Che cos’è il marxismo ortodosso?

di György Lukács

[Mi az ortodox marxizmus?, 1919]

Scritti politici giovanili 1919-1928, Laterza, Bari 1972.

[Questa è la prima versione, molto più breve, del saggio che porta lo stesso nome, contenuto in Storia e coscienza di classe]


I filosofi hanno soltanto interpretato il mondo in modi diversi, si tratta invece di trasformarlo.

Marx, XI, Tesi su Feuerbach.

Se badiamo al nucleo della questione, si constaterà che questa domanda estremamente lineare è stata già discussa a lungo e appassionatamente sia nella letteratura borghese che in quella socialista. Da una parte sono stati violentemente attaccati i rimasticatori della lettera del marxismo i quali, come gli scolastici del Medioevo, non hanno preso come punto d’avvio i fatti, ma intendevano avvicinarsi alla verità mediante una continua giustificazione della loro Bibbia. Dalla parte opposta, i marxisti hanno litigato pure tra loro, non riuscendo ad accordarsi precisamente su quelle tesi che, se messe in dubbio, rendono impossibile il diventare un marxista ortodosso. I critici di Marx che affermano che lo sviluppo della scienza rende superate talune tesi di Marx si chiedono però anche se la critica possa in generale arrestarsi dinanzi a una qualsiasi tesi. Ovviamente no. Lo affermiamo pure noi, che ci definiamo marxisti ortodossi; ma a nostro avviso la questione se qualcuno sia marxista o non lo sia, si decide non in base al suo convincimento circa la verità di singole tesi, bensì con un criterio completamente diverso. Questo diverso criterio è il metodo. Premesso, ma non concesso, che lo sviluppo della scienza dovesse dimostrare l’erroneità di tutte le affermazioni di Marx, potremmo accettare senza contraddizione alcuna questa critica da parte della scienza e tuttavia restare marxisti, nella misura in cui restiamo seguaci del metodo di Marx. Per intendere esattamente il marxismo ortodosso, dobbiamo dunque definire l’essenza di questo metodo. Comprenderemo così in pari tempo come ogni tentativo che si sia discostato dalla via dell’ortodossia per «migliorare» o «sviluppare» il metodo di Marx non abbia fatto che appiattire il marxismo.

Il metodo di Marx è la dialettica rivoluzionaria. Ma a questo punto, e prima ancora di imprendere a chiarire il concetto di dialettica, sorge la domanda: come può una teoria, un metodo teorico essere rivoluzionario? A questa domanda ha inteso dare una risposta lo studio sulla «guida intellettuale». La teoria può essere rivoluzionaria solo nella misura in cui essa supera la distinzione di teoria e prassi. Solo nella misura in cui la semplice esistenza di un pensiero corretto mette in atto un mutamento decisivo in quell’oggetto cui il pensiero è rivolto, solo in tale misura la realizzazione coerente di un pensiero esatto produce come conseguenza la trasformazione della realtà.

Marx accolse il metodo dialettico della filosofia classica tedesca, propriamente da Hegel. L’essenza di questo metodo che rivoluziona la scienza è che i concetti non sono schemi rigidi che una volta stabiliti non possono più mutare di significato, né apparati razionali isolati tra loro e tali da poter essere compresi solo per astrazione, bensì realtà viventi che producono un passaggio processuale ininterrotto, un salto. Questi concetti così concepiti hanno prodotto un processo nel quale i singoli concetti si rovesciano necessariamente nell’opposto della loro formulazione originaria, nella negazione di se stessi, per ricongiungersi però in una superiore unità che è negazione della negazione, e così via senza fine. Non diversamente, per citare il famoso esempio, Marx ricostruisce lo sviluppo del capitalismo, ossia del sistema di produzione organizzato, in modo da mostrare che il capitalismo, sorto dallo sfruttamento dei produttori immediati, è giunto per la necessità del suo sviluppo a un punto tale da dover essere eliminato, onde gli espropriatori devono venire espropriati1. Qui il capitalismo rappresenta perciò la negazione della proprietà personale basata sul lavoro individuale. E questo capitalismo, con la necessità di un processo naturale, porta a compimento la propria negazione, la negazione della negazione, ossia una nuova, superiore unità.

I banalizzatori del marxismo, con Bernstein alla testa, volevano, con il pretesto della scienza, estirpare dai ragionamenti del marxismo la dialettica, con la giustificazione che essa sarebbe un superato residuo della filosofia hegeliana, inadatto ormai a svolgere un ruolo nella scienza moderna che si edifica esclusivamente sui «fatti» della «realtà». Addirittura rimproverano a Marx di aver esercitato violenza sui fatti e sulla realtà per amore del metodo, ed auspicano un metodo scientifico «privo di pregiudizi». Ma con l’eliminazione «dialettica» del metodo vanno perduti il rigore e la forza rivoluzionaria della teoria di Marx. Nessuna mera indagine e raccolta dei fatti sarebbe capace di rendere intelligibile e accettabile l’inevitabilità della rivoluzione, la necessità dell’azione rivoluzionaria al di là dei mutevoli indizi insiti in un qualsiasi momento dato. Solo la dialettica ne è capace. Infatti solo con l’ausilio della dialettica possiamo capire in che modo ogni concetto deve rovesciarsi nel suo opposto, in che modo ogni sistema produttivo e sociale deve aver creato da sé gli elementi della sua rovina e del suo declino. Senza dialettica ci muoveremmo alla cieca in un labirinto di fatti disgregati e non suscettibili di alcun ordine, e invano ci attenderemmo dai fatti stessi una indicazione per la nostra azione. I fatti non possono mai servire da guida a un’azione dotata di senso. Si possono valutare ed esaminare i fatti in centinaia di modi; e colui che si attende esclusivamente da essi un’indicazione per il suo cammino barcollerà impotente tra possibilità contraddittorie. Egli diventa eclettico e opportunista. Così è stato per Bernstein e per la socialdemocrazia tedesca, e per quasi tutta la socialdemocrazia europea.

Ma anche gli avversari di Bernstein, i difensori della presunta ortodossia del marxismo, Kautsky e i marxisti volgari, hanno appiattito il metodo dialettico e con esso lo slancio rivoluzionario del socialismo. Non basta, infatti, la semplice affermazione che la rovina del capitalismo è inevitabile e che esso sarà liquidato non attraverso un’evoluzione graduale, bensì dalla rivoluzione; un’affermazione di questo genere deve al contrario scaturire dalla natura del metodo. Solo in tal caso la rivoluzione non resta una vuota frase (come in Kautsky), ma diventa un’idea regolativa di ogni pensiero e azione, un’unità necessaria e vivente di teoria e prassi. Anche se non apertamente, Kautsky e i suoi seguaci hanno abbandonato il metodo dialettico. Mentre Bernstein dichiarava apertamente che l’obiettivo finale per lui non esisteva, ma che il movimento era tutto, Kautsky e i suoi seguaci hanno assegnato all’obiettivo finale un ruolo di divinità celeste, lo hanno avvolto in un’aura di sublimità estranea ad ogni realtà immediata. Nelle loro azioni essi rimasero perciò opportunisti quanto i seguaci di Bernstein. Il loro concetto dell’obiettivo finale era un bell’argomento per una chiusa ad effetto di acconci discorsi, articoli e libri, talvolta per la compilazione di volantini suggestivi ma non certo realmente efficaci. Il loro obiettivo finale restava assolutamente inadatto a dirigere le loro azioni in senso rivoluzionario. Infatti, l’essenza della dialettica, del metodo rivoluzionario, consiste in questo: che tra movimento e obiettivo finale non v’è differenza sostanziale. Nel linguaggio della dialettica hegeliana questa tesi, che è stata accolta quasi immutata da Marx ed Engels, è così espressa: il continuo accrescimento di differenze quantitative si capovolge ad un certo punto in una differenza qualitativa. Il nostro compito non può essere qui di dimostrare la veridicità di questa tesi, né di indicare le applicazioni di essa nelle opere di Marx ed Engels. Qui va solo stabilito che la rivoluzione in Marx non è «una lenta e pacifica evoluzione», come vogliono gli opportunisti, né una serie di putsch, come sostengono i suoi cattivi interpreti, ma un processo in cui il normale e costantemente organico sviluppo del movimento operaio, si capovolge ad un certo punto nell’abbattimento dell’ordine capitalistico: un rovesciamento qualitativo della quantità ascendente. Ogni momento del corso normale del movimento operaio, ogni aumento salariale, ogni riduzione dell’orario di lavoro ecc., è dunque un’azione rivoluzionaria, perché proprio di questi momenti si compone quel processo che a un certo punto si rovescia in un elemento qualitativamente nuovo, elemento che rende allora impossibile la produzione capitalistica. Ma questi singoli momenti possono diventare rivoluzionari solo nell’unità del metodo dialettico. Per chi riconosce solo i singoli momenti, il movimento operaio si stempera in riformistiche rivendicazioni salariali. Nel momento del rovesciamento, della rivoluzione, costui sarà angosciato e smarrito: tremerà per la sorte dei «risultati conseguiti», sebbene questi risultati, se li consideriamo isolatamente, servono nel migliore dei casi ad assicurare il benessere piccolo borghese, la trasformazione in piccola borghesia della classe operaia. Ma altrettanto smarrito dinanzi all’evento della rivoluzione resterà colui che è incapace di riconoscere la natura rivoluzionaria dei singoli momenti e di prenderne coscienza in senso rivoluzionario. Infatti la possibilità della rivoluzione, la «maturità» delle situazioni rivoluzionarie non è altro che l’istantaneo scoccare di questo rovesciamento dialettico. Quest’istante, certo, è contenuto potenzialmente in ogni fase, ma non lo si può stabilire in anticipo con la stessa sicurezza con cui in astronomia viene calcolata la comparsa di una cometa. Questo istante, nel suo darsi dialettico, può trapassare dalla possibilità alla realtà solo allorché il movimento operaio è diventato consapevole che per esso tanto teoria e prassi, quanto il movimento e l’obiettivo finale costituiscono un’unità. Quindi, se tutti i singoli momenti del movimento vengono consapevolmente considerati dal punto di vista della totalità, se tutti i singoli momenti sono svolti con consapevolezza come un’azione rivoluzionaria, allora, ma solo in tal caso, il movimento non avrà più smarrimento dinanzi all’evento della rivoluzione. L’evento della rivoluzione allora non si abbatterà più sul movimento operaio a guisa di catastrofe imprevista, come paventano i marxisti volgari e gran parte dei dirigenti del movimento operaio europeo, bensì apparirà un agognato compimento al quale esso era ben preparato, come alla possibilità appunto di un rovesciamento dialettico, in ogni singolo momento dell’azione.

A questo punto diventa comprensibile il principio fondamentale del metodo dialettico, ossia la teoria hegeliana del concetto concreto. Tale teoria, in breve, annuncia che l’intero prevale sulle parti, che nella spiegazione bisogna procedere dall’intero alle parti e non dalle parti all’intero. A questo aspetto Marx attribuisce un’importanza decisiva nella sua lotta contro l’economia politica borghese. Egli rileva che l’economia politica borghese, la quale considera isolatamente i singoli elementi del processo economico, costruendo poi dall’«azione reciproca» di questi elementi il sistema dell’economia, riesce sì a spiegare in che modo la produzione si svolge entro dati rapporti, ma è incapace di spiegare come questi rapporti sorgano e quindi come nasca quel processo storico che produce i rapporti stessi2. Perciò sia l’economia politica che la sociologia sono incapaci di spingersi anche solo concettualmente oltre l’ambito dei presupposti che presiedono alla produzione così come essa avviene nella società borghese. Questi presupposti che sono esclusivamente di natura storica, che sono stati prodotti in concomitanza con il sistema capitalistico e spariranno con esso (ad esempio la proprietà privata capitalistica, la famiglia borghese, lo stato di diritto ecc.), vengono dall’economia politica e dalla sociologia considerati come leggi eterne e come supporto necessario dell’esistenza umana.

Negli stessi errori teorici incorrono anche i sindacalisti, i quali perciò si smarriscono in un labirinto di atti reazionari e piccolo-borghesi. Dall’astrazione di concetti economici interpretati isolatamente essi inferiscono l’astrattezza dell’intero sistema sociale, dunque l’estraneazione dalla vita. I sindacalisti arrivano alla conclusione della completa estraneazione del sistema di produzione borghese da quei fatti che anche per il movimento operaio sono decisivi, solo che essi restano alla mera negazione, al rifiuto astratto e di conseguenza non scorgono alcuna via che porti al futuro, alla nuova società del proletariato. Essi criticano aspramente analizzandole isolatamente e in maniera astratta, le singole istituzioni della società borghese (ad esempio il parlamentarismo), ma non sanno contrapporvi altro se non lo slancio astrattamente rivoluzionario della classe operaia, privo di obiettivi concreti. Movimento operaio e sciopero generale diventano ai loro occhi dei fini a sé stanti, elementi di una mitologia. E così finiscono per l’escluderli dal grande processo della storia concepito come processo necessario, non diversamente da come ne escludono il sistema di produzione borghese, da loro inteso alla maniera borghese sebbene lo critichino con tanto acume3.

Il genio metodologico di Marx si rivela proprio nell’aver egli evitato questi due estremi astratti. L’intero egli lo vede sempre dal punto di vista di una ancor più ampia totalità di un grande processo storico-sociale. Non è mai esistito un pensatore che come lui abbia considerato la società tanto poco in astratto, e tanto profondamente invece dal punto di vista dell’azione e della vita. Ma il contrasto fra l’astratto e il concreto non ha mai significato per lui un fermarsi al mero sentimento, al semplice agire istintivo. Il concreto infatti non è per Marx, vero discepolo di Hegel, in opposizione rispetto a ciò che è compreso concettualmente, ma, al contrario, è qualcosa che solo lo spirito può concepire. Il concreto — egli dice — è concreto perché rappresenta la composizione di molte determinazioni, ossia l’unità del molteplice. Per il pensiero tale composizione si presenta come un processo, un risultato, e non come un inizio, sebbene sia proprio questo risultato a costituire il vero punto di partenza4. Il vero punto di partenza è quindi la completezza dell’intero, la totalità concreta; e bisogna comprendere tutte le singole parti — si tratti di questa o quella fase del movimento, di questo o quel fenomeno della vita sociale o economica — solo a partire da questo intero, in base all’intellezione dell’intero. Il compito fondamentale del pensiero, il quale, abbandonato a se stesso, è sempre portato a considerare i singoli fenomeni e momenti isolatamente, è perciò quello di riagganciarsi in ogni singolo caso a questo punto di partenza, di elevarsi a questa unità dell’intero per non dover incorrere in una considerazione astratta dei singoli fenomeni e momenti. Una siffatta incondizionata egemonia della totalità, dell’intero sull’astratto isolamento delle parti costituisce il nucleo essenziale della concezione marxiana della società, cioè il metodo dialettico. Il marxismo ortodosso consiste nel seguire questo metodo (e non già nel rimasticare singole frasi). Marx è stato il primo a riconoscere la determinatezza storica, non eterna, dei concetti economici, il primo dunque a vedere non soltanto i fenomeni della vita sociale dalla prospettiva del rovesciamento della produzione, ma anche il rivoluzionamento della produzione dalla prospettiva della storia mondiale. Marx, analogamente alla filosofia classica tedesca e a Hegel in particolare, ha riconosciuto la storia mondiale come un processo unitario, come un ininterrotto processo rivoluzionario di liberazione. Riconoscendo le vere forze motrici di questo processo, la lotta di classe e il rivoluzionamento della produzione, ed essendo stato capace d’inseguirle organicamente nella totalità concreta del processo storico mondiale, nel processo di liberazione, egli ha superato di gran lunga Hegel e la filosofia classica tedesca. Da questa prospettiva possiamo capire perché Marx è stato colui che ha potuto comprendere il sistema sociale di produzione capitalistico come qualcosa di necessario e come qualcosa che in pari tempo porta già in sé necessariamente la propria morte. Il metodo dialettico di Marx, ed esso soltanto, può indagare i fenomeni sociali in questa prospettiva, scorgerne la necessità e insieme riconoscerli come perituri, votati al declino. La prima di queste angolature ci evita di cadere nelle utopie astratte verso cui tendono tutti i riformatori piccolo-borghesi della società; mentre la seconda ci preserva dal sottovalutare la potenza e indispensabilità degli ordinamenti istituzionali esistenti, affinché non ci accada come ai marxisti volgari i quali lasciano che siano i «fatti» a dettare loro le azioni, invece d’intervenire essi con il loro agire sulla realtà stessa per trasformarla.

Solo sulla base di una rinsaldata unità delle due prospettive, quindi ancora una volta sulla base della dialettica, è possibile l’agire rivoluzionario. Il marxismo volgare anche in questo punto ha appiattito il concetto di realtà che il marxismo aveva ripreso dalla filosofia classica, perdendo con questo appiattimento anche ogni intensità dello slancio rivoluzionario. Il concetto marxiano di realtà non coincide affatto con l’effettuale concetto generico di realtà, pieno di casualità e indeterminatezza. Per il concetto marxiano la realtà è un’esistenza necessaria, un dato di fatto necessariamente scaturito dal processo unitario e totale della storia, il quale costituisce sì il fondamento dell’essere universale, ma che nella sua vera effettualità, nella sua completa unità, può essere portato a nascita solo dallo spirito. I marxisti volgari sono stati invece sviati dal fatto che Marx, nella critica ai rivoluzionari piccolo-borghesi, ha sempre difeso la realtà effettuale contro le loro costruzioni speculative e puramente astratte. Così i marxisti volgari hanno confuso il concetto marxiano di realtà con il concetto di essere universale. Questo pasticcio concettuale ha creato e crea tuttora conseguenze pratiche disastrose. Il marxismo volgare, ad esempio, aveva considerato la guerra mondiale, ossia la mera esistenza di fatto della guerra mondiale riguardata isolatamente dal processo storico mondiale, come la vera realtà effettuale, invece di vedere in essa l’unità del processo di dissolvimento del capitalismo imperialistico, invece di orientare conseguentemente l’azione del proletariato, ossia il vero fatto decisivo, verso la rivoluzione mondiale che da tale guerra necessariamente scaturisce. E così, invece di scorgere al di là della guerra la rivoluzione mondiale, cioè la vera realtà marxiana della guerra, l’unica e sola che diventando azione avrebbe potuto costituire il criterio della tattica, il marxismo volgare cadde nell’opportunismo dei suoi atti di tolleranza verso la guerra, della sua tattica di complicità verso la guerra. Dall’appiattimento del concetto di realtà non poteva scaturire che una politica opportunistica, puramente congiunturale; e se non esistesse altra prova di come nell’appiattimento del marxismo i nemici di un tempo, Kautsky e Bernstein, ormai stiano sullo stesso piano, resterebbe sempre a dimostrarlo la fraterna collaborazione a cui la guerra li ha trascinati. Lenin e Tročkij, da veri marxisti ortodossi e dialettici, si son dati poco pensiero dei cosiddetti «fatti», ad esempio del dato di fatto che i tedeschi avessero vinto, che avessero l’occasione militare di poter marciare in qualsiasi momento su Pietrogrado, di occupare l’Ucraina ecc. Essi hanno riconosciuto la realtà vera, l’evento ineluttabile della rivoluzione mondiale, ed in base ad essa, non già ai «fatti», hanno regolato le loro azioni. La realtà ha dato ragione a loro, non ai Realpolitiker oscillanti come canne al vento, i quali, misurando le loro azioni col metro dei «fatti», avevano cambiato politica tattica ad ogni vittoria o sconfitta restando poi disorientati dinanzi ad ogni decisione.

La decisione precede i fatti. Chi ha riconosciuto la realtà effettuale intesa nel senso marxiano, è padrone e non schiavo del sopravvenire dei fatti. Il marxista volgare si volge impotente a destra e a manca, perché i fatti che si susseguono, considerati l’uno isolato dall’altro fatalmente indicano ora la strada di destra, ora quella di sinistra, sicché occorre la conoscenza dialettica per orientarsi nel labirinto.

Anche oggi il proletariato si trova dinanzi ad analoghe decisioni. I suoi dirigenti, resi ottusi dal marxismo volgare, attendono ancora oggi che da cotesti «fatti» venga fuori un’indicazione sulla direzione da seguire. L’ora della rivoluzione è davvero scoccata, il sistema produttivo è davvero maturo perché il proletariato lo prenda nelle sue mani? Possiamo dire subito che essi attendono invano una risposta decisiva che provenga dai «fatti». Non si presenterà mai una situazione nella quale i «fatti» indichino sicuramente e inequivocabilmente la strada della rivoluzione. È vana fatica vagliare «scrupolosamente» tutti gli «indizi». Una parte di questi indizi sarà sempre fonte di angoscia, e nessuno può in effetti stabilire il momento esatto in cui a persone «scrupolose» sia lecito scatenare, diciamo senza rischio, una rivoluzione. La realtà, la realtà marxiana, l’unità del processo storico parla invece un linguaggio chiaro. Essa dice: ecco la rivoluzione! Ed ogni marxista ortodosso, ormai consapevole che è venuto il momento in cui il capitale è un ostacolo alla produzione, che è venuto il momento dell’espropriazione degli espropriatori, risponderà con le parole di Fichte, uno dei massimi rappresentanti della filosofia classica tedesca, ai marxisti volgari che volessero elencargli dei «dati di fatto» in contrasto con questo processo. Egli risponderà con Fichte: «E tanto peggio per i fatti».


1 K. Marx, Il capitale, I, Roma 1970, p. 826.

2 K. Marx, Miseria della filosofia, Roma 1950, p. 90. Marx svolge in quest’opera un’acuta critica di quei cattivi interpreti del metodo dialettico, i quali, come Proudhon, prendono la contraddizione dialettica a mo’ di una mera enumerazione delle parti buone e cattive di un concetto isolatamente considerato oppure di una istituzione, cercando poi di schivare gli errori per raggiungere l’unità superiore, la negazione della negazione. Questa critica è applicabile anche a molti marxisti volgari odierni.

3 A coloro che si interessano di questioni filosofiche facciamo notare un punto che qui non è trattato, ossia che il sindacalismo sta al vero marxismo come Hegel, ben compreso, sta al filosofo del sindacalismo, a Bergson.

4 K. Marx Per la critica dell’economia politica. Introduzione, a cura di E. Cantimori Mezzomonti, Roma 1957, p. 188.

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