Il significato e l’influenza di Endre Ady

di György Lukács

[titolo originale: Ady jelentősége és hatása, «Új Irás», no.1, 1969, pp.90-94; trad. it. di Marinka Dallos, «Carte segrete», 37-38, luglio-dicembre 1977 – Sono stati corretti alcuni refusi e accenti rispetto alla versione originale della traduzione apparsa in italiano].


Endre Ady, di Pál Veress

Credo che derivi dalla situazione dell’Ungheria il fatto che da noi «il vero rivoluzionario» non è un fenomeno tipico. Affer­mazione che, naturalmente, non posso analizzare in modo particola­reggiato. In ogni caso è in relazione al particolare sviluppo dell’Un­gheria il fatto che, all’epoca della rivoluzione, il ruolo che in Francia era stato assunto dagli strati bassi della borghesia e dal proletaria­to in via di formazione, in Ungheria sia stato assunto dalla nobiltà media. Conseguenza ne è stata che, nel corso dello sviluppo capitalistico, questo strato è scivolato più in basso, socialmente; e questa sua base rivoluzionaria, problematica che nel 1848-49 esisteva ancora, è venuta distruggendosi sempre più. Persino i movimenti obiettivamente progressisti, il movimento borghese e il movimento operaio si sono adattati a questa particolare condi­zione dello sviluppo ungherese. Ora, nelle situazioni rivoluzionarie – nel ’48 nella figura di Petőfi, all’epoca della transizione di fine secolo nella figura di Ady – si è sempre presentato un grande uomo in cui si è riassunto tutto ciò che in Ungheria avrebbe dovuto esserci, ma sempre, in sostanza, senza vero seguito e veri seguaci. La mia opinione, oggi come allora, è che Ady era isolato, persino nell’interno del movimento Nyugat («Occidente») nono­stante la gente si entusiasmasse per lui, e lo avesse utilizzato da ariete contro la reazione. Allo stesso modo, Petőfi fu un fenomeno isolato nel 1848, pur in circostanze diverse. Ady vedeva questa condizione molto chiaramente. Soltanto con una posteriore e ingiustificata generalizzazione si può affermare che «il ’48» di Petőfi avrebbe avuto una sinistra, politicamente considerevole. Ma una sinistra nel senso della sinistra di Marat e di Robespierre in Francia, nel ’48 non esisteva. Ancor meno esisteva nell’epoca del Nyugat, in questo periodo transitorio. Non dobbiamo dimenticare che un articolo programmatico come era quello di Ignotus contro la persecuzione estetica, sostanzialmente non rivendicava altro che un posto alla letteratura del Nyugat accanto alla letteratura ufficiale ungherese. Non si trattava affatto di rovesciare, di distrug­gere la letteratura ufficiale ungherese. Soltanto Ady era di questa opinione, allora; ma a questa sua posizione è collegato anche il fatto che mentre gli altri intellettuali, nel migliore dei casi, simpatizzavano con o aderivano agli Jászi, e coloro che erano attratti dal movimento operaio, si orientavano invece verso l’austromarxi­smo, Endre Ady, dal punto di vista politico era un fenomeno completamente isolato, che non disponeva di uno spazio più largo, nell’Ungheria di allora, pur avendo di tempo affascinato una parte dei suoi lettori. Credo che per capire il significato di Ady, bisogna partire da qui. Si può spiegare così quella tensione della poesia di Ady che non si ritrova in nessun altro scrittore dell’epoca, perché gli altri o discendevano dall’ebraismo e perciò seguivano il compromesso della borghesia ebraica in un modo un po’ più di sinistra, o provenivano da famiglie della piccola o media nobiltà e non volevano neanche tagliare i fili che li legavano alla loro origine. Nel caso di Mihály Babits per esempio ciò è molto chiaro. Tutto il confronto Petőfi-Arany serviva soltanto a con­cedere, alla gente beneducata, qualche legame con la decadenza occidentale, ma dio ci guardi, nessuno doveva aver a che fare ve­ramente con fenomeni così triviali come quelli di Petőfi. Natural­mente c’è una dose di caricatura in questo modo di presentare le cose. Ma credo che in un certo qual modo così si caratterizzi meglio il Nyugat.

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Si tratta del realismo

di György Lukács

[traduzione nostra del saggio inedito Es geht um den Realismus, apparso sulla rivista Wort, no.6 giugno 1938, p.112-38. Un breve estratto di questo testo era stato pubblicato su «La fiera letteraria», 4 dicembre 1949, col titolo L’estetica d’avanguardia. Il testo si inserisce in una discussione di teoria letteraria con risvolti politici immediati, in cui L. si confronta/scontra con i teorici dell’Espressionismo e, in particolare, con Ernst Bloch. Tutte le note sono nostre].


Ai loro tempi, i borghesi rivoluzionari conducevano una lotta feroce per la causa della loro classe, con tutti i mezzi, compreso quello della bella letteratura. Cosa fece ridere i resti del cavalierato generale? Il Don Chisciotte di Cervantes. Il Don Chisciotte è stata l’arma più forte nelle mani della borghesia nella sua lotta contro il feudalesimo, contro l’aristocrazia. Il proletariato rivoluzionario ha bisogno di almeno un piccolo Cervantes (risate) che gli dia un’arma del genere. (Risate, applausi).

G. Dimitroff, Discorso alla serata antifascista nella Casa degli Scrittori di Mosca

Il dibattito sull’Espressionismo nel «Wort» presenta qualche difficoltà per chi vi arriva in ritardo; molti hanno difeso appassionatamente l’Espressionismo. Ma nel momento in cui si dovrebbe dire concretamente chi dovrebbe essere lo scrittore espressionista esemplare, o addirittura chi merita di essere chiamato espressionista, le opinioni divergono così nettamente che non c’è un solo nome che non venga contestato. A volte ci si chiede persino – soprattutto leggendo certe appassionate difese – se esistano degli espressionisti. Ma dacché qui non affrontiamo la valutazione di singoli scrittori, quanto i principi dello sviluppo della letteratura, la decisione su questa questione riveste poca importanza per noi. Nella storia della letteratura esiste indubbiamente un Espressionismo come tendenza di sviluppo letterario, con i suoi poeti e i suoi critici. Nelle osservazioni che seguono ci limiteremo a questioni di principio.

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Tentativi e forme di lotta dell’organizzazione antifascista in Ungheria

di Carlo Benedetti

«l’Unità», 23 settembre 1969


[L’articolo a cui si fa riferimento è Emlékezés Károly Mihályra, «Új Irás», no.8, 1969, p.61-62]

Lettera da Budapest. Un importante articolo di György Lukács su «Új Irás»

La figura di Mihály Károlyi e i sondaggi per la creazione di un partito legale dei contadini – Perché il piano non fu attuato – L’ostinata e appassionata opposizione di Béla Kun

BUDAPEST, settembre.

La figura di Mihály Károlyi presidente della Repubblica sorta in Ungheria nel 1918 e passata alla storie con il nome di rivoluzione delle rose d’autunno viene rievocata da György Lukács nell’ultimo numero delle rivista culturale «Új Irás» (Nuova scrittura).

«Ho conosciuto Mihály Károlyi – scrive Lukács – solo nell’emigrazione perché al tempo delle sue prime apparizioni politiche non mi trovano spesso a Budapest. Il suo atteggiamento, durante la guerra, non mi interessava troppo. Ero contro la guerra, e la vittoria degli imperi centrali, ma avevo d’altra parte pochissima fiducia che la vittoria dell’Intesa potesse portarci ad un notevole rinnovamento. Solo nell’inverno 1918-1919 cominciai a prestare maggiore attenzione alla sua attività. È vero che da comunista presi posizione contraria a tutto il governo di ottobre, ma era poi impossibile non accorgersi che nel governo solo Mihály Károlyi rappresentava, in modo decisivo e con convinzione, le idee rivoluzionarie insite nella trasformazione democratica borghese di ottobre. Károlyi non aveva riguardo per quello che avrebbero detto le vecchie classi dirigenti in merito alle eventuali misure di riforma. Sia Jászi che la cosiddetta sinistra Socialdemocratica erano sempre preoccupati per la rottura o l’eventuale indebolimento di tali rapporti. Mihály Károlyi, no. Fu questo a renderlo, in quei tempi, ai miei occhi, un avversario stimato».

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L’estetica d’avanguardia

di Györky Lukács

«La fiera letteraria», 4 dicembre 1949

[Questo è un brano di un testo più ampio sull’Espressionismo dal titolo Es geht um den Realismus (Si tratta del realismo), pubblicato sulla rivista «Wort», no.6, 1938, mai tradotto in italiano, e che costituisce un frammento di un confronto polemico con Ernst Bloch, in cui l’autore difende e motiva filosoficamente e politicamente la sua difesa del realismo contro l’espressionismo, difeso da Bloch e altri intellettuali del tempo.]


Rudolf Leonhard ha pienamente ragione quando considera l’espressionismo un necessario fenomeno storico. Ma ha ragione soltanto a metà, quando, applicando al suo ragionamento il celebre concetto hegeliano, così continua: «L’espressionismo fu, e in quanto fu, al suo tempo razionale (vernünftig)». Neppure in Hegel è cosi semplice il concetto della «Vernunft della storia», quantunque il suo idealismo trasformi il concetto di ragione, di Vernunft, in una apologia di ciò che esiste. Tanto meno facile è la razionalità, la Vernünftigkeit (ossia la necessità storica) per il marxismo. Il riconoscimento della necessità storica da parte del marxismo non è né una giustificazione di ciò che esiste (neppure nel momento in cui esiste) né la espressione di una fatalistica necessità insita nella storia. Ciò può essere spiegato nel migliore dei modi ricorrendo ad un esempio economico. Senza dubbio la originaria accumulazione dei beni, il distacco dei piccoli produttori dai propri mezzi di produzione, la formazione del proletariato con tutti i conseguenti inumani orrori, furono una necessità storica. Ciononostante, un marxista non si sognerà mai di esaltare l’attuale borghesia inglese ritenendola la depositaria hegeliana della Vernunft. Ed ancor meno un marxista si sognerà di individuare in essa la fatalistica necessità di una evoluzione del capitalismo al socialismo. Lo stesso Marx ha ripetutamente protestato per la fatalistica opinione (applicata persino alla Russia del suo tempo) per cui la via che conduce dalla originaria accumulazione dei beni al capitalismo sia l’unica possibile. Oggi poi, nelle condizioni in cui si trova il socialismo realizzatosi nell’Unione Sovietica, l’opinione che i paesi primitivi debbano giungere al capitalismo attraverso l’originaria accumulazione dei beni e soltanto più tardi al socialismo, è considerata un vero e proprio programma controrivoluzionario. Se perciò concordiamo con Leonhard nell’affermare la necessità storica della nascita dell’espressionismo, ciò non significa affatto che ne riconosciamo la validità artistica, né riconosciamo che esso rappresenta un necessario fondamento per l’arte dell’avvenire. Perciò non possiamo concordare con Leonhard laddove egli vede nell’espressionismo «l’affermazione dell’uomo e l’elaborazione delle cose onde rendere possibile il nuovo realismo».

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I problemi del socialismo nel nostro tempo

di György Lukács

«l’Unità», 11 giugno 1968


[La versione completa dell’intervista è stata poi raccolta in volume in Il marxismo nella coesistenza, Editori Riuniti, Roma 1968, con lo stesso titolo del volume che la contiene]

L’intervista di Lukács al «Contemporaneo» di Budapest

Nel numero di maggio della rivista letteraria ungherese Kortárs (Contemporaneo) è apparsa — ripubblicala poi nel suo testo integrale su Rinascita del 31 maggio — una intervista di grande interesse culturale e politico del compagno György Lukács, uno dei più grandi filosofi marxisti viventi. Ne riportiamo qui in largo estratto i punti essenziali.

Dopo il ventesimo congresso la politica americana è stata costretta a riconoscere che la politica del roll-back, tendente all’annullamento dei risultati della guerra mondiale con l’esibizione della supremazia militare, è fallita e che a causa del patto atomico occorre cercare un certo tipo di pacifica convivenza con l’Unione Sovietica per un periodo più o meno lungo. Nasce da ciò una situazione del tutto particolare; da una parte l’accordo atomico rende la guerra estremamente improbabile, dall’altra continuano a sussistere tutte le possibili cause della guerra.

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Giorgio Lukács e la storia della letteratura in Germania

di Umberto Barbaro

«l’Unità», 18 aprile 1956


Quasi innumerevoli sono le teorie della letteratura tedesca dal tempo dei fondatori della teoria e della pratica della storiografia, sedicente scientifica, della Nationalliteratur, Korberstein e Gervinus fino ai nostri giorni, poniamo fino al  bene informato ed utilmente maneggevole manuale dei professori Koch e Vogt,  che ha avuto tutta una serie di edizioni ed una diffusione straordinaria in Germania e che, anche da noi, fu larghissimamente venduto – a rate – nelle edizioni UTET, ad ornamento, con la sua bella legatura e con le sue ricche tavole a colori, delle case borghesi. Un secolo e più di professorale rovello in Germania, per definire ed applicare un metodo, per la storiografia letteraria, brevettato da crismi universitari e ufficiali e quindi infallante: filologico, biografico, comparativo e poi, via via, a ruota libera, geistesgeschichtlich, seelengeschichtlich, ideengeschichtlich, stammgeschichtlich, stilgeschichtlich, formgeschichtlich, […] cioè delle storie della letteratura come storia dello spirito, delle anime e, delle idee, delle derivazioni, dello stile, delle forme e chi più ne ha più ne metta. finché non venne addirittura la iniqua ignominia nazista della filosofia razziale  e della letteratura blubo, cioè del sangue e del suolo patrio (Blut und Boden).

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Cordiale incontro tra Lukács ed esponenti della cultura italiana

«l’Unità», 3 maggio 1956


In occasione della pubblicazione del libro di Giorgio Lukács Letteratura sovietica gli Editori Riuniti hanno ieri promosso, presso la loro sede, un incontro tra il grande critico ungherese, da alcuni giorni a Roma, e un gruppo di uomini di cultura italiani. Vi hanno partecipato tra gli alti Sibilla Aleramo, Vasco Pratolini, Umberto Barbaro, Carlo Bernardi, Alberto Carocci, Natalino Sapegno, Giorgio Bassani, Carlo Muscetta, Gastone Manacorda, Roberto Panzieri, Gaetano Trombatore, Ercole Maselli, Nicola Carletta, Dario Puccini, Niccolò Gallo e Enzo Nizza, Roberto Bonchio, Aldo d’Alfonso per gli Editori Riuniti e molti altri ancora.

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György Lukács su Wikiradio (Radio Rai Tre)

Il 13 aprile 1885 nasce a Budapest, in Ungheria, György Lukács. Con Federigo Argentieri – Repertorio: frammento dallo sceneggiato radiofonico “Toller” di Tankred Dorst, diretto da Luigi Durissi, Compagnia di Prosa di Firenze della Rai con Giorgio Albertazzi, 1972 , Archivio Rai); estratti dall’intervista a György Lukács dal programma televisivo Boomerang, 8/06/1971, Archivio Rai – Federigo Argentieri, studioso e accademico, insegna alla John Cabot University. Specialista di fama internazionale di storia, istituzioni politiche e storiografia dell’Ungheria.

Viva Lukács, abbasso Lukács

«l’Unità», 24 luglio 1985

di Mauro Ponzi


Cesare Cases ha raccolto in un volume i saggi e il carteggio scambiato con il grande filosofo ungherese: un lungo sodalizio tra “amore e odio”

Nel centenario della nascita di Lukács, l’editoria pullula di saggi, di articoli, di libri sul filosofo ungherese; tutti più o meno tesi a individuarne la “grandezza”, il “valore”, l’“eredità”. Da questi si distingue nettamente il libro appena uscito da Einaudi (Su Lukács. Vicende di un’interpretazione) in cui Cesare Cases raccoglie i saggi scritti sul filosofo ungherese tra il 1956 e il 1985. Il volume nel suo complesso è un vero e proprio “omaggio a Lukács” (così s’intitola anche il primo saggio). In genere le apologie (e quelle su Lukács in particolare) sono patetiche e un po’ noiose; questo libro di Cases invece è interessantissimo e si legge tutto d’un fiato. In primo luogo perché non è un’apologia, in secondo luogo perché Cases fa sfoggio di tutta la sua ironia, così caustica da rasentare il sarcasmo, in terzo luogo perché contiene degli elementi autobiografici (e un interessantissimo carteggio con Lukács stesso) che fanno del volume nel contempo anche un saggio su Cases.

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