di Vittorio Strada
«Lettera internazionale», n. 23, 1990
Nella storia del comunismo, intendendo con questo termine non un insieme di idee semplicemente ma quella realtà prima russa e poi mondiale la cui data d’inizio può essere indicata nel 1917, non c’è una figura intellettuale che s’imponga con la forza d’autenticità di quella di György Lukács. Non parlo di autenticità nel senso di un comunismo marxista ortodosso o vero rispetto ad altri ereticali o spuri, classificazione che, per quanto non estranea allo stesso Lukács come a tutti gli altri comunisti e marxisti anteriori all’attuale crisi del loro movimento, non può avere alcun significato per chi si trova su posizioni di libertà mentale e di indipendenza politica. L’autenticità del comunismo di Lukács è quella di una scelta e di una coerenza esistenziale che rendono la sua figura di estremo interesse anche per chi non accetta i contenuti e i metodi del suo lavoro culturale e politico, ma riconosce la sua non comune statura intellettuale nel panorama della filosofia europea del Novecento.
Potrà suonare sconcertante, ma nella grande vicenda storica comunista alla figura di Lukács, per intensità di esperienza totale, non riesco a metterne accanto nessun’altra se non quella di Vladimir Majakovskij. Paradossale accostamento: che cosa ci può essere di comune tra il filosofo marxista che attraversò tutte le tappe del comunismo fino alla sua crisi post-staliniana e il poeta futurista che visse solo la prima fase comunista, suicidandosi proprio quando cominciava quella staliniana? Che cosa ci può essere di più antitetico tra il teorico di un’arte «realista» nelle sue varianti del «realismo critico» e del «realismo socialista» e il più clamoroso rappresentante dell’«antirealismo» dell’avanguardia? Il confronto non può essere spinto oltre un certo limite, naturalmente, ma ciò che permette di accostare figure che sembrano, e in parte realmente sono, incompatibili tra loro è appunto l’autenticità esistenziale profonda del loro comunismo, da entrambi, d’altronde, così diversamente vissuto. Ed è anche un’osservazione assai acuta di Boris Pasternak, secondo cui Majakovskij sembrava uscito da una pagina dei romanzi di Dostoevskij. Ma lo stesso si può dire anche di Lukács, anzi a maggior ragione, perché lui, Lukács, in un periodo decisivo della sua vita proprio Dostoevskij o, meglio, i suoi romanzi aveva eletto a guida etico-intellettuale, dedicando al grande scrittore russo una ricerca della quale conosciamo la parte introduttiva, la Teoria del romanzo, e gli appunti, solo di recente resi noti. E in comune tra il poeta futurista e il filosofo marxista-leninista c’era la Russia. Che Majakovskij fosse russo è ovviamente chiaro, ma «russo» lo fu anche Lukács, se si pensa alla parte decisiva che la Russia pre-rivoluzionaria e poi sovietica ebbe nella sua vita interiore, nella sua formazione e nel suo destino.
Il fine e i mezzi
Non ha senso ripetere le operazioni di chi, per dogmatismo residuo o per falsa pietas, costruisce un’immagine oleografica e agiografica di Lukács, ripulendola dalle parti più drammatiche della sua militanza comunista che è stata coerentemente leninista e stalinista, con cedimenti anche assai gravi; e di chi invece spinge una giusta critica dell’organico coinvolgimento di Lukács in tutta l’esperienza comunista, anche la più fosca, oltre il limite che permette di vedere quella che ho chiamato l’autenticità della sua esperienza etico-intellettuale, la sua integrità e coerenza. Ma gli apologeti sono più meschini dei detrattori, i quali almeno sentono un problema reale. Qui, presentando una serie di saggi diversi su Lukács, converrà soffermarsi soltanto, nella prospettiva sopra delineata, su un periodo cruciale della sua esistenza: quello tra il 1918 e il 1919 in cui il filosofo ungherese «decide» il proprio destino futuro, ricavando la sua «scelta» da tutto il suo passato cosciente e, si può dire, anche inconscio e operando, nello stesso tempo, una sorta di salto dialettico, al quale resterà poi rigorosamente fedele. È questo il momento in cui i «due» Lukács, quello pre-marxista (ma non ignaro del marxismo) e quello marxista (ma soprattutto leninista) si incontrano e si separano. Anche questo momento è così ricco e profondo da richiedere di per sé un ampio studio. Qui ci si limiterà ad alcuni aspetti essenziale e, soprattutto, attuali in questo momento in cui la storia comunista è giunta a una sua crisi e forse a una sua fine.
«Nella liberazione dal compromesso si nasconde l’affascinante forza del bolscevismo. Ma colui che ne viene affascinato forse non si rende pienamente conto a che cosa va incontro per cercare di evitarlo. Il suo dilemma è il seguente: si può raggiungere il bene con mezzi cattivi? Si può conquistare la libertà con l’oppressione? È mai possibile un nuovo sistema mondiale se i mezzi usati per il suo raggiungimento differiscono solo tecnicamente dai mezzi del vecchio sistema, così giustamente odiati e disprezzati? Qui evidentemente ci si potrebbe richiamare alla tesi della sociologia marxista che dice che tutto il corso della storia sta nelle lotte di classe, nelle lotte degli oppressi contro gli oppressori, e la lotta dei proletariato non può sfuggire a questa “legge”. Ma se ciò è vero, in questo caso (…) tutto il contenuto ideologico del socialismo (tranne per quanto riguarda la soddisfazione degli interessi diretti del proletariato) non sarebbe che un’ideologia. E questo è impossibile. E proprio perché è impossibile, non si può, dall’accertamento dei fatti storici, fare il pilastro per una volontà morale, per la volontà di un nuovo sistema mondiale. Perché allora bisogna prendere il male per il male, l’oppressione per l’oppressione, il potere di classe per il potere di classe. E bisogna credere (e questo è il vero credo quia absurdum est) che ad un’oppressione non segua una nuova lotta degli oppressi per il potere (per poter esercitare una nuova oppressione) e così via, una serie interminabile di eterne lotte senza senso e senza scopo – ma l’abolizione dell’oppressione stessa».
Questo brano si legge verso la fine dell’articolo di György Lukács Il bolscevismo come problema morale, articolo con cui egli nel dicembre 1918 argomentava il suo rifiuto del bolscevismo. In quello stesso dicembre, Lukács capovolse la sua decisione, aderendo al partito comunista e giustificando questa repentina scelta con l’articolo Tattica ed etica, scritto nei primissimi mesi del 1919. Là dove Lukács, nel passo sopra riportato, parla di credo quia absurdum, si potrebbe vedere la molla della sua «conversione», la quale ebbe indubbiamente una segreta radice irrazionale. Ma limitarsi a questa constatazione, che a sua volta rimanda a una «scelta» di tipo kierkegaardiano, a un vero e proprio aut/aut, significherebbe trascurare, da una parte, tutta la precedente ricerca intellettuale di Lukács e lo specifico ambiente culturale «romantico» in cui essa si era svolta in senso antiliberal-borghese e antidemocraticocapitalistico e, dall’altra, la stessa argomentazione svolta nell’articolo Il bolscevismo come problema morale, argomentazione che mette in luce le antinomie del socialismo come «nuovo sistema mondiale», capace di dare un senso e uno scopo alla storia, altrimenti ridotta a un susseguirsi assurdo di lotte per il potere.
L’etica del terrorismo
Nell’articolo del 1918 Lukács sente il «fascino» del massimalismo bolscevico che pone fine ad ogni «compromesso» e che adotta la violenza come condizione per attuare un «nuovo sistema mondiale» che si promette armonioso. Ma qui Lukács sente ancora la forza della ragione e capisce che si tratta di «credere», di fare un atto di vera e propria fede nella possibilità del miracolo rivoluzionario che trasformi il male radicale (la violenza) in un bene altrettanto radicale (comunismo). E ad appoggio della sua riflessione egli cita un personaggio dell’autore a lui più vicino in quegli anni, Dostoevskij, un personaggio di Delitto e castigo secondo il quale attraverso la menzogna si può giungere alla verità. La conclusione cui Lukács perviene in quel suo articolo è la seguente: «Il sottoscritto è incapace di condividere questa opinione e perciò vede l’insolubile problema bolscevico nelle radici stesse delle posizioni bolsceviche. La democrazia, secondo me, richiede solo rinunce e sacrifici sovrumani da coloro che vogliono coscientemente e onestamente agire fino in fondo. E questo, anche se costa sforzi incommensurabili, non è un problema insolubile, come lo è invece il problema morale bolscevico».
Se ora leggiamo la parte conclusiva del successivo e vicino articolo Tattica ed etica, fondazione del suo passaggio al bolscevismo con una chiara consapevolezza di ciò che questo significava sul piano morale, troviamo un capovolgimento delle posizioni del dicembre 1918 e, nello stesso tempo, una loro continuazione e soluzione (soluzione, evidentemente, non logica, dato che giustamente egli aveva definito «insolubile» il «problema morale bolscevico», ma etico-religiosa, se al termine «religioso» si conferisce un particolare significato).
«Nessuna etica può avere come compito di escogitare ricette per un agire corretto, di livellare o di occultare gli insuperabili tragici conflitti del destino umano. L’autoriflessione etica, al contrario, ci indica appunto che esistono delle situazioni – tragiche situazioni – nelle quali è impossibile agire senza attirarsi su di sé una colpa; e altresì ci insegna che persino nel caso in cui potessimo scegliere tra due modi di renderci colpevoli, l’azione giusta e quella sbagliata avrebbero tuttavia un criterio. Questo criterio si chiama sacrificio. Allo stesso modo come il singolo, scegliendo tra due specie di colpa, trova infine la giusta scelta sacrificando sull’altare dell’idea superiore il proprio io inferiore. Così esiste anche una forza che consente di commisurare questo sacrificio all’agire collettivo; qui però l’idea si incarna in un comando della situazione storico-universale, come vocazione imposta dalla filosofia della storia».
A questo punto Lukács cita un altro russo, un terrorista socialrivoluzionario, Boris Savinkov, noto con lo pseudonimo di Ropšin, personalità notevole che in opere letterarie meditò sul fenomeno del terrorismo. Per Savinkov-Ropšin, l’omicidio compiuto dal terrorista rivoluzionario è sì la violazione di un imperativo («non uccidere»), ma, insieme, l’obbedienza ad un altro imperativo («devi uccidere»). Il terrorista trova non la giustificazione del suo atto, il che è impossibile, ma «l’ultima radice morale di essa nel fatto che egli sacrifica per i suoi fratelli non solo la sua vita, ma anche la sua purezza, la sua morale, la sua anima».
Conclude e commenta Lukács: «In altre parole: solo l’azione omicida dell’uomo, il quale sa con assoluta certezza e senza dubbio alcuno che in nessuna circostanza l’omicidio deve essere approvato, può avere, tragicamente, una natura morale. Per esprimere questo pensiero sulla più grande delle tragedie umane con le incomparabilmente belle parole della Judith di Hebbel: “E se Iddio avesse posto il peccato tra me e l’azione che mi è stata imposta, chi sono io perché possa sottrarmi ad esso?”».
Così Lukács illumina la sua «via al comunismo» nell’atto stesso in cui la intraprende e la percorre (e sappiamo che la percorrerà fino all’ultimo), assumendosi la piena responsabilità di ogni violenza. Si tratta di una argomentazione-confessione di estrema lucidità, che non si nasconde dietro illusioni retoriche e accetta la «colpa», il «sacrificio», l’«omicidio», tutte parole che ricorrono nel passo finale di Tattica ed etica, assieme all’espressione di «tragico». E, infine, a suggellare la tormentosa riflessione ormai conchiusa con un atto di fede nel bolscevismo, la citazione dalla Judith di Friedrich Hebbel, una citazione cara a Lukács.
Giuditta e Oloferne
Possiamo partire da questa citazione per vedere però una inconsistenza che non appare alla superficie del tormentato ragionamento di Lukács o, per dir meglio, della sua «scelta» travagliata. È facile constatare che la frase di Hebbel è leggermente, ma significativamente mutata nel testo di Lukács. Nell’atto terzo del dramma, Giuditta, votata ad uccidere Oloferne, pronuncia inginocchio un appassionato soliloquio con Dio, dal quale si sente ispirata a compiere quell’uccisione: «La via alla mia opera passa attraverso il peccato! Grazie, grazie a te! Signore! Tu rischiari il mio occhio. Davanti a te l’impuro si fa puro; se tu poni tra me e la mia opera un peccato: chi sono io da litigarne con te, da sottrarmi a te?» (Traduzione di Scipio Slataper). Lukács spersonalizza l’invocazione sofferta di Giuditta e la trasforma in una sorta di sentenza universale. E spersonalizzandola le toglie quella carica tragica che essa ha nel dramma di Hebbel, perché toglie al delitto tutta la tensione che deriva dall’assolutezza religiosa dell’imperativo «non uccidere».
Lukács crede di poter mantenere il concetto di «sacrificio», come quello di «colpa» e «peccato», facendo riferimento a un «comando della situazione storico-universale, come vocazione imposta dalla filosofia della storia». Ma quella «filosofia della storia» che è il marxismo relativizza ogni valore morale e se pretende di creare un nuovo assoluto sui generis, lo pone storicamente nel futuro, nel «nuovo sistema mondiale» di cui parla Lukács nel Bolscevismo come problema morale, vedendo lucidamente tutte le insolubili antinomie della nuova «moralità». Dal punto di vista di questa «filosofia delia storia» aveva perfettamente ragione quel suo massimo teorico e pratico che era Lenin, da Lukács ammirato e venerato, per il quale l’unico criterio morale di un atto stava nella sua utilità dal punto di vista dell’attuazione dei «nuovo sistema mondiale», cioè del comunismo. E Lenin, come ogni bolscevico, non si poneva affatto i tormentosi problemi dei cristiani personaggi di Dostoevskij. L’unico criterio di valutazione del terrore era la sua opportunità, la sua tempestività, la sua efficacia. Si trattava di un atto tecnico, non etico. Stalin era un perfetto bolscevico e l’unica obiezione che, dal punto di vista della «filosofia della storia», gli si poteva eventualmente muovere, era di natura tecnica (erano davvero necessari tanti eccidi per il comunismo?), non etica. Nessun bolscevico è pensabile nella posizione della Giuditta che sente di dover uccidere il tiranno Oloferne. Neppure Lukács, bolscevico «etico» che supera l’etica con un atto di «fede» razionalizzata, è pensabile nell’invocazione tragica di Giuditta. Tanto è vero che Lukács trasforma quell’invocazione in una formula. E infatti, se si trasforma la Storia in una sorta di dio e la «filosofia della storia» in una teologia «scientifica», a chi rivolgersi con una invocazione, con una preghiera, con una interrogazione? Lukács, come ogni terrorista bolscevico (nel senso non di un terrore praticato direttamente, ma di un terrore condiviso), non poteva avere lo statuto e la statura di un eroe tragico. La tragedia investiva soltanto le vittime di quel terrore, i milioni e milioni di innocenti che la «filosofia della storia» condannava a una morte giustificata, nelle pretese della «filosofia», dall’instaurazione di un «nuovo sistema mondiale».
Un’altra osservazione è necessaria. Lukács fa riferimento agli eroi di Dostoevskij e a reali rivoluzionari russi come Boris Savinkov e Ivan Kaljaev, che furono presenti anche nella sua riflessione precedente. Per quanto legati all’organizzazione dei socialisti-rivoluzionari, questi terroristi erano ancora «ottocenteschi». Kaljaev, quando deve gettare una bomba contro la carrozza che ha a bordo l’odiato governatore di Mosca, si ferma e desiste perché vede che col governatore si trovano la moglie e giovani nipoti. Poi, portato a termine l’attentato in un secondo tentativo, è visitato in carcere, prima dell’esecuzione capitale, dalla vedova del governatore, con la quale ha uno straordinario colloquio. Si può giudicare negativamente anche questo terrorismo, certo, ma non si può non vedere la sostanziale differenza tra il terrorismo «tradizionale» e quello nuovo, «totalitario», inaugurato dalla rivoluzione bolscevica. Lukács sapeva benissimo che lo «spirito del tempo» era mutato ed egli stesso darà la più profonda teoria del nuovo tipo di terrore in Lotta e coscienza di classe, dove il nuovo dio della Storia trova il suo rappresentante assoluto nel Partito, organo attraverso cui i «comandi della situazione storico-universale» inappellabilmente si esprimono. Il terrore comunista non era quello di un Savinkov o di un Kaljaev, ma quello dei Demoni dostoevskiani. E coerentemente Lukács dal suo dostoevskismo giovanile, così appassionato e tormentato, doveva poi passare un antidostoevskismo che non consiste, naturalmente, in una negazione della grandezza artistica dell’autore di Delitto e castigo, ma nella sua trattazione nei termini di un accademismo marxista-leninista.
L’etica della convinzione
Si potrebbe chiudere qui questa rapida lettura di una pagina così pregnante non soltanto della biografia intellettuale di Lukács, ma della storia etico-politica europea. Proprio perché di storia europea si tratta, conviene però chiudere questo episodio andando al di là Lukács e del bolscevismo. Nelle pagine finali del Lavoro intellettuale come professione Max Weber svolge la sua nota distinzione tra un’etica della responsabilità e un’etica della convinzione, riflessioni che sono segretamente improntate dall’esperienza rivoluzionaria del giovane Lukács, la quale non trovò riflesso soltanto nella Montagna incantata di Thomas Mann. La lettura di queste pagine weberiane è complessa, e qui ci limiteremo a un passo centrale, in cui ritorna ancora il nome Dostoevskij:
«Qui, su questo problema della giustificazione dei mezzi mediante il fine, anche l’etica della convinzione in genere sembra destinata a fallire. E in effetti essa non ha logicamente altra via che quella di rifiutare ogni azione che operi con mezzi pericolosi dal punto di vista etico. Logicamente. Senza dubbio, nel mondo della realtà noi facciamo continuamente l’esperienza che il fautore dell’etica della convinzione si trasforma improvvisamente nel profeta chiliastico, e che per esempio coloro i quali hanno testé predicato di oppore “l’amore alla forza”, un istante dopo fanno appello alla forza – alla forza ultima, la quale dovrebbe portare all’abolizione di ogni possibile forza, così come i nostri capi militari ad ogni nuova offensiva dicevano ai soldati: “Questa è l’ultima, ci porterà alla vittoria e quindi alla pace”. Chi segue l’etica della convinzione non sopporta l’irrazionalismo etico del mondo. Egli è un “razionalista” cosmico-etico. Chiunque di voi conosca Dostoevskij ricorderà l’episodio del Grande Inquisitore dove il problema è discusso con estrema acutezza».
E chiunque conosca gli appunti di Lukács su Dostoevskij sa quanta importanza abbia avuto per lui anche il geniale episodio del Grande Inquisitore, come ho cercato di mettere in luce in un mio scritto.
Ma, se torniamo alle parole di Weber, non è difficile capire che esse si riferiscono al giovane Lukács, col quale Weber aveva avuto rapporti intellettuali assai stretti. E, in un certo senso, Weber fu profeta o, per dir meglio, capì il «razionalismo» cosmico-etico del neofita rivoluzionario, ad aspettare il quale stavano prove e «colpe» superiori alla sua immaginazione. Ma, accettato con un atto di «fede» irreligiosa poi razionalizzato il terrorismo bolscevico, Lukács non venne mai meno a quella scelta, trasformandosi da neofita pseudotragico in «gesuita della rivoluzione», come fu visto da Thomas Mann. Anche per questo György Lukács, come quell’altro personaggio dostoevskiano che fu Vladimir Majakovskij, resta la figura più autentica in senso etico-intellettuale della cultura comunista. E sarebbe inutile, oltre che inadeguato alla sua statura, cercare di togliergli quel «peccato» che egli, immaginandosi una ripetizione di Giuditta, si assunse con piena consapevolezza e responsabilità, un «peccato» che tuttavia fu più grave di quanto egli non pensasse nei suoi «romantici» anni giovanili, ma che egli mai rifiutò, sacrificando sempre più sull’altare di un’idea inferiore il suo io superiore.
Soltanto vicino alla morte, egli, si dice, per un attimo ebbe la sensazione di aver sbagliato. Ma l’ideologica «filosofia della storia» da lui professata gli ridiede, forse, una astratta e facile serenità che neppure la religione può garantire alle sue tormentate Giuditte. A Lukács, fedele sempre al feticcio del Partito, manca quell’aureola di «eroe tragico» che la protagonista del dramma hebbeliano ha e che il filosofo ungherese voleva conferire a chi accettava il terrorismo bolscevico. Aureola tragica che, invece, non si può negare a Majakovskij, il quale, privo del conforto della «fede» hegelo-marxista, pagò col sacrificio della vita il suo tormento e la sua «colpa».
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Opere di V. Strada
Introduzione a Gy. Lukács, M. Bachtin e altri, Problemi di teoria del romanzo, Torino, Einaudi, 1976.
Introduzione a Michail Bachtin, Tolstoj, Bologna, il Mulino, 1986.
Le veglie della ragione. Miti e figure della letteratura russa da Dostoevskij a Pasternak, Torino, Einaudi, 1986.
Problemi della destalinizzazione: il caso Lukács in «Socialismo storia». Ripensare il 1956, Roma, Lerici.