Lukács e Gramsci: un’analisi comparativa

di Carlos Nelson Coutinho

«Critica marxista», n.1, 2012

Convergenze e differenze tra i due grandi marxisti del Novecento. Il giovanile idealismo e la critica al determinismo marxista e a Bucharin. La divergenza sul terreno della teoria della conoscenza. Ideologia come conoscenza cha ha luogo nella prassi interattiva. Non si tratta di scegliere tra Gramsci e Lukács, ma di integrarli dialetticamente per superare i limiti di entrambi.


Mi sembra indiscutibile che György Lukács e Antonio Gramsci siano, per lo meno dalla morte di Lenin, i due maggiori pensatori marxisti del XX secolo. Seppure la bibliografia sui due sia immensa (in particolare quella su Gramsci, che ha resistito meglio di Lukács all’onda antimarxista che ha accompagnato l’egemonia del neoliberalismo e del cosiddetto pensiero postmoderno), sono pochissimi i saggi dedicati esclusivamente a una comparazione tra i due autori, nella quale si discuta dei loro possibili punti di convergenza e di divergenza1.

Questa analisi comparativa tra i due giganti del marxismo è certamente necessaria per stimolare ciò che il filosofo ungherese chiamava «rinascita del marxismo», condizione necessaria per preparare la «filosofia della prassi» (come Gramsci, anche per evitare la censura, denominò il «materialismo storico») ad affrontare le sfide del XXI secolo. Tale analisi richiede un sforzo ciclopico, che non mi propongo di sviluppare qui, neanche in modo sommario. Ciò che il lettore leggerà di seguito sono soltanto appunti preliminari, che – oltre a ricordare i pochi momenti in cui i due autori si riferiscono l’uno all’altro – indicano alcuni argomenti che, secondo la mia opinione, meritano di essere oggetto di attenzione in un’analisi comparativa di maggior respiro.

Gramsci su Lukács, Lukács su Gramsci

La prima cosa da osservare è che, nonostante Lukács e Gramsci militassero nel movimento comunista legato alla Terza Internazionale, non ci fu alcun contatto personale e diretto tra di loro. Oltre a questo, essi parlano molto poco l’uno dell’altro. Questo mi sembra giustificabile nel caso di Gramsci, il quale – arrestato nel 1926 e morto nel 1937 – non poteva conoscere l’opera della maturità di Lukács, neanche dei primi saggi pubblicati all’inizio del suo esilio moscovita. È meno giustificabile nel caso di Lukács, che è vissuto fino al 1971 e, di conseguenza, avrebbe potuto leggere e studiare la prima edizione tematica dei Quaderni del carcere, pubblicata in Italia tra il 1948 e il 1951 e tradotta in differenti lingue (più accessibili a Lukács, che non leggeva bene l’italiano) negli anni seguenti.

Gramsci parla di Lukács (il cui nome è scritto erroneamente come Lukácz) una sola volta nei Quaderni, in un paragrafo scritto probabilmente nell’ottobre-novembre 1930 (un Testo A, di prima stesura) e riscritto, senza modificazioni essenziali nella parte che si riferisce a Lukács, tra l’agosto e la fine del 1932 (un Testo C, di seconda stesura). In esso sembra ovvio che Gramsci si riferisca al famoso libro lukacsiano Storia e coscienza di classe, pubblicato nel 1923, che fu duramente criticato dalle ortodossie sia della Seconda Internazionale che dalla Terza Internazionale. È certo che Gramsci non conosceva direttamente il libro di Lukács2. In effetti, nel menzionato Testo A, egli dice esplicitamente che «conosce molto vagamente le sue [di Lukács] teorie»; e, tanto qui che nel Testo C, esprime i suoi commenti in un modo cautelatamele dubitativo: «[Lukács] può aver errato e può aver ragione». Con ogni probabilità, egli ebbe conoscenza dell’opera solamente attraverso la dura condanna subita a opera della Terza Internazionale e di alcuni filosofi sovietici. Questo sembra confermato dal fatto che Gramsci si riferisce al «Prof. Lukácz», che era precisamente il modo ironico con cui egli era nominato dai suoi accusatori. Ma va osservato che – quando Gramsci ammette la possibilità che Lukács «abbia ragione» – egli prende le distanze dalla condanna del filosofo ungherese fatta in nome di una concezione del marxismo che egli respingerà fortemente nei paragrafi dei Quaderni dedicati al Saggio popolare di Bucharin.

La menzione a Lukács è fatta nel contesto di una discussione sulla nozione di «oggettività» e coinvolge la questione della dialettica della natura.

Gramsci dice:

È da studiare la posizione del prof. Lukacz verso la filosofia della praxis. Pare che il Lukacz affermi che si può parlare di dialettica solo per la storia degli uomini e non per la natura. Può aver torto e può aver ragione. Se la sua affermazione presuppone un dualismo tra la natura e l’uomo egli ha torto perché cade in una concezione della natura propria della religione e della filosofia greco-cristiana e anche propria dell’idealismo, che realmente non riesce a unificare e mettere in rapporto l’uomo e la natura altro che verbalmente. Ma se la storia umana deve concepirsi anche come storia della natura (anche attraverso la storia della scienza) come la dialettica può essere staccata dalla natura? Forse il Lukacz, per reazione alle teorie barocche del Saggio popolare, è caduto nell’errore opposto, in una forma di idealismo3.

Nella sua Prefazione autorizzata della sua opera giovanile, scritta nel 19674, Lukács sembra concordare implicitamente con la parte negativa di questo giudizio gramsciano.

È interessante osservare che questo paragrafo di Gramsci prosegue – in un passo che non appare nella prima edizione tematica dei Quaderni – con la seguente affermazione:

È certo che in Engels (Antidühring) si trovano molti spunti che possono portare alle deviazioni del Saggio. Si dimentica che Engels, nonostante che vi abbia lavorato a lungo, ha lasciato scarsi materiali sull’opera promessa per dimostrare la dialettica legge cosmica e si esagera nell’affermare l’identità di pensiero tra i due fondatori della filosofia della praxis (Q 1449).

Non sono pochi i passaggi in cui Lukács – non soltanto in Storia e coscienza di classe, ma anche nelle sue ultime opere ontologiche5 – prende le distanze dalla concezione della dialettica di Engels, a differenza di quanto faccia rispetto a quella di Marx. Abbiamo qui un punto di convergenza tra Gramsci e Lukács che merita di essere analizzato.

Anche la conoscenza testuale dell’opera di Gramsci da parte di Lukács è sommaria. Il nome del pensatore italiano apparirà nelle opere e interviste del filosofo ungherese soltanto negli ultimi anni della sua lunga vita. In effetti, solo in vecchiaia egli ebbe conoscenza diretta dei testi gramsciani. Interrogato da Leandro Konder sulla sua opinione riguardo a Gramsci, Lukács – in una lettera datata 9 agosto 1963 – afferma esplicitamente: «Su Gramsci non mi sono occupato direttamente dei suoi scritti»6. Lukács continuò a non manifestare interesse sull’autore dei Quaderni nel corso di questa corrispondenza, benché fosse nuovamente stimolato farlo da me, in una lettera del 23 ottobre 19637.

Più tardi, tuttavia, Gramsci è menzionato direttamente nell’opera lukacsiana, con simpatia, ma anche con restrizioni. Nel capitolo della cosiddetta grande Ontologia (un’opera conclusa nel 1969), dedicato al problema dell’ideologia, Lukács inizia dicendo: «Gramsci parla di un doppio significato del termine ideologia. Nel suo interessante discorso non possiamo però non rilevare una carenza, e cioè che egli contrappone la sovrastruttura necessaria soltanto alle idee arbitrarie di singole persone. Ciò nondimeno ha il merito di aver messo in evidenza il doppio significato che sta sempre nello sfondo di questo importantissimo termine. Ma purtroppo cade subito vittima di una astrazione convenzionale»8. L’osservazione di Lukács è abbastanza imprecisa e, oltre tutto, non spiega bene quale sarebbe questa supposta “astrazione convenzionale”. Tuttavia, malgrado questa relativa incomprensione, Lukács e Gramsci – come vedremo in seguito – posseggono teorie dell’ideologia essenzialmente convergenti.

In interviste concesse poco prima di morire, Lukács tornò a parlare di Gramsci. In una di esse, pubblicata soltanto postuma, Lukács afferma: «Negli anni Venti, Korsch, Gramsci e io tentammo, ciascuno a modo suo, di affrontare il problema della necessità sociale e della sua interpretazione meccanicista, che era eredità della Seconda Internazionale. Ereditammo questo problema, ma nessuno di noi – neanche Gramsci, che era forse il migliore di tutti noi – poté risolverlo. Tutti noi ci sbagliammo»9. Qui si può vedere che, a fianco dell’elogio («era forse il migliore di tutti noi»), c’è anche la condanna sommaria («tutti noi ci sbagliammo»). Però, l’aspetto più curioso è che Lukács includeva Gramsci «negli anni Venti», sembrando così ignorare che l’essenziale dell’opera teorica di Gramsci fu scritto nella prima metà degli anni ‘30. Non mi sembra difficile concludere che, se Lukács ebbe, alla fine della sua vita, un contatto diretto con i testi di Gramsci, questo contatto fu sommario e superficiale.

L’idealismo giovanile

Tuttavia, malgrado questa conoscenza reciproca così parziale e problematica, non è difficile constatare la presenza tra i nostri due autori di importanti convergenze, prima di tutto sul piano delle scelte politiche: entrambi divennero comunisti sotto l’impatto della Rivoluzione d’Ottobre e continuarono a essere comunisti fino alla fine delle loro vite. Tali convergenze si manifestano anche, seppure in modo più problematico, sul piano della teoria.

Convergenze teoriche si manifestano inizialmente in modo negativo, ossia nel fatto che sia negli scritti giovanili di Gramsci, sia nei testi politici e filosofici di Lukács subito dopo la sua adesione al comunismo è presente una concezione idealistica del marxismo. Il superamento di questa concezione idealista appare soltanto, nel caso di Gramsci, nei suoi Quaderni del carcere, la cui redazione inizia nel 1929, e nel caso di Lukács, nei saggi che il pensatore ungherese, dopo aver conosciuto i Manoscritti economico-filolofici di Marx e i Quaderni filosofici di Lenin, nell’esilio moscovita, comincia a scrivere a partire dal 193010.

Un esempio emblematico dell’idealismo giovanile di Gramsci è il suo famoso articolo La rivoluzione contro il «Capitale» del 1917, nel quale il rivoluzionario sardo saluta con entusiasmo la rivoluzione bolscevica, con lo stesso entusiasmo manifestato da Lukács appena convertitosi al marxismo. Dopo aver affermato correttamente che «[il] massimo fattore di storia non [sono] i fatti economici, bruti, ma l’uomo, ma le società degli uomini, degli uomini che si accostano fra di loro», Gramsci conclude dicendo che questi uomini «sviluppano […] una volontà sociale, collettiva, e comprendono i fatti economici, e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebullizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla volontà piace»11. Affermazioni di questo tipo si trovano in molti altri articoli gramsciani del periodo.

Lukács della stessa epoca rivela una non inferiore tendenza all’idealismo volontarista. Nella prima versione del suo famoso saggio Che cos’è il marxismo ortodosso?, pubblicata nel 1919 in un piccolo volume suggestivamente intitolato Tattica ed etica, Lukács non esita ad affermare, «La decisione precede i fatti […]. Ed ogni marxista ortodosso […] risponderà con le parole di Fichte[…] ai marxisti volgari che volessero elencargli dei “dati di fatto” […]. “E tanto peggio per i fatti”»12. La migliore caratterizzazione di questo periodo della sua produzione teorica, che si estende dal 1919 al 1926 (per lo meno) è data dallo stesso Lukács, nella prefazione autocritica che scrisse per una riedizione delle sue prime opere marxiste13. Nonostante riconosca elementi positivi a Storia e coscienza di classe, in particolare l’insistenza sul punto di vista della totalità come principio metodologico del marxismo, Lukács – sulla base della sua concezione matura dell’ontologia dell’essere sociale – afferma, riferendosi alla sua opera giovanile: «L’ambito dell’economia viene tuttavia ridotto, essendo ad esso sottratta la sua categoria marxista fondamentale: il lavoro come mediatore dal ricambio della società con la natura […] Così la concezione della prassi rivoluzionaria in questo libro [Storia e coscienza di classe] ha appunto qualcosa di eccessivo, e ciò corrispondeva bensì all’utopismo messianico del comunismo di sinistra di allora, ma non all’autentica teoria marxiana»14.

La critica a Bucharin

Ma, se il marxismo giovanile di Gramsci e di Lukács è marcato da forti tratti idealistici, non è difficile percepire che questo idealismo ha una giustificazione, sia pur relativa: esso fu il modo trovato dai due autori per contrapporsi con enfasi al marxismo positivista che predominò all’epoca della Seconda Internazionale. Le critiche all’interpretazione positivista di Marx sono esplicite nella fase giovanile dei due autori e rimarranno nel corso delle loro produzioni teoriche della maturità15. Oltre a ciò, entrambi erano convinti che la lettura “idealista” dell’eredità marxiana da loro proposta è quella adeguata al movimento comunista che inizia con la Rivoluzione bolscevica del 1917 e alla quale entrambi aderirono con entusiasmo. Per ricordare una metafora di Lenin: tentando di raddrizzare il bastone che era storto verso destra (a opera del positivismo), essi finirono con il piegarlo eccessivamente verso sinistra (cadendo nell’idealismo). Come si sa, questa versione positivista del marxismo sarebbe stata rapidamente adottata anche dalla Terza internazionale. La prima manifestazione significativa di ciò che poi sarebbe stato chiamato “marxismo sovietico”, ampiamente dominante nall’éra stalinista, appare nel 1922 con La teoria del materialismo storico di Nikolai Bucharin, allora uno dei più importanti dirigenti dell’Internazionale Comunista e dell’Unione Sovietica. È importante registrare che sia Gramsci che Lukács criticano duramente questo libro. Il pensatore italiano lo fa nei Quaderni, in note redatte all’inizio degli anni ‘30. La critica di Lukács, sotto forma di recensione, appare già nel 1925, tre anni dopo la pubblicazione del libro di Bucharin, in un momento in cui questo libro era presentato dagli ambienti legati alla Terza Internazionale come una bibbia del materialismo storico16.

La forte critica di entrambi è convergente in punti essenziali17. Per i due pensatori, Bucharin non supera il materialismo borghese («volgare») e confonde tecnica e relazioni sociali. Lukács scrive:

La teoria di Bucharin, che s’approssima in misura considerevole al materialismo borghese delle scienze naturali […] nella sua concreta applicazione alla società e alla storia fiisce non di rado col cancellare l’elemento decisivo del metodo marxista: quello di ricondurre tutti i fenomeni dell’economia e della “sociologia” alle relazioni sociali tra gli uomini. La teoria acquista l’accento di una falsa “oggettività”: diventa feticista18.

Va nello stesso senso la formulazione di Gramsci quando osserva che, nel Saggio popolare (come lo chiama Gramsci), «la funzione storica dello “strumento di produzione e di lavoro” […] viene sostituito all’insieme dei rapporti sociali di produzione» (Q 1420). E l’autore dei Quaderni prosegue:

Nel Saggio, manca una trattazione qualsiasi della dialettica. […] L’assenza […] può avere due origini; la prima può essere costituita dal fatto che si suppone la filosofia della praxis scissa in due elementi: una teoria della storia e della politica concepita come sociologia, cioè da costruirsi secondo il metodo delle scienze naturali (sperimentale nel senso grettamente positivistico) e una filosofia propriamente detta, che poi sarebbe il materialismo filosofico o metafisico o meccanico (volgare)» (Q 1424-1445)19.

In questa comune critica al “marxismo” di Bucharin sono presenti alcuni tratti fondamentali delle concezioni teoriche mature di Gramsci e di Lukács. Al contrario di quanto affermano molti studiosi (soprattutto dell’opera lukacsiana), la grandezza e l’attualità dei due pensatori non risulta comunque dai loro esercizi giovanili, ma dalle riflessioni contenute nelle opere della loro maturità20.

Divergenze

La maturità dei nostri due autori si consolida, nel caso di Gramsci, nei Quaderni del carcere, scritti tra il 1929 e il 1935; e, nel caso di Lukács, nelle sue opere posteriori al 1926, ma soprattutto al 1930. Indipendentemente dalle loro divergenze, alcune delle quali indicheremo in seguito, sia Gramsci che Lukács si impegnano a imperare le loro posizioni idealistiche della gioventù e nel trovare una corretta fondazione materialistica e dialettica per le loro riflessioni. In altre parole: cercano di raddrizzare il bastone della metafora leniniana, elaborando un corretto tertium datur tra il materialismo volgare e l’idealismo. Questa ricerca, soprattutto nel caso di Gramsci, non ebbe sempre successo. Nell’opera matura del pensatore italiano, sebbene marginalmente (e nello specifico terreno della teoria della conoscenza), continuano a essere presenti alcuni elementi del suo giovanile idealismo. Ma limitazioni in senso inverso possono essere indicate anche nella produzione teorica matura di Lukács.

Certamente, questi tratti idealistici sono essenzialmente superati nelle riflessioni ontologiche di Gramsci sull’essere sociale: in effetti, nei suoi principali concetti, soprattutto in quelli che riguardano la sfera della politica, Gramsci articola adeguatamente le categorie di teleologia e causalità, di universale e particolare, di libertà e determinismo, in un senso molto vicino a quello che Lukács formulerà nelle sue opere ontologiche della vecchiaia21. Oltre a questo, entrambi attribuiscono al concetto di prassi (Gramsci arriva anche a definire il marxismo come una «filosofia della prassi») una posizione centrale nelle loro riflessioni22. In questo terreno ontologico, pertanto, non è difficile constatare la presenza delle molte e fondamentali convergenze tra i nostri due autori.

Al contrario, sono forti le divergenze tra entrambi sul terreno della teoria della conoscenza. In un senso molto vicino a quello che Lukács difendeva all’epoca di Storia e coscienza di classe, Gramsci continua a manifestarsi, anche nei Quaderni, contrario alla teoria del rispecchiamento, ossia all’affermazione che la conoscenza umana è un rispecchiamento della realtà oggettiva che esiste indipendentemente dalla nostra coscienza. Questo rifiuto della realtà oggettiva ha una giustificazione relativa quando si pensa alle concezioni meccanico-fotografiche del rispecchiamento, delle quali non sfugge neanche il Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo (al quale Gramsci non si riferisce mai). L’autore dei Quaderni insiste correttamente, avvalendosi in molti casi delle Tesi su Feuerbach di Marx, sul ruolo attivo della soggettività nella costruzione della conoscenza, anche della conoscenza della natura. Ma, certamente, manifesta una posizione idealistica in alcuni passi dei Quaderni come, per esempio, nello scrivere che «quando si afferma che una realtà esisterebbe anche se non esistesse l’uomo o si fa una metafora o si cade in una forma di misticismo. Noi conosciamo la realtà solo in rapporto all’uomo e siccome l’uomo è divenire storico anche la conoscenza e la realtà sono un divenire, anche l’oggettività è un divenire ecc.» (Q 1418; la sottolineatura è mia). Per la concezione materialista di Lukács, al contrario, l’uomo e la conoscenza hanno un divenire proprio perché la realtà (naturale e sociale) è un divenire.

Una posizione idealistica appare anche, per lo meno in ciò che si riferisce alla conoscenza della natura, quando Gramsci definisce il suo concetto di oggettività: «Oggettivo significa sempre “umanamente oggettivo”, ciò che può corrispondere esattamente a “storicamente soggettivo”, cioè oggettivo significherebbe “universale soggettivo” (Q 1415-1416). È evidente che la legge della gravità esisteva oggettivamente prima che divenisse un “soggettivo universale”, o anche prima che Newton l’avesse formulata. Non sono pochi i passi dei Quaderni nei quali Gramsci, reagendo al materialismo volgare di Bucharin, afferma posizioni tendenzialmente idealistiche sul terreno della teoria della conoscenza23. Questa sua concezione dell’oggettività – intesa come l’“universale soggettivo” – è certamente inadeguata quanto tentiamo di concettualizzare il modo peculiare con il quale si dà la percezione dell’oggettività nelle scienze della natura.

Al contrario, una delle caratteristiche fondamentali dell’opera matura di Lukács, che mostra il suo superamento delle posizioni difese in Storia e coscienza di classe è precisamente l’adozione esplicita e reiterata della teoria del rispecchiamento. In effetti, dall’inizio degli anni ’30, Lukács insiste con enfasi che tutte le forme di conoscenza – e, pertanto, sia la scienza che l’arte – sono riflessi della realtà oggettiva, di una realtà che esiste indipendentemente dalla coscienza. Già in un saggio del 1934, egli affermava enfaticamente qualcosa che ripeterà esaustivamente nei suoi testi della maturità: «La teoria del rispecchiamento è la base comune di tutte le forme di padroneggiamento teoretico e pratico della realtà da parte della coscienza umana, ed è quindi la base anche della teoria del rispecchiamento artistico della realtà»24. Lukács ha sempre insistito che questo rispecchiamento non è meccanico-fotografico, ma implica un ruolo attivo del soggetto, in particolare del soggetto pratico. È precisamente in base a questa definizione non meccanica del rispecchiamento che Lukács, per esempio, distingue il realismo dal naturalismo, una distinzione essenziale nella sua teoria estetica della maturità. Tuttavia, la difesa di questa corretta posizione epistemologica non ha sempre evitato – in particolare nei saggi situati tra gli anni ’30 e ’50 – alcune concessioni a una concezione materialistico-volgare della teoria dei rispecchiamento, che risultano in gran parte dall’accettazione acritica delle posizioni del Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo, in un saggio della seconda metà degli anni ‘40, Lukács scrive ad esempio:

In Empiriocriticismo e materialismo – (sic!), la sua principale opera filosofica, Lenin dà una chiara definizione della differenza, creata dall’evoluzione storica, che separa la sua epoca da quella di Marx e di Engels. L’ideologia degli autori del Manifesto Comunista è un materialismo dialettico e storico, mentre all’epoca in cui si situa l’attività di Lenin, il centro di gravità del problema si sposta: l’evoluzione del pensiero è ormai imperniata su un materialismo dialettico e storico25.

Benché introduca in questo saggio varie qualificazioni dialettiche nella sua peculiare teoria dei rispecchiamento (che non si trovano nel libro citato di Lenin), l’adozione di una falsa alternativa tra materialismo e dialettica, per lo meno in ciò che si riferisce all’enfasi, rivela una fedeltà maggiore a Materialismo ed empiriocriticismo che al metodo materialistica e dialettico di Marx ed Engels. È curioso osservare che Gramsci difende una posizione simmetricamente inversa: «Si è dimenticato in una espressione molto comune che occorreva posare l’accento sul secondo termine “storico” e non sul primo di origine metafisica. La filosofia della praxis è lo “storicismo” assoluto» (Q 1437). Mi sembra evidente che Lukács e Gramsci si pongono qui in estremi egualmente unilaterali. Secondo me, la soluzione corretta del problema evocato deve essere trovata in un tertium datur che articoli, senza privilegio di una o dell’altra, le determinazioni materialista e storico-dialettica del metodo marxista, come del resto fanno i due pensatori quasi sempre nelle loro concrete riflessioni filosofiche.

Solo nelle sue opere dell’ultima fase, in particolare nell’Estetica e nell’Ontologia, Lukács propone importanti innovazioni alla sua teoria del rispecchiamento, andando al di là delle schematiche formulazioni del Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo. Non mi riferisco soltanto all’uso del concetto di mimesis (che rende più raffinata la teoria del rispecchiamento, in particolare del rispecchiamento estetico), ma soprattutto la distinzione tra rispecchiamento disantropomorfizzante e rispecchiamento antropomorfizzante26. Per il filosofo ungherese, questa sarebbe la principale differenza tra il rispecchiamento scientifico e il rispecchiamento artistico della realtà. Distinguendosi dal pensiero quotidiano, ingenuamente antropomorfico, la scienza si costituirebbe nel tentare di percepire la realtà in modo più oggettivo possibile, ossia senza alcun accrescimento o proiezione estranea all’oggetto da parte del soggetto che conosce. Lukács non esita affatto a dire che la matematizzazione è l’ideale (sebbene irrangiungibiìe) di ogni scienza, anche della filosofia e delle scienze sociali27. Nell’arte, al contrario, Lukács afferma che la percezione della realtà è sempre legata al soggetto: riprendendo un’espressione di Hegel (che aveva adottato in Storia e coscienza di classe come caratteristica della coscienza vera del proletariato), il pensatore ungherese scrive che, anche nelle oggettivazioni estetiche, abbiamo un soggetto-oggetto identico, poiché in esse si manifesta una sintesi dell’in-sé e del per-noi, il che rende l’opera d’arte un ente per-sé28.

Senza negare la giustezza essenziale della distinzione lukacsiana tra i due tipi di rispecchiamento, potremmo chiederci: le caratteristiche antropomorfizzanti che Lukács indica nelle oggettivazioni estetiche non si manifestano anche, sebbene con modalità diverse, nella filosofia e nelle scienze sociali? Non occorrerebbe anche in queste due modalità del rispecchiamento della realtà una integrazione organica di soggetto e oggetto, in modo che anche in esse si dia una relativa unità di soggetto e oggetto? Ora, l’affermazione di questa unità è tanto più plausibile quando ricordiamo, con lo stesso Lukács delle opere ontologiche, che l’attività umana – e, pertanto, l’oggetto delle scienze sociali e della filosofia – presenta due modalità di essere, o, più precisamente, di prassi, che potremmo definire come lavoro e interazione.

È certo che Lukács eviti ogni dualismo di matrice kantiana (riprodotto nella formulazione del problema in Habermas, ad esempio nella sua Teoria dell’agire comunicativo), quando mostra che entrambe le modalità dell’essere sociale hanno la loro origine ontologico-genetica nel lavoro, nel metabolismo tra l’uomo e la natura, che egli considera «il modello di ogni forma di prassi sociale»29. Ma questa posizione unitaria non porta Lukács a dimenticare che abbiamo qui un’unità nella diversità. In effetti egli dice:

[Il lavoro si caratterizza per essere] un processo fra attività umana e natura: i suoi atti tendono a trasformare alcuni oggetti naturali in valori d’uso […] Nelle forme successive e più evolute di prassi sociale accanto a questo viene maggiormente in primo piano l’azione su altri uomini, che mira in ultima istanza – ma solo in ultima istanza – a mediare la produzione di valori d’uso. Anche in questo caso il fondamento ontologico-strutturale è costituito dalle posizioni teleologiche e dalle serie causali che esse mettono in moto. Il contenuto essenziale della posizione teleologica, però, a questo punto […] è il tentativo di indurre un altra persona (o un gruppo di persone) a espletare da parte sua alcune concrete posizioni teleologiche. […] [In questo caso] il fine posto è nell’immediato finalità di altre persone30.

Abbiamo qui pertanto una decisiva distinzione tra due modalità di azione umana, entrambe costitutive, di lavoro e prassi. Proprio in base alla teoria del rispecchiamento c’è da supporre che questi due tipi di azione umana – l’azione sulla natura e l’azione sugli altri uomini – mobilitano differenti modalità di conoscenza, diverse in entrambi i casi di conoscenza dell’essere naturale (organico e inorganico). Il lavoro – il metabolismo tra l’uomo e la natura – richiede senza dubbio un rispecchiamento disantropomorfizzante della realtà; deve anche essere disantropomorfizzante la conoscenza preliminare dei motivi dell’azione di altri uomini o gruppi, sui quali voglio esercitare la mia azione teleologica – come, fra l’altro, ben sapeva Machiavelli. In entrambi i casi, l’oggettività è ciò che si pone fuori e indipendentemente dal soggetto epistemologico, del soggetto che conosce, il quale ha come meta il rispecchiaineiito di una realtà esteriore alla sua coscienza.

Un’altra situazione si dà quando cerco di determinare, con la mia azione, l’azione di altri uomini. In questo caso, devo ricorrere al mio potere di persuasione o convincimento, anche quando ricorro alla coercizione (devo convincere l’altro che è meglio sottomettersi al mio desiderio che soffrire la coercizione). Dato che in questo caso la mia azione si esercita sull’azione di altri uomini – o l’azione del mio gruppo si esercita sull’azione di altri grappi –, abbiamo il tipo di prassi che potremmo chiamare interattiva. Non è difficile, per i lettori dei Quaderni percepire che è questo tipo di prassi al quale Gramsci si dedica esclusivamente nella sua opera della maturità. I concetti di catarsi, di relazioni di forza, di volontà collettiva, di egemonia, di Stato integrale e tanti altri si riferiscono a fenomeni dell’essere sociale che si pongono nella sfera dell’interazione (o della prassi) e non in quella del lavoro.

Dopo di questa digressione, possiamo ritornare al concetto gramsciano di «oggettività», al quale mi sono già riferito. Se, come vediamo, egli ha evidentemente sbagliato nel riferirsi alle scienze della natura e anche ad alcuni aspetti delle scienze sociali, tale concetto assume un significato euristico quando ci confrontiamo con forme di interazione sociale, in particolare quelle che hanno luogo sul terreno della politica, che fu quello al quale Gramsci si dedicò più da vicino. In altre parole: se questo concetto di oggettività è sbagliato sul terreno della pura teoria della conoscenza, ha un inestimabile valore sul terreno dell’ontologia dell’essere sociale. Come già sapevano Hegel e Marx (e come riafferma il vecchio Lukács), l’essere sociale è formato dall’intima articolazione dialettica tra oggettività e soggettività, tra causalità e teleologia. Prendiamo l’esempio del concetto di egemonia, un concetto centrale nel pensiero di Gramsci. Esiste «egemonia» quando un gruppo sociale ottiene il consenso di altri gruppi per le sue proposte e, pertanto, quando l’azione teleologica del primo gruppo incide con successo in quella del secondo. Affinché ciò accada, è necessario che entrambi i gruppi condividano concetti e valori comuni – ossia, in questo caso diventa oggettivo proprio quello che è «universalmente soggettivo». Senza la condivisione di questi concetti e valori, senza la creazione di questa intersoggettività, proposte come quelle della democrazia o del socialismo, per esempio, si conservano a un livello soggettivo di intenzioni, senza acquisire condizioni di diventare una effettiva oggettività sociale. È vero – e Gramsci è cosciente di ciò – che, per aver luogo la formazione di questa «universalità soggettiva», è necessario che siano date nella realtà, indipendentemente dalla coscienza e dalla volontà degli uomini, le condizioni che permettano la loro conversione in oggettività. Ma questa conversione della potenza in atto non accade senza la costruzione di una intersoggettività fondata nella convergenza di differenti azioni teleologiche. Così con realismo Gramsci completa la sua specifica definizione di oggettività, ponendosi in relazione strettamente con la storia e con il superamento della società di classe (che è all’origine delle ideologie nel senso peggiorativo dell’espressione):

L’uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che sono la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie non universali concrete ma rese caduche immediatamente dall’origine pratica della loro sostanza. C’è quindi una lotta per l’oggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l’unificazione culturale del genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano “spirito” non è un punto di partenza, ma di arrivo, l’insieme delle soprastrutture in divenire verso l’unificazione concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario ecc. (Q 1418).

Ideologia

Questa divergenza epistemologica tra Gramsci e Lukács si trasforma in convergenza quando entrambi espongono i loro rispettivi concetti di ideologia. Per entrambi, senza che ciò sia formulato in modo esplicito, l’ideologia è precisamente il tipo di conoscenza che ha luogo nella prassi interattiva. In altre parole, l’ideologia non è per essi soltanto “falsa coscienza”, ma anche qualcosa che interferisce nella costruzione della vita sociale e diventa cosi una realtà socio-ontologica. Potremmo anche dire che, nella concezione dell’ideologia, Lukács mostra di aver visto – seppure senza riconoscerlo esplicitamente – la distinzione tra la conoscenza che ha luogo nel lavoro e quella che ha luogo nell’interazione sociale.

Nella tradizione marxista, possiamo constatare la presenza di due concetti di ideologia, non contraddittori, ma certamente diversi, uno di natura epistemologica, l’altro di natura ontologica. Questa dualità si trova anche nello stesso Marx. Nell’Ideologia tedesca, il concetto ha un’accezione di “falsa coscienza”, ossia, appare come la quasi sempre involontaria deformazione nella percezione della realtà, che risulta da un limitato punto di vista di classe. Una chiara esplicitazione di questa prima azione dell’ideologia appare ne Il diciotto brumaio, quando Marx afferma:

Non ci si deve rappresentare le cose in modo ristretto, come se la piccola borghesia intendesse difendere per principio un interesse di classe egoistico. Essa crede, al contrario, che le condizioni particolari della sua liberazione siano le condizioni generali, entro alle quali soltanto la società moderna può essere salvata e la lotta di classe evitata. Tanto meno si deve credere che i rappresentanti democratici siano tutti bottegai o che nutrano per questi un eccessiva tenerezza. Possono essere lontani dai bottegai, per cultura e situazione personale, tanto quanto il cielo è lontano dalla terra. Ciò che fa di essi dei rappresentanti del piccolo borghese è il fatto che la loro intelligenza non va al di là dei limiti che il piccolo borghese stesso non oltrepassa nella sua vita, e perciò essi tendono, nel campo della teoria, agli stessi compiti e alle stesse soluzioni a cui l’interesse materiale e la situazione sociale spingono il piccolo borghese nella pratica. Tale è, in generale, il rapporto che passa tra i rappresentanti politici e letterari di una classe e la classe che essi rappresentano31.

In questo passo, è fondamentale l’indicazione che l’ideologia discende non soltanto dalla capitolazione alla spontaneità immediata della vita, all’apparire fenomenico dell’economia, ma anche dalla confusione – legata a quella capitolazione – tra lo speciale e il generale, il particolare e l’universale.

Un’altra concezione appare, però, tra altri testi, nella famosa Prefazione del 1859, tanto spesso citata da Gramsci. Ricordiamo che in essa Marx scrive:

È indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo32.

L’ideologia qui diventa, indipendentemente dalla sua veridicità o falsità epistemologiche, il medium conoscitivo attraverso il quale gli uomini interferiscono nella e modificano la realtà. Malgrado siano condizionate dai «mutamenti materiali occorsi nelle modificazioni economiche della produzione», le «forme ideologiche» non sono un mero epifenomeno, ma un elemento determinante della stessa realtà sociale e della soluzione delle sue contraddizioni. Se la fede in Dio diventa un “universale soggettivo”, nelle parole di Gramsci, Dio si converte in una realtà ontologico-sociale, che mobilita l’azione pratica degli uomini, indipendentemente dal fatto che siamo davanti a una “falsa coscienza” sul piano epistemologico e dell’ontologia della natura. Allo stesso modo, indipendentemente dal fatto di esprimere sul piano gnoseologico una coscienza vera della realtà storico-sociale, il marxismo diventa soltanto una realtà socio-ontologica, con effettiva incidenza nella vita reale degli uomini, quando – nelle parole del giovane Marx – «si impadronisce delle masse», ossia quando diventa un “universale soggettivo”.

In questo modo, sia Gramsci che Lukács, rispettivamente nei Quaderni e nelle due versioni dell’Ontologia, insistono su questo carattere ontologico-sociale dell’ideologia e lo vincolano in modo esplicito alla prassi politica in quanto azione interattiva33. In effetti, mostrando che la filosofia è anche un’ideologia, Gramsci definisce quest’ultima come «unità della fede tra una concezione del mondo e una norma di condotta conforme […]. Ecco quindi che non si può staccare la filosofia dalla politica e si può mostrare anzi che la scelta e la critica di una concezione del mondo è fatto politico anch’essa» (Q 1378-1379), Nello stesso senso, Lukács definisce l’ideologia come qualcosa che trascende il livello epistemologico e si lega direttamente all’azione pratica. Egli scrive:

L’ideologia per l’appunto, pur essendo una forma della coscienza, non è affatto in tutto e per tutto identica alla coscienza della realtà, essa in quanto mezzo per combattere i conflitti sociali è qualcosa di eminentemente diretto alla prassi e quindi – naturalmente nel quadro della sua specificità – partecipa anche del carattere peculiare di ogni prassi, e cioè quello di essere orientata su una realtà da trasformare (dove, come abbiamo visto, la difesa della realtà data contro i tentativi di cambiamento ha la medesima struttura pratica34.

Pertanto, nei due pensatori, l’ideologia appare come qualcosa che trascende il livello epistemologico e guadagna una esplicita dimensione pratica, ossia ontologico-sociale35.

Infine, è opportuno notare un’importante differenza tra Gramsci e Lukács, che non è in questo caso una divergenza – ma, innanzitutto, una differente scelta del punto focale dei loro interessi teorici, differenza certamente condizionata dalle condizioni concrete in cui entrambi agirono. Come marxisti che adottano il punto di vista della totalità, entrambi trattano delle varie sfere dell’essere sociale, tra le quali la filosofia, la politica e l’arte. Abbiamo già visto le convergenze e le divergenze che accadono tra le loro rispettive concezioni filosofiche. Ma al di là delle riflessioni strettamente “filosofiche”, è facile osservare che, mentre Gramsci elabora concetti fondamentali sul terreno di ciò che egli chiama «scienza politica della filosofia della prassi», Lukács sviluppa e sistematizza preferenzialmente le categorie estetiche del marxismo. Non c’è, in tutta l’opera marxista di Lukács una trattazione teorica soddisfacente delia specificità della politica in quanto sfera relativamente autonoma dell’essere sociale. La preoccupazione del filosofo ungherese verso la politica, seppure sempre decisiva nella sua azione pratica, oscillò sul piano teorico tra due posizioni egualmente problematiche: 1) o la politica è trattata a un livello di astrazione che la svuotava della sua specificità concreta (come è chiaramente il caso di Storia e coscienza di classe e soprattutto dei suoi scritti politici immediatamente successivi alla sua adesione al comunismo): 2) o egli si limita a proclamare una ammirazione acritica per la personalità e l’opera di Lenin, dagli ultimi saggi di Storia e coscienza oli classe (superato il lussemburghismo residuale ancora presente nei primi) fino al suo libro postumo sulla necessaria democratizzazione del socialismo, dove tutti i problemi di una complessa formazione sociale in crisi sembrano poter essere risolti mediante un “ritorno a Lenin”36. Nella sua ciclopica Ontologia, Lukács non dedica più di 40 pagine all’analisi teorica della politica37 – e lo fa nel quadro di una discussione sull’ideologia, quando, anche d’accordo con la sua metodologia, avrebbe dovuto essere il contrario: non a caso, la «priorità ontologica» (per usare un suo importante concetto) riguarda la politica in quanto realtà interattiva, e non l’ideologia, che è la forma di coscienza mobilitata dalla prassi politica38.

Gramsci, al contrario, elaborò un’autentica ontologia materialistica e dialettica della prassi politica: nei Quaderni abbiamo una critica ontologica della politica che, nei suoi risultati teorici, realizza le indicazioni metodologiche della “critica dell’economia politica” marxiana, le stesse che inspirano, sul piano metodologico generale, l’Ontologia di Lukács, ossia, la trattazione dei fenomeni particolari a partire dal punto di vista della totalità e della storicità. Da questi risulta in Gramsci un ricchissimo apparato categoriale, che parte da Lenin ma va al di là di lui, apparato indispensabile per la comprensione marxista della politica; basta ricordare che Gramsci elabora una nuova teoria dello Stato e della rivoluzione, i concetti di egemonia e di società civile, di guerra di movimento e guerra di posizione, di volontà collettiva, di rivoluzione passiva, ecc.39. Cercheremmo invano simili innovazioni nell’opera di Lukács.

All’inverso, le interessanti osservazioni di Gramsci su arte e letteratura neanche lontanamente si avvicinano alla ricchezza categoriale con cui Lukács tratta le questioni dell’estetica. Di certo Gramsci, ebbe lucidità nel rifiutare il sociologismo volgare – tanto spesso confuso con il marxismo – nell’analisi dell’arte. In effetti, egli afferma:

Due scrittori possono rappresentare (esprimere) lo stesso momento storico-sociale, ma uno può essere artista e l’altro un semplice untorello. Esaurire la quistione limitandosi a descrivere ciò che i due rappresentano o esprimono socialmente, cioè riassumendo, più o meno bene, le caratteristiche di un determinato momento storico-sociale, significa non sfiorare neppure il problema artistico (Q 2187).

Non si possono neanche porre da parte le sue suggestive analisi della letteratura popolare, come le molte osservazioni sui romanzi da felleuiton. Ma Gramsci non ci fornisce le categorie che permettono di distinguere tra il vero artista e il «semplice untorello». Al contrario, esse sono ampiamente presenti in Lukács, quando tratta delle caratteristiche del realismo (in quanto diverso dal naturalismo e dal formalismo) della natura del tipico nell’arte, della differenza tra narrare e descrivere, del ruolo centrale della particolarità nel rispecchiamento estetico, della distinzione tra rispecchiamento antropomorfizzante e disantropomorfizzante, ecc.

Molte cose ancora potrebbero e dovrebbero essere dette sulla relazione tra Lukács e Gramsci. Un’analisi esaustiva comparativa tra di essi sarebbe assolutamente necessaria se volessimo superare l’impasse in cui si trova oggi il marxismo e predisporlo ad affrontare le sfide dell’attualità. Lukács e Gramsci sono indiscutibilmente parte essenziale di quel patrimonio che forma il punto di partenza per una rinascita del marxismo. Queste annotazioni avranno raggiunto il loro obiettivo se avranno convinto il lettore che non si tratta di scegliere tra Gramsci o Lukács, ma – senza dimenticare le loro divergenze – di provare a trovare i punti di convergenza che ci permettano di superare i limiti di entrambi per mezzo di una integrazione dialettica tra i loro punti forti, che sono molti.

(traduzione di Antonino Infranca)

1 Non sono pochi i libri e i saggi che parlano di Gramsci e di Lukács, ma senza che ciò implichi una comparazione sistematica tra di loro. Sul tema, ricordo due piccoli saggi: M. Löwy, Gramsci e Lukács: em direção a um marxismo antipositivista, in Id., Romantismo e messianismo, São Paulo, Edusp-Perspectiva, 1990, pp. 97-110; e G. Oldrini, Gramsci e Lukács avversari del marxismo della Seconda Internazionale, in Id., I compiti della intellettualità marxista, Napoli, La Città del Sole, 2000, pp. 89-89. C’è in ungherese una collettanea di saggi, organizzata da T. Szabó, intitolata Ellenszélben. Gramsci és Lukács – ma, Szeged, s. e., 1993, che non ho potuto consultare. Recentemente è stato pubblicato un libro di E. Alessandroni (La rivoluzione estetica di Antonio Gramsci e György Lukács, Saponara, Il prato, 2011), dedicato a una comparazione tra i nostri due autori nello specifico terreno dell’estetica: libro interessante, ma che non approfondire sufficientemente i problemi che affronta.

2 Il giovane Gramsci conobbe probabilmente alcuni brevi testi politici e un piccolo frammento di uno di essi – La questione del parlamentarismo – fu pubblicato su L’Ordine Nuovo il 12 giugno 1920, attribuito a G. Lukácz . Per una documentata ricognizione sulla conoscenza gramsciana di Lukács in quest’epoca, cfr. L’apparato critico di J. A. Buttigieg in A. Gramsci, Prison Notebooks, ed. by J. A. Buttigieg, New York, Columbia University Press, v. 2, 1996, pp. 565-567.

3 A. Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p. 1449 (a seguire citato nel corpo del testo come Q, seguito dal numero della pagina)

4 G. Lukács, Prefazione [1967] a Id., Storia e coscienza di classe, Milano, Sugar, 1978, pp. I-LII.

5 Cfr., per esempio, G. Lukács, Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, Milano, Guerini, 1990.

6 Cfr. L. Konder, C. N. Coutinho, [Lukács] Un carteggio inedito degli ultimi anni con due intellettuali brasiliani, a cura di T. Tonezzer, in «Marx 101», 1992, n. 8, pp. 128-143.

7 Ibidem.

8 G. Lukács, Per una ontologia dell’essere sociale, Roma. Editori Riuniti, 1981, p. 445.

9 Apêndice à entrevista de G. Lukács, in E. Sader (org.), Vozes do século. Entrevistas da New Left Review, São Paulo, Paz e Terra, 1997, p. 99 (la sottolineatura è mia).

10 Dato che le rotture non sono mai drastiche, possiamo già notare tendenze al superamento dell’idealismo sia nei testi gramsciani precedenti al suo arresto (avvenuto nel 1926), sia in quelli che Lukács scrisse a partire dal suo saggio Moses Hess e la dialettica idealistica (pubblicato anch’esso nel 1926; cfr. G. Lukács, Scritti politici giovanili 1919-1928, Bari, Laterza, 1972, pp. 246-310). C’è un abbozzo di autocritica nel Gramsci della maturità quando, riferendosi ai suoi scritti giovanili, egli afferma: «io scrissi che […] la filosofia crociana poteva essere la premessa di una ripresa della filosofia dalla praxis nei giorni nostri, per le nostre generazioni. La questione era appena accennata, in una forma certo primitiva e certissimamente inadeguata, poiché in quel tempo il concetto di unità di teoria a pratica, di filosofia e politica non era chiaro in me ed io ero tendenzialmente piuttosto crociano» (Q 1233). Le autocritiche di Lukács furono molto più esplicite e reiterate: oltre alla Prefazione citata (cfr. supra n. 5), cfr., tra vari altri testi, G. Lukács, La mia via al marxismo, in Id., Marxismo e politica culturale, Torino, Einaudi, 1977.

11 A. Gramsci, La rivoluzione contro il «Capitale» [24 dicembre 1917], in Id., La città futura, Torino, Einaudi, 1982, p. 514 (la sottolineatura è mia).

12 G. Lukács, Che cos’è il marxismo ortodosso, in Id., Scritti giovanili, cit., p. 37. Nella versione rivista di questo saggio presente in Storia e coscienza di classe, cit., pp. 63-104, questo passo “fichtiano” fu cancellato, il che indica una relativa tendenza di Lukács al superamento dell’idealismo, per lo meno nella sua forma estremamente soggettivista.

13 G. Lukács, Frühschriften II. Geschichte und Klassenbewusstsein, Neuwied-Berlin, Luchterhand, 1968. Oltre a Storia e coscienza di classe, questo volume delle Werke contiene un grande numero di scritti della prima fase marxista di Lukács.

14 G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Milano, Sugar, 1978, pp. XVII-XVIII. Non è necessario ricordare che, malgrado i loro punti di contatto, le opere giovanili di Gramsci e di Lukács si pongono a un livello qualitativo abbastanza diverso. Mentre Gramsci scriveva articoli e saggi certamente interessanti (tanto più interessanti quando conosciamo la sua produzione della maturità, i Quaderni del carcere), Lukács produsse – con Storia e coscienza di classe – una delle opere filosofiche più importanti del XX secolo.

15 I saggi di Löwy e Oldrini citati supra, n. 1, richiamano l’attenzione su questo tratto comune.

16 G. Lukács, N. Bucharin: Teoria del materialismo storico, in Id., Scritti politici giovanili, cit., pp. 187-202.

17 Per un interessante parallelo cfr. A. Zanardo, Il manuale di Bucharin visto dai comunisti tedeschi e da Gramsci, in Studi gramsciani, Roma, Editori Riuniti, 1958, pp. 337-368.

18 G. Lukács, N. Bucharin…, cit., p. 191. La sottolineatura è di Lukács.

19 Nel suo famoso “testamento”, dettato nel dicembre del 1922, (quando La teoria del materialismo storico era già stato pubblicato), Lenin analizza criticamente i vari dirigenti del Partito bolscevico, candidati alla sua successione, affermando che «Bucharin [è] un validissimo e importantissimo teorico del partito […] ma le sue concezioni teoriche solo con grandissima perplessità possono essere considerate pienamente marxiste, poiché in lui vi è qualcosa di scolastico (egli non ha mai appreso e, penso, mai compreso pienamente la dialettica)». (V.I. Lenin, Le tesi di aprile e il testamento, Roma, Edizioni Alegre, 2006, pp. 34-35). Dato che il “testamento” di Lenin fu pubblicato soltanto nel 1956, né Lukács né Gramsci lo conoscevano quando formularono le loro critiche a Bucharin, sostanzialmente dirette nello stesso senso dell’osservazione fatta dal rivoluzionario russo.

20 Nel suo bel libro su Lukács Guido Oldrini osserva: «Le tesi gramsciane e lukacsiane che più contano sono il frutto non della loro gioventù, ma della loro maturità di pensiero […] questa maturità sopravviene e si consolida in entrambi, mediata da circostanze diverse, solo nel corso degli anni ‘30, dopo cioè che entrambi si sono lasciati indietro, con espressa o latente autocritica, la zavorra del loro idealismo giovanile». (G. Oldrini, György Lukács e i problemi del marxismo del Novecento, Napoli, La Città del Sole, 2009, p. 149).

21 Sulla presenza di queste categorie nelle riflessioni di Gramsci, cfr. C. N. Coutinho, Il pensiero politico di Gramsci, Milano, Unicopli, 2006, pp. 69-93.

22 Certamente, l’affermazione che il lavoro – base del metabolismo tra l’uomo e la natura – è «il modello di ogni forma di prassi sociale» è molto più presente in Lukács che in Gramsci, il quale si concentra nelle forme più sviluppate di prassi – in particolare nella prassi interattiva che caratterizza la sfera della politica –, senza vincolarle direttamente al lavoro.

23 Per una valutazione meno sommaria delle concezioni filosofiche di Gramsci, cfr. C.N. Coutinho, Il pensiero politico…, cit, pp. 69-94.

24 G. Lukács, Arte e società, Roma, Editori Riuniti, vol. 1,1977, p. 143.

25 G. Lukács, Esistenzialismo o marxismo?, s.l., Acquaviva, 1995, p. 247. [L’inversione scorretta del titolo del libro di Lenin è del traduttore italiano. N.d.T.].

26 G. Lukács, Estetica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 105-168 e passim.

27 Ivi, p. 144.

28 Ivi, pp. 1053-1111.

29 G. Lukács, Per l’ontologia…, cit, p. 55-99.

30 Ivi, p. 55-56 (i corsivi sono miei).

31 K. Marx, O 18 brumário de Luis Bonaparte, in K. Marx e F. Engels, Obras escolhidas, Rio de Janeiro, Vitória, 1956, v. 1, p. 250 [tr. it. P. Togliatti, in K. Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 51].

32 K. Marx, Prefazione a Critica dell’economia politica, in Id., Il capitale, Torino. Einaudi, 1975, p. 957 (corsivo mio).

33 Commentando le riserve di Lukács sul concetto gramsciano di ideologia, Oldrini scrive: «Conta la concordanza [tra Gramsci e Lukács] sul punto essenziale: che, accanto al suo significato originario […] di “illusione”, di “falsa coscienza”, ideologia ne ha nel marxismo anche un altro, e decisivo: quello di “strumento della lotta sociale”» (G. Oldrini, György Lukács…, cit, p. 319). Senza negare questa convergenza non essenziale, mi sembra che Lukács sia ingiusto, quando afferma che Gramsci manifesta «una carenza» nel contrapporre «la sovrastruttura necessaria soltanto alle idee arbitrarie di singole persone». Al contrario, ciò che vediamo nel pensatore italiano è una ricca fenomenologia delle forme ideologiche, forse la più ricca che troviamo nella tradizione marxista. Basti pensare al movimento che va, all’interno di queste forme ideologiche, dal senso comune alla «filosofia dei filosofi», passando per il folclore, per il buon senso, per l’arte, per la religione ecc.

34 G. Lukács, Per l’ontologia…, cit., p. 500.

35 Un altro punto in cui Gramsci e Lukács convergono – e che meriterebbe un’analisi più attenta – è nel concetto di «catarsi». Questa convergenza risulta dal fatto che in entrambi il concetto di «catarsi» implica il passaggio dal particolare all’universale, che è per essi un tratto determinante dell’ontologia dell’essere sociale. Il concetto assume in Gramsci una dimensione essenzialmente politico-interattiva (mi si consenta il rinvio a C. N. Coutinho, Catarsi, in G. Liguori, P. Voza (a cura di), Dizionario Gramsciano 1926-1937, Roma. Carocci, 2009), mentre in Lukács è usato per definire le sfere dell’etica e, soprattutto, dell’estetica (cfr. G. Lukács, Estetica, cit., pp. 732-794).

36 Cfr. G. Lukács, L’uomo e la democrazia, Roma, Lucarini,1987. Questa “fissazione” sull’eredità di Lenin non annulla l’indiscutibile valore teorico-politico di quest’opera della vecchiaia di Lukács.

37 G. Lukács, Per l’ontologia…, cit., pp. 482 e sgg.

38 Questa inversione della «priorità ontologica» appare chiaramente quando Lukács scrive di voler «determinare teoricamente […] il posto della politica nel campo dell’ideologia» (ivi., p. 482).

39 Sulla “critica della politica”‘ in Gramsci e sui suoi concetti fondamentali, cfr. C. N. Coutinho, Gramsci, ed. cit., passim.

Un pensiero su “Lukács e Gramsci: un’analisi comparativa

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