E Lukács incantò Thomas Mann

di Vittorio Strada

«Corriere della sera», 31 dicembre 2003


Dalle riflessioni dell’intellettuale marxista sull’etica del terrorismo nasce la figura di Naphta

Il momento più intenso che il terrorismo e la riflessione sulla sua legittimità etica hanno trovato nella cultura europea è legato alla biografia intellettuale di György Lukács, il filosofo marxista ungherese che è stato, assieme ad Antonio Gramsci, l’espressione più alta del «leninismo occidentale». Gli storici che hanno ricostruito la sua vita e il suo pensiero, come Árpád Kadarkay ha fatto nel modo migliore, sono concordi nel riconoscere che la fase centrale della sua formazione coincide con la grande crisi europea che va dalla guerra mondiale alla rivoluzione bolscevica, periodo in cui Lukács scrisse i suoi due capolavori Teoria del romanzo e Storia e coscienza di classe, opere che segnano il suo passaggio da una tormentata ricerca etico-religiosa all’adesione totale al comunismo. Fu, questo, uno degli episodi più straordinari e significativi della coscienza europea di quegli anni a livello sia intellettuale sia esistenziale, tanto che il giovane Lukács divenne il prototipo di un personaggio di uno dei maggiori romanzi del tempo: La montagna incantata di Thomas Mann, dove appare nelle vesti del gesuita rivoluzionario Naphta, avversario di un’altra figura, Settembrini, quintessenza dello spirito democratico. La «conversione» di Lukács al comunismo leniniano fu un vero «salto della fede», una «scelta» kierkegardiana che l’opera successiva di Lukács «razionalizzò» all’estremo, senza però cancellare l’impulso «irrazionale» di base.

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Tattica e etica

di György Lukács

[Taktika és etika, 1919] 

Scritti politici giovanili 1919-1928, Laterza, Bari 1972


Questo primo studio e i due successivi (Il problema della guida intellettuale e i «lavoratori intellettuali» e Che cos’è il marxismo ortodosso) furono scritti ancor prima della dittatura del proletariato. La mutata funzione dell’etica verificatasi con l’evoluzione della dittatura conferisce un valore documentario e storico al significato attuale di questi studi. Nel leggerli, fatta eccezione per l’ultimo, Partito e classe, occorre tener presente questa prospettiva (G. L., 1919). Continua a leggere

Gli intellettuali tedeschi e la guerra

di György Lukács

da La responsabilità sociale del filosofo, Pacini Fazzi, Lucca, 1989.

Grazie a Toni Infranca per aver messo a disposizione questo testo

Le osservazioni che seguono non hanno assolutamente la pretesa di esaurire in qualche modo il problema e non vogliono assumere posizioni valutative sotto nessun riguardo. Il problema, che va qui solamente posto, mira a inserire concettualmente la tipicità dell’atteggiamento dell’intellighenzia tedesca di fronte alla guerra in una connessione storico-culturale e a comprendere tale atteggiamento a partire da questa connessione. Al fine di delimitare il tema, va notato preliminarmente che da un lato, non si aspira affatto alla completezza (oggi comunque irraggiungibile) dell’argomento e, dall’altro, che la ricerca è limitata alla classe dei cosiddetti intellettuali, di cui vengono analizzate esclusivamente le prese di posizione intellettuali rispetto alla guerra, e anche queste devono essere soltanto comprese, non esaminate in base alla loro giustezza; i presupposti etici vengono tirati in ballo solo in quanto contribuiscono alla comprensione di queste prese di posizione; non può pertanto essere qui trattato in modo esauriente – per motivi che non necessitano di essere esposti – ciò che riguarda le loro conseguenze puramente etiche. Il complesso delle esperienze dell’intellighenzia tedesca nel momento dello scoppio della guerra si possono forse descrivere nella maniera più semplice così: un entusiasmo affatto generico, spontaneo, che però manca di ogni contenuto chiaro e positivo. Di questa esperienza non viene approvata in generale la guerra in sé, e in particolare questa guerra specifica; non vengono indicati scopi determinati e chiaramente definiti, posti come senso dell’avvenimento e come direttrici del comportamento: la visione generale dell’intellighenzia era e resta che la Germania è stata costretta alla guerra e che durante la guerra l’importante è solo la guerra, solo «tener duro»; sarebbe ancora troppo presto per parlare di scopi. Tuttavia, in tale entusiasmo è presente, anche se non un contenuto determinato, certamente un senso di intensità: l’esperienza profonda di un respiro di sollievo, di liberazione da uno stato avvertito come – ormai – insostenibile. Sembrava quasi come se nella guerra si approvasse non qualcosa di positivo, ma il suo esserci, il suo essere altro rispetto alla latenza fino a quel momento. «Era la guerra di per se stessa a entusiasmare i tedeschi – scrive Thomas Mann1 – la guerra quale calamità, quale necessità morale». È questa trasformazione dell’intera realtà che viene salutata con giubilo. Si crede di sapere: tutto ciò che valeva finora non vale più; si verificherà, dovrà verificarsi, qualcosa che è ancora inconcepibile, qualcosa di assolutamente nuovo. Georg Simmel scrive che «la Germania, nella quale siamo divenuti ciò che siamo, è naufragata come un sogno finito, e noi, quale che sia l’esito degli eventi, vivremo il nostro futuro in una Germania completamente diversa. Nessuno cercherà di determinare in positivo come esso apparirà nella forma e nei contenuti; ma proprio perché noi non conosciamo il come, ma soltanto il che cosa, ci conquista tanto più fortemente quanto più generali sono queste idee, per così dire, indifferenziate: da questa guerra uscirà una Germania diversa da quella che vi è entrata»2. E, per prepararsi all’arrivo di questo «nuovo», bisogna «reimparare»: ci si deve liberare da tutti i vecchi pregiudizi, buttarsi nel nuovo, partecipare: il nuovo contenuto del nuovo mondo sorgerà da sé dalla grande guerra, non richiesto e non determinabile a priori. Questo nuovo possiede, nonostante tutto, solo una determinatezza: deve essere una unità, il superamento di tutte le differenziazioni disgreganti. La parola d’ordine dell’imperatore: «non conosco più partiti, conosco solo tedeschi» viene accolta dall’intellighenzia nel modo più entusiasta e interpretata secondo una determinata direzione: deve scomparire l’isolamento, che tutti avvertono in maniera così opprimente di fronte alla guerra, della cultura e dei portatori della cultura, deve sorgere una comunità di tutti. O, più precisamente (e con riferimento ancora più forte alla situazione specifica dell’intellighenzia): deve finire l’individualismo esasperato che non solo separa gli intellettuali come ceto dagli altri gruppi, ma anche separa e isola così nettamente ogni singola, vera personalità da tutte le altre, bisogna far posto a una comunità nuova, solidale. Il collante di questa comunità per la guerra è dato: il cameratismo nel comune pericolo scampato e superato. Sembra comunque indubbio – per questa speranza – che essa debba continuare ad esistere anche dopo la guerra, anche se non si può ancora dire in che cosa tale comunità debba consistere. (Escluderei in questo contesto l’ideale politico di una grande Germania come momento decisivo di questa coralità; non credo, infatti, che esso fosse determinante per la totalità dell’intellighenzia tedesca; una parte non trascurabile di questa era ed è ostile ai presupposti e alle conseguenze di quei gruppi per i quali un tale ideale era decisivo già prima della guerra; senza volersi in qualche modo sottrarre ai sentimenti e alle esperienze descritte sopra, essa concordava su ciò che vi era di più intenso).

Per la determinazione fenomenologica dei fatti potrebbero essere significativi ancora due elementi. Primo, che un tale atteggiamento dell’intellighenzia tedesca ha suscitato all’estero viva sorpresa e indignazione3 e, secondo, che anche in Germania si ha la sensazione che si tratti di un’esperienza che un non tedesco non può capire, la cui comprensione non ci si può aspettare, non si può pretendere; che quindi non si tratti semplicemente di un’esperienza patriottica, ma di un’esperienza inesprimibile, quasi religiosa, la cui comprensione deve restare preclusa per sempre a chi è ad essa estraneo4.

Sono ora dati i fatti fondamentali partendo dai quali dobbiamo tentare di capire tale atteggiamento nella sua condizionatezza e collocazione storico-culturale e sociologica, senza tuttavia assumere alcuna posizione valutativa.

Dobbiamo cominciare con le esclusioni. Corrono voci, fattesi insistenti, che mirano a mostrare come i tedeschi siano particolarmente attratti dalla guerra in generale e dal nuovo tipo di eroismo che si è abbondantemente e prepotentemente manifestato in questa guerra. La prima parte di questa affermazione è stata messa in circolazione in particolare all’estero e sempre in una forma più o meno astiosa. Io non vedo, per quanto possa valutare la situazione, il benché minimo fondamento che possa giustificarla. Vi sono ovviamente anche in Germania (e anche nella «classe» degli intellettuali) uomini e tipi che non solo hanno costantemente fatto riferimento all’inevitabilità della guerra, ma l’hanno anche approvata nell’intimo e desiderata. Io però non vedo non solo nei loro contenuti, ma neanche nel modo della loro argomentazione un qualcosa che in qualche maniera distinguerebbe i loro sentimenti da quelli che in aspirazioni simili erano presenti in ogni paese. Più interessante e significativo è l’altro problema: il sorgere di un nuovo eroismo; ci si chiede già se si tratti qui di un fenomeno che possa essere considerato specificamente tedesco, che dunque contribuisca in modo sostanziale alla chiarificazione della situazione delineata sopra. Oggi è certamente ancora molto difficile, quasi impossibile, descrivere a fondo il tipo di eroe che questa guerra ha rivelato.

Ma le caratteristiche essenziali da rilevare mi sembrano essere le seguenti: l’eroe di questa guerra è anonimo. Nel compimento più modesto, più impersonale e meno appariscente possibile del dovere, egli fa ciò che richiede il momento, senza pensare se la sua azione rappresenti oggettivamente qualcosa di decisivo oppure di episodico, senza domandarsi se con essa la sua personalità venga circondata dallo splendore della gloria, sia pure al prezzo della morte. Non solo l’enorme massa di partecipanti alla guerra, ma anche il modo in cui la guerra moderna viene condotta rende necessario – con la sola eccezione dei leaders, che per lo stesso motivo appartengono sempre meno all’eroe tipo – che l’eroismo sia completamente separato dalla gloria e dal desiderio di gloria. Questa spersonalizzazione va tuttavia ancora oltre: il coraggio non è più la sola categoria decisiva per questo tipo di eroe, ma solo un presupposto imprescindibile. Anche la disciplina, con la quale iniziò la classificazione dell’eroismo individuale come parte di una totalità, ne è una condizione: è in virtù della disciplina, dell’impegno totale di ogni personalità – per cui occorrono cognizione di causa altamente differenziata tipologicamente e personalmente, attitudine all’intervento, capacità di scorgere e giudicare situazioni completamente nuove – che il coraggio eroico può trasformarsi in azioni. Le virtù decisive sono qui in una certa misura quelle (in termini psicologici) più primitive, molto poco europee, le virtù delle guerre indiane, contro le quali si sono impolverati i soldati europei: astuzia, capacità di adattamento, fredda perseveranza, repressione degli istinti spontaneamente dominanti e dell’aggressività, essere sempre pronti, se non lo si fa, al disprezzo di ogni gloria eroica. Inoltre, la povertà viene vista come conseguenza psichica del servizio di leva obbligatorio per tutti e dell’esercito di massa, l’essere eroe non viene più considerato come uno stato eccezionale in qualche modo calcolabile: in questa guerra tutti sono soldati (un eroe e ogni uomo che voglia dare prestazioni fisiche è un soldato. Con ciò si accrescono la mediocrità che deriva dalla impersonalità e la – voluta – assenza di splendore di questo tipo. Ma poiché l’eroismo si basa completamente su prestazioni impersonali, la cui tecnica è tutta da capire anche se non sempre da imitare, ritorna a vivere in questa guerra il vero e vitale apprezzamento delle prestazioni e con esse della personalità del nemico: la cavalleria. E un modo di essere avversari chiaro e freddo, e per i combattenti nella sostanza privo di astio, che aspira all’annientamento del nemico, ma senza essergli nell’intimo visceralmente ostile. E anzi un modo di essere avversari che non solo non esclude che il nemico vinto, dal suo punto di vista di essere un vinto, non sia più considerato un nemico, ma che rende possibile anche, in una certa misura, un cameratismo sportivo cavalleresco nelle pause fra le battaglie tra paesi nemici. È significativo di questa atmosfera il fatto che tali contatti siano divenuti tanto frequenti da dover essere impediti con l’intervento dell’esercito).

Questo tipo di eroismo non è però realmente nuovo, e nemmeno si tratta di qualcosa che è sorto in Germania. Una tale disposizione cavalleresca verso il nemico la troviamo già molto spesso nelle epoche primitive. Sembra che questa guerra, mentre nella forma tende a essere una guerra distruttiva assolutamente primitiva, sul piano psicologico porti con sé un avvicinamento all’epoca della cavalleria. Riporto una replica dall’Amadigi, in cui questo sentimento si oggettiva molto chiaramente5: il re dell’Irlanda, che Amadigi ha ferito a morte, dice al suo nemico: «Je n’y regret de finir par la vaillance de si gentil Chevalier que tu es: mais de bon coeur je te pardonne. Biens te prie de continuer pru d’homme et avoir memoire de roy». Quando Amadigi ode questo, «il fut tres desplaisant de sa mort, encore qu’il scent assumert, que s’ilent le meilleur du combat, il lui eust fait pie». Anche se le forme sono divenute più semplici, meno cortigiane e cortesi, da moltissime descrizioni sembra emergere una disposizione simile. Ma anche i nuovi tratti essenziali, la mediocrità, l’impersonalità, la completa subordinazione della personalità, nonostante tutte le iniziative personali, la liquidazione di ogni eroismo decorativo, sono presenti già da lungo tempo. Non voglio qui far riferimento agli eroi terroristi della grande rivoluzione russa: essi avevano in tutte queste qualità un pathos di natura completamente diversa [derivante dal fatto che] lo scopo [era] ben definito e condiviso, mentre per questo tipo è decisivo il fatto che non gli viene richiesto nessuno scopo e nessuna sua giustificazione, ma solo il compito da adempiere. Tale tipo mi sembra un fenomeno psichico necessariamente indotto dalla moderna tecnica di guerra: questa è applicabile solo là dove è presente quest’uomo (non è qui il caso di parlare delle ragioni e delle conseguenze di ciò). Era presente già nell’armata giapponese durante la guerra russonipponica e si è sviluppato al massimo nell’esercito coloniale inglese. La forza, che plasma questo tipo e che qui si è manifestata, era così forte che ha già assunto una forma altamente poetica – ciò che presuppone sempre un lungo sviluppo: i versi e le novelle di Kipling. A chi conosce i due volumi Puck of Pooks Hill (1906) e Rewards and Fairies6 e perciò [pensa] alle figure del nobile sassone e del cavaliere normanno, che rinunciano a tutto per amore dell’Inghilterra e che in un piccolo punto compiono con semplicità il loro dovere, ai giovani comandanti del Galles, che devono difendere l’Inghilterra dai paesi del Nord, ai nobili, che periscono ingloriosamente come pirati nella battaglia contro la Spagna, (…) tale affinità deve essere evidente. Essa viene messa in evidenza tecnicamente anche dal fatto che le grandi figure storiche, in quanto autori chiaramente intellettuali, devono essere poste sullo sfondo di fronte a questi eroi anonimi. Si tratta qui di un coraggio spontaneo, di una decisione con la quale si può e si deve fare i conti in precedenza come un qualcosa di noto, del coraggio – come si legge nel diario di guerra di un poeta ungherese – degli uomini del Titanic e della spedizione scozzese. Questo eroismo è qualcosa di internazionale. Al fatto che il fenomeno sia comparso dapprima e con più forza in Inghilterra rinvia, a me sembra, la possibilità della forma kiplinghiana, in opposizione al balbettio informe con cui sono costretti ad esprimere questa esperienza e questo errore i poeti di altri paesi, compresa la Germania7.

Se dunque il nuovo eroismo fosse la cosa decisiva, allora l’isolamento e l’incomprensione dei tedeschi dovrebbero essere qualcosa di completamente infondato, riposare su un semplice equivoco tra le nazioni.

1 Thomas Mann, Friedrich und die grosse Koalition, S. Fischer, p. 15. trad. it., Pensieri di guerra, in Scritti storici e politici; Milano, Mondadori, 1957, p. 40. [Lukács sostituisce la parola «tedeschi» a «poeti» N.d.T.]

2 G. Simmel, Deutschlands intiere Wandlung, Strassburg, K.G. Trubner, p. 1.

3 Parti della notevole quantità di materiale su questo si trova nel saggio di E. Bernstein, Die Internationale der Arbeiterklasse und der europaische Krieg, «Archiv», 2, XI, pp. 267 e sgg.,e in G.F. Steffere Ponel, Krieg und Kultur, E. Diederichs, Jena 1915.

4 Cfr. le note di Gundolf e Simmel sull’«Illuminismo» all’estero, «Frankfurter Zeitung», 282, 283, 1914.

5 In Paul Ernst, Der Weg zur Form, Berlino 1906, p.132.

6 Sono apparsi entrambi presso Tauschnitz.

7 Perciò mi sembra che i fondamenti di psicologia dei popoli nello scritto di Sombart Händler und Helden (Monaco e Lipsia, 1915), che è costruito su questa opposizione inglese-tedesco, abbiano un carattere problematico-generalizzante. Sulla psicologia dei combattenti cfr. Erich Everth, Von der Seele des Soldaten im Felde, «Tal-Fulgschriften», 10, e il saggio di Messer («Preussische Jahbucher», febb. 1915).

Tra Marx e Dostoevskij

di Vittorio Strada

«Lettera internazionale», n. 23, 1990

Nella storia del comunismo, intenden­do con questo termine non un insie­me di idee semplicemente ma quella realtà prima russa e poi mondiale la cui data d’inizio può essere indicata nel 1917, non c’è una figura intellettuale che s’imponga con la forza d’autenticità di quella di György Lukács. Non parlo di autenticità nel senso di un comunismo marxista ortodosso o vero rispetto ad altri ereticali o spuri, classificazione che, per quanto non estranea allo stesso Lukács co­me a tutti gli altri comunisti e marxisti ante­riori all’attuale crisi del loro movimento, non può avere alcun significato per chi si trova su posizioni di libertà mentale e di indipendenza politica. L’autenticità del comunismo di Lukács è quella di una scelta e di una coerenza esistenziale che rendono la sua figura di estre­mo interesse anche per chi non accetta i con­tenuti e i metodi del suo lavoro culturale e po­litico, ma riconosce la sua non comune statu­ra intellettuale nel panorama della filosofia eu­ropea del Novecento.

Potrà suonare sconcertante, ma nella gran­de vicenda storica comunista alla figura di Lukács, per intensità di esperienza totale, non riesco a metterne accanto nessun’altra se non quella di Vladimir Majakovskij. Paradossale accostamento: che cosa ci può essere di comu­ne tra il filosofo marxista che attraversò tutte le tappe del comunismo fino alla sua crisi post-staliniana e il poeta futurista che visse solo la prima fase comunista, suicidandosi proprio quando cominciava quella staliniana? Che co­sa ci può essere di più antitetico tra il teorico di un’arte «realista» nelle sue varianti del «rea­lismo critico» e del «realismo socialista» e il più clamoroso rappresentante dell’«antirealismo» dell’avanguardia? Il confronto non può essere spinto oltre un certo limite, naturalmen­te, ma ciò che permette di accostare figure che sembrano, e in parte realmente sono, incom­patibili tra loro è appunto l’autenticità esisten­ziale profonda del loro comunismo, da en­trambi, d’altronde, così diversamente vissu­to. Ed è anche un’osservazione assai acuta di Boris Pasternak, secondo cui Majakovskij sembrava uscito da una pagina dei romanzi di Dostoevskij. Ma lo stesso si può dire an­che di Lukács, anzi a maggior ragione, per­ché lui, Lukács, in un periodo decisivo della sua vita proprio Dostoevskij o, meglio, i suoi romanzi aveva eletto a guida etico-intellettuale, dedicando al grande scrittore rus­so una ricerca della quale conosciamo la par­te introduttiva, la Teoria del romanzo, e gli appunti, solo di recente resi noti. E in comu­ne tra il poeta futurista e il filosofo marxista-leninista c’era la Russia. Che Majakovskij fos­se russo è ovviamente chiaro, ma «russo» lo fu anche Lukács, se si pensa alla parte decisi­va che la Russia pre-rivoluzionaria e poi so­vietica ebbe nella sua vita interiore, nella sua formazione e nel suo destino.

Il fine e i mezzi

Non ha senso ripetere le operazioni di chi, per dogmatismo residuo o per falsa pietas, co­struisce un’immagine oleografica e agiografica di Lukács, ripulendola dalle parti più dram­matiche della sua militanza comunista che è stata coerentemente leninista e stalinista, con cedimenti anche assai gravi; e di chi invece spinge una giusta critica dell’organico coinvol­gimento di Lukács in tutta l’esperienza comu­nista, anche la più fosca, oltre il limite che per­mette di vedere quella che ho chiamato l’au­tenticità della sua esperienza etico-intellettuale, la sua integrità e coerenza. Ma gli apologeti sono più meschini dei detratto­ri, i quali almeno sentono un problema reale. Qui, presentando una serie di saggi diversi su Lukács, converrà soffermarsi soltanto, nella prospettiva sopra delineata, su un periodo cru­ciale della sua esistenza: quello tra il 1918 e il 1919 in cui il filosofo ungherese «decide» il proprio destino futuro, ricavando la sua «scelta» da tutto il suo passato cosciente e, si può dire, anche inconscio e operando, nello stesso tempo, una sorta di salto dialettico, al quale resterà poi rigorosamente fedele. È que­sto il momento in cui i «due» Lukács, quello pre-marxista (ma non ignaro del marxismo) e quello marxista (ma soprattutto leninista) si incontrano e si separano. Anche questo mo­mento è così ricco e profondo da richiedere di per sé un ampio studio. Qui ci si limiterà ad alcuni aspetti essenziale e, soprattutto, at­tuali in questo momento in cui la storia co­munista è giunta a una sua crisi e forse a una sua fine.

«Nella liberazione dal compromesso si na­sconde l’affascinante forza del bolscevismo. Ma colui che ne viene affascinato forse non si rende pienamente conto a che cosa va in­contro per cercare di evitarlo. Il suo dilemma è il seguente: si può raggiungere il bene con mezzi cattivi? Si può conquistare la libertà con l’oppressione? È mai possibile un nuovo si­stema mondiale se i mezzi usati per il suo rag­giungimento differiscono solo tecnicamente dai mezzi del vecchio sistema, così giustamen­te odiati e disprezzati? Qui evidentemente ci si potrebbe richiamare alla tesi della sociolo­gia marxista che dice che tutto il corso della storia sta nelle lotte di classe, nelle lotte degli oppressi contro gli oppressori, e la lotta dei proletariato non può sfuggire a questa “leg­ge”. Ma se ciò è vero, in questo caso (…) tut­to il contenuto ideologico del socialismo (tran­ne per quanto riguarda la soddisfazione degli interessi diretti del proletariato) non sarebbe che un’ideologia. E questo è impossibile. E proprio perché è impossibile, non si può, dal­l’accertamento dei fatti storici, fare il pilastro per una volontà morale, per la volontà di un nuovo sistema mondiale. Perché allora biso­gna prendere il male per il male, l’oppressio­ne per l’oppressione, il potere di classe per il potere di classe. E bisogna credere (e questo è il vero credo quia absurdum est) che ad un’oppressione non segua una nuova lotta de­gli oppressi per il potere (per poter esercitare una nuova oppressione) e così via, una serie interminabile di eterne lotte senza senso e sen­za scopo – ma l’abolizione dell’oppressione stessa».

Questo brano si legge verso la fine dell’ar­ticolo di György Lukács Il bolscevismo come problema morale, articolo con cui egli nel di­cembre 1918 argomentava il suo rifiuto del bolscevismo. In quello stesso dicembre, Lukács capovolse la sua decisione, aderendo al partito comunista e giustificando questa re­pentina scelta con l’articolo Tattica ed etica, scritto nei primissimi mesi del 1919. Là dove Lukács, nel passo sopra riportato, parla di credo quia absurdum, si potrebbe vedere la molla della sua «conversione», la quale ebbe indubbiamente una segreta radice irraziona­le. Ma limitarsi a questa constatazione, che a sua volta rimanda a una «scelta» di tipo kierkegaardiano, a un vero e proprio aut/aut, si­gnificherebbe trascurare, da una parte, tutta la precedente ricerca intellettuale di Lukács e lo specifico ambiente culturale «romantico» in cui essa si era svolta in senso antiliberal-borghese e antidemocraticocapitalistico e, dal­l’altra, la stessa argomentazione svolta nell’ar­ticolo Il bolscevismo come problema morale, argomentazione che mette in luce le antino­mie del socialismo come «nuovo sistema mon­diale», capace di dare un senso e uno scopo alla storia, altrimenti ridotta a un susseguirsi assurdo di lotte per il potere.

L’etica del terrorismo

Nell’articolo del 1918 Lukács sente il «fa­scino» del massimalismo bolscevico che pone fine ad ogni «compromesso» e che adotta la violenza come condizione per attuare un «nuovo sistema mondiale» che si promette ar­monioso. Ma qui Lukács sente ancora la for­za della ragione e capisce che si tratta di «cre­dere», di fare un atto di vera e propria fede nella possibilità del miracolo rivoluzionario che trasformi il male radicale (la violenza) in un bene altrettanto radicale (comunismo). E ad appoggio della sua riflessione egli cita un personaggio dell’autore a lui più vicino in que­gli anni, Dostoevskij, un personaggio di De­litto e castigo secondo il quale attraverso la menzogna si può giungere alla verità. La con­clusione cui Lukács perviene in quel suo arti­colo è la seguente: «Il sottoscritto è incapace di condividere questa opinione e perciò vede l’insolubile problema bolscevico nelle radici stesse delle posizioni bolsceviche. La democra­zia, secondo me, richiede solo rinunce e sacrifici sovrumani da coloro che vogliono co­scientemente e onestamente agire fino in fon­do. E questo, anche se costa sforzi incommen­surabili, non è un problema insolubile, come lo è invece il problema morale bolscevico».

Se ora leggiamo la parte conclusiva del suc­cessivo e vicino articolo Tattica ed etica, fon­dazione del suo passaggio al bolscevismo con una chiara consapevolezza di ciò che questo significava sul piano morale, troviamo un ca­povolgimento delle posizioni del dicembre 1918 e, nello stesso tempo, una loro continua­zione e soluzione (soluzione, evidentemente, non logica, dato che giustamente egli aveva definito «insolubile» il «problema morale bol­scevico», ma etico-religiosa, se al termine «re­ligioso» si conferisce un particolare signifi­cato).

«Nessuna etica può avere come compito di escogitare ricette per un agire corretto, di li­vellare o di occultare gli insuperabili tragici conflitti del destino umano. L’autoriflessione etica, al contrario, ci indica appunto che esistono delle situazioni – tragiche situazio­ni – nelle quali è impossibile agire senza at­tirarsi su di sé una colpa; e altresì ci insegna che persino nel caso in cui potessimo sceglie­re tra due modi di renderci colpevoli, l’azio­ne giusta e quella sbagliata avrebbero tutta­via un criterio. Questo criterio si chiama sa­crificio. Allo stesso modo come il singolo, sce­gliendo tra due specie di colpa, trova infine la giusta scelta sacrificando sull’altare dell’i­dea superiore il proprio io inferiore. Così esi­ste anche una forza che consente di commi­surare questo sacrificio all’agire collettivo; qui però l’idea si incarna in un comando della si­tuazione storico-universale, come vocazione imposta dalla filosofia della storia».

A questo punto Lukács cita un altro russo, un terrorista socialrivoluzionario, Boris Savinkov, noto con lo pseudonimo di Ropšin, personalità notevole che in opere letterarie me­ditò sul fenomeno del terrorismo.  Per Savinkov-Ropšin, l’omicidio compiuto dal terrorista rivoluzionario è sì la violazione di un imperativo («non uccidere»), ma, insieme, l’obbedienza ad un altro imperativo («devi uc­cidere»). Il terrorista trova non la giustifica­zione del suo atto, il che è impossibile, ma «l’ultima radice morale di essa nel fatto che egli sacrifica per i suoi fratelli non solo la sua vita, ma anche la sua purezza, la sua morale, la sua anima».

Conclude e commenta Lukács: «In altre pa­role: solo l’azione omicida dell’uomo, il qua­le sa con assoluta certezza e senza dubbio al­cuno che in nessuna circostanza l’omicidio de­ve essere approvato, può avere, tragicamen­te, una natura morale. Per esprimere questo pensiero sulla più grande delle tragedie uma­ne con le incomparabilmente belle parole della Judith di Hebbel: “E se Iddio avesse posto il peccato tra me e l’azione che mi è stata impo­sta, chi sono io perché possa sottrarmi ad esso?”».

Così Lukács illumina la sua «via al comu­nismo» nell’atto stesso in cui la intraprende e la percorre (e sappiamo che la percorrerà fi­no all’ultimo), assumendosi la piena respon­sabilità di ogni violenza. Si tratta di una argomentazione-confessione di estrema luci­dità, che non si nasconde dietro illusioni re­toriche e accetta la «colpa», il «sacrificio», l’«omicidio», tutte parole che ricorrono nel passo finale di Tattica ed etica, assieme all’e­spressione di «tragico». E, infine, a suggella­re la tormentosa riflessione ormai conchiusa con un atto di fede nel bolscevismo, la cita­zione dalla Judith di Friedrich Hebbel, una ci­tazione cara a Lukács.

Giuditta e Oloferne

Possiamo partire da questa citazione per ve­dere però una inconsistenza che non appare alla superficie del tormentato ragionamento di Lukács o, per dir meglio, della sua «scel­ta» travagliata. È facile constatare che la fra­se di Hebbel è leggermente, ma significativa­mente mutata nel testo di Lukács. Nell’atto terzo del dramma, Giuditta, votata ad ucci­dere Oloferne, pronuncia inginocchio un ap­passionato soliloquio con Dio, dal quale si sente ispirata a compiere quell’uccisione: «La via alla mia opera passa attraverso il pecca­to! Grazie, grazie a te! Signore! Tu rischiari il mio occhio. Davanti a te l’impuro si fa pu­ro; se tu poni tra me e la mia opera un pecca­to: chi sono io da litigarne con te, da sottrar­mi a te?» (Traduzione di Scipio Slataper). Lukács spersonalizza l’invocazione sofferta di Giuditta e la trasforma in una sorta di sentenza universale. E spersonalizzandola le to­glie quella carica tragica che essa ha nel dram­ma di Hebbel, perché toglie al delitto tutta la tensione che deriva dall’assolutezza religiosa dell’imperativo «non uccidere».

Lukács crede di poter mantenere il concet­to di «sacrificio», come quello di «colpa» e «peccato», facendo riferimento a un «coman­do della situazione storico-universale, come vocazione imposta dalla filosofia della storia». Ma quella «filosofia della storia» che è il mar­xismo relativizza ogni valore morale e se pre­tende di creare un nuovo assoluto sui gene­ris, lo pone storicamente nel futuro, nel «nuo­vo sistema mondiale» di cui parla Lukács nel Bolscevismo come problema morale, veden­do lucidamente tutte le insolubili antinomie della nuova «moralità». Dal punto di vista di questa «filosofia delia storia» aveva perfetta­mente ragione quel suo massimo teorico e pra­tico che era Lenin, da Lukács ammirato e ve­nerato, per il quale l’unico criterio morale di un atto stava nella sua utilità dal punto di vi­sta dell’attuazione dei «nuovo sistema mon­diale», cioè del comunismo. E Lenin, come ogni bolscevico, non si poneva affatto i tor­mentosi problemi dei cristiani personaggi di Dostoevskij. L’unico criterio di valutazione del terrore era la sua opportunità, la sua tem­pestività, la sua efficacia. Si trattava di un atto tecnico, non etico. Stalin era un perfetto bol­scevico e l’unica obiezione che, dal punto di vista della «filosofia della storia», gli si pote­va eventualmente muovere, era di natura tec­nica (erano davvero necessari tanti eccidi per il comunismo?), non etica. Nessun bolscevi­co è pensabile nella posizione della Giuditta che sente di dover uccidere il tiranno Olofer­ne. Neppure Lukács, bolscevico «etico» che supera l’etica con un atto di «fede» raziona­lizzata, è pensabile nell’invocazione tragica di Giuditta. Tanto è vero che Lukács trasforma quell’invocazione in una formula. E infatti, se si trasforma la Storia in una sorta di dio e la «filosofia della storia» in una teologia «scientifica», a chi rivolgersi con una invoca­zione, con una preghiera, con una interroga­zione? Lukács, come ogni terrorista bolscevi­co (nel senso non di un terrore praticato direttamente, ma di un terrore condiviso), non poteva avere lo statuto e la statura di un eroe tragico. La tragedia investiva soltanto le vit­time di quel terrore, i milioni e milioni di in­nocenti che la «filosofia della storia» condan­nava a una morte giustificata, nelle pretese della «filosofia», dall’instaurazione di un «nuovo sistema mondiale».

Un’altra osservazione è necessaria. Lukács fa riferimento agli eroi di Dostoevskij e a reali rivoluzionari russi come Boris Savinkov e Ivan Kaljaev, che furono presenti anche nella sua riflessione precedente. Per quanto legati all’organizzazione dei socialisti-rivoluzionari, questi terroristi erano ancora «ottocenteschi». Kaljaev, quando deve gettare una bomba contro la carrozza che ha a bordo l’odiato governatore di Mosca, si ferma e desiste perché vede che col governatore si trovano la moglie e giovani nipoti. Poi, portato a termine l’attentato in un secondo tentativo, è visitato in carcere, prima dell’esecuzione capitale, dalla vedova del governatore, con la quale ha uno straordinario colloquio. Si può giudicare negativamente anche questo terrorismo, certo, ma non si può non vedere la sostanziale differenza tra il terrorismo «tradizionale» e quello nuovo, «totalitario», inaugurato dalla rivoluzione bolscevica. Lukács sapeva benissimo che lo «spirito del tempo» era mutato ed egli stesso darà la più profonda teoria del nuovo tipo di terrore in Lotta e coscienza di classe, dove il nuovo dio della Storia trova il suo rappresentante assoluto nel Partito, organo attraverso cui i «comandi della situazione storico-universale» inappellabilmente si esprimono. Il terrore comunista non era quello di un Savinkov o di un Kaljaev, ma quello dei Demoni dostoevskiani. E coerentemente Lukács dal suo dostoevskismo giovanile, così appassionato e tormentato, doveva poi passare un antidostoevskismo che non consiste, na­turalmente, in una negazione della grandezza artistica dell’autore di Delitto e castigo, ma nella sua trattazione nei termini di un accademismo marxista-leninista.

L’etica della convinzione

Si potrebbe chiudere qui questa rapida lettura di una pagina così pregnante non soltanto della biografia intellettuale di Lukács, ma della storia etico-politica europea. Proprio perché di storia europea si tratta, conviene però chiudere questo episodio andando al di là Lukács e del bolscevismo. Nelle pagine fina­li del Lavoro intellettuale come professione Max Weber svolge la sua nota distinzione tra un’etica della responsabilità e un’etica della convinzione, riflessioni che sono segretamente improntate dall’esperienza rivoluzionaria del giovane Lukács, la quale non trovò rifle­sso soltanto nella Montagna incantata di Thomas Mann. La lettura di queste pagine weberiane è complessa, e qui ci limiteremo a un passo centrale, in cui ritorna ancora il nome Dostoevskij:

«Qui, su questo problema della giustificazione dei mezzi mediante il fine, anche l’etica della convinzione in genere sembra destinata a fallire. E in effetti essa non ha logicamente altra via che quella di rifiutare ogni azione che operi con mezzi pericolosi dal punto di vista etico. Logicamente. Senza dubbio, nel mondo della realtà noi facciamo continuamente l’esperienza che il fautore dell’etica della convinzione si trasforma improvvisamente nel profeta chiliastico, e che per esempio coloro i quali hanno testé predicato di oppore “l’a­more alla forza”, un istante dopo fanno ap­pello alla forza – alla forza ultima, la quale dovrebbe portare all’abolizione di ogni pos­sibile forza, così come i nostri capi militari ad ogni nuova offensiva dicevano ai soldati: “Questa è l’ultima, ci porterà alla vittoria e quindi alla pace”. Chi segue l’etica della convinzione non sopporta l’irrazionalismo etico del mondo. Egli è un “razionalista” cosmico-etico. Chiunque di voi conosca Dostoevskij ri­corderà l’episodio del Grande Inquisitore dove il problema è discusso con estrema acutezza».

E chiunque conosca gli appunti di Lukács su Dostoevskij sa quanta importanza abbia avuto per lui anche il geniale episodio del Grande Inquisitore, come ho cercato di met­tere in luce in un mio scritto.

Ma, se torniamo alle parole di Weber, non è difficile capire che esse si riferiscono al gio­vane Lukács, col quale Weber aveva avuto rapporti intellettuali assai stretti. E, in un certo senso, Weber fu profeta o, per dir meglio, capì il «razionalismo» cosmico-etico del neofita ri­voluzionario, ad aspettare il quale stavano prove e «colpe» superiori alla sua immagina­zione. Ma, accettato con un atto di «fede» ir­religiosa poi razionalizzato il terrorismo bol­scevico, Lukács non venne mai meno a quel­la scelta, trasformandosi da neofita pseudo­tragico in «gesuita della rivoluzione», come fu visto da Thomas Mann. Anche per questo György Lukács, come quell’altro personaggio dostoevskiano che fu Vladimir Majakovskij, resta la figura più autentica in senso etico-intellettuale della cultura comunista. E sareb­be inutile, oltre che inadeguato alla sua sta­tura, cercare di togliergli quel «peccato» che egli, immaginandosi una ripetizione di Giudit­ta, si assunse con piena consapevolezza e re­sponsabilità, un «peccato» che tuttavia fu più grave di quanto egli non pensasse nei suoi «ro­mantici» anni giovanili, ma che egli mai rifiu­tò, sacrificando sempre più sull’altare di un’i­dea inferiore il suo io superiore.

Soltanto vicino alla morte, egli, si dice, per un attimo ebbe la sensazione di aver sbaglia­to. Ma l’ideologica «filosofia della storia» da lui professata gli ridiede, forse, una astratta e facile serenità che neppure la religione può garantire alle sue tormentate Giuditte. A Lukács, fedele sempre al feticcio del Partito, manca quell’aureola di «eroe tragico» che la protagonista del dramma hebbeliano ha e che il filosofo ungherese voleva conferire a chi ac­cettava il terrorismo bolscevico. Aureola tra­gica che, invece, non si può negare a Maja­kovskij, il quale, privo del conforto della «fe­de» hegelo-marxista, pagò col sacrificio della vita il suo tormento e la sua «colpa».

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Opere di V. Strada

Introduzione a Gy. Lukács, M. Bachtin e altri, Pro­blemi di teoria del romanzo, Torino, Einaudi, 1976.

Introduzione a Michail Bachtin, Tolstoj, Bologna, il Mulino, 1986.

Le veglie della ragione. Miti e figure della letteratura russa da Dostoevskij a Pasternak, Torino, Einaudi, 1986.

Problemi della destalinizzazione: il caso Lukács in «Socialismo storia». Ripensare il 1956, Roma, Lerici.

Nelle trame nere c’è un nome nuovo: è György Lukács

di Du. T.

«L’Unità» 10 agosto 1980

Commentando la strage di Bologna su l’Espresso il professore Luciano Pellicani ha abbozzato una indecente genealogia degli ispiratori ideologici dell’attentato, accoppiando Gioacchino Da Fiore a Marx, Trotzki a Hitler, Bucharin a Goebbels: un vero e proprio massacro del pensiero cui non eravamo abituati e di cui ci auguriamo egli sia, oltreché l’esecutore, anche l’unico mandante.
L’oltraggio culturale diventa poi grottesco quando il professore pretende di accomunare in una «stessa famiglia sociologica», di apologeti del terrorismo, tanto György Lukács che Pino Rauti: per avere ambedue fatto uso, in tempi e luoghi diversi, dell’espressione «società corrotta e corruttrice».
Forte in logica e in universali, Pellicani deduce infallibilmente: tutti terroristi o quasi, sono coloro i quali in vita loro, e poco importa quando e dove, hanno pensato o detto «male» della società. È superfluo osservare che di una simile «famiglia sociologica» possono entrare far parte Papa Wojtila, per esempio, o magari anche i parenti delle vittime, se qualcuno di loro, trafitto dal dolore, ha trovato forza di imprecare.
Pellicani ce l’ha con quelli che dividono il mondo in Buoni e Cattivi, chiamati impropriamente a «manichei»: chi riuscirà a fargli capire che sta giudicando, prima dì tutto, se stesso? Ma, soprattutto, chi potrà mai aiutarlo a discernere tra l’esempio morale e intellettuale di György Lukács – un combattente per la libertà della cultura sotto diversi regimi – e la figura di un personaggio coinvolto nelle trame nere?
Qualcuno fa osservare che non vale replicare a lui come ad uomo di cultura, e già vede il professore pronto a giurare di aver visto uno con la barba e una valigia di tritolo in mano, che somigliava a Carlo Marx. Noi, pero, siamo più fiduciosi: ed auguriamo al professore che la dottrina, da lui annosamente accumulata, possa trovare finalmente nel suo intelletto più adeguata sistemazione.

Lukács e la mistica di Dostoevskij

di Vittorio Strada

«Corriere della sera» 9 settembre 2000

GYÖRGY LUKÁCS, Dostoevskij A cura di Micheli Cometa SE, pagine 164, lire 30.000<

Tra gli itinerari che portarono ad aderire alla rivoluzione bolscevica il più singolare è quello di György Lukács. Dopo una folgorante formazione nell’ambito della cultura filosofica e letteraria ungherese e tedesca, Lukács giunse ad un incontro, per lui organico e decisivo, con l’«idea russa» e, in particolare, con l’opera di Dostoevskij, il cui «sacro nome» egli ricorda con trepidazione in un saggio giovanile come quello del «nostro più grande autore epico». L’incontro con la Russia divenne anche un fatto della sua vita personale poiché nel 1913 egli conobbe e poi sposò una rivoluzionaria russa fuoriuscita, Elena Grabenko: il loro tormentato rapporto aprì a Lukács il mondo del terrorismo russo, della cui problematica morale e intellettuale egli subì il fascino attraverso le pagine dei libri del più complesso terrorista russo, Boris Savinkov (Ropscin), che la Grabenko gli traduceva. Era, in particolare, il problema etico del delitto commesso in nome di un supremo valore di giustizia che agitava Lukács, delitto non riscattabile come mezzo giustificato dal fine, ma colpa per chi lo commetteva e purtuttavia necessario: il terrorista assassino diventava lui, in un certo senso, la vittima poiché, scriveva Lukács, muovendo da un’«etica mistica» si deve violare il comandamento del «non uccidere» e per «salvare l’anima», cioè per essere fedele a un imperativo superiore, il terrorista deve «sacrificare proprio l’anima». Quale autore meglio di Dostoevskij poteva rispondere a questa problematica? La Teoria del romanzo (1915) non era che il preludio a una lettura dell’opera di Dostoevskij, della quale il pensatore ungherese lasciò solo appunti preparatori, ora offerti al lettore italiano. In tutta la vastissima letteratura dostoevskiana non c’è un altro libro in cui l’autore di Delitto e castigo sia così abissalmente vissuto e sofferto, tanto che questo Dostoevskij di Lukács è assai più uno «specchio» del suo autore che del suo oggetto. Dalla non facile, ma avvincente lettura si può almeno in parte intuire come dal «suo» Dostoevskij, letto in una paradossale chiave rivoluzionaria, di lì a poco Lukács abbia potuto fare l’antidostoevskiano «salto» verso il Lenin di Storia e coscienza di classe.