderung einflösst»: G. Büchner, Sämtliche Werke und Briefe, Hamburg 1967-71, II, pp. 443-44).

67 L. Pirandello, L’azione parlata, in SPSV, p. 1016. Pare opportuno ricordare che, in uno dei ‘foglietti’ pubblicati postumi da C. Alvaro (lo si v. ivi, pp. 1267-68), Pirandello mostra non solo di conoscere ma di condividere l’analisi desanctisiana delle ragioni del metodo letterario manzoniano.

68 G. D’Annunzio, Il fuoco, in Id., Prose di romanzi, a cura di N. Lorenzini, Milano 1989, pp. 359-60; si v. pure la n. relativa, alle pp. 1275-76, che cita la fonte wagneriana.

69 Cfr. C. Dahlhaus, La musica dell’Ottocento (1980), tr. it., Firenze 1990, pp. 209-16.

70 G. D’Annunzio, Il fuoco, cit., pp. 360-61.

71 Cfr. ivi, pp. 472 e 297-99.

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