Il filosofo e il politico Berlinguer, lettere dal Danubio a Botteghe Oscure.

di Lelio La Porta

«La Rinascita della sinistra», 28 luglio 2000

Gli appunti inediti in italiano del “giovane” Lukács, periodicamente pubblicati a Budapest a cura dell’Archivio omonimo, sono più graditi al lettore del periodo “postsocialista reale” rispetto agli scritti del Lukács “maturo”, molto spesso etichettati come ortodossi rispetto al regime di ispirazione sovietica e, per questo, rifiutati. Leggendo la scelta di riflessioni e di note del periodo di Heidelberg, 1910-1913, (il cui possesso mi è stato consentito dalla cortesia degli attuali direttori dell’Accademia d’Ungheria in Roma), si rimane stupiti di fronte all’ingegno veramente multiforme del pensatore ungherese, che si muove da Fichte a Bergson, fra etica e religione, con stupefacente competenza e dimestichezza; eppure, come dimenticare l’ultimo Lukács, tutto preso nell’analisi del problema della democrazia che pur lui il rovello continuo e causa di scelte che, spesso, sono state definite di comodo? Ma il semplicismo di simili conclusioni fa il paio con letture a volte superficiali e, queste veramente, segnate a fondo da pregiudizi ideologici di partenza.

È abbastanza agevole collocare il Lukács che in questa sede più ci preme nel tempo storico che va dalla Rivoluzione d’Ottobre allo stalinismo fino alla crisi del 1956 (XX Congresso del Pcus e fatti ungheresi) con le sue conseguenze sul mondo socialista e non solo. Fu uomo che visse il suo tempo ed il suo fu un pensiero veramente vissuto.
Sarebbe impossibile riassumere in poche righe l’opera vasta e complessa di Lukács. Qui si vuol riprendere la sua analisi dello stalinismo, scritta nel 1968 e pubblicata in Italia dall’editore Lucarini nel 1987 con il titolo L’uomo e la democrazia, con la traduzione di Alberto Scarponi, passata inosservata e sotto silenzio ma che contiene spunti di riflessione notevoli ed all’altezza delle questioni dei tempi nostri. Primo problema: il rapporto democrazia-socialismo. Già durante gli incontri tenuti nel Circolo Petofi di Budapest e che costituirono, per molti aspetti, la base teorica del ’56 ungherese, Lukács attaccava con forza gli errori dello stalinismo, mettendo in guardia contro la sua pratica politica nonostante la celebrazione già avvenuta del XX Congresso del Pcus. Il suo intento, riaffermato con forza nello scritto del 1968, era dimostrare che il socialismo non può essere imposto dall’alto, quasi per decreto, ma che esso si sviluppa dalla democrazia e, quindi, per affermarli ha bisogno di impadronirsi degli strumenti e dei valori della democrazia. Il socialismo sub specie staliniana, sosteneva Lukács, non può riformarsi se non per mezzo di una democrazia della vita quotidiana (la democratizzazione, come preferiva chiamarla il filosofo ungherese per sottolinearne la processualità) nella quale gli uomini, coscienti di vivere in un contesto planetario dominato dalla tecnica e dal capitalismo, sappiamo vedere nei loro simili delle persone insieme alle quali sia possibile creare un’opinione pubblica mondiale in grado di mobilitarsi conto quello stesso dominio.
Secondo problema: lo stalinismo in senso stretto. Nello scritto del 1968 la denuncia dei caratteri ancora profondamente staliniani delle società dell’est è spietata ed esplicita: l’assurdità della pianificazione autoritaria, le distorsioni fra i diversi settori della vita sociale, la passività della società civile, la manipolazione dell’opinione pubblica. Lukács avverte come necessario un cambiamento che non muova da norme astratte proprio per non porsi allo stesso livello della codificazione giuridica staliniana che funzionava da letto di Procuste per l’etica e la politica.
L’analisi lukacsiana dello stalinismo ha come referente metodologico, per esplicita ammissione del filosofo, il Palmiro Togliatti dell’Intervista a “Nuovi Argomenti” (n. 20, maggio-giugno 1956) nella quale si auspicava una ricerca che si sottraesse alla pura e semplice condanna del “culto della personalità” per muoversi verso un’analisi scientifica le, con giuste decisioni di riforma, di raddrizzare le cose storte e di riportare a vita sana quanto vi era di malato». Tale analisi non ha avuto seguito e, quando è stata, tardivamente, tentata, ha dato luogo ad un’implosione che ha inghiottito tutto, il meglio e il peggio.
Un aspetto della battaglia di Lukács per la democrazia è costituito dal suo instancabile impegno nella difesa dei diritti civili e politici. In questo senso va ricordata la campagna internazionale in difesa della leader comunista nera americana Angela Davis nella quale il filosofo si schierò in prima fila. L’Unità del 12 gennaio 1971 pubblicò un suo appello in difesa della comunista americana. Non è forse universalmente risaputo che, in quell’occasione, Lukács intrattenne uno scambio epistolare con Enrico Berlinguer, all’epoca vicesegretario del Pci. Poche lettere, cinque in tutto (dicembre ‘70 -febbraio ‘71 ) dalle quali, però, emergono alcune stupefacenti consonanze: l’impegno e la passione politica, la solidarietà, la lotta contro «quella idea base del capitalismo, che è (…) l’individualismo», secondo l’espressione berlingueriana; in sostanza le idee-guida della democrazia della vita quotidiana, animata dalla gramsciana passione politica che è «impulso immediato all’azione che nasce sul terreno “permanente e organico” della vita economica, ma lo supera, facendo entrare in gioco sentimenti e aspirazioni nella cui atmosfera incandescente lo stesso calcolo della vita umana individuale ubbidisce a leggi diverse da quelle del tornaconto individuale» (Gramsci, Quaderni del carcere, Q. 8, § 132). Forse l’acribia filologica non lo consentirebbe, ma il comune fondamento del
sentire e dell’agire consente di avvicinare il passo gramsciano a quello del Lukács del 1919 (Tattica e etica in Scritti politici giovanili 1919-1928) nel quale si legge che l’uomo deve agire «come se dalla sua azione o dalla sua inazione dipendesse il mutamento del destino del mondo».
Comunque, al di là degli aspetti filologici ed ermeneutici, resta un dato di fatto che rappresenta il sostrato etico della battaglia politica, culturale ed intellettuale di Lukács, Gramsci e Berlinguer: l’identità comunista, richiamarsi alla quale non è pratica giurassica, bensì completa e totale adesione al campo che riconosce nella democrazia il valore universale.

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