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György Lukács

~ il primo blog in progress dedicato a Lukács

György Lukács

Archivi tag: Weber

Weber, Lukács e il marxismo “occidentale”

06 venerdì Mar 2020

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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coscienza di classe, dialettica, Hegel, ideologia, Lenin, letteratura, Marx, partito, proletariato, realtà, relativismo, soggetto-oggetto, storia, totalità, verità, Weber


di Maurice Merleau-Ponty

da Lukács negli scritti di..., a c. di G. Oldrini, ISEDI, Mondadori, Milano 1979.


Maurice Merleau-Ponty (1908-1961), noto esponente dell’esistenzialismo francese di sinistra, ha insegnato filosofia alla Sorbona, all’École Normale e, dal 1952 in poi, al Collège de France. Tra le sue opere: La structure du comportement, Paris, 1942 (trad. it. Bompiani, Milano, 1963); Phénoménologie de la perception, Paris, 1945 (trad. it. Il Saggiatore, Milano, 1965); Humanisme et terreur. Essai sur le problème communiste, Paris, 1947 (trad. it. Sugar, Milano, 1965); Sens et non sens, Paris, 1948 (trad. it. Il Saggiatore, Milano, 1962); Les aventures de la dialectique, Paris, 1955 (trad. it. SugarCo, Milano, 1965); Signes, Paris, 1960 (trad. it. Il Saggiatore, Milano, 1967); Le visible et l’invisible, Paris, 1964 (trad. it. Bompiani, Milano, 1969).

Il saggio che segue è tratto, per stralci, dal cap. II delle già cit. Aventures de la dialectique, nella traduzione di Franca Madonia (Umanesimo e terrore e Le avventure della dialettica, con pref. di Andrea Bonomi, SugarCo, Milano, 1965, pp. 238-42, 248-56, 263-65). Continua a leggere →

Lukács. Un filosofo responsabile

29 sabato Feb 2020

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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Cossiga, Etica, Guerra del Golfo, Hegl, Heidegger, responsabilità intellettuali, Weber


di Cesare Cases

«il manifesto», 20 luglio 1991


Leggo su un giornale che in Germania c’è stato un congresso hegeliano in cui tutti i partecipanti all’unanimità hanno condannato il grande pensatore di Stoccarda come precursore del totalitarismo. La canzone è vecchia, ma l’unanimità è nuova. Dei giornali non c’è molto da fidarsi, ma conoscendo i moderni filosofi che nella guerra del Golfo vedono all’opera lo spirito del mondo (tra i convenuti c’era Gadamer, che fece esternazioni in questo senso anche alla Tv italiana) è probabile che la notizia sia autentica. Il totalitarismo, come è noto a tutti appunto dopo la guerra del Golfo, è definitivamente morto e seppellito. Il mondo è bello e santo è l’avvenire. Che resta ai filosofi se non disseppellire i loro colleghi compromessi con il totalitarismo (e sono tanti, se non tutti!) e processarli pubblicamente? Continua a leggere →

Tribuno di popolo o burocrate?

17 domenica Feb 2019

Posted by nemo in I testi

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agire, assefuazione, burocrate, contenuto, coscienza dall'esterno, decadentismo, Diderot, disperazione, divisione del lavoro, eccitazione, economicismo, forlmalismo, forma, Gorkij, ideologia, intellettuali, Lenin, naturalismo, possibilità, realtà, Robespierre, routine, specializzazione, spontaneismo, Stalin, tecnica, Tolstoj, tribuno, Weber


di György Lukács

in Il marxismo e la critica letteraria

I testi> Il marxismo e la critica letteraria>Tribuno di popolo o burocrate?


«La letteratura si corrompe solo nella misura in cui gli uomini diventano più corrotti».

GOETHE

I. Il significato generale dell’impostazione leniniana.

L’opera di Lenin Che fare? servì a smascherare la filosofia opportunistica, assai diffusa al momento della sua pubblicazione (1902), degli «economisti». Costoro protestavano contro l’unità del movimento rivoluzionario russo sul piano teorico e su quello organizzativo; secondo loro, la sola cosa che contava era la lotta dei lavoratori per i loro interessi economici immediati, la loro spontanea rivolta contro le rappresaglie dei padroni delle fabbriche. Essi limitavano il compito del rivoluzionario cosciente all’aiuto da dare ai lavoratori nelle lotte locali, immediate. Interpretare i singoli scontri di classe come parti della generale missione storica del proletariato; chiarire i singoli momenti della lotta, mediante la propaganda politica, alla luce della dottrina socialista; unificare i singoli movimenti di resistenza in un moto politico rivoluzionario diretto al crollo del capitalismo e al trionfo del socialismo: tutto ciò significava, per gli «economisti», «far violenza» alle masse lavoratrici, col pericolo di isolare gli intellettuali rivoluzionari dalle masse. Gli «economisti» assicuravano che il movimento spontaneo diventa consapevole attraverso il suo stesso processo di crescenza. Continua a leggere →

N. Bucharin: Teoria del materialismo storico

08 giovedì Feb 2018

Posted by nemo in I testi

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Tag

caso, connessioni, cosalità, determinismo, dialettica, Engels, falsa oggettività, feticismo, Feuerbach, imperialismo, legge naturale, Lenin, Luxemburg, macchine, Marx, matematizzazione, materialismo borghese, materialismo dell'intuizione, materialismo storico, metodo, naturalismo, particolare, science, scopo conoscitivo, sociologia, tecnica, tendenza, totalità, vie d'uscita, Weber


di György Lukács

[N. Buchаrin: Theorie des historischen Materialismus. Gemeinverständliches Lehrbuch der marxistischen Soziologie, 1925]

Scritti politici giovanili 1919-1928, Laterza, Bari 1972.


La nuova opera di Bucharin1 è un compendio sistematico quanto mai atteso del materialismo storico dal punto di vista marxista. Poiché in campo marxista dall’Antidühring di Engels in poi, e fatta eccezione per il volumetto di Plechanov, non era stato tentato niente di simile, e il compendio della teoria era stato lasciato agli avversari del marxismo, in ispecie a coloro che lo intendevano molto superficialmente, il tentativo di Bucharin sarebbe da salutare con simpatia anche nel caso che nei confronti del suo metodo e dei suoi risultati ci fossero da fare riserve molto più ampie di quanto non è possibile esporre in queste righe. Bisogna infatti riconoscere che a Bucharin è riuscito di porre tutte le questioni più importanti del marxismo in un nesso unitario e sistematico che – tutto sommato – è marxista; va aggiunto che l’esposizione è chiara in ogni punto e di facile comprensione, sicché il libro sembra idoneo ad assolvere il suo compito: di essere cioè un manuale. Continua a leggere →

Il giovane Lukács

06 domenica Mar 2016

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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Tag

Adorno, essenza, Estetica, forma, George, gerarchia delle forme di vita, Giovane Lukács, Goldmann, Horkheimer, Kierkegaard, realismo, Simmel, società borghese, Tragedia, vita, Weber


di Elémire Zolla

«Tempo presente», III/n. 7 – luglio 1958.

Uno studio di Marris Watnik, apparso recen­temente nella Soviet Survey, illumina i primi scritti di Lukács, anteriori alla conversione del 1918, e offre modo di determinare i filoni delle influenze neokantiane più tardi trasferite nel suo particolare marxismo.

Nelle prime opere Lukács, poco più che ven­tenne, propone una teoria della poesia come idea motrice e formatrice alla quale tendono le singole opere poetiche, come valore verso cui la società industriale si mostra inospitale. Le espe­rienze tragiche, l’incontro con il fato sono mo­menti rivelatori dell’essenza umana, che sfugge al dramma borghese, moralistico e razionale in­vece che religioso e mitologico, analitico invece che simbolico. La critica della società industria­le del giovane Lukács segue la falsariga dei suoi maestri del tempo, Weber e Simmel. Dal loro insegnamento egli trae le categorie sociologiche per giudicare la poesia di George come lirico della nuova solitudine dell’individuo. La teoria estetica platoneggiante si convertiva necessaria­mente in un problema morale: che cosa rende essenziale la vita?

La soluzione del giovane Lukács mostra una evidente influenza kierkegardiana:  «La vita è la forma meno reale e viva dell’esistenza. La vita genuina è sempre… impossibile sul piano empirico. Nella vita quotidiana ci esprimiamo solo marginalmente»; esiste una «gerarchia di vite» corrispettiva alla gerarchia dei generi let­terari, a partire dalla vita quotidiana in cui tutte le scelte sono parimenti possibili e in cui nulla è attuato, fino alla vita in cui l’uomo è impe­gnato pienamente dinanzi a norme assolute. C’è un’ascesa gerarchica dalla vita in cui i valori sono sacrificati ai bisogni a quella in cui i bi­sogni sono sacrificati ai valori: soltanto in que­sto caso si vive veramente, realmente. Nella fase marxista, questo salto necessario dal quotidiano all’etico, nel quale l’uomo diventa reale, viene trasferito dall’ambito del meramente individuale all’ambito della coscienza di classe.

Fino a qual punto il Lukács marxista ha oggettivato il criterio del realismo (che egli de­finiva «medievale e scolastico» in contrapposto al realismo dei naturalisti moderni), nella lotta di classe? Fino a qual punto il tipico sociale rivela l’essenza? Il rifiuto della realtà oggetti­vamente e «brutta» e meschina, quotidiana, del mondo borghese-industriale è ancora il criterio operante del Lukács marxista.

Sull’ultimo numero di Dissent, anche L. Stern si occupa dello sviluppo del pensiero di Lukács dalle origini pre-marxiste a oggi. Nel suo primo libro, L’evoluzione del dramma moderno, del 1908, Lukács sostenne che attraverso la forma si attinge la vita e attraverso la vita la forma: ogni forma letteraria è un grado della gerarchia delle possibilità di vita. Come è possibile vivere oggi? È questa la domanda etica che informa l’estetica del giovane Lukács, per il quale la tragedia e l’epica sono le forme che consentono di vivere senza cadere nella mortuaria «quotidianità». L’analisi di Stern mostra come l’iniziale impulso continuasse a operare nel Lukács marxista e co­me le teorie del primo suo libro siano alla radice anche di pensatori vicini al marxismo, seppure non ortodossi, come Lucien Goldmann, Hork­heimer e Adorno. La grande Estetica, che Lukács sta ora completando, verrà impedita di uscire ora che certi giornali comunisti lo denunciano come «transfuga nel campo nemico»?

Sulla responsabilità degli intellettuali

04 mercoledì Nov 2015

Posted by nemo in I testi

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agnositicismo, Bergson, economia politica, esistenzialismo, fascismo, feticizzazione, Heidegger, Hitler, imperialismo, Lewis, Nietzsche, Ortega y Gasset, responsabilità intellettuali, rivoluzione, Simmel, Spengler, Toynbee, Unione Sovietica, Weber, Zeig


di György Lukács

[Von der Verantwortung der Intellektuellen (1948), Pubblicato in Schicksalswende cit.; Traduzione di Fausto Codino, in G.L., Marxismo e politica culturale, Einaudi, Torino 1968).


Durante la seconda guerra mondiale molti hanno sperato che distruggendo il regime hitleriano si sarebbe anche sradicata l’ideologia fascista. Ma quanto si è visto dalla fine della guerra in poi nella Germania occidentale indica che la reazione anglosassone ha addirittura salvato e favorito le basi economiche e politiche di una rinascita del fascismo hitleriano. Le conseguenze si sentono anche nel campo ideologico. Perciò l’ideologia dell’hitlerismo rappresenta ancora oggi un problema attuale e non meramente storico.
Se ripensiamo al sorgere del fascismo, vediamo quali gravi responsabilità portino gli intellettuali per la formazione dell’ideologia fascista. Qui, purtroppo, le eccezioni lodevoli sono pochissime.
Vorrei pregare i cosiddetti uomini pratici di non sottovalutare le questioni ideologiche. Faccio solo un esempio. Sappiamo benissimo come la politica hitleriana abbia portato con ferrea necessità agli orrori di Auschwitz e Maidanek. Ma non si deve neppure ignorare che uno dei fattori che permisero questi orrori fu la sistematica demolizione del principio dell’uguaglianza di tutti gli uomini. Sarebbe stato molto più difficile mettere in atto la bestialità organizzata del fascismo contro milioni di persone se Hitler non fosse riuscito a far radicare nelle più larghe masse tedesche la convinzione che chi non era «di razza pura» non era «propriamente» un uomo.
Questo è solo un esempio fra tanti. Deve soltanto dimostrare che un’ideologia reazionaria innocente non può esistere. La generazione più anziana ricorderà molto bene certe critiche «elette», accademiche, saggistiche, della «volgare» credenza nell’uguaglianza degli uomini; e critiche analoghe del progresso, della ragione, della democrazia ecc. La maggioranza degli intellettuali ha preso parte, in modo attivo o recettivo, a questo movimento. In un primo tempo si pubblicavano su questi temi soltanto libri esoterici, saggi ingegnosi, ma poi da essi si ricavarono articoli di giornale, opuscoli, conversazioni radiofoniche che già si rivolgevano a un pubblico di decine di migliaia di persone. Infine Hitler riprese da questi discorsi da salotto e da caffè, da queste lezioni universitarie e saggi, tutto il contenuto reazionario che poteva servire alla sua demagogia di piazza. In Hitler non si trova una parola che non fosse stata già detta «ad alto livello» da Nietzsche o da Bergson, da Spengler o da Ortega y Gasset. La cosiddetta opposizione individuale è irrilevante dal punto di vista storico. Che significa una debole mezza protesta di Spengler o di George contro un incendio mondiale che si è contribuito a far divampare con la propria sigaretta?
È dunque una necessità assoluta, e un grande compito per gl’intellettuali progressisti, smascherare tutta questa ideologia anche nei suoi rappresentanti più «eletti»: mostrare come da queste premesse è scaturita per necessità storica l’ideologia fascista, mostrare che una linea retta porta da Nietzsche, attraverso Simmel, Spengler, Heidegger ecc. fino a Hitler; e che d’altra parte uomini come Bergson e Pareto, i pragmatisti e i semantici, Berdjaev e Ortega hanno creato un’atmosfera da cui la fascistizzazione dell’ideologia poté trarre ricco alimento. Non è merito loro se finora il fascismo non è nato in Francia, in Inghilterra o negli Stati Uniti.
Dobbiamo dunque mettere in luce – anche ideologicamente – la funzione dominante che la Germania ha avuto finora nello sviluppo dell’ideologia reazionaria, ma la lotta decisiva contro l’ideologia imperialistica tedesca non deve mai servire a giustificare gl’irrazionalisti, i nemici del progresso, gli aristocratici dell’ideologia di altri paesi.
Oggi però sarebbe sbagliato e pericoloso limitarsi a questa lotta. Saremmo di vedute corte se credessimo che la nuova reazione che ora si sviluppa segua nel campo ideologico assolutamente la stessa strada della vecchia reazione, che operi precisamente con gli stessi mezzi culturali.
Naturalmente nel nostro periodo, nel periodo dell’imperialismo, la sostanza generale di ogni reazione è la stessa: le pretese egemoniche del capitale monopolistico, il conseguente continuo pericolo di dittature fasciste e di guerre mondiali; naturalmente dittature e guerre opprimeranno e distruggeranno con brutalità almeno uguale che sotto Hitler.
Ma da ciò non deriva affatto che il nuovo fascismo cercherà d’imporsi, in particolare nel campo ideologico, con metodi esattamente copiati da quelli di Hitler. Anzi, la situazione odierna presenta già aspetti ideologici pressoché opposti. L’aggressione di ieri venne da imperialismi che si consideravano sacrificati nella ripartizione del mondo. Oggi l’aggressione è minacciata da un potente imperialismo che vuole completare la sua mezza dominazione mondiale. Esso ha al suo seguito imperialismi che sentono vacillanti e minacciati i loro imperi, che appoggiano gli Usa nella speranza – oggettivamente vana – di poter conservare, ampliare e consolidare i loro possedimenti.
D’altra parte gli aspetti generali dell’imperialismo restano immutati: anche oggi le sue mire sono in contrasto con gl’interessi delle sue stesse masse e con gl’interessi dei popoli che difendono la loro libertà. E questo contrasto, la necessità, che si pone per gl’imperialisti aggressivi, di opprimere i popoli all’interno e all’estero, e in pari tempo di mobilitare demagogicamente le proprie masse popolari per la nuova ripartizione del mondo, per la nuova guerra mondiale, dimostra che la politica interna ed estera fascista, i cui contorni oggi appaiono già chiari, deve seguire un corso obbligato.
Con tutta probabilità questa nuova fase di sviluppo dell’imperialismo non si chiamerà fascismo. E dietro la nuova nomenclatura si cela un nuovo problema ideologico: l’imperialismo «affamato» dei tedeschi generava un cinismo nichilistico che rompeva apertamente con tutte le tradizioni dell’umanità. Le tendenze fasciste che oggi crescono negli Usa lavorano col metodo di un’ipocrisia nichilistica: distruggono l’autodeterminazione interna ed esterna dei popoli in nome della democrazia; esercitano l’oppressione e lo sfruttamento delle masse in nome dell’umanità e della civiltà.
Un altro esempio. Per Hitler fu necessario costruire una propria teoria razziale, sulle basi gettate da Gobineau e Chamberlain, per mobilitare demagogicamente le masse nella liquidazione della democrazia e del progresso, dell’umanesimo e della civiltà. Gl’imperialisti degli Usa hanno il compito più facile: basta che rendano universale e sistematica la vecchia prassi da loro seguita nei confronti dei negri. E siccome finora questa prassi si è potuta «conciliare» con l’ideologia che fa degli Usa i paladini della democrazia e dell’umanesimo, non si vede perché qui non debba sorgere una simile ideologia del nichilismo ipocrita che possa riuscire a dominare con mezzi demagogici. Che questa universalizzazione e sistemazione compia rapidi progressi, può vederlo chiunque segue le sorti dei migliori intellettuali progressisti degli Usa, come Gerhart Eisler o Howard Fast. Come questi metodi stiano diventando generali da molto tempo, lo ha dimostrato da lunga data uno scrittore moderato come Sinclair Lewis in Elmer Gantry.
Qui naturalmente abbiamo di fronte soltanto la forma astrattamente pura del nuovo fascismo. Il suo sviluppo reale segue talvolta vie più complicate, specialmente in Francia e in Inghilterra, dove la situazione interna della reazione imperialistica è molto più difficile. Ma, per tornare ai problemi ideologici, si consideri soltanto l’esistenzialismo e si vedrà facilmente che il tentativo di mettere in armonia il nichilismo aperto dell’Heidegger prefascista con i problemi di oggi fa piegare il cinismo verso l’ipocrisia.
Oppure si prenda il Toynbee. Il suo libro rappresenta il più grande successo della filosofia della storia dopo Spengler. Toynbee studia la crescita e il declino di tutte le civiltà e arriva a concludere che né il dominio delle forze naturali né quello delle circostanze sociali sono in grado d’influenzare questo processo; egli vuole altresì dimostrare che tutti i tentativi d’influenzare il corso dello sviluppo con l’uso della violenza – cioè tutte le rivoluzioni sarebbero condannati a priori al fallimento. Ventuno civiltà sono già scomparse. Una sola, quella europea occidentale, è cresciuta fino ad oggi perché al suo inizio Gesù ha trovato questa nuova via non violenta del rinnovamento. E oggi? Toynbee riassume i suoi sei volumi finora pubblicati col dire che Dio – poiché la sua natura è costante come quella degli uomini – non ci rifiuterà una nuova salvezza purché noi lo preghiamo con sufficiente umiltà.
Il meglio che a mio giudizio il più fanatico fautore della guerra atomica negli Usa possa augurarsi è che gl’intellettuali progressisti si limitino a chiedere questa grazia, mentre lui può organizzare indisturbato la guerra atomica.
Senza dubbio questa tendenza fatalistica e passiva di Toynbee indica che ci troviamo appena nella fase iniziale dello sviluppo ideologico del nuovo fascismo. (Si pensi al fatalismo di Spengler in contrapposto all’attivismo nichilistico e cinico di Hitler). Ma ciò rende maggiori, non minori, i compiti e le responsabilità degli intellettuali: è ancora tempo di dare una svolta allo sviluppo ideologico dei principali popoli civili o almeno di tentare di arrestare il corso reazionario ora avviato.
Ma per riuscirvi occorre soprattutto chiarezza nel campo ideologico. Che significa qui chiarezza? Non che si esprimano i pensieri in forma chiara, stilisticamente perfetta (questa dote è largamente presente negli intellettuali), ma che si sappia con chiarezza questo: dove stiamo, dove porta lo sviluppo, che cosa possiamo fare per influenzare il suo corso?
Sotto questo aspetto gl’intellettuali del periodo imperialistico si trovano in una posizione molto sfavorevole. Poiché essi non possono mai, oggettivamente, trovarsi ugualmente a loro agio in tutti i settori della scienza, ogni epoca porta al centro degli interessi determinate scienze, determinati rami del sapere, determinati autori considerati classici. Così nel XVIII secolo la fisica newtoniana ebbe una grande funzione progressiva nella liberazione degli intellettuali francesi dagli antichi pregiudizi teologici e dall’ideologia monarchico-assolutistica che quei pregiudizi mediavano; nella Francia di allora essa stimolava la preparazione ideologica della grande rivoluzione.
Oggi sarebbe necessario e urgente che questo posto nella vita intellettuale fosse occupato dall’economia politica, dall’economia intesa in senso marxiano come scienza delle «forme d’esistenza, delle determinazioni d’esistenza» primarie degli uomini; come scienza delle relazioni reali tra gli uomini, delle leggi e delle tendenze di sviluppo di queste relazioni. Ma nella realtà troviamo proprio tendenze opposte. La filosofia, la psicologia, la storiografia ecc. del periodo imperialistico cercano tutte di deprezzare le conoscenze economiche, di diffamarle dichiarandole «superficiali», «inessenziali», indegne di una visione del mondo più «profonda».
Qual è la conseguenza? Gli intellettuali, non riuscendo a scorgere le basi oggettive della loro stessa esistenza sociale, diventano sempre più vittime della feticizzazione dei problemi sociali e, attraverso questa, vittime indifese dì qualsiasi demagogia sociale.
Sarebbe facile citare esempi. Ne ricordo solo alcuni fra i più essenziali. In primo luogo la feticizzazione della democrazia. Cioè, non ci si chiede mai: democrazia per chi e con esclusione di chi? Non ci si chiede mai quale sia il vero contenuto sociale di una democrazia concreta, e non ponendosi queste domande si offre uno dei più solidi appoggi al neofascismo che ora si prepara. C’è poi la feticizzazione del desiderio di pace dei popoli, espressa per lo più in forma di pacifismo astratto, nel quale il desiderio di pace non solo è degradato al livello della passività, ma diventa addirittura la parola d’ordine dell’amnistia per i criminali di guerra fascisti e facilita quindi la preparazione di una nuova guerra. C’è ancora una feticizzazione della nazione. Dietro questa facciata scompaiono le differenze fra i legittimi interessi vitali nazionali di un popolo e le tendenze aggressive dello sciovinismo imperialista. Ci si può ben ricordare come questa feticizzazione avesse i suoi effetti immediati nella demagogia nazionale di Hitler. Anche oggi essa è operante nella sua forma diretta, ma questa feticizzazione è anche sfruttata in un modo indiretto e non meno pericoloso, specialmente negli Usa: è l’ideologia di un cosiddetto sopranazionalismo, di un governo mondiale sopranazionale. Come la forma diretta hitleriana mirava a una pax germanica per il mondo, così la forma indiretta tende a una pax americana. Entrambe le forme, se fossero attuate, comporterebbero la distruzione di ogni autodeterminazione nazionale, di ogni progresso sociale.
C’è infine la feticizzazione della cultura. A partire da Gobineau, Nietzsche e Spengler è venuto di gran moda negare l’unitarietà della cultura del genere umano. Quando, dopo la liberazione dal nazismo, partecipai per la prima volta a un convegno internazionale, alle Rencontres internationales di Ginevra del 1946, in quell’occasione Denis de Rougemont e altri parlarono della difesa della cultura europea sostenendo idee fondate su una netta separazione fra la cultura europea occidentale e quella russa. Difendere la cultura europea occidentale significava dunque respingere quella russa (come pensa anche Toynbee). Che oggettivamente questa teoria è affatto priva di valore, che l’attuale cultura europea occidentale è profondamente impregnata d’influssi ideologici russi, e per lo più proprio nelle sue creazioni più alte, lo rivela l’occhiata più superficiale alla situazione odierna della cultura. Senza Lev Tolstoj come ci si potrebbe immaginare, per fare pochi nomi, la letteratura da Shaw a Roger Martin du Gard, da Romain Rolland a Thomas Mann? Queste teorie sfruttano demagogicamente la circostanza che a un contatto immediato, alla prima impressione, la cultura russa (e a maggior ragione quella sovietica) appare estranea agli intellettuali dell’Europa occidentale. Ma ogni conoscitore della letteratura deve confermare che in Francia è stato molto più difficile accogliere Shakespeare che Tolstoj. Eppure il signor de Rougemont e i suoi amici non erigono una muraglia cinese fra la cultura della Francia e quella dell’Inghilterra.
Ma è anche più importante vedere con chiarezza il significato sociale di quelle teorie. Lo sviluppo culturale russo – culminante nella cultura sovietica – incarna oggi il futuro derivante dalla nostra cultura, come fece la cultura inglese del XVIII secolo per la Francia e l’anno 1793 per tutti i progressisti europei. La feticizzazione della cultura serve qui a mascherare la protesta di ciò che è in declino contro ciò che anticipa il futuro, e precisamente nella propria cultura. I Rougemont e i Toynbee, con le loro teorie, vogliono stendere un cordon sanitaire intorno alla Russia, intorno all’Unione Sovietica, e rendono in tal modo – deliberatamente o no, non importa – un servigio alla preparazione ideologica della guerra.
Sembra che io mi sia allontanato dall’argomento dell’economia. In realtà ho parlato sempre ed esclusivamente di economia. Che vuol dire infatti feticizzazione? Vuol dire che qualche fenomeno storico è avulso dal suo reale terreno sociale e storico, che il suo concetto astratto (e di solito soltanto qualche elemento di questo concetto astratto) è trasformato in feticcio, acquista un’esistenza presunta autonoma, diventa un’entità a sé. La grande conquista della vera economia sta appunto nel dissolvere questa feticizzazione, nel mostrare in concreto che cosa significhi questo o quel fenomeno storico nel processo complessivo dello sviluppo, quale sia il suo passato e quale il suo futuro.
La borghesia reazionaria sa quindi benissimo perché cerca di diffamare la vera economia per mezzo dei suoi ideologi, così come la reazione ecclesiastica del XVI-XVIII secolo sapeva bene perché si batteva contro la nuova fisica. Oggi un interesse vitale della borghesia imperialistica è di distruggere la capacità di orientamento storico-sociale degli intellettuali. Se oggi numerosi intellettuali non possono essere già trasformati in assoluti sostenitori della reazione imperialistica, devono almeno errare impotenti, senza capacità di orientamento, in un mondo incompreso.
Confessiamolo con vergogna: questa manovra della borghesia reazionaria è riuscita in gran parte; essa ha sviato un buon numero dei migliori intellettuali. Moltissimi buoni rappresentanti della cultura odierna – collaboratori inconsapevoli di questo intento della reazione imperialistica – hanno addirittura creato una filosofia tendente a dimostrare che sarebbe filosoficamente impossibile possedere un orientamento sociale. Questa linea va dall’agnosticismo sociale di Max Weber all’esistenzialismo.
Ma non è questa una condizione indegna degli intellettuali? Forse essi hanno acquistato le loro capacità, il loro sapere, la loro cultura spirituale e morale solo perché in una svolta storica, quando si decide del destino del genere umano, quando la libertà e l’oppressione barbarica si gettano nella battaglia decisiva, essi debbano chiedere come Pilato: che cosa è la verità? E non è indegno di loro il presentare come una particolare profondità filosofica questo non sapere, questo non voler sapere?
Noi abbiamo acquistato il nostro sapere, abbiamo sviluppato la nostra cultura spirituale per capire il mondo meglio di quanto lo capisca l’uomo medio. Ma nella realtà assistiamo al contrario. Arnold Zweig descrive molto bene un intellettuale onesto che per anni si lascia prendere dalla demagogia dell’imperialismo tedesco per dover confessare alla fine che semplici lavoratori avevano capito esattamente e chiaramente la situazione già anni prima.
Molti intellettuali sentono già oggi da chi siano realmente minacciate la libertà e la cultura. Molti si rivolgono, anche con un forte pathos morale, contro l’imperialismo, contro la preparazione della guerra. Ma la nostra dignità di rappresentanti della cultura esige proprio che di questo sentimento noi facciamo un sapere. E a questo si può arrivare solo mediante la scienza dell’economia politica, mediante l’economia del marxismo.
Gli intellettuali sono al bivio. Dobbiamo preparare una svolta storica verso il progresso e combattere per essa in prima linea, come gli intellettuali francesi del XVIII secolo e quelli russi del XIX, o dobbiamo essere vittime impotenti, collaboratori abulici di una reazione barbarica, come gli intellettuali tedeschi della prima mela del XX secolo? Non si può esitare a decidere quale atteggiamento sia degno, e quale indegno, dell’essenza, del sapere, della cultura dell’intellettuale.

La mia via al marxismo

01 domenica Nov 2015

Posted by nemo in I testi, Traduzioni italiane

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Capitale, Cina, citatologia, democrazia popolare, dialettica, Engels, Estetica, Etica, fronti popolari, Hegel, Lenin, Luxemburg, Marx, marxismo, nazismo, rivoluzione russa, Simmel, socialismo in un solo paese, sociologismo, soggettivismo, Stalin, stalinismo, Weber


di György Lukács

[Mein Weg zu Marx, in «Internationale Literatur» (Mosca), n. 2 1933; La mia via al marxismo,  trad. di Ugo Gimmelli, «Nuovi Argomenti», n.33, luglio-agosto 1958].

da Marxismo e politica culturale, Einaudi, Torino 1968.


Il rapporto con Marx è la vera pietra di paragone per ogni intellettuale che prenda sul serio il chiarimento della propria concezione del mondo, lo sviluppo sociale, in particolare la situazione presente, la propria posizione in essa e il proprio atteggiamento rispetto ad essa. La serietà. Io scrupolo e l’approfondimento con cui egli si dedica a questo problema ci indicano se e in qual misura egli voglia, consciamente o inconsciamente, sottrarsi ad una chiara presa di posizione nelle lotte della storia attuale. I cenni biografici sul rapporto con Marx, sulla lotta spirituale col marxismo ci danno dunque, volta a volta, un quadro che, come contributo alla storia della lotta sociale degli intellettuali nel periodo imperialistico, ha un certo interesse generale anche se, come nel mio. caso, la biografia stessa non possa avere pretesa alcuna di interessare il pubblico.

La mia prima conoscenza con Marx (col Manifesto dei comunisti) la feci sul finire dei miei studi liceali. L’impressione fu straordinaria, e da studente universitario ho poi letto parecchi degli scritti di Marx e di Engels (come Il 18 Brumaio, L’origine della famiglia) e in particolare ho studiato a fondo il primo volume del Capitale. Questo studio mi convinse subito dell’esattezza di alcuni punti centrali del marxismo. In primo luogo fui impressionato dalla teoria del plusvalore, dalla concezione della storia come storia delle lotte di classe e dall’articolazione della società in classi. Per il momento, come è ovvio nel caso di un intellettuale borghese, quest’influenza si limitò all’economia e soprattutto alla «sociologia». La filosofia materialistica, nella quale io allora non facevo distinzione fra materialismo dialettico e non dialettico, la ritenevo, come teoria della conoscenza, completamente superata. La tesi neokantiana dell’«immanenza della coscienza» si adattava egregiamente alla mia posizione di classe di allora e alla mia concezione del mondo; né io la sottoponevo ad alcun esame critico, ma la accettavo passivamente come punto di partenza per ogni impostazione del problema gnoseologico.

Per la verità io ero in continuo sospetto verso l’idealismo soggettivo estremo (tanto verso la scuola neokantiana di Marburgo quanto verso le teorie di Mach), giacché non riuscivo a vedere in che modo il problema della realtà potesse essere definito considerandola semplicemente come categoria immanente della coscienza; ma tuttavia questo non condusse a conseguenze materialistiche, ma anzi ad un avvicinamento a quelle scuole filosofiche che volevano risolvere questo problema in forma irrazionalistico-relativistica, talora con sfumature mistiche (Windelband-Rickert, Simmel, Dilthey). L’influenza di Simmel, del quale sono stato diretto scolaro, mi dette anche la possibilità di «inserire» in una tale concezione del mondo quanto avevo assimilato di Marx in quel periodo. La Filosofia del denaro di Simmel e gli scritti sul protestantesimo di Weber furono i miei modelli per una «sociologia della letteratura» in cui gli elementi derivati da Marx erano bensì ancora presenti, ma tanto assottigliati e impalliditi da essere appena riconoscibili. Secondo l’esempio di Simmel io da un lato distaccavo quanto più era possibile la «sociologia» dal fondamento economico concepito in modo assai astratto, e dall’altro lato nell’analisi «sociologica» scorgevo soltanto lo stadio iniziale della vera e propria ricerca scientifica in materia di estetica (Storia dell’evoluzione del dramma moderno, 1909; Metodologia della storia letteraria, 1910, ambedue in ungherese). I miei saggi apparsi fra il 1907 e il 1911 oscillavano fra questo metodo e un soggettivismo mistico.

Era naturale che in un tale sviluppo della mia concezione del mondo le impressioni giovanili dalla lettura di Marx impallidissero sempre più e finissero per avere una parte sempre minore nella mia attività scientifica. Consideravo Marx non meno di prima l’economista e il «sociologo» più competente; ma economia e «sociologia» avevano per allora una parte minore nella mia attività. I singoli problemi e le fasi dello sviluppo, nel quale questo idealismo soggettivo mi condusse a una crisi filosofica, non interessano il lettore. Ma questa crisi – invero a mia insaputa – era determinata oggettivamente da un più intenso manifestarsi dei contrasti imperialistici e fu accelerata dallo scoppio della guerra mondiale. Certamente questa crisi si manifestò dapprima solo nel passaggio dall’idealismo soggettivo all’idealismo oggettivo (Teoria del romanzo, scritta nel 1912-15), e naturalmente Hegel venne ad acquistare per me un’importanza sempre crescente, in particolare la Fenomenologia dello spirito. Col carattere imperialistico della guerra che mi diveniva sempre più chiaro, con l’approfondimento dei miei studi hegeliani, nel corso dei quali mi accostai anche a Feuerbach – comunque allora solo dalla parte dell’antropologismo – comincia il mio secondo intenso studio di Marx. Questa volta stavano per me in primo piano gli scritti filosofici del periodo giovanile, sebbene studiassi anche con passione la grande Introduzione alla critica dell’economia politica. Questa volta però si trattava di un Marx non più guardato attraverso la lente di Simmel ma attraverso quella hegeliana. Non più Marx come «eminente specialista», come «economista e sociologo»; mi si cominciava già a delineare il filosofo dal largo pensiero, il grande dialettico. Tuttavia neanche allora vedevo il significato del materialismo per la concretizzazione e l’unificazione, per l’impostazione coerente dei problemi dialettici. Arrivai solo fino a una priorità – hegeliana – del contenuto rispetto alla forma e cercai di sintetizzare, su base essenzialmente hegeliana, Hegel e Marx in una «filosofia della storia». Questo tentativo acquistò una particolare sfumatura dal fatto che nel mio paese, in Ungheria, l’ideologia del «socialismo di sinistra» più influente era il sindacalismo di Ervin Szabó. I suoi scritti sindacalisti dettero ai miei «tentativi di filosofia della storia», accanto a più di un elemento positivo (ad esempio la conoscenza, fatta attraverso lui, della Critica del programma di Gotha), una nota accentuata di astratto soggettivismo e pertanto eticizzante. Tagliato fuori, in quanto intellettuale universitario, dal movimento operaio illegale, non potei prendere visione, durante il conflitto, né degli scritti spartachisti né di quelli di Lenin sulla guerra. Lessi invece, con effetti profondi e duraturi, le opere di prima della guerra di Rosa Luxemburg. Stato e rivoluzione di Lenin l’ho letto solo nel periodo rivoluzionario 1918-19.

In tale fermento ideologico mi colsero le rivoluzioni del ’17 e del ’18. Dopo breve esitazione mi iscrissi nel 1918 al Partito comunista ungherese e rimasi da allora nelle file del movimento rivoluzionario operaio. Il lavoro pratico mi costrinse subito a dedicarmi agli scritti economici di Marx, a un più profondo studio della storia, della storia economica, di quella del movimento operaio ecc., impegnandomi così in una revisione continua dei fondamenti filosofici. Tuttavia questa lotta per impadronirsi della dialettica marxista durò molto a lungo. Le esperienze della rivoluzione ungherese mi mostrarono bensì molto chiaramente la fragilità di ogni teoria sindacaleggiante (funzione del partito nella rivoluzione), ma un soggettivismo ultrasinistro è sopravvissuto in me ancora a lungo (posizione nel dibattito sul parlamentarismo, 1920; atteggiamento nell’azione del marzo 1921). Questo mi impediva soprattutto di intendere veramente ed esattamente il lato materialistico della dialettica nel suo significato filosofico più comprensivo. Il mio libro Storia e coscienza di classe (1923) mostra molto chiaramente questo passaggio. Nonostante il tentativo, già consapevole, di superare ed «eliminare» Hegel con Marx, problemi decisivi di dialettica venivano risolti idealisticamente (dialettica della natura, teoria del rispecchiamento ecc.). La teoria della Luxemburg sull’accumulazione, ancora da me mantenuta, si mescolava in modo non organico con un attivismo soggettivistico ultra-sinistro.

Soltanto l’intima adesione al movimento operaio, dovuta ad una attività di molti anni, e la possibilità dì studiare le opere di Lenin e dì comprenderne, poco a poco, la fondamentale importanza, avviarono il terzo periodo del mio interessamento per Marx. Solo ora, dopo quasi un decennio di lavoro pratico e dopo oltre un decennio di sforzo intellettuale per comprendere Marx, il carattere totale e unitario della dialettica materialistica mi è di venuto concretamente chiaro. Ma appunto questa chiarezza porta con sé il riconoscimento che il vero studio del marxismo comincia soltanto ora e non può più fermarsi. Giacché, come Lenin dice tanto giustamente, «il fenomeno è più ricco della legge… e perciò la legge, qualsiasi legge, è angusta, incompleta, approssimativa». Chiunque si illuda di aver compreso una volta per tutte i fenomeni della natura e della società sulla base di una conoscenza, vasta e profonda quanto si voglia, del materialismo dialettico, deve necessariamente ricadere dalla viva dialettica nella rigidità meccanica, dal materialismo che tutto abbraccia nell’unilateralità idealistica. Il materialismo dialettico, la dottrina di Marx, deve essere conquistata, assimilata giorno per giorno, ora per ora, partendo dalla prassi. D’altro lato la dottrina di Marx, nella sua inattaccabile unità e totalità costituisce l’arma per l’esecuzione pratica, per il dominio dei fenomeni e delle loro leggi. Se da questa totalità distacchiamo un solo elemento costitutivo (o anche soltanto lo trascuriamo) avremo di nuovo rigidezza e unilateralità. Basta che non si colga il rapporto dei momenti fra loro e si potrà perdere di nuovo di sotto i piedi il terreno della dialettica materialistica. «Giacché ogni verità – dice Lenin – può, se la si esagera, se si trapassano i confini della sua validità, divenire un’assurdità, anzi in tali circostanze è inevitabile che divenga un’assurdità».

Sono passati più di trentanni da che io, ragazzo, lessi per la prima volta il Manifesto dei comunisti. L’approfondimento progressivo – sia pure contraddittorio e non rettilineo – degli scritti di Marx è divenuta la storia del mio sviluppo intellettuale e quindi addirittura la storia di tutta quanta la mia vita, nella misura in cui essa può avere un significato per la società. A me sembra che nell’epoca che segue a Marx la presa di posizione rispetto al suo pensiero debba rappresentare il problema centrale di ogni pensatore che prenda se stesso sul serio, e che il modo e il grado in cui egli acquisisce il metodo e i risultati di Marx determini il suo posto nello sviluppo dell’umanità. Questo sviluppo si determina secondo la classe, ma anche questa determinazione non è rigida, bensì dialettica. La nostra posizione nella lotta delle classi determina largamente il modo e il grado della nostra acquisizione del marxismo; d’altra parte ogni progresso in questa acquisizione ci fa aderire sempre più alla vita e alla prassi del proletariato e ridonda beneficamente sull’approfondimento del nostro rapporto con la dottrina marxista.

Postscriptum 19571.

Le righe precedenti sono state scritte, come ognuno può ben vedere, in uno stato di estrema tensione che non era dovuto solo al fatto che io dopo tante avventure intellettuali finalmente sentivo, quasi cinquantenne, il terreno fermo sotto i miei piedi: anche gli avvenimenti del quindicennio precedente contribuivano fortemente a tale stato d’animo. Dei primi anni della rivoluzione ho già parlato, non così degli anni che seguirono alla morte di Lenin. Come compagno di lotta ho vissuto l’azione di Stalin per salvare la vera eredità di Lenin contro Trotskij, Zinov’ev ecc., e ho veduto che con essa furono salvate e rese adatte a ulteriore sviluppo proprio quelle conquiste che Lenin ci ha trasmesso. (A questo giudizio sul periodo dal ’24 al ’30 gli anni frattanto trascorsi e le esperienze che li accompagnarono non hanno mutato nulla di essenziale). A questo si aggiunge che la discussione filosofica dal ’29 al ’30 mi dette la speranza che il chiarimento di rapporti Hegel-Marx, Feuerbach-Marx, Marx-Lenin e la liberazione da una cosiddetta ortodossia plechanovista avrebbero dischiuso nuovi orizzonti alla ricerca filosofica. Inoltre lo scioglimento della Rapp (1932), alla quale io sempre mi ero opposto, aprì a me e a molti altri una vasta prospettiva, quella di una ripresa, non ostacolata da alcun burocratismo, della letteratura socialista, della metodologia e della critica letteraria marxista; in questa speranza occorre sottolineare con pari rilievo le due componenti, l’assenza di limiti imposti da una burocrazia e il carattere marxista leninista. Se aggiungo che noi proprio in quegli anni abbiamo conosciuto le opere fondamentali del giovane Marx, soprattutto i Manoscritti economico-filosofici, come pure i Quaderni filosofici di Lenin, avrò enumerato quei fatti che sollevarono grandi speranze al principio degli anni trenta.

Il fatto che anche allora per una su due idee (a essere ottimisti) che si allontanavano dal modello imposto, si urtasse contro una resistenza sorda o aggressiva, riuscì solo poco a poco a fare impallidire queste speranze. Da principio credevo, e con me non pochi altri, di trovarmi davanti agli avanzi di un passato non superato del tutto: Rappisti, sociologi volgari ecc. Più tardi capimmo che tutte queste tendenze contrarie al progresso del pensiero avevano solidi appoggi burocratici. Tuttavia per un certo tempo credemmo a un carattere, dopo tutto, casuale di questo sistema difensivo del dogmatismo; molti di noi talora sospiravano pensando a Stalin: «Ah, si le roi le savait». Un tale stato di cose non poteva naturalmente durare indefinitamente. Si dové riconoscere che la fonte del contrasto fra le correnti progressive che arricchivano la cultura marxista e l’oppressione dogmatica di una burocrazia tirannica su ogni pensiero autonomo era da ricercarsi nel regime stesso di Stalin e pertanto anche nella sua persona.

Tuttavia quando si trattava di prender posizione rispetto a questi fatti, ogni persona riflessiva doveva partire dalla situazione storica del momento, che era quella dell’ascesa di Hitler e della preparazione della sua guerra di annientamento contro il socialismo. Mi è sempre stato ovvio che ad ogni decisione che tale situazione imponeva dovesse subordinarsi incondizionatamente tutto, anche ciò che a me personalmente era più caro, anche l’opera stessa della mia vita. Io ritenevo che il compito principale della mia vita consistesse nel bene impiegare la concezione marxista-leninista in quei campi che io conoscevo, nel farla progredire nella misura in cui ciò fosse imposto dalla scoperta di nuovi dati. Ma poiché al centro del periodo storico in cui si svolgeva questa mia attività si trovava la lotta per l’esistenza dell’unico stato socialista e quindi del socialismo stesso, io subordinavo ovviamente ogni mia presa di posizione, anche riguardo alla mia propria opera, alle necessità del momento. Questo tuttavia non significò mai una capitolazione davanti a tutte quelle tendenze ideologiche che si sono formate, propagate e infine dissolte nel corso di questa lotta. Nello stesso tempo non dubitavo che non soltanto un’opposizione era allora fisicamente impossibile, ma che essa avrebbe molto facilmente potuto divenire un aiuto intellettuale e morale per il nemico mortale, per l’annientatore di ogni civiltà.

Perciò io fui costretto a condurre una specie di guerriglia partigiana per le mie idee scientifiche, cioè a render possibile la pubblicazione dei miei lavori per mezzo di citazioni da Stalin ecc. e di esprimere in essi con la necessaria cautela la mia opinione dissidente tanto apertamente quanto lo permetteva il margine di respiro dato di volta in volta dal momento storico. Ne conseguiva talora l’imperativo di tacere. È noto per esempio, come durante la guerra fosse deciso di dichiarare Hegel ideologo della reazione feudale contro la rivoluzione francese; perciò io non potei allora naturalmente pubblicare il mio libro sul giovane Hegel. Si può certamente vincere la guerra, pensavo, anche senza ricorrere a simili sciocchezze senza basi scientifiche ma, una volta che la propaganda antihitleriana è andata a occuparsi proprio di questo, è più importante per il momento vincere la guerra che questionare sulla giusta concezione di Hegel. È noto che questa tesi errata si è mantenuta a lungo anche dopo la guerra, ma è altrettanto noto che io ho poi pubblicato il libro su Hegel senza cambiarvi una riga.

Si trattava tuttavia anche di problemi sociali assai più gravi di questo, i quali mettevano allora sempre più in evidenza l’aspetto negativo dei metodi staliniani. Mi riferisco naturalmente ai grandi processi, la cui legalità io fin da principio giudicai con scetticismo, non molto diversamente per esempio da quella dei processi contro i girondini, i dantoniani ecc. nella grande rivoluzione francese, cioè io riconoscevo la loro necessità storica senza preoccuparmi troppo della questione della loro legalità. (Oggi ritengo che Chruščëv abbia ragione quando ne rileva energicamente la superfluità politica). La mia posizione mutò radicalmente allorché fu diffusa la parola d’ordine di estirpare fin dalle radici il trotskismo ecc. Compresi fin dal principio che ne sarebbe seguita nient’altro che la condanna in massa di persone per la maggior parte del tutto innocenti. E se oggi mi si domandasse perché io non presi pubblicamente posizione contraria, non metterei in primo piano neanche questa volta l’impossibilità fisica (vivevo nell’Unione Sovietica come emigrato politico) ma quella morale: l’Unione Sovietica si trovava nell’imminenza della lotta decisiva contro il fascismo. Un comunista convinto poteva dire soltanto: «right or wrong, my party». Qualunque cosa faccia in tale situazione il partito guidato da Stalin – pensavo con molti altri compagni – bisogna restare incondizionatamente solidali con esso in questa lotta, porre questa solidarietà al di sopra di tutto.

La guerra finita vittoriosamente cambiò in modo radicale tutta quanta la situazione. Io, dopo un esilio di ventisei anni, potei ritornare in patria. Mi sembrava si fosse entrati in un nuovo periodo nel quale fosse divenuta possibile, come durante la guerra, un’alleanza di tutte le forze democratiche, socialiste e borghesi, contro la reazione. Il mio discorso alle Rencontres internationales di Ginevra nel ’46 esprimeva chiaramente questo stato d’animo. Sarei certamente stato cieco se, a partire dal discorso di Churchill a Fulton, non avessi veduto come erano forti le tendenze contrarie nel mondo capitalistico, e con quanto sforzo certe cerchie influenti dell’occidente cercassero di liquidare l’antica alleanza e di avvicinarsi politicamente e ideologicamente agli ex nemici. Già a Ginevra Jean-R. de Salis e Denis de Rougemont si presentarono con idee che tendevano ad escludere la Russia dalla cultura europea. Ma sarebbe stato parimenti cecità ignorare che la reazione a ciò in campo socialista recava in sé molti tratti di quella ideologia la cui estinzione io, e con me molti, mi aspettavo dalla pace e dal rafforzamento del socialismo seguito al sorgere delle democrazie popolari nell’Europa centrale. Appunto perché io insistevo in questo sforzo che, come ritenevo e ritengo, era imposto dalla nuova situazione internazionale, volli aderire al Congresso di Wrocław (1948), al Movimento per la pace e ne sono rimasto fino ad oggi convinto seguace. È sintomatico che l’argomento da me trattato a Wrocław fu l’unità e la distinzione dialettica dell’avversario di ieri e di oggi, cioè la reazione imperialistica.

L’anno 1948 rappresentò forse la più importante svolta della storia a partire dal 1917: intendo la vittoria della rivoluzione proletaria in Cina. Appunto in seguito ad essa vennero in evidenza le contraddizioni decisive nella teoria e nella prassi di Stalin. Giacché oggettivamente questa vittoria significava che il periodo del socialismo in un solo paese – quale Stalin l’aveva difeso a ragione contro Trotskij – apparteneva definitivamente al passato; il sorgere delle democrazie popolari nell’Europa centrale aveva già rappresentato un passaggio alla nuova realtà. Ma soggettivamente fu evidente che Stalin e i suoi seguaci non volevano né potevano trarre dalla situazione internazionale radicalmente mutata le conseguenze teoriche e quindi pratiche. Stalin stesso, da uomo assai accorto, ha, nella sua azione, colto certamente sintomi e momenti della nuova situazione. Tuttavia mai veramente con coerenza, giacché l’idea che essa potesse significare una rottura coi metodi dell’epoca del socialismo in un solo paese, coi metodi cioè oggettivamente derivati dal continuo stato di pericolo di una Russia industrialmente arretrata, che però proprio lui aveva spinto ben al di là di questa esigenza, tale idea, dicevo, era del tutto al di fuori della sua cerchia visiva. Avvenne allora che il nuovo assetto mondiale, che richiedeva categoricamente una nuova strategia e una nuova tattica, fu avviato con un atto in cui fatalmente si assommavano e acutizzavano la strategia e la tattica antiche; cioè la rottura dell’Unione Sovietica con la Jugoslavia. Ne conseguì necessariamente il ritorno ai metodi dell’epoca dei grandi processi.

A me personalmente il riconoscimento della contraddizione fra il fondamento nuovo e l’ideologia vecchia fu facilitato dalla discussione che sorse in Ungheria a proposito del mio libro Letteratura e democrazia. Dal mio ritorno nel 1945 io, benché non sia mai stato funzionario dirigente in senso organizzativo, mi sforzavo continuamente di trarre dalla nuova situazione le conseguenze del caso, di perseguire il passaggio al socialismo in modo nuovo, graduale, sulla base della convinzione. Gli articoli e i discorsi contenuti nel libro ora rammentato erano dedicati a questo fine e, sebbene oggi io li consideri sotto diversi aspetti manchevoli, non chiari abbastanza né conseguenti, essi si muovevano tuttavia in una direzione giusta. La discussione mostrò la completa impossibilità di avere una spiegazione proficua con gli ideologi del dogmatismo.

Il primo grande vantaggio che mi arrecò questa discussione e la ritirata tattica che vi compiei (si era al tempo del processo Rajk) fu di poter abbandonare la mia complessa attività di funzionario e di concentrarmi esclusivamente nel lavoro intellettuale. Questa circostanza, l’esperienza della discussione, quella dei grandi avvenimenti di allora mi giovarono nel riesame approfondito che feci dei problemi del marxismo-leninismo in relazione ai metodi di Stalin e dei suoi seguaci. La convinzione sempre crescente che Stalin non avesse capito quello che c’era di decisamente nuovo nella situazione era resa più larga e più generale da una più profonda coscienza del passato. Mi fu evidente come, mentre nella seconda metà degli anni venti la lotta contro il fascismo era divenuta il problema centrale, Stalin non ne avesse capito il significato se non circa un decennio più tardi. In una epoca in cui la formazione di un fronte unitario dei lavoratori, anzi di tutti gli elementi democratici, era divenuta una questione vitale per la civiltà umana, la tesi di Stalin della socialdemocrazia come «fratello gemello» del fascismo rese impossibile questo fronte. Egli rimase dunque attaccato a una strategia e a una tattica che erano giustificate nella tempesta rivoluzionaria del 1917 e subito dopo, ma che, col placarsi di quella, dopo lo spiegarsi della grande offensiva del capitalismo monopolistico più reazionario, erano oggettivamente del tutto invecchiate. Ciò che accadde dopo il 1948 cominciai a considerarlo come ripetizione storica dell’errore fondamentale degli anni venti.

In questo scritto, ove l’argomento vero e proprio è formato dall’intimo sviluppo delle mie idee, è impossibile anche solo accennare al sistema di pensiero che sta all’origine di tali concezioni errate; sia notato soltanto questo, che il tragico dissidio nel pensiero di Stalin mi divenne sempre più evidente. Lenin, all’inizio del periodo imperialistico, ha messo in luce, partendo dalla dottrina dei classici, l’importanza del fattore soggettivo. Stalin ne ha fatto un sistema di dogmi soggettivistici. Il tragico dissidio consiste nel fatto che le sue grandi qualità di ingegno, le sue ricche esperienze, la sua notevole acutezza, lo condussero non di rado a rompere il cerchio magico del soggettivismo, anzi ad accorgersi chiaramente dell’erroneità di esso. Pertanto mi appare tragico che la sua ultima opera cominci con una giusta critica del soggettivismo economico senza che in lui affiori mai il minimo sospetto di esserne stato lui stesso il padre spirituale e l’assiduo promotore. D’altra parte in un tale sistema di pensiero possono coesistere pacificamente concezioni che si contraddicono risolutamente. Per esempio, la teoria dei contrasti di classe continui e necessariamente esasperantisi insieme alla presenza tangibile del comunismo, secondo e superiore stadio del socialismo. Dall’accoppiamento di queste affermazioni reciprocamente escludentisi è nata la sua visione da incubo di una società comunista in cui il principio liberatore «Ciascuno secondo la sua capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni» si realizza in uno Stato di polizia regolato in forma autocratica ecc. ecc.

Stalin, al quale si deve riconoscere il grande merito di avere difeso contro Trotskij il principio leninista del socialismo in un solo paese e di aver così salvato il socialismo in un periodo di crisi interne, ebbe per il periodo iniziatosi col 1948 quasi la stessa incomprensione che aveva ai suoi tempi Trotskij per le necessità di sviluppo dell’Unione Sovietica. Che questa arretratezza e incomprensione di Stalin abbia facilitato la condotta della guerra fredda agli avversari imperialistici è cosa che ormai non pochi oggi riconoscono.

Ripeto, qui si doveva descrivere solo lo sviluppo delle mie idee, e anche queste soprattutto in rapporto ai problemi del marxismo. Quanto finora è stato detto di Stalin serviva solo a creare sfondo e atmosfera per una giusta impostazione dei problemi. Se si pensa all’entusiasmo di una parte considerevole degli intellettuali nei primi anni della grande rivoluzione socialista, bisogna riconoscere che fra le sue cause fondamentali c’era la geniale, duplice opera di riforma al marxismo da parte di Lenin. Da un lato Lenin ha spazzato via pregiudizi, rigogliosi durante decenni, relativi ai classici del marxismo; e in questo lavoro di epurazione apparve quanto l’opera di Marx e di Engels fosse ricca di nozioni che fino ad allora non erano state messe in luce. D’altro lato egli rilevò al tempo stesso, con inesorabile senso della realtà, che nei nuovi problemi sollevati dalla vita non ci si può appoggiare a «infallibili» citazioni dai classici. Al tempo dell’introduzione della NEP così ebbe a dire con mordente ironia a un certo tipo di critici marxisti: «A Marx non è mai venuto in mente di scrivere neanche una parola sull’argomento; è morto senza lasciare nessuna esatta citazione o irrefutabile indicazione in proposito. Dunque bisogna cercare di cavarsela da soli».

Come qui ho già detto, nei primi anni dopo la morte di Lenin io nutrivo delle speranze in una edificazione leninista del marxismo. Ho anche descritto esaurientemente la successiva, crescente delusione. Come conclusione di queste considerazioni importa riassumere brevemente ciò che in questa situazione è essenziale dal punto di vista della teoria della scienza. Avvenne dunque che, man mano che il predominio spirituale di Stalin si rafforzò e si irrigidì in culto della personalità, la ricerca marxistica degenerò largamente in un’esposizione, applicazione e diffusione di «verità definitive». La risposta della vita e della scienza era, secondo l’insegnamento dominante, depositata nelle opere dei classici, soprattutto in quelle di Stalin. Da principio Marx ed Engels furono spinti sempre più energicamente in secondo piano da Lenin e poi Lenin da Stalin. Ricordo bene, per esempio, il caso di un filosofo che fu ripreso perché trattava le determinazioni della dialettica secondo i Quaderni filosofici di Lenin. Stalin, gli si fece presente, aveva enumerato nel quarto capitolo della Storia del partito meno distinzioni della dialettica e così aveva fissato definitivamente il loro numero e la loro natura. Perciò interessava soltanto trovare per ogni problema trattato la citazione da Stalin appropriata.

«Che cos’è una idea?» domandò una volta un compagno tedesco. «Un’idea è il collegamento fra due citazioni». Sarebbe veramente ingiusto negare il fatto che la porta per un ulteriore sviluppo del marxismo-leninismo non era stata serrata del tutto. Stalin possedeva il privilegio di arricchire il tesoro delle verità eterne con verità nuove e di mettere fuori circolazione una verità considerata fino ad allora come inconfutabile.

Che con tale sistema la vita scientifica soffrisse gravemente non occorre che venga dimostrato. Basti solo accennare che le scienze più importanti dal punto di vista teoretico per lo sviluppo del marxismo, l’economia politica e la filosofia, furono quasi completamente paralizzate. Lo sviluppo delle scienze naturali poteva essere ostacolato assai meno; sebbene anche qui vi siano stati conflitti o addirittura crisi il loro progresso pratico era una questione talmente vitale che non si poteva in alcun modo ostacolarlo, anzi, nel campo della mera applicazione, veniva perfino energicamente promosso. Per quelle discipline le pericolose conseguenze della sterile «citatologia», nei problemi di metodologia o nei concetti base, si manifestavano più marginalmente.

Io non ero affatto il solo che conducesse una lotta partigiana ininterrotta contro questo spirito di irrigidimento. Ma a partire dalla morte di Stalin e specialmente dal XX Congresso questo complesso di problemi entrò in uno stadio qualitativamente nuovo; finalmente tutti questi problemi furono discussi apertamente, l’opinione pubblica della scienza cominciò ad esprimersi più o meno chiaramente. Anche a questo proposito è impossibile, nel presente abbozzo di autobiografia intellettuale, anche solo accennare a quelle discussioni e alle tendenze che vi si manifestavano; devo perciò limitarmi a riassumere brevemente la mia propria opinione. Io credo che oggi il pericolo più grande per il marxismo sia rappresentato dalle tendenze alla sua revisione. Poiché per decenni tutto quanto Stalin affermava veniva identificato col marxismo e anzi veniva addirittura proclamato il coronamento di esso, gli ideologi borghesi si sono affannati a utilizzare l’erroneità, divenuta evidente, di alcune tesi di Stalin, di momenti essenziali della sua metodologia, allo scopo di promuovere la revisione anche dei risultati dei classici del marxismo, messi alla pari con Stalin. E poiché questa direzione di pensiero trascina con sé più di un comunista, intellettualmente disarmato per la sua educazione schematica e dogmatica, è il caso di parlare di un pericolo molto serio. Fintanto però che i dogmatici rimangono attaccati all’identità sostanziale di Stalin coi classici del marxismo, si troveranno altrettanto disarmati intellettualmente davanti a quelle correnti (con segno contrario) quanto i revisionisti in buona fede. Per la conservazione e il progresso del marxismo-leninismo deve trovarsi un «tertium datur» come uscita da questo vicolo cieco; si deve cioè estirpare il dogmatismo per combattere il revisionismo.

Lenin ha indicato per primo e chiaramente il punto archimedico d’appoggio della presa di posizione qui necessaria. Soltanto se saremo coscienti che il marxismo ci ha lasciato un metodo sicuro, uno straordinario numero di verità salde, una quantità di spunti quanto mai fecondi per il suo proprio sviluppo; che noi non possiamo fare alcun progresso reale sulla via della scienza senza un’assimilazione e un’applicazione approfondita di quei principi; che tuttavia l’elaborazione di scienze universali sulla base del marxismo è un compito da svolgere e non qualcosa di già raggiunto; se tutto questo verrà compreso chiaramente si avrà una ripresa della ricerca marxista. Engels prima della sua morte ha indicato questo futuro compito dei marxisti; Lenin ha ripetuto le sue esortazioni. Io credo che sia venuto il tempo di adempiere queste istanze. Quando diciamo: noi non abbiamo ancora una logica, un’estetica, un’etica, una psicologia marxiste, non diciamo nulla che debba scoraggiare. Al contrario parliamo con passione piena di speranza dei grandi, entusiasmanti doveri scientifici che possono fecondamente riempire la vita di intere generazioni.

Naturalmente è impossibile in questi brevi limiti parlare concretamente anche solo della prospettiva di queste imprese; non mi rimane spazio neanche per trattare dei miei propri lavori. Posso soltanto dire che la pratica coi classici del marxismo mi ha dato per la prima volta in vita mia la possibilità di compiere ciò verso cui sempre furono diretti i miei sforzi, cioè di cogliere esattamente, descrivere fedelmente ed esprimere secondo verità nei loro tratti storico-sistematici, i fenomeni della vita dello spirito quali essi realmente sono in sé. La lotta contro il dogmatismo fu, anche da questo punto di vista, un’autodifesa. Giacché le ideologie borghesi, sotto la cui influenza io cominciai la mia attività avevano certamente deformato questi fenomeni. Tuttavia il dogmatismo nella sua apodittica soggettivistica era contro ogni approfondimento nell’oggetto, contro ogni generalizzazione che dall’oggetto partisse. Chi tollerò simili paraocchi sulla sua fisionomia intellettuale, poté solo fornire paragrafi di dogmi bell’e fatti e perse ogni collegamento con la realtà. La mia lotta partigiana contro il dogmatismo non soltanto ha salvato il mio rapporto con la vita e coi suoi oggetti, ma l’ha anche promosso. Se io oggi posso lavorare a un’estetica e posso sognare il compimento di un’etica, lo devo a questa lotta.

Appunto perciò scrivo anche queste righe nello stato d’animo di un’attesa piena di tensione. So bene che la lotta per la nuova via è ben lungi dall’essere conclusa; anzi, abbiamo visto e vediamo tutt’oggi diverse ricadute nel dogmatismo, col corrispondente rafforzarsi del revisionismo. Io personalmente – e qui parlo soprattutto di me, del mio lavoro – sono convinto che il serio sforzo in direzione di una scienza marxistica universale può dare alla mia vita un contenuto indistruttibile. (Quale valore obbiettivo avrà il mio contributo a quest’opera giudicherà la storia. Io non sono autorizzato a pronunciare un giudizio su di esso). Esistono ancora oggi vari impedimenti su questa via. Il movimento operaio rivoluzionario dovette superare fin dal suo sorgere i più diversi smarrimenti ideologici; finora vi è sempre riuscito e io sono profondamente convinto che vi riuscirà anche in avvenire. Perciò mi sia consentito chiudere con il detto di Zola, un po’ modificato: «La vérité est lentement en marche et à la fin des fins rien ne l’arrêtera».

1 Questo Postscriptum è stato scritto per il «Symposium on Contemporary Thought» edito in Giappone col titolo Isvanami Gendai Schiso. Traduzione di Ugo Gimmelli.

Il profeta dell’anticapitalismo romantico

02 martedì Giu 2015

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di Michael Löwy

«Lettera Internazionale, n. 23, 1990.

György Lukács è stato probabilmente il primo autore ad impiegare il concetto di anticapitalismo romantico; questo termine comincia infatti ad apparire nei suoi scritti sin dagli anni’30. Sebbene non sia mai giunto a svilupparne una definizione sistematica, alcuni elementi di tale concetto sono impliciti nelle sue opere filosofiche e letterarie. Lukács concepiva il romanticismo non come una categoria puramente estetica o letteraria, ma come un fenomeno più ampio, che investiva, oltre all’arte e alla letteratura, la politica, la filosofia, la sociologia, l’economia politica e la religione. Non gli sfuggiva inoltre il rapporto tra romanticismo e capitalismo, la differenza tra la forma romantica e le altre forme di coscienza anticapitalistica: la critica romantica della civilizzazione borghese moderna è basata su valori sociali o culturali precapitalistici.

L’anticapitalismo romantico è stato una delle principali correnti di pensiero della modernità e una delle più influenti Weltanschauungen della cultura europea, sin dalla fine del 17° secolo. Al tempo della formazione di Lukács – i primi anni del 20° secolo – rappresentava ormai la visione dominante nella vita intellettuale della Germania e dell’Europa centrale.

Non c’è niente di più intrigante e contraddittorio dell’anticapitalismo romantico. La sua enigmatica ambiguità è magnificamente rappresentata dal personaggio di Leon Naphta nella Montagna incantata di Thomas Mann: gesuita e comunista, di origine ebraica, nemico giurato del filantropo liberale Settembrini, Naphta esalta la lotta dei Padri della Chiesa contro il capitalismo e si sente in sintonia con il movimento romantico, con la sua «ambiguità fantastica», capace di fondere insieme reazione e rivoluzione. Lukács è stato spesso indicato come il modello di questa creazione letteraria di Thomas Mann, un’ipotesi questa che contiene almeno una parte di verità.

Weber sottolinea in molti suoi scritti come il capitalismo e la società industriale siano caratterizzati dal disincanto del mondo (Entzauberung der Welt), cioè dalla sostituzione di sentimenti e valori con il calcolo razionale dei profitti e delle perdite. L’anticapitalismo romantico – con la sua tipica attrazione per la religione e il misticismo – è una forma di rivolta contro questa Entzauberung e un disperato tentativo di rigenerare il mondo attraverso la restaurazione dei valori qualitativi sradicati dalle macchine e dai libri contabili.

Il circolo di Max Weber ad Heidelberg è stato uno dei principali centri accademici neoromantici. L’attrazione dei suoi membri per la letteratura russa e per il pensiero religioso era espressione del loro distacco dallo spirito eccessivamente razionale del capitalismo occidentale. Due dei suoi membri, il giovane filosofo ebreo Ernst Bloch e György Lukács, portarono alle sue conseguenze più radicali ed escatologiche questo sentimento generale.

L’ambiguità dell’anticapitalismo romantico si manifestò nello sviluppo di due correnti contrapposte: una conservatrice e perfino reazionaria (e infine fascista), l’altra utopista e rivoluzionaria. Lukács e Bloch non furono gli unici esponenti di quest’ultima corrente. Ad essa appartennero anche molti scrittori espressionisti, la Scuola di Francoforte, i rivoluzionari bavaresi del 1919 (Landauer, Toller, Muhsam, Levine) e numerosi rivoluzionari della Budapest del 1919. In quell’anno, Thomas Mann viveva a Monaco, e rimase molto colpito dagli avvenimenti di quella rivoluzione. Il suo diario rivela un vivo interesse per gli scritti di Gustav Landauer, un’altra possibile fonte di ispirazione per il personaggio di Naphta1.

L’utopia dell’uomo muovo

L’anticapitalismo romantico è la chiave per comprendere i primi lavori di Lukács e il suo personale approccio al marxismo, agli antipodi del materialismo storico ortodosso della Seconda Internazionale. Nel suo periodo premarxista (fino al 1919), Lukács sognava un’utopia romatica in cui potessero fondersi Kultur, Gemeinschaft, religione e socialismo, come sostanze spirituali dotate di affinità elettiva, estranee al mondo superficiale, prosaico, entzaubert, della società borghese.

Il romanticismo fu il tema centrale delle sue prime riflessioni letterarie e filosofiche. Al 1907 risale il progetto di un grande libro, Die Romantik des neunzehnten Jahrhunderts. I capitoli principali avrebbero dovuto essere: 1 Goethe e Fichte, 2 La tragedia del romanticismo (Schelling, Schlegel, il misticismo), 3 Vecchio e nuovo romanticismo (il nuovo come reazione), 4 Germania e Francia (lo Sturm und Drang e il romanticismo francese), 5 I preraffaelliti (romanticismo artistico e socialismo), 6 Romanticismo à rebours (Schopenhauer, Baudelaire, Kierkegaard, Flaubert e Ibsen). I suoi taccuini di questo periodo contengono numerosi estratti da Novalis, Schelling, Schlegel e Schleiermacher. Ma, come dimostra il piano dell’opera, l’interesse di Lukács non era limitato alla letteratura tedesca: ad attirarlo era l’intero universo dell’anticapitalismo romantico. Una fonte di ispirazione sempre più importante divenne per lui la letteratura russa, nella sua dimensione politica e religiosa (Tolstoj e soprattutto Dostoevskij). In una intervista del 1974, Ernst Bloch ricordò l’«immensa influenza» esercitata all’inizio del secolo dalla cultura russa, dall’«universo spirituale di Tolstoj e Dostoevskij», in una parola dalla «Russia immaginaria», sugli intellettuali tedeschi, e in particolare sul suo amico Lukács. Per Lukács (come per Bloch) gli scrittori russi rappresentavano l’aspirazione a superare l’individualismo disperato e desolato dell’Europa occidentale e a procedere verso la creazione di un uomo nuovo in un mondo nuovo.

Se il saggio sulla Filosofia romantica della vita in L’anima e le forme (1910) criticava il romanticismo tedesco, ciò avveniva, paradossalmente, perché il suo rifiuto del mondo esistente non era abbastanza radicale. Il romanticismo aveva creato un mondo organico, unificato, poetico e spirituale e lo aveva identificato con quello reale. Per Lukács, un’autentica opera d’arte poteva essere realizzata soltanto attraverso la netta separazione delle sfere eterogenee, «la creazione di un mondo nuovo ed unitario definitivamente separato dalla realtà».

La teoria del romanzo (1916) è intrisa di nostalgia romantica per i tempi felici in cui «le vie erano illuminate dalla luce delle stelle», le età epiche caratterizzate dalla perfetta corrispondenza delle azioni con le esigenze interiori. L’immutabile archètipo era rappresentato dalla Grecia omerica, mentre il Medioevo cristiano – Giotto e Dante – si configurava come una nuova Grecia, l’ultima manifestazione dell’organic Gemeinschaft, della naturale unità delle sfere metafisiche. Tuttavia, diversamente dai romantici, Lukács non credeva possibile o desiderabile una restaurazione: «…in un mondo chiuso noi non potremmo respirare. Noi abbiamo scoperto la produttività dello spirito…». Il fallimento dei romantici conseguiva dall’impossibilità di «ritornare ai tempi dell’epos cavalleresco». Invece di aggrapparsi al passato, Lukács sognava un futuro utopico, un paradiso terrestre, una porta verso una nuova epoca della storia del mondo, il superamento della società borghese e della civilizzazione industrial-capitalistica, l’era della «perfetta innocenza» (Epoche der vollendeten Sündhaftigkeit), un nuovo mondo del quale Tolstoj era stato l’araldo e Dostoevskij, forse, il nuovo Omero o Dante. L’intenzione non era quella di resuscitare l’antica Grecia o il mondo chiuso medioevale, ma di creare una nuova comunità che avrebbe dovuto esprimersi artisticamente mediante una «forma rinnovata di epos»2. Al romanticismo nostalgico sembra sostituirsi qui, con una decisiva metamorfosi spirituale, un romanticismo utopistico, orientato verso il futuro, benché affascinato al tempo stesso dalla «Russia metafisica», il «sogno Russia» al quale si riferiva Bloch.

Una versione romantica del marxismo

Anche dopo la sua iscrizione al Partito comunista ungherese (dicembre 1918) – una decisione che può essere compresa soltanto a partire dal suo precedente anticapitalismo romantico e dalla sua partecipazione alla rivoluzione ungherese del 1919 – il pensiero di Lukács mantenne la sua dimensione romantica. Per un lungo periodo, essa si combinò con il marxismo in una fusione intellettuale estremamente originale e sottile, il cui prodotto più compiuto fu il saggio La vecchia e la nuova cultura (1919), pubblicato quando Lukács era commissario del popolo per l’Educazione nel Governo Rivoluzionario Ungherese. Questo lavoro contrappone la Kultur organica della Grecia e del Rinascimento (che sembra sostituire il precedente modello medioevale Giotto-Dante), quando la vita e la produzione erano dominate dal künstlerischer Geist, alla totale mercificazione dell’arte e della cultura nel capitalismo. Il rivoluzionamento della produzione operato dal capitalismo esige la fabbricazione delle cosiddette «novità» e quindi una trasformazione rapida della forma e della qualità dei prodotti, indipendentemente dal loro valore estetico o d’uso. Ciò comporta il dominio tirannico della moda. (Troviamo intuizioni simili in alcuni scritti di Walter Benjamin sulla moda e sulla falsa «novità» del prodotto.) Moda e cultura sono concetti che nella sostanza si escludono reciprocamente (dem Wesen nach sich ausschliessende Begriffe). Con la generale mercificazione della vita, la cultura autentica comincia a declinare. Il capitalismo distrugge la culturale (è kulturzerstörend). Lukács concepisce la rivoluzione socialista come una restaurazione culturale. Una cultura organica «diviene di nuovo possibile». In modo tipicamente romantico/rivoluzionario, il socialismo è concepito come ripristino della continuità interrotta dal capitalismo: il futuro utopico (la nuova cultura) getterà un ponte verso il passato precapitalistico (la vecchia cultura), sul vuoto dell’attuale capitalismo (la non cultura).

Pochi anni dopo, in Storia e coscienza di classe (1923), Lukács sembra voler prendere le distanze dall’anticapitalismo romantico. Dopo Rousseau, il concetto di «crescita organica» viene assumendo, «nella battaglia contro la reificazione, un significato sempre più reazionario, dal romanticismo tedesco alle scuole storiche di diritto, Carlyle, Ruskin, etc.». Ma, allo stesso tempo, si riconosce che, ben prima di Marx, autori come Carlyle avevano compreso e descritto l’essenza antiumana (windermenschliches) del capitalismo, la sua natura distruttrice e oppressiva di tutto ciò che è umano. Una nostalgia tipicamente romantica affiora a volte in alcuni passaggi, per esempio nel paragone tra la soggezione di ogni forma di vita alla meccanizzazione e al calcolo razionale nel capitalismo e «il processo organico vitale di una Gemeinschaft» come nel villaggio tradizionale. Il tema centrale del libro, l’analisi critica della reificazione (Verdinglichung), in tutte le sue forme – economica, giuridico-burocratica, culturale – è largamente ispirato dalla sociologia neoromantica tedesca: Tönnies, Simmel, Weber.

Senza dubbio, i motivi sociologici vengono qui riformulati da Lukács nei termini di una critica marxista della reificazione capitalista. Ma a volte egli procede, in quest’opera, nel senso opposto. Partendo da alcuni passaggi del Capitale, sviluppa una critica particolarmente acuta della meccanizzazione del lavoro e della quantificazione del tempo, critica che possiede innegabili affinità con il romanticismo. Secondo alcuni critici neo-kantiani di Lukács, per Colletti ad esempio, questo genere di analisi dimostra che il filosofo ungherese sostituì il romanticismo bergsoniano al marxismo. Ma si potrebbe anche supporre che Lukács abbia potuto scrivere questo libro soltanto grazie a un elemento di anticapitalismo romantico presente nello stesso Marx. Come sottolineò giustamente Paul Breines, il giovane Lukács tentò di «restituire al marxismo la sua dimensione romantica perduta»3.

Gli scritti letterari di Lukács degli anni 1922-23 contengono dei riferimenti molto significativi a scrittori anticapitalisti romantici, in particolare a Dostoevskij, che ai suoi occhi rappresentava l’esempio più radicale di rigetto utopico della civiltà borghese occidentale. In un articolo del 1922, pubblicato nella Rote Fahne (il quotidiano del Partito Comunista tedesco), La confessione di Stavrogin, Lukács esalta la capacità di Dostoevskij di descrivere un mondo utopico, in cui «tutto ciò che di meccanico e inumano, privo di anima (seelenlos) e reificato, possiede la società capitalistica, è abolito». Un articolo del 1923 sembra echeggiare l’ultimo capitolo della Teoria del romanzo. Dostoevskij è visto come il precursore dell’essere umano futuro, «già socialmente ed economicamente liberato», in grado di vivere pienamente la propria vita interiore.

La svolta

Verso la fine degli anni ’20, Lukács divenne apertamente ostile al romanticismo, e questo mutamento fu accompagnato, negli anni immediatamente successivi, da contraddizioni e improvvisi ripensamenti4.

Probabilmente, la posizione di Lukács deve essere messa in rapporto con l’inizio, pressoché simultaneo, della sua «riconciliazione forzata» con lo stalinismo. Era il periodo del piano quinquennale di Stalin (1928-33), che innalzava l’industrializzazione ad alpha ed omega della «costruzione del socialismo» e non concedeva, naturalmente, nessuno spazio alla nostalgia romantica. Arthur Koestler rievoca nella sua autobiografia i suoi pensieri di militante comunista nel 1930: «Quando ho detto che mi ero innamorato del piano quinquennale, non si trattava di una esagerazione … La teoria marxista e la pratica sovietica rappresentavano il definitivo e ammirevole compimento dell’ideale di progresso del XIX secolo, a cui dovevo fedeltà. La forza più potente della terra avrebbe senza dubbio apportato la massima felicità al massimo numero di persone».

Ma la relazione tra il dogma stalinista e l’atteggiamento di Lukács verso il romanticismo è più complessa. In anni successivi, infatti, egli tornerà a guardare con simpatia agli scrittori dell’anticapitalismo romantico. Il mutamento delle sue posizioni culturali potrebbe essere messe in relazione anche con il sorgere del nazismo, che appariva a lui (come a molti altri) il risultato logico della reazione romantica, operante nella cultura tedesca, ma anche questa versione è tutt’altro che ovvia e non può spiegare le interpretazioni sorprendentemente divergenti di Dostoevskij che egli diede nel 1931, nel 1943 e nel 1957. Per decenni, in realtà, Lukács sembra essere stato combattuto tra l’Aufklärung e l’anticapitalismo romantico. L’ideologia democratico-liberale e razionale del Progresso (che egli tentò di riconciliare con la dura realtà totalitaria dello Stato sovietico), era quella prevalente, ma la vena dell’anticapitalismo romantico riemergeva a tratti inaspettatamente.

Il termine «anticapitalismo romantico» apparve per la prima volta in un articolo del 1931 su Dostoevskij, in cui Lukács gettava repentinamente nella pattumiera il grande scrittore russo che aveva ispirato i suoi ideali giovanili romantico-rivoluzionari. Secondo questo saggio, che fu pubblicato a Mosca, l’influenza di Dostoevskij discendeva dalla sua capacità di trasformare i problemi dell’opposizione romantica al capitalismo in problemi «interiori», «spirituali», permettendo così agli intellettuali piccolo-borghesi di «approfondire» la propria Weltanschauung in una rivoluzione religiosa da salotto (religiöselnde Salon-Revoluzzerei). Un giudizio, questo di Lukács, che avrebbe potuto essere esteso presumibilmente ai suoi stessi scritti, come a quelli di Bloch, almeno fino al 1931.

I primi lavori di Lukács avevano costantemente collegato Tolstoj e Dostoevskij, pur sottolineando sempre la superiorità di quest’ultimo. Nel 1931, Lukács passa invece a contrapporre Tolstoj, come rappresentante della «tradizione classica della classe borghese rivoluzionaria in ascesa» – una definizione alquanto singolare per uno scrittore che disprezzava tanto i lussi cittadini ed ammirava la povera gente di campagna – a Dostoevskij, i cui scritti vengono intesi come l’espressione delle tendenze romantiche e reazionarie latenti della piccola borghesia. Nella peggiore delle ipotesi Dostoevskij è presentato come «lo scrittore dei Cento Neri e dell’imperialismo zarista», e nella migliore come l’autore di una «frazione dell’opposizione intellettuale anticapitalistica romantica piccolo borghese», un gruppo sociale oscillante tra destra e sinistra, ma per il quale «un largo viale conduce alla destra, alla reazione (oggi al fascismo), e solo uno stretto e disagevole sentiero alia sinistra, alla rivoluzione». La conclusione di questo avvincente brano di delirio dogmatico è che, con l’inevitabile declino della piccola borghesia, «la gloria (Ruhm) di Dostoevskij svanisce ingloriosamente (Ruhmlos)»5.

Un’autocritica spietata

Quest’articolo dà inizio a un modello di analisi riscontrabile nella maggior parte degli approcci successivi di Lukács all’anticapitalismo romantico: da una parte, la constatazione del carattere contraddittorio dei fenomeno e dall’altra una tendenza (a volte completamente unilaterale) a considerare dominante in esso l’inclinazione reazionaria e perfino fascista. Non stupisce che questo saggio abbia fatto andare su tutte le furie il suo amico romantico/rivoluzionario Ernst Bloch e contribuito a raffreddare i loro rapporti6.

La natura di questo articolo non mi consente di analizzare tutte le mutevoli prese di posizione di Lukács nei riguardi dell’anticapitalismo romantico un itinerario bizzarro, tortuoso e sconcertante. Mi limiterò ad alcuni degli esempi più significativi.

In un articolo pubblicato pochi mesi dopo il saggio su Dostoevskij, Lukács torna nuovamente sul tema del nesso immediato tra il fascismo tedesco e «l’arsenale teorico dell’anticapitalismo romantico», pur operando una distinzione tra «l’onestà soggettiva ancora presente in Sismondi e nel giovane Carlyle» e le manipolazioni della propaganda fascista.

Lukács non poteva fingere di ignorare che le radici del suo stesso approccio al marxismo e alla rivoluzione si trovavano nella cultura dell’anticapitalismo romantico. Ma ciò, invece di indurlo ad approfondire la sua analisi, lo portò invece, in un manoscritto del 1933 sulle origini culturali del fascismo, a inasprire la propria autocritica. Secondo questo scritto, Storia e coscienza di classe è un libro pericoloso che contiene «le più gravi concessioni al punto di vista idealistico borghese del mondo». Dopo aver sottolineato la continuità tra l’idealismo tedesco e il fascismo, aggiunge: «Come seguace di Simmel e Dilthey, come amico di Max Weber e Emil Lask, come lettore entusiasta di Stefan George e di Rilke, ho vissuto anch’io l’evoluzione qui descritta … Ho visto molti amici della mia giovinezza, sinceri e convinti anticapitalisti romantici, finire travolti dalla tempesta del fascismo». Il legame decisivo tra la visione anticapitalistica romantica e il suo particolare approccio alla causa rivoluzionaria – un percorso condiviso da molti altri intellettuali tedeschi, in particolare da quelli ebrei con un retroterra romantico – non viene qui neppure preso in considerazione.

Questo manoscritto del 1933, una sorta di primo abbozzo per la Distruzione della Ragione, tenta un’analisi più generale e sistematica del risveglio dell’anticapitalismo romantico alla fine del XIX secolo. In esso Lukács, pur classificando tutti i critici in chiave anticapitalistico-romantica della società borghese come «rivoluzionari romantici» (o perfino come precursori del fascismo), opera tuttavia un’importante distinzione all’interno del neo-romanticismo. Il periodo precedente al 1914, visto attraverso gli scritti di Nietzsche, Tönnies, Simmel, Weber, Huch e la Lebenphilosophie, si ispirava al Frühromantik ed era ancora sufficientemente ambiguo da consentire un’interpretazione di «sinistra». Il periodo del dopoguerra, visto attraverso gli scritti di Heidegger, Jünger, Spengler, Freier, Bäumler e Rosenberg, si richiamava invece direttamente allo Spätromantik ed era apertamente reazionario, se non fascista. La transizione dal primo al secondo periodo fu caratterizzata da una tendenza sempre più spiccata verso l’irrazionalità e il mito. Si tratta di un’ipotesi interessante, che non tiene conto tuttavia dell’evoluzione di pensatori di sinistra come Marcuse, Benjamin, Fromm, Löwenthal e molti altri, che ebbe innegabili legami con la cultura neo-romantica.

La polemica contro l’espressionismo

Lukács fu particolarmente interessato all’opera di Nietzsche. In un articolo del 1934, intitolato Nietzsche precursore dell’estetica fascista, l’autore di Così parlò Zarathustra è presentato come un seguace della tradizione anticapitalistica romantica. Come tutti gli scrittori di questa corrente, «egli compie un continuo raffronto tra la mancanza di cultura del presente (Kulturlosigkeit) e la cultura superiore dell’epoca precapitalista o del primo capitalismo. Come tutti i critici romantici della degradazione dell’uomo prodotta dal capitalismo, Nietzsche combatte il feticismo della moderna civilizzazione, opponendogli la cultura di stadi economici e sociali più arretrati». Lukács appare inconsapevole del fatto che una tale forma di critica culturale, che in effetti gioca un ruolo regressivo in Nietzsche, poteva, in un altro contesto, assumere un carattere rivoluzionario, come ad esempio nel suo articolo del 1919, La vecchia e la nuova cultura. La sua unica concessione fu quella di riconoscere a Nietzsche intenzioni sincere, fuorviate dalla manipolazione nazista delle sue idee: «Il fascismo deve abolire tutto quanto vi è di progressivo nell’eredità borghese; nel caso di Nietzsche deve falsificare o negare ogni espressione di una critica romantica soggettivamente sincera della cultura capitalistica»7.

Lukács valuta in modo non dissimile l’espressionismo nel famoso saggio Grandezza e decadenza dell’espressionismo (1934), in cui questo movimento artistico è messo in relazione con l’anticapitalismo romantico e vengono delineate interessanti analogie con la Filosofia del denaro di Simmel. Ignorandone completamente la dimensione rivoluzionaria, Lukács definisce qui l’espressionismo come «una delle tante tendenze ideologiche borghesi che sarebbero in seguito approdate al fascismo; il cui ruolo ideologico nello spianargli il cammino fu pari a quello delle altre tendenze dell’epoca». Tre anni dopo la pubblicazione di questo saggio, i nazisti organizzarono l’infame mostra sull’«Arte degenerata», in cui furono esposti lavori di quasi tutti i più noti pittori espressionisti. In una postilla aggiunta nel 1953 all’articolo sopra citato, Lukács si mostra imperturbabile. «Il fatto che i nazionalsocialisti abbiano rifiutato in un secondo momento l’espressionismo in quanto forma d’arte degenerata non inficia in nessun modo la verità storica dell’analisi qui esposta»8.

Questa presa di posizione lo portò ad un altro scontro polemico con l’amico di un tempo ed alter ego, Ernst Bloch. Nel 1953 Lukács scrisse una recensione critica di Eredità nel nostro tempo, in cui si sosteneva che fino a quando Bloch avesse continuato a richiamarsi acriticamente all’anticapitalismo romantico, la sua concezione del marxismo sarebbe rimasta sostanzialmente errata. Bloch viene quindi inaspettatamente (ma acutamente) paragonato al «socialdemocratico Herbert Marcuse», che «esaltava l’autentica» Lebenphilosophie di Dilthey e Nietzsche in opposizione a quella falsa dei fascisti9. Nel 1938, nel corso della sua polemica con Bloch, in Es geth um den Realismus, (così come in altri scritti contemporanei) Lukács torna nuovamente sulla distinzione tra le «intenzioni soggettive» sincere di alcuni artisti espressionisti, e il contenuto «oggettivo» (reazionario) della loro opera. Come esempio di questa contraddizione, egli cita… i suoi primi lavori. Malgrado le sue buone intenzioni la Teoria del romanzo era «un’opera del tutto reazionaria», intrisa di misticismo idealista. Persino Storia e coscienza di classe viene definita retrospettivamente «reazionaria in ragione del suo idealismo». Es geht um den Realismus sviluppa quella che è forse la premessa storico-filosofica fondamentale dell’approccio unilaterale di Lukács all’anticapitalismo romantico. In essa si parla infatti del pericolo di un «avvelenamento demagogico» della cultura popolare in conseguenza della decomposizione delle forme antecedenti di vita popolare prodotta dal capitalismo, un processo definito tuttavia «in sé economicamente progressivo». Questa fede nella natura intrinsecamente progressiva e benefica dello sviluppo capitalistico e del razionalismo industriale gli consentì di cogliere la dimensione sovversiva e potenzialmente rivoluzionaria di una critica nostalgicamente rivolta alle forme di vita sociale e ai valori culturali del passato.

Un itinerario tortuoso

Dopo l’articolo del 1931 su Dostoevskij, Lukács appare rinchiuso in uno schema analitico dogmatico che sottolinea quasi esclusivamente gli elementi reazionari e le tendenze pre-fasciste (certamente presenti) della cultura anticapitalista romantica. Ciò nonostante troviamo, in alcuni saggi scritti a Mosca tra il 1939 e il 1941, una valutazione sorprendentemente favorevole di Balzac e Carlyle. Ribattendo a quei critici letterari sovietici che «esaltavano» la tradizione borghese «progressiva» contro le idee «reazionarie» di Balzac, Lukács respinge quella che giudicava una mistificazione liberal-borghese, «la mitologia di uno scontro tra Ragione e Reazione o, in un’altra variante, il mito della lotta tra l’angelo illuminato del progresso borghese … e il demonio nero del feudalesimo». Secondo lui, le intuizioni di Balzac e Carlyle riguardo alla natura del capitalismo – in particolare sulla sua tendenza alla distruzione della natura – non potevano essere espunte meccanicamente dall’insieme della loro visione generale (in cui era compresa la loro ideologia conservatrice), secondo il buon vecchio metodo proudhoniano di separare il lato «buono» delle realtà economiche e sociali da quello «cattivo». Nelle opere di questi scrittori la critica perspicace del capitalismo è intimamente connessa alla loro idealizzazione del Medioevo. Balzac è penetrante grazie al suo anticapitalismo romantico e non suo malgrado10.

Un articolo del 1943 su Dostoevskij è ancora più interessante. In esso Lukács non solo riesamina completamente la sua precedente posizione eccessivamente negativa, ma dimostra anche una sorprendente consapevolezza delle potenzialità rivoluzionarie insite nell’anticapitalismo romantico (sebbene l’espressione non compaia mai nel saggio). Secondo Lukács, i libri di Dostoevskij esprimono una «ribellione contro le deformità morali e spirituali dell’essere umano prodotte dallo sviluppo capitalistico» e una «vibrante protesta contro tutto ciò che è falso e distorto nella società borghese moderna». Contro questo mondo disumano, Dostoevskij sognava di una trascorsa età dell’oro, simboleggiata dalla Grecia arcaica così come è raffigurata dal pittore Claude Lorrain in Acis e Galatea. La rivolta spontanea e selvaggia dei personaggi di Dostoevskij ha sempre un rapporto inconscio con quest’età dell’oro: «Questa rivolta è la grandezza progressiva poetica e storica di Dostoevskij; essa accese un bagliore nell’oscurità della miseria di Pietroburgo, un bagliore che illuminò le strade verso l’avvenire sull’umanità».

Insomma, l’età dell’oro del passato getta la sua luce sulle vie che conducono al futuro utopico: sarebbe difficile immaginare una formula più pregnante per definire quella Weltanschauung romantica e rivoluzionaria che Lukács sembra di nuovo far sua nel 1943. Nella prefazione nel febbraio del 1946 ai suoi saggi sugli scrittori realisti russi, Dostoevskij viene accolto come autore progressivo, capovolgendo così il giudizio espresso negli anni ’30. Nel riconoscere gli elementi reazionari e mistici delle intenzioni soggettive (Subjektiven Meinungen) di Tolstoj e Dostoevskij, Lukács insiste ad assegnare la priorità al significato sociale e storico obiettivo di questi autori. «Il fattore determinante è il legame umano ed artistico dello scrittore con un movimento popolare vasto e progressivo … le radici di Tolstoj si trovano tra la gente di campagna, quelle di Dostoevskij tra gli strati sofferenti della plebe delle città, quelle di Gor’kij tra il proletariato e i contadini poveri. Ma tutti e tre nel più profondo della loro anima sono radicati in questo movimento, che cerca e combatte per la liberazione del popolo. Altro che “i Cento Neri …”!»

Ma durante i primi anni del secondo dopoguerra, il precedente atteggiamento antiromantico di Lukács ebbe di nuovo il sopravvento, come si desume da un confronto tra le sue diverse interpretazioni del personaggio di Naphta nella Montagna incantata. Nel 1942, pur etichettando l’ideologia di Naphta come «demagogia reazionaria» Lukács ammette tuttavia che Thomas Mann se ne era servito per mettere in evidenza «il carattere seducente (spirituale e morale) dell’anticapitalismo romantico» e «la correttezza di alcuni elementi della sua critica dell’attuale vita quotidiana». Ciò nonostante, pochi anni più tardi «il gesuita Naphta» è definito semplicemente come «il portavoce della Welthanschauungen reazionaria, fascista e antidemocratica». La sua analisi assomiglia molto ad una versione raffinata di quello scontro mitico tra «l’angelo di luce del progresso borghese e il nero diavolo del feudalesimo», a cui aveva accennato ironicamente nel 1941. Il tema centrale della Montagna incantata è «lo scontro ideologico tra la vita e la morte, la salute e la malattia, la reazione e la democrazia», il duello intellettuale tra «l’umanista democratico italiano Settembrini e l’allievo ebreo dei gesuiti Naphta, portavoce di un’ideologia cattolicizzante e prefascista». Sembra evidente che una semplificazione così unilaterale e grossolana non afferra l’ambivalenza affascinante del personaggio di Naphta, e riduce il suo anticapitalismo romantico, la sua complessa e paradossale ideologia religiosa-rivoluzionaria, alla sola dimensione conservatrice e oscurantista.

La distruzione della ragione.

Molti scritti di Lukács risentono di questo giudizio arido e limitato della cultura romantica. Il caso più noto è quello della Distruzione della Ragione (1955), in cui l’intera storia del pensiero tedesco, da Schelling a Tönnies, da Dilthey a Simmel e da Nietzsche a Weber viene dipinta come un assalto in grande stile della reazione contro la ragione e tutte le correnti del romanticismo, «dalla scuola storica del diritto a Carlyle», vengono accusate di aver favorito «una totale irrazionalizzazione della storia» e quindi, in ultima analisi, il trionfo dell’ideologia fascista.

I critici giudicano generalmente questo libro un pamphlet stalinista. Ciò non è del tutto esatto, dato che il suo leitmotiv non è, come per Zdanov e i suoi seguaci, la contrapposizione tra scienza (o filosofia) «proletaria» e scienza «borghese», ma piuttosto quella tra Ragione e Irrazionalità. Il suo limite più grave è di ignorare quella che la Scuola di Francoforte definisce «la dialettica dell’illuminismo», la trasformazione della ragione in uno strumento al servizio del mito, dell’oppressione e dell’alienazione. Paradossalmente, in quest’opera il concetto di anticapitalismo romantico è quasi del tutto assente. I romantici e i loro seguaci vi vengono trattati semplicemente da reazionari e da irrazionalisti. Uno dei pochi autori esplicitamente citati nel libro come anticapitalisti romantici è Ferdinand Tönnies, che è presentato in una luce piuttosto favorevole: «Scopriamo in Tönnies, rispetto all’anticapitalismo romantico precedente, una differenza: non vi è in lui la nostalgia di un ritorno a situazioni sociali sorpassate, in particolare al feudalesimo. La sua posizione costituisce piuttosto la base di una critica culturale che sottolinea nettamente i tratti negativi e problematici della cultura capitalistica, insistendo al tempo stesso sul carattere inevitabile e fatale del capitalismo». Tuttavia, l’opposizione tra Gesellschaft e Gemeinschaft, il tema centrale dei lavori sociologici di Tönnies, non rappresenta per Lukács altro che una deformazione «anticapitalista-romantica, soggettiva e irrazionalista» della realtà dello sviluppo capitalista già osservato da Marx11.

Lungo tutta l’evoluzione spirituale di Lukács, il rapporto con Dostoevskij appare sintomatico del suo atteggiamento generale verso l’anticapitalismo romantico. Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, la tendenza predominante fu l’anatema, di cui si può cogliere ancora un’eco nel Significato del realismo contemporaneo (1957), probabilmente uno dei peggiori saggi che Lukács abbia mai prodotto. In un primo momento egli sembra voler riconoscere lo sforzo critico dello scrittore russo. «Ciò che fa soffrire l’eroe di Dostoevskij è la disumanità tipica degli esordi del capitalismo, che marchia di sé tutti i rapporti umani». Ma il punto essenziale è un altro. «La protesta di Dostoevskij contro la disumanità del capitalismo si trasforma rapidamente in una critica del socialismo e della democrazia, fondata su una sofistica confusionista e su un anticapitalismo di tipo romantico». Il processo iniziato da Dostoevskij sarebbe stato sistematizzato da Nietzsche e avrebbe infine condotto al fascismo. Questo rifiuto del progresso e della democrazia si sviluppò progressivamente fino a sfociare nella demagogia sociale dell’hitlerismo». Un simile ragionamento astratto, che stabilisce una sorta di continuità ideologica irreversibile e ineluttabile da Dostoevskij a Hitler, è quanto meno assurdo e contrasta con l’influenza determinante esercitata dallo scrittore russo su tanti intellettuali rivoluzionari – a cominciare dallo stesso Lukács.

Gli ultimi anni

Gli anni che seguirono segnarono una sorta di pausa. Nelle sue grandi opere degli anni’60 – l’Estetica e l’Ontologia – il problema dell’anticapitalismo romantico è per lo più dimenticato e i riferimenti alla cultura romantica sono relativamente neutrali. Negli ultimi anni della sua vita, Lukács tornò infine ad avvicinarsi in modo più equilibrato ed aperto all’anticapitalismo romantico, quasi sempre in occasione delle riedizioni di suoi scritti giovanili. Ad esempio, nella prefazione alla ristampa del 1967 di Storia e coscienza di classe, riconobbe di dovere «qualcosa di positivo» a quell’«idealismo etico, con tutti i suoi tratti anticapitalisti romantici» e che questi elementi «con molteplici e profonde modificazioni» si erano integrati nella sua nuova visione del mondo (marxista)12. In un’intervista concessa nel 1966 a Wolfgang Abendroth, dichiarava: «Oggi non rimpiango di aver appreso le prime nozioni di scienza sociale da Simmel e Max Weber, piuttosto che da Kautsky. Ritengo che non si possa negare l’utilità di questa circostanza ai fini della mia evoluzione»13.

Ancora una volta, l’atteggiamento di Lukács verso Dostoevskij è l’indice del suo atteggiamento generale nei riguardi dell’anticapitalismo romantico. Nella prefazione del 1969 alla raccolta ungherese dei suoi saggi (Útam Marxhoz o La mia strada verso Marx), Lukács riferisce come la sua iniziale «ribellione anticapitalista romantica, rivolta contro le basi stesse del sistema costituito», fosse ampiamente ispirata da «un’interpretazione rivoluzionaria di Dostoevskij». Ancora più esplicitamente, nella prefazione del 1969 alla raccolta Letteratura ungherese, Cultura ungherese, egli rammenta che prima del 1917: «… ponevo i grandi autori russi, primi fra tutti Dostoevskij e Tolstoj, tra i fattori rivoluzionari decisivi … Fu in questo momento della mia evoluzione che l’anarco-sindacalismo francese mi influenzò in modo considerevole. Non sono mai riuscito a far mia l’ideologia social-democratica di questo periodo, e in particolar modo quella di Kautsky».

Da queste note autobiografiche risulta chiaramente l’ispirazione che Lukács trasse dalle varie forme di anticapitalismo romantico – dalla sociologia tedesca alla letteratura russa – durante i suoi anni di Bildung spirituale e politica. Furono esse ad ispirargli la lotta contro l’ideologia dominante liberal-razionalista (o positivista-utilitarista), inclusa la sua versione socialdemocratica, e lo condussero a sostenere i movimenti che si opponevano all’ordine borghese, dapprima gli anarco-sindacalisti e poi il bolscevismo. Ciò nonostante, dai tardi anni ’20, fino alla fine degli anni ’60, escluso un breve periodo nel corso della seconda guerra mondiale, Lukács soffrì di una strana cecità ideologica e sembrò percepire solo l’aspetto reazionario, irrazionalista, prefascista dell’anticapitalismo romantico.

Come possono essere spiegati questi stupefacenti cambiamenti? Corrispondevano a un movimento interno all’evoluzione filosofica di Lukács? Erano il riflesso di determinate circostanze storiche: l’ascesa del fascismo, l’uso di riferimenti romantici nei discorsi nazisti? O riflettevano le tante svolte a cui andò incontro la linea politica del Comintern e dell’Unione Sovietica? Non sono in grado di rispondere a queste domande. In ogni caso, questo percorso tormentato e contraddittorio dimostra che Lukács oscillava, come Hans Castorp, l’eroe del suo romanzo preferito, tra due poli: un «Settembrini marxista» e un «Naphta rivoluzionario». Egli non riuscì mai a superare le antinomie tra le sue stesse Weltanschauungen in una sintesi dialettica, l’Aufhebung della contraddizione tra romanticismo e illuminismo.

Bibliografia

T. Perlini, Utopia e prospettiva in Lukács, Bari, De Donato 1968.
G. Bedeschi, Introduzione a Lukács, Bari, Laterza, 1970.
N.M. De Feo, Weber e Lukács, Bari, Laterza, 1971.
G. Vacca, Lukács o Korsch?, Bari, Laterza, 1969.
R. Caccamo-De Luca, L’intellettuale come “utopia”: il caso Lukács -Mannheim, Roma, Elia, 1977
Y. Bordet, Lukács, il gesuita della rivoluzione, Milano, Sugar, 1979.
E. Matassi, Il giovane Lukács, Napoli, Guida, 1979.
F. Fehér-À.Heller-G.Markus-A.Radnóti, La scuola di Budapest: sul giovane Lukács, Firenze, La Nuova Italia, 1978.
R. Valle, Dostoevskij politico e i suoi interpreti, Roma, Archivio Guido Izzi, 1990.

Note

1 T. Mann, Journal 1918-1921, 1933-34 (Paris, Gallimard, 1985), 88, 89, 106, 108, 121: «nel libro di Landauer ci sono molte cose che mi sono piaciute … Sto studiando la possibilità di introdurre degli elementi russo-chiliastico-comunisti nella Montagna incantata».

2 G. Lukács, Teoria del romanzo (Sugar, Milano, 1962) pp. 55, 61, 217.1 presupposti religioso-rivoluzionari di questo libro si trovano nella contemporanea Dostoevskij-Notizen (scoperta e trascritta da F. Fehér), in cui la letteratura russa, il messianesimo ebraico, il misticismo, Kierkegaard, Nietzsche e Sorel sono fusi in una filosofia deila storia romantica e apocalittica. L’alternativa al moderno stato europeo, che non è altro che «die organisierte Tuberkolose», è una forma utopica della Gemeinde russa.

3 G. Lukács, Geschichte und Klassenbewusstein (Storia e coscienza di classe, Milano, Sugar, 1967, p. 119). Vedi anche L. Colletti, Il Marxismo e Hegel (Bari, Laterza, 1973).

4 Il primo scritto in cui questa nuova posizione fa la sua comparsa è una recensione del 1928 del libro di Carl Schmitt sul romanticismo politico. Lukács appoggia senza alcuna riserva la tesi di Schmitt – a mio avviso molto superficiale – riguardo all’«occasionalismo e alla mancanza di contenuto politico del pensiero romantico». Seguendo Schmitt, Lukács insiste sull’«incoerenza» dei romantici, sul loro soggettivismo antiscientifico, sul loro esasperato estetismo, ecc.

5 Lukács paragona il percorso di Dostoevskij, dalla cospirazione rivoluzionaria alla religione ortodossa e allo zarismo, all’evoluzione di Friedrich Schlegel, il repubblicano romantico che si unì infine a Metternich e alla Chiesa cattolica.

6 Cfr. Ernst Bloch, «Intervista con Ernst Bloch»: «Mio caro amico, gli ho detto, mio mentore per quanto concerne Dostoevskij e Kierkegaard … Che ti è accaduto per scrivere una cosa simile su Dostoevskij?»

7 In Friedrich Nietzsche, di F. Mehring e G. Lukács (Berlino, Aufbau Verlag, 1957).

8 G. Lukács «Grosse und Verfall des Expressionismus», Essays über Realismus (Saggi sul realismo, Torino, Einaudi, 1970).

9 Il riferimento è al saggio di Marcuse («Der Kampfgegen den Liberalismus in der totalitären Staatsauffassung»). La recensione di Lukács rimase inedita a lungo. Ne esiste una traduzione italiana in G. Lukács, Intellettuali e irrazionalismo, a cura di V. Franco (Pisa, Ets, 1984).

10 G. Lukács, Ecrits de Moscou (Parigi, Editions Sociales, 1974).

11 G. Lukács, Die Zerstörung der Vernunft (La Distruzione della ragione, Torino, Einaudi 1959, p. 129, 600-7).

12 G. Lukács, «Prefazione alla nuova edizione (1967)», in Storia e coscienza di classe, cit., р. IX.

13 Conversazioni con Lukács, di W. Abendroth, Hans Heinz Holz, Leo Kofler (Bari, De Donato, 1968, p. 122).

Tra Marx e Dostoevskij

01 lunedì Giu 2015

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di Vittorio Strada

«Lettera internazionale», n. 23, 1990

Nella storia del comunismo, intenden­do con questo termine non un insie­me di idee semplicemente ma quella realtà prima russa e poi mondiale la cui data d’inizio può essere indicata nel 1917, non c’è una figura intellettuale che s’imponga con la forza d’autenticità di quella di György Lukács. Non parlo di autenticità nel senso di un comunismo marxista ortodosso o vero rispetto ad altri ereticali o spuri, classificazione che, per quanto non estranea allo stesso Lukács co­me a tutti gli altri comunisti e marxisti ante­riori all’attuale crisi del loro movimento, non può avere alcun significato per chi si trova su posizioni di libertà mentale e di indipendenza politica. L’autenticità del comunismo di Lukács è quella di una scelta e di una coerenza esistenziale che rendono la sua figura di estre­mo interesse anche per chi non accetta i con­tenuti e i metodi del suo lavoro culturale e po­litico, ma riconosce la sua non comune statu­ra intellettuale nel panorama della filosofia eu­ropea del Novecento.

Potrà suonare sconcertante, ma nella gran­de vicenda storica comunista alla figura di Lukács, per intensità di esperienza totale, non riesco a metterne accanto nessun’altra se non quella di Vladimir Majakovskij. Paradossale accostamento: che cosa ci può essere di comu­ne tra il filosofo marxista che attraversò tutte le tappe del comunismo fino alla sua crisi post-staliniana e il poeta futurista che visse solo la prima fase comunista, suicidandosi proprio quando cominciava quella staliniana? Che co­sa ci può essere di più antitetico tra il teorico di un’arte «realista» nelle sue varianti del «rea­lismo critico» e del «realismo socialista» e il più clamoroso rappresentante dell’«antirealismo» dell’avanguardia? Il confronto non può essere spinto oltre un certo limite, naturalmen­te, ma ciò che permette di accostare figure che sembrano, e in parte realmente sono, incom­patibili tra loro è appunto l’autenticità esisten­ziale profonda del loro comunismo, da en­trambi, d’altronde, così diversamente vissu­to. Ed è anche un’osservazione assai acuta di Boris Pasternak, secondo cui Majakovskij sembrava uscito da una pagina dei romanzi di Dostoevskij. Ma lo stesso si può dire an­che di Lukács, anzi a maggior ragione, per­ché lui, Lukács, in un periodo decisivo della sua vita proprio Dostoevskij o, meglio, i suoi romanzi aveva eletto a guida etico-intellettuale, dedicando al grande scrittore rus­so una ricerca della quale conosciamo la par­te introduttiva, la Teoria del romanzo, e gli appunti, solo di recente resi noti. E in comu­ne tra il poeta futurista e il filosofo marxista-leninista c’era la Russia. Che Majakovskij fos­se russo è ovviamente chiaro, ma «russo» lo fu anche Lukács, se si pensa alla parte decisi­va che la Russia pre-rivoluzionaria e poi so­vietica ebbe nella sua vita interiore, nella sua formazione e nel suo destino.

Il fine e i mezzi

Non ha senso ripetere le operazioni di chi, per dogmatismo residuo o per falsa pietas, co­struisce un’immagine oleografica e agiografica di Lukács, ripulendola dalle parti più dram­matiche della sua militanza comunista che è stata coerentemente leninista e stalinista, con cedimenti anche assai gravi; e di chi invece spinge una giusta critica dell’organico coinvol­gimento di Lukács in tutta l’esperienza comu­nista, anche la più fosca, oltre il limite che per­mette di vedere quella che ho chiamato l’au­tenticità della sua esperienza etico-intellettuale, la sua integrità e coerenza. Ma gli apologeti sono più meschini dei detratto­ri, i quali almeno sentono un problema reale. Qui, presentando una serie di saggi diversi su Lukács, converrà soffermarsi soltanto, nella prospettiva sopra delineata, su un periodo cru­ciale della sua esistenza: quello tra il 1918 e il 1919 in cui il filosofo ungherese «decide» il proprio destino futuro, ricavando la sua «scelta» da tutto il suo passato cosciente e, si può dire, anche inconscio e operando, nello stesso tempo, una sorta di salto dialettico, al quale resterà poi rigorosamente fedele. È que­sto il momento in cui i «due» Lukács, quello pre-marxista (ma non ignaro del marxismo) e quello marxista (ma soprattutto leninista) si incontrano e si separano. Anche questo mo­mento è così ricco e profondo da richiedere di per sé un ampio studio. Qui ci si limiterà ad alcuni aspetti essenziale e, soprattutto, at­tuali in questo momento in cui la storia co­munista è giunta a una sua crisi e forse a una sua fine.

«Nella liberazione dal compromesso si na­sconde l’affascinante forza del bolscevismo. Ma colui che ne viene affascinato forse non si rende pienamente conto a che cosa va in­contro per cercare di evitarlo. Il suo dilemma è il seguente: si può raggiungere il bene con mezzi cattivi? Si può conquistare la libertà con l’oppressione? È mai possibile un nuovo si­stema mondiale se i mezzi usati per il suo rag­giungimento differiscono solo tecnicamente dai mezzi del vecchio sistema, così giustamen­te odiati e disprezzati? Qui evidentemente ci si potrebbe richiamare alla tesi della sociolo­gia marxista che dice che tutto il corso della storia sta nelle lotte di classe, nelle lotte degli oppressi contro gli oppressori, e la lotta dei proletariato non può sfuggire a questa “leg­ge”. Ma se ciò è vero, in questo caso (…) tut­to il contenuto ideologico del socialismo (tran­ne per quanto riguarda la soddisfazione degli interessi diretti del proletariato) non sarebbe che un’ideologia. E questo è impossibile. E proprio perché è impossibile, non si può, dal­l’accertamento dei fatti storici, fare il pilastro per una volontà morale, per la volontà di un nuovo sistema mondiale. Perché allora biso­gna prendere il male per il male, l’oppressio­ne per l’oppressione, il potere di classe per il potere di classe. E bisogna credere (e questo è il vero credo quia absurdum est) che ad un’oppressione non segua una nuova lotta de­gli oppressi per il potere (per poter esercitare una nuova oppressione) e così via, una serie interminabile di eterne lotte senza senso e sen­za scopo – ma l’abolizione dell’oppressione stessa».

Questo brano si legge verso la fine dell’ar­ticolo di György Lukács Il bolscevismo come problema morale, articolo con cui egli nel di­cembre 1918 argomentava il suo rifiuto del bolscevismo. In quello stesso dicembre, Lukács capovolse la sua decisione, aderendo al partito comunista e giustificando questa re­pentina scelta con l’articolo Tattica ed etica, scritto nei primissimi mesi del 1919. Là dove Lukács, nel passo sopra riportato, parla di credo quia absurdum, si potrebbe vedere la molla della sua «conversione», la quale ebbe indubbiamente una segreta radice irraziona­le. Ma limitarsi a questa constatazione, che a sua volta rimanda a una «scelta» di tipo kierkegaardiano, a un vero e proprio aut/aut, si­gnificherebbe trascurare, da una parte, tutta la precedente ricerca intellettuale di Lukács e lo specifico ambiente culturale «romantico» in cui essa si era svolta in senso antiliberal-borghese e antidemocraticocapitalistico e, dal­l’altra, la stessa argomentazione svolta nell’ar­ticolo Il bolscevismo come problema morale, argomentazione che mette in luce le antino­mie del socialismo come «nuovo sistema mon­diale», capace di dare un senso e uno scopo alla storia, altrimenti ridotta a un susseguirsi assurdo di lotte per il potere.

L’etica del terrorismo

Nell’articolo del 1918 Lukács sente il «fa­scino» del massimalismo bolscevico che pone fine ad ogni «compromesso» e che adotta la violenza come condizione per attuare un «nuovo sistema mondiale» che si promette ar­monioso. Ma qui Lukács sente ancora la for­za della ragione e capisce che si tratta di «cre­dere», di fare un atto di vera e propria fede nella possibilità del miracolo rivoluzionario che trasformi il male radicale (la violenza) in un bene altrettanto radicale (comunismo). E ad appoggio della sua riflessione egli cita un personaggio dell’autore a lui più vicino in que­gli anni, Dostoevskij, un personaggio di De­litto e castigo secondo il quale attraverso la menzogna si può giungere alla verità. La con­clusione cui Lukács perviene in quel suo arti­colo è la seguente: «Il sottoscritto è incapace di condividere questa opinione e perciò vede l’insolubile problema bolscevico nelle radici stesse delle posizioni bolsceviche. La democra­zia, secondo me, richiede solo rinunce e sacrifici sovrumani da coloro che vogliono co­scientemente e onestamente agire fino in fon­do. E questo, anche se costa sforzi incommen­surabili, non è un problema insolubile, come lo è invece il problema morale bolscevico».

Se ora leggiamo la parte conclusiva del suc­cessivo e vicino articolo Tattica ed etica, fon­dazione del suo passaggio al bolscevismo con una chiara consapevolezza di ciò che questo significava sul piano morale, troviamo un ca­povolgimento delle posizioni del dicembre 1918 e, nello stesso tempo, una loro continua­zione e soluzione (soluzione, evidentemente, non logica, dato che giustamente egli aveva definito «insolubile» il «problema morale bol­scevico», ma etico-religiosa, se al termine «re­ligioso» si conferisce un particolare signifi­cato).

«Nessuna etica può avere come compito di escogitare ricette per un agire corretto, di li­vellare o di occultare gli insuperabili tragici conflitti del destino umano. L’autoriflessione etica, al contrario, ci indica appunto che esistono delle situazioni – tragiche situazio­ni – nelle quali è impossibile agire senza at­tirarsi su di sé una colpa; e altresì ci insegna che persino nel caso in cui potessimo sceglie­re tra due modi di renderci colpevoli, l’azio­ne giusta e quella sbagliata avrebbero tutta­via un criterio. Questo criterio si chiama sa­crificio. Allo stesso modo come il singolo, sce­gliendo tra due specie di colpa, trova infine la giusta scelta sacrificando sull’altare dell’i­dea superiore il proprio io inferiore. Così esi­ste anche una forza che consente di commi­surare questo sacrificio all’agire collettivo; qui però l’idea si incarna in un comando della si­tuazione storico-universale, come vocazione imposta dalla filosofia della storia».

A questo punto Lukács cita un altro russo, un terrorista socialrivoluzionario, Boris Savinkov, noto con lo pseudonimo di Ropšin, personalità notevole che in opere letterarie me­ditò sul fenomeno del terrorismo.  Per Savinkov-Ropšin, l’omicidio compiuto dal terrorista rivoluzionario è sì la violazione di un imperativo («non uccidere»), ma, insieme, l’obbedienza ad un altro imperativo («devi uc­cidere»). Il terrorista trova non la giustifica­zione del suo atto, il che è impossibile, ma «l’ultima radice morale di essa nel fatto che egli sacrifica per i suoi fratelli non solo la sua vita, ma anche la sua purezza, la sua morale, la sua anima».

Conclude e commenta Lukács: «In altre pa­role: solo l’azione omicida dell’uomo, il qua­le sa con assoluta certezza e senza dubbio al­cuno che in nessuna circostanza l’omicidio de­ve essere approvato, può avere, tragicamen­te, una natura morale. Per esprimere questo pensiero sulla più grande delle tragedie uma­ne con le incomparabilmente belle parole della Judith di Hebbel: “E se Iddio avesse posto il peccato tra me e l’azione che mi è stata impo­sta, chi sono io perché possa sottrarmi ad esso?”».

Così Lukács illumina la sua «via al comu­nismo» nell’atto stesso in cui la intraprende e la percorre (e sappiamo che la percorrerà fi­no all’ultimo), assumendosi la piena respon­sabilità di ogni violenza. Si tratta di una argomentazione-confessione di estrema luci­dità, che non si nasconde dietro illusioni re­toriche e accetta la «colpa», il «sacrificio», l’«omicidio», tutte parole che ricorrono nel passo finale di Tattica ed etica, assieme all’e­spressione di «tragico». E, infine, a suggella­re la tormentosa riflessione ormai conchiusa con un atto di fede nel bolscevismo, la cita­zione dalla Judith di Friedrich Hebbel, una ci­tazione cara a Lukács.

Giuditta e Oloferne

Possiamo partire da questa citazione per ve­dere però una inconsistenza che non appare alla superficie del tormentato ragionamento di Lukács o, per dir meglio, della sua «scel­ta» travagliata. È facile constatare che la fra­se di Hebbel è leggermente, ma significativa­mente mutata nel testo di Lukács. Nell’atto terzo del dramma, Giuditta, votata ad ucci­dere Oloferne, pronuncia inginocchio un ap­passionato soliloquio con Dio, dal quale si sente ispirata a compiere quell’uccisione: «La via alla mia opera passa attraverso il pecca­to! Grazie, grazie a te! Signore! Tu rischiari il mio occhio. Davanti a te l’impuro si fa pu­ro; se tu poni tra me e la mia opera un pecca­to: chi sono io da litigarne con te, da sottrar­mi a te?» (Traduzione di Scipio Slataper). Lukács spersonalizza l’invocazione sofferta di Giuditta e la trasforma in una sorta di sentenza universale. E spersonalizzandola le to­glie quella carica tragica che essa ha nel dram­ma di Hebbel, perché toglie al delitto tutta la tensione che deriva dall’assolutezza religiosa dell’imperativo «non uccidere».

Lukács crede di poter mantenere il concet­to di «sacrificio», come quello di «colpa» e «peccato», facendo riferimento a un «coman­do della situazione storico-universale, come vocazione imposta dalla filosofia della storia». Ma quella «filosofia della storia» che è il mar­xismo relativizza ogni valore morale e se pre­tende di creare un nuovo assoluto sui gene­ris, lo pone storicamente nel futuro, nel «nuo­vo sistema mondiale» di cui parla Lukács nel Bolscevismo come problema morale, veden­do lucidamente tutte le insolubili antinomie della nuova «moralità». Dal punto di vista di questa «filosofia delia storia» aveva perfetta­mente ragione quel suo massimo teorico e pra­tico che era Lenin, da Lukács ammirato e ve­nerato, per il quale l’unico criterio morale di un atto stava nella sua utilità dal punto di vi­sta dell’attuazione dei «nuovo sistema mon­diale», cioè del comunismo. E Lenin, come ogni bolscevico, non si poneva affatto i tor­mentosi problemi dei cristiani personaggi di Dostoevskij. L’unico criterio di valutazione del terrore era la sua opportunità, la sua tem­pestività, la sua efficacia. Si trattava di un atto tecnico, non etico. Stalin era un perfetto bol­scevico e l’unica obiezione che, dal punto di vista della «filosofia della storia», gli si pote­va eventualmente muovere, era di natura tec­nica (erano davvero necessari tanti eccidi per il comunismo?), non etica. Nessun bolscevi­co è pensabile nella posizione della Giuditta che sente di dover uccidere il tiranno Olofer­ne. Neppure Lukács, bolscevico «etico» che supera l’etica con un atto di «fede» raziona­lizzata, è pensabile nell’invocazione tragica di Giuditta. Tanto è vero che Lukács trasforma quell’invocazione in una formula. E infatti, se si trasforma la Storia in una sorta di dio e la «filosofia della storia» in una teologia «scientifica», a chi rivolgersi con una invoca­zione, con una preghiera, con una interroga­zione? Lukács, come ogni terrorista bolscevi­co (nel senso non di un terrore praticato direttamente, ma di un terrore condiviso), non poteva avere lo statuto e la statura di un eroe tragico. La tragedia investiva soltanto le vit­time di quel terrore, i milioni e milioni di in­nocenti che la «filosofia della storia» condan­nava a una morte giustificata, nelle pretese della «filosofia», dall’instaurazione di un «nuovo sistema mondiale».

Un’altra osservazione è necessaria. Lukács fa riferimento agli eroi di Dostoevskij e a reali rivoluzionari russi come Boris Savinkov e Ivan Kaljaev, che furono presenti anche nella sua riflessione precedente. Per quanto legati all’organizzazione dei socialisti-rivoluzionari, questi terroristi erano ancora «ottocenteschi». Kaljaev, quando deve gettare una bomba contro la carrozza che ha a bordo l’odiato governatore di Mosca, si ferma e desiste perché vede che col governatore si trovano la moglie e giovani nipoti. Poi, portato a termine l’attentato in un secondo tentativo, è visitato in carcere, prima dell’esecuzione capitale, dalla vedova del governatore, con la quale ha uno straordinario colloquio. Si può giudicare negativamente anche questo terrorismo, certo, ma non si può non vedere la sostanziale differenza tra il terrorismo «tradizionale» e quello nuovo, «totalitario», inaugurato dalla rivoluzione bolscevica. Lukács sapeva benissimo che lo «spirito del tempo» era mutato ed egli stesso darà la più profonda teoria del nuovo tipo di terrore in Lotta e coscienza di classe, dove il nuovo dio della Storia trova il suo rappresentante assoluto nel Partito, organo attraverso cui i «comandi della situazione storico-universale» inappellabilmente si esprimono. Il terrore comunista non era quello di un Savinkov o di un Kaljaev, ma quello dei Demoni dostoevskiani. E coerentemente Lukács dal suo dostoevskismo giovanile, così appassionato e tormentato, doveva poi passare un antidostoevskismo che non consiste, na­turalmente, in una negazione della grandezza artistica dell’autore di Delitto e castigo, ma nella sua trattazione nei termini di un accademismo marxista-leninista.

L’etica della convinzione

Si potrebbe chiudere qui questa rapida lettura di una pagina così pregnante non soltanto della biografia intellettuale di Lukács, ma della storia etico-politica europea. Proprio perché di storia europea si tratta, conviene però chiudere questo episodio andando al di là Lukács e del bolscevismo. Nelle pagine fina­li del Lavoro intellettuale come professione Max Weber svolge la sua nota distinzione tra un’etica della responsabilità e un’etica della convinzione, riflessioni che sono segretamente improntate dall’esperienza rivoluzionaria del giovane Lukács, la quale non trovò rifle­sso soltanto nella Montagna incantata di Thomas Mann. La lettura di queste pagine weberiane è complessa, e qui ci limiteremo a un passo centrale, in cui ritorna ancora il nome Dostoevskij:

«Qui, su questo problema della giustificazione dei mezzi mediante il fine, anche l’etica della convinzione in genere sembra destinata a fallire. E in effetti essa non ha logicamente altra via che quella di rifiutare ogni azione che operi con mezzi pericolosi dal punto di vista etico. Logicamente. Senza dubbio, nel mondo della realtà noi facciamo continuamente l’esperienza che il fautore dell’etica della convinzione si trasforma improvvisamente nel profeta chiliastico, e che per esempio coloro i quali hanno testé predicato di oppore “l’a­more alla forza”, un istante dopo fanno ap­pello alla forza – alla forza ultima, la quale dovrebbe portare all’abolizione di ogni pos­sibile forza, così come i nostri capi militari ad ogni nuova offensiva dicevano ai soldati: “Questa è l’ultima, ci porterà alla vittoria e quindi alla pace”. Chi segue l’etica della convinzione non sopporta l’irrazionalismo etico del mondo. Egli è un “razionalista” cosmico-etico. Chiunque di voi conosca Dostoevskij ri­corderà l’episodio del Grande Inquisitore dove il problema è discusso con estrema acutezza».

E chiunque conosca gli appunti di Lukács su Dostoevskij sa quanta importanza abbia avuto per lui anche il geniale episodio del Grande Inquisitore, come ho cercato di met­tere in luce in un mio scritto.

Ma, se torniamo alle parole di Weber, non è difficile capire che esse si riferiscono al gio­vane Lukács, col quale Weber aveva avuto rapporti intellettuali assai stretti. E, in un certo senso, Weber fu profeta o, per dir meglio, capì il «razionalismo» cosmico-etico del neofita ri­voluzionario, ad aspettare il quale stavano prove e «colpe» superiori alla sua immagina­zione. Ma, accettato con un atto di «fede» ir­religiosa poi razionalizzato il terrorismo bol­scevico, Lukács non venne mai meno a quel­la scelta, trasformandosi da neofita pseudo­tragico in «gesuita della rivoluzione», come fu visto da Thomas Mann. Anche per questo György Lukács, come quell’altro personaggio dostoevskiano che fu Vladimir Majakovskij, resta la figura più autentica in senso etico-intellettuale della cultura comunista. E sareb­be inutile, oltre che inadeguato alla sua sta­tura, cercare di togliergli quel «peccato» che egli, immaginandosi una ripetizione di Giudit­ta, si assunse con piena consapevolezza e re­sponsabilità, un «peccato» che tuttavia fu più grave di quanto egli non pensasse nei suoi «ro­mantici» anni giovanili, ma che egli mai rifiu­tò, sacrificando sempre più sull’altare di un’i­dea inferiore il suo io superiore.

Soltanto vicino alla morte, egli, si dice, per un attimo ebbe la sensazione di aver sbaglia­to. Ma l’ideologica «filosofia della storia» da lui professata gli ridiede, forse, una astratta e facile serenità che neppure la religione può garantire alle sue tormentate Giuditte. A Lukács, fedele sempre al feticcio del Partito, manca quell’aureola di «eroe tragico» che la protagonista del dramma hebbeliano ha e che il filosofo ungherese voleva conferire a chi ac­cettava il terrorismo bolscevico. Aureola tra­gica che, invece, non si può negare a Maja­kovskij, il quale, privo del conforto della «fe­de» hegelo-marxista, pagò col sacrificio della vita il suo tormento e la sua «colpa».

***

Opere di V. Strada

Introduzione a Gy. Lukács, M. Bachtin e altri, Pro­blemi di teoria del romanzo, Torino, Einaudi, 1976.

Introduzione a Michail Bachtin, Tolstoj, Bologna, il Mulino, 1986.

Le veglie della ragione. Miti e figure della letteratura russa da Dostoevskij a Pasternak, Torino, Einaudi, 1986.

Problemi della destalinizzazione: il caso Lukács in «Socialismo storia». Ripensare il 1956, Roma, Lerici.

Lukács parla

10 sabato Gen 2015

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di György Lukács

intervista di Naïm Kattan

«La Quinzaine littéraire», 1-15 dicembre 1966

trad. it. gyorgylukacs.wordpress.com

Il suo appartamento è situato all’ultimo piano di uno stabile che dà sul Danubio. I libri tappezzano i muri. Guardo qua è la a caso: opere complete di Hegel e di Marx. Sul tavolo dei libri, delle riviste in ungherese, in tedesco, in francese. È qui che da dieci anni Lukács lavora alle sue opere.

Ho iniziato la mia opera vera e propria a settant’anni. Pare che esistano delle eccezioni alle leggi materiali. In questo sono un adepto di Epicuro. Anche io sto invecchiando. Da tanto tempo cerco la mia strada. Sono stato idealista, poi hegeliano. In Storia e coscienza di classe ho provato ad essere marxista. Per molti anni sono stato funzionario del partito comunista a Mosca. Ho potuto rileggere, da Omero a Gorky. Fino al 1930 tutti i miei scritti erano degli esperimenti intellettuali. Poi ci furono degli abbozzi e dei preparativi. Anche se sono superati, questi scritti sono stati di stimolo ad altri. Continua a leggere →

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«Compagno Lukács, sembri piuttosto pessimista»
«No, sono ottimista per il XXI secolo»
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