Prima la democrazia, poi la riforma economica

di György Lukács, con János Brener, Georg Klös, Kalman Petković

«Neues Forum», 195/II, marzo 1970

[Questo è il testo completo da cui è tratta la sintesi che il «Corriere della sera» dava il 7 aprile 1970 e pubblicata qui. Si tratta della seconda parte di un’intervista più ampia, la cui prima parte pubblicheremo prossimamente]


Spesso si pensa che il sistema di autogestione dei lavoratori sia una scoperta specifica della Jugoslavia. Non appartiene forse più in generale al concetto di socialismo?

In ogni caso, l’autogestione dei produttori è uno dei problemi più importanti del socialismo. L’autogestione si oppone sia allo stalinismo sia alla democrazia borghese, il cui meccanismo è stato descritto da Marx già negli anni Quaranta. Questo meccanismo si basa sulla contraddizione tra il citoyen, che era un idealista, e il bourgeois, che era un materialista. Lo sviluppo del capitalismo porta il bourgeois a diventare il padrone, il citoyen il suo servitore ideologico. Al contrario, lo sviluppo socialista, prima nella Comune di Parigi, poi nelle due rivoluzioni russe, spinge verso la democrazia dei consigli. Democrazia consiliare significa democrazia nella vita quotidiana. L’autogoverno democratico dovrebbe essere esteso al livello più semplice della vita quotidiana e da lì diffondersi verso l’alto, in modo che alla fine il popolo decida davvero sulle questioni più importanti. Attualmente siamo solo all’inizio di questo sviluppo. Ma le nuove pratiche sviluppate in Jugoslavia contribuiranno senza dubbio alla rivoluzione dei consigli operai in circostanze diverse su ogni strada verso il socialismo.

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Opportunismo e putschismo

di György Lukács

[Opportunismus und Putschismus, 1920]

Scritti politici giovanili 1919-1928, Laterza, Bari 1972.


Nessun comunista perspicace e in buona fede vorrà né potrà nascondere a se stesso che i partiti comunisti (eccetto quello russo) stanno attraversando una grave crisi. Questa crisi, i cui germi erano presenti fin dalla fondazione dei partiti comunisti, e che di tanto in tanto si è acutizzata, si manifestò da principio col prevalere di tendenze putschiste. Il blanquismo, che Bernstein e già lo stesso Marx e tanto maggiormente poi i bolscevichi hanno respinto, faceva infatti capolino nei pensieri e nelle azioni di molti compagni, peraltro onesti e in buona fede: si trattava dell’illusione che la rivoluzione proletaria potesse compiersi di un sol colpo attraverso la decisione e il sacrificio di un piccolo gruppo di avanguardie bene organizzate. E sembra che i partiti comunisti si siano avviati a superare le confusioni di questa dottrina che doveva manifestarsi dappertutto dopo la guerra perduta e in seguito allo sfaldamento dell’apparato statale nell’Europa centrale.

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György Lukács

di Tearry Eagleton

da Figure del dissenso. Saggi critici su Fish, Spivak, Zizek e altri, Meltemi, 2007.


Pubblicato per la prima volta sulla «The London Review of Books» del 20 feb­braio 2003 con il titolo Kettles Boil, Classes Struggle [Le teiere bollono, le classi lottano]. Il testo è una recensione del libro di György Lukács A Defence of History and Class Consciousness, London, Verso, 2002.

Per cambiare il mondo bisogna far uso di una strana forma di “doppio pensiero”. Perché possa davvero agire, infatti, la mente deve caparbiamente fissarsi su ciò che è reale, e credere ferma­mente che il fatto di conoscere la situazione così com’è sia fonte di ogni saggezza morale e politica. Il solo problema è che una si­mile conoscenza è anche terribilmente difficile da conseguire e forse, nella sua forma più completa, è addirittura irraggiungibile. Quel che è difficile non è tanto trovare soluzioni, ma riuscire a cogliere il modo in cui stanno davvero le cose in un particolare frammento del mondo. Se riesci a farlo, allora questo basterà a indicarti il genere di soluzioni di cui sei in cerca. Le risposte in­somma non sono la cosa più difficile da trovare. Il problema perciò non è solo che esistono molte versioni di co­me stanno le cose nel mondo in competizione fra loro – fra cui c’è anche la credenza postmoderna che le cose nel mondo non stiano in nessun modo particolare; il problema è anche di capire che per assoggettare le nostre menti al reale è necessaria un’u­miltà e un oblio di se stessi che ripugna non poco al nostro ego vociante e importuno. È un percorso privo di attrattive, che di­sdegna le fantasticherie e per la mente umana rappresenta una cronica forma di disinganno. In definitiva solo il virtuoso è in grado di vedere le cose per quel che sono. Da tale punto di vista non ha alcun senso esigere la fine del capi­talismo se davvero il sistema era già morto alcuni decenni fa e, semplicemente, nessuno se ne era reso conto. In questo senso molto generale, tutte le prescrizioni relative a ciò che bisogna fare implicano descrizioni di come stanno le cose – e i valori devono in qualche modo essere legati ai fatti. Ma nell’istante stesso in cui al­la mente viene chiesto di essere casta, rigorosa e disinteressata, le viene chiesto anche di rifiutare il reale in nome del possibile. La mente deve riuscire ad armonizzare il modo indicativo con il congiuntivo, sposando un freddo e demistificante senso del presente a un passionale e immaginifico slancio che lo superi. La mente è chiamata a essere a un tempo specchio e lampada, riflesso fedele del reale che la circonda e luce che irradia su di esso e lo trasforma. Perciò gli stessi voli della fantasia grazie ai quali possiamo tentare di cogliere la situazione così com’è sono essenziali per immaginare un’alternativa al reale; dobbia­mo essere turbati dinanzi all’immagine di un futuro in cui uo­mini e donne si ammaleranno per tentare di dominare gli altri, mentre le blandizie del presente li troveranno impassibili e in preda a un volgare sospetto. Se il romantico vuol far sì che il mondo si adegui al proprio desiderio e il realista adatta la mente al mondo, il rivoluzionario è chiamato a fare al tempo stesso entrambe le cose.

In questo senso la politica radicale ha bisogno di un tipo di es­sere umano stranamente ibrido, più scettico e più fiducioso a un tempo rispetto alla media delle persone. Persone come queste sono più tristi nel loro modo di guardare al passato e al presen­te rispetto alla maggior parte dei conservatori, ma sono anche più aperte di gran parte dei riformisti liberali a un futuro ricco di cambiamenti. Proprio perché ciò che non va nel presente è di na­tura strutturale, si tratterà sempre di qualcosa che è assai più profondo della semplice follia o bricconeria di un individuo – e questa è la cattiva notizia; ma per la stessa ragione in linea di principio lo si potrà cambiare – e questa, dopotutto, è la buona notizia. Perciò quando i radicali sono accusati di essere dei Geremia dai liberali e degli utopisti sognatori dai conservatori, allora sono certi di avere imboccato più o meno la strada giusta. Questa dualità sbuca fuori anche nella teoria marxista, sotto forma di una disputa su quanto potere si debba attribuire al sogget­to e quanto all’oggetto. Ma dato che in questo contesto “sogget­to” significa masse rivoluzionarie e con “oggetto” si intende qual­cosa di simile alla storia o alla società di classe, il problema epi­stemologico diventa ipso facto anche politico. In che misura il mutamento dipende da noi, e quanto è invece soggetto ai vincoli di condizioni oggettive? Se spinta all’eccesso l’iniziativa individua­le sfocia nel volontarismo, mentre la forza tirannica del reale si tramuta in determinismo; l’unione di queste due eresie è nota co­me società della classe media, che in ambito politico crede nel­l’autodeterminazione mentre in quello economico considera l’indi­viduo una semplice pedina soggetta alle forze del mercato. Le dottrine volontaristiche del capitalismo, pertanto – il solo limite è il cielo, mai dire mai, se provi puoi farcela – sono un comodo schermo utile a nascondere la “verità” del suo determinismo – vi­sto che il soggetto umano è preda di forze economiche impreve­dibili, che sfuggono al controllo di chiunque. Quelle dottrine, però, sono anche il riflesso di una fede reale nella democrazia, per quanto sia difficile conciliarla con l’anarchia economica. Che dire allora della versione marxista di questo problema? Marx stesso, da giovane, tendeva a parlare di soggetti umani della prassi, mentre nelle opere della maturità preferiva parlare di processi oggettivi simili a leggi. Alcuni dei suoi discepoli so­stennero che si trattava soltanto di modi diversi di pensare al­la stessa cosa; altri invece, fra cui soprattutto umanisti o hegelo-marxisti come Jean-Paul Sartre, consideravano proprio quel discorso sui processi simili a leggi come una forma di aliena­zione. Nei suoi primi scritti Antonio Gramsci sosteneva addirit­tura che con il passare degli anni Marx era diventato sempre più immaturo, e proprio per questo bisognava disfarsi del Capitale. Allo slogan “Torniamo al giovane Marx!” lanciato dagli umanisti presto rispose “Recuperiamo il Marx di mezz’età!”, di­venuto il grido di battaglia di Louis Althusser e dei suoi accoli­ti per i quali il discorso giovanile di Marx sui soggetti umani vi­venti era solo uno spiacevole lascito hegeliano, e il pensiero veramente scientifico era solo quello del Marx “maturo”. Per alcuni apologeti borghesi dell’epoca di Marx l’essenza dei soggetti umani era la loro libertà, mentre i processi storici oggettivi erano governati da leggi inesorabili. Alcuni marxisti considerano però problematica la prima parte di questa argomentazione, dato che puzza un po’ di lassez faire; in ogni caso era davvero difficile mettere fuori gioco la libertà e al tempo stesso continuare a invocare il cambiamento sociale. Lo stesso Marx a volte sembra quasi parlare da determinista, mentre in altre occasioni non lo è affatto. Quanto al marxismo della Seconda Internazionale, era rigidamente determinista e riservava al soggetto un ruolo davvero marginale: ma se il socialismo era un destino già scritto nelle leggi della sto­ria, per quale ragione uomini e donne dovevano tentare di rag­giungerlo? Perché lottare per qualcosa che sarebbe avvenuto co­munque? E perché mai bisognerebbe credere che l’inevitabile sia anche desiderabile? Potrebbe benissimo darsi che le cose stiano all’opposto. Filosofi marxisti come Kautsky e Plechanov non sep­pero mai fornire una risposta davvero convincente a quest’ultima domanda, anche se alcuni loro colleghi – consci del fatto che una versione positivista del marxismo non sarebbe stata in grado di fornire alcun criterio etico in grado di provare perché si dovesse preferire il socialismo a ogni altro regime politico – tentarono di condire questo stenle storicismo con un pizzico di etica kantiana. In ogni caso, il problema della natura a prima vista superflua del soggetto umano può essere affrontato in qualche modo: si dirà allora che il socialismo era davvero inevitabile, ma che di questa inevitabilità faceva parte anche l’insurrezione della classe ope­raia. Il proletariato era costretto a insorgere e a rovesciare un si­stema divenuto ormai insopportabile, dopo aver preso coscienza del ruolo storico che gli era stato assegnato. Con questa astuta soluzione il determinismo storico era fin dall’inizio un fattore del libero comportamento degli attori umani, proprio come la divina provvidenza che non ci dispensa dal prendere le nostre decisioni liberamente, pur agendo su di esse e mediante esse. La mia li­berà, pertanto, non è un’imbarazzante omissione nel piano pre­disposto da Dio per l’intero pianeta dato che all’origine di que­sta libertà c’è lo stesso Dio, il quale ha già calcolato tutte le mie azioni liberamente scelte da qui all’eternità. Perciò lo scorso ve­nerdì Dio non mi ha certo costretto a travestirmi da cameriera e a farmi chiamare Milly; ma poiché è onnisciente, sapeva che l’a­vrei fatto e dunque poteva costruire i suoi schemi cosmici aven­do chiaro in mente Milly e il fattaccio del venerdì. Non c’è nulla che possa fermare l’avvento del regno di Dio, ma solo perché il fatto che i cristiani operano affinché si realizzi è anch’esso preor­dinato. Insomma, la nozione di divina provvidenza decostruisce l’opposizione fra soggetto e oggetto, libertà e necessità. Nell’era moderna, essa assume la forma dell’Assoluto hegeliano. Questa soluzione, però, non poteva certo garantire la centralità e il protagonismo del soggetto, e da questo punto di vista la situazione sarebbe completamente cambiata soltanto con la ri­voluzione bolscevica. Se infatti quel cataclisma fu la rovina del­lo zar, segnò anche il crollo del materialismo meccanicista, se­condo cui il soggetto umano era semplice sintomo del proces­so storico. La creazione del primo Stato dei lavoratori ricordò alla teoria marxista che tanto aveva contribuito alla sua nascita quel che ormai aveva quasi del tutto dimenticato: che la vicen­da umana è scritta da uomini e donne, non dalla storia. Nelle epoche rivoluzionarie, la teoria marxista tende a far ritorno con rinnovato vigore al tema della coscienza; ma lo stesso avviene nei periodi di reazione, durante i quali – come in buona parte del marxismo occidentale – le questioni politiche rimaste inso­lute vengono sostituite da problematiche culturali e filosofiche. Il problema, allora, è come dar voce all’importanza del sogget­to senza fare un regalo agli idealisti borghesi, sin troppo lieti di sentire che le ingiustizie possono essere sanate da un pizzi­co di forza di volontà in più e che il fatto di cambiare parere produce una trasformazione più profonda e radicata di una semplice trasformazione nei rapporti di proprietà. Quel che la rivoluzione bolscevica mise in luce fu dunque che la teoria marxista aveva perso terreno rispetto alla pratica socialista – anche se non si può dire che oggi questo sia uno dei problemi politici più urgenti della sinistra. La sinistra di oggi, orfana delle opportunità politiche di un Lenin o di un Lukács, si è ormai abi­tuata a zoppicare dietro alla teoria – quando quest’ultima non ne prenda addirittura il posto. Così, dopo che nel ’68 la protesta ra­dicale fu spazzata via dalle strade di Parigi a rinfocolarla ci avrebbe pensato il “discorso” – o meglio il significante fluttuan­te. Proprio per questo non è affatto insolito che i seguaci di Michel Foucault celebrino la forza anarchica della follia e al tem­po stesso votino per i liberal-democratici – e del resto si può ap­poggiare con eguale entusiasmo un Tony Blair e un Pierre Bourdieu. Nell’era del bolscevismo, al contrario, la teoria doveva a volte sudare sette camicie per mostrarsi all’altezza di ciò che stava accadendo per le strade.

Il soviet di Pietroburgo stracciò e riscrisse le teorie marxiste del potere politico, mentre la rivolta bolscevica colpì a morte quel ti­po di marxismo per il quale l’agire umano era soltanto una sorta di piacevole extra.

Da un punto di vista filosofico, Lenin era un esponente della biz­zarra epistemologia secondo cui le idee sono copie o riflessi di oggetti reali. Da un punto di vista politico, tuttavia, questo mo­dello prevalentemente passivo della mente non poteva certo dar conto dei tumulti scoppiati nelle aziende agricole e nelle fabbri­che della Russia. La prassi leninista supera la teoria, e per dar conto di quel che era accaduto bisognava scambiare un filosofo borghese con un altro filosofo borghese – rivolgendosi a Hegel piuttosto che a Kant – e recuperare un’idea di coscienza come in­tervento attivo piuttosto che come riproduzione esatta del reale. C’era bisogno insomma di una riformulazione hegeliana del marxi­smo, in grado di riscrivere la storia retrospettivamente e fornire al bolscevismo, ormai a giochi fatti, l’epistemologia di cui era privo. Proprio per questo lo Spirito del Mondo scelse il filosofo unghere­se György Lukács per realizzare questo arduo compito. E Lukács lo fece nel modo più ingegnoso possibile in Storia e coscienza di classe (1923), vero pilastro intellettuale del marxi­smo occidentale. Nessuna altra opera della filosofia marxista ha esercitato un influsso maggiore di questo libro, che fra l’altro reinventa la teoria dell’alienazione del giovane Marx in un’epoca in cui gli scritti marxiani sul tema erano ancora ignoti. Per Lukács proprio l’alienazione ci induce a dimenticare che l’oggetto ha la sua origine nel lavoro del soggetto; la storia dell’epistemologia occidentale moderna assume un aspetto diverso non appena ci rendiamo conto che il suo “oggetto” innocente è in realtà una merce deificata. Soltanto allora, a parere di Lukács, riusciamo a capire perché mai Immanuel Kant è costretto a postulare da un lato una misteriosa libertà individuale e dall’altro un oggetto im­penetrabile, vincolato a leggi immutabili.

Lo iato esistente fra i due verrà colmato dalla dialettica. Storia e soggettività, sostiene Lukács, non sono altro che polarità diverse di un unico processo dialettico. Assumendo l’aspetto di coscien­za della classe operaia la mente diventava una forza trasformatri­ce che agiva nella realtà, senza ridursi a un passivo riflesso di questa. L’oggettività, pertanto, non deve essere raggiunta tramite la contemplazione disinteressata tipica delle scienze della natura “borghesi”, se la verità è davvero il prodotto dell’interazione fra mente e mondo e non un semplice effetto dell’espulsione del soggetto dall’oggetto, che in tal modo può essere osservato con maggior precisione. Stando a quest’idea perversa di scienza, in­fatti, il soggetto può conoscere l’oggetto nel miglior modo possi­bile soltanto eclissandosi dal contesto dell’indagine. Per Lukács, al contrario, la verità viene raggiunta dalla classe operaia quando quest’ultima diviene consapevole di se stessa come soggetto universale della storia – perché di fatto una soggettività universale si identifica con l’oggettività. Di conse­guenza possiamo riuscire a storicizzare la verità evitando il pe­ricolo del relativismo: secondo Hegel, la verità della storia è lo Spirito del Mondo che giunge all’autocoscienza; per Lukács, è l’autocoscienza della classe operaia. Lo Zeitgeist si è finalmen­te incarnato nei dannati della terra.

In breve, Lukács ammetteva che esiste una categoria in grado di mediare fra soggetto e oggetto, vale a dire l’autocoscienza. Nell’atto di conoscere me stesso, infatti, divento simultaneamente soggetto e oggetto; questo particolarissimo tipo di conoscenza contribuisce a distruggere la dicotomia fra pensiero e azione, o fat­to e valore – visto che conoscermi significa anche alterare me stes­so nell’atto stesso in cui mi conosco, e riuscire a cogliere la verità della mia condizione significa anche sapere di cosa avrei bisogno per poter essere libero. Questo vuol dire forse che la teoria marxi­sta non è nient’altro che l’autocomprensìone storica della classe operaia, esattamente come l’Assoluto hegeliano non era altro che la riflessione della storia su se stessa? Ma se le cose stanno davve­ro così cosa ce ne facciamo della reiterata affermazione leninista secondo cui la teoria marxista deve essere inculcata dall’esterno al­la classe operaia? E che fine fa il ruolo dell’élite rivoluzionaria? Inizialmente accolta con favore, la grande opera di Lukács creò presto molti problemi ai custodi dell’ortodossia marxista. “Ancora pochi professori come questi, pronti a sciorinarci le loro teorie, e saremo perduti!”, urlò Zinoviev in occasione di un con­gresso del Partito comunista. Sulla copertina di A Defence of “History and Class Consciousness” c’è una foto di Lukács, che sembra una sorta di ibrido fra un professore matto e un punk. L’autore stesso, a dire il vero, avrebbe in seguito disconosciuto il libro – e in effetti la ritrattazione si confaceva a questo abietto individuo come l’ottimismo a Trotzkij. Quel che nessuno sa, tut­tavia, è che Lukács scrisse di proprio pugno una risposta alle vi­rulente critiche da cui fu investita la sua opera; venuto alla luce di recente dagli archivi del Partito comunista sovietico, quel te­sto viene pubblicato oggi per la prima volta. Il principale obiettivo che Lukács si pone in questo testo così po­lemico e appassionato (nel quale accusa persino uno dei suoi cri­tici di “morboso fatalismo”, un disturbo grave e potenzialmente infettivo) è dimostrare di avere tutte le carte in regola per essere un bolscevico duro e puro. In effetti aveva ottime ragioni per far­lo, dal momento che la Repubblica dei lavoratori di Ungheria nata nel 1919 – nella quale lui stesso ebbe un ruolo attivo in qualità di commissario politico – era stata sgominata in parte a causa della sua leadership terribilmente debole. Proprio come il Paradiso per­duto, l’Ulisse e molti altri testi davvero notevoli, Storia e coscien­za di classe è il frutto di una rivoluzione raffazzonata. Lukács non considera la propria teoria della conoscenza storicistica incompa­tibile con l’idea di una teoria fondata e inculcata nelle masse da un’avanguardia rivoluzionaria. Certo, i lavoratori possono riuscire a capire di essere sfruttati ma è difficile che siano in grado di co­gliere i più piccoli dettagli della teoria del plusvalore o del modo di produzione asiatico soltanto perché si sentono trattati male. Bisogna reagire al materialismo meccanico, dunque: l’insurrezione è un’arte, un saper cogliere l’attimo in modo quasi intuitivo, e non un semplice stadio in un qualche processo di sviluppo triste­mente prevedibile. Almeno in tale contesto, dunque, il momento soggettivo assume un predominio decisivo. Il tipo di marxismo determinista contro cui Lukács si scaglia è particolarmente evidente nella cosiddetta dialettica della Natura, un vero modello di materialismo metafisico che Engels delineò a partire dal positivismo del secolo XIX. Questa dottri­na è stata riassunta in modo assai asciutto e duro dalle parole (peraltro prive di intento satirico) di un marxista che ho cono­sciuto: “I bollitori bollono, i cani agitano la coda e le classi lottano”. Lukács, in effetti, si limita a un cenno di riverenza nei confronti di questo fondamentale esempio di riduzionismo ma è molto più entusiasmato dall’idea che la nostra conoscen­za della Natura è sempre mediata socialmente. Quest’ultima è una tra le molte tematiche che oppongono John Rees – il quale ha scritto un’erudita e illuminante introduzione al libro di Lukács – a Slavoj Žižek, cui dobbiamo una provocatoria Postfazione al testo tipica del suo stile. In poche parole Rees cerca con grande rigore di recuperare Lukács a una certa ortodossia marxista, mentre la verve molto più immaginifica di Žižek finisce per farne qualcosa di molto più simile a un esistenzialista che a un materialista. Il Lukács di Žižek è in realtà un esotico mi­scuglio fra Jacques Lacan e Alan Badiou, un pensatore che rompe definitivamente i ponti con l’evoluzionismo per abbracciare la “contingenza radicale” dell’atto rivoluzionario. Se Rees rischia di eliminare ogni elemento di novità dal pensiero di Lukács, Žižek fa di lui un tipo molto più simile a un parigino dell’avant-garde che a un comunista ungherese.

Rees è sin troppo preoccupato di ricondurre Lukács al “diamat” – ovvero alla dialettica della Natura –, descrivendolo come un leni­nista ortodosso ma senza analizzare con sufficiente profondità la tensione esistente fra le teorie della coscienza storicista e d’avanguardia. Sembra perciò approvare la decisione di Lukács, il quale gettò senza rimpianti nella pattumiera della storia i propri scritti pre-marxisti anche se di indubbio valore – mentre la verità è che senza la possibilità di attingere a fonti filosofiche non marxiste il marxismo occidentale si sarebbe rivelato terribilmente più povero. Rees difende inoltre a spada tratta l’idea di Lukács secondo cui la falsa coscienza ha origine in definitiva dalla natura reificata e feticistica della società capitalista. Si tratta in effetti di un’argo­mentazione forte, vero e proprio fondamento di un testo come Storia e coscienza di classe; ma Rees non si accorge che essa nasconde anche un aspetto riduzionista. Così esistono forme ideologiche di ogni genere che non hanno nulla a che fare con la reificazione, tra cui quelle che non riguardano la classe sociale. Rees, insomma, diventa lui stesso preda di una reificazione quando parla della “dialettica” – sebbene nel caso specifico que­sto non accade perché è vittima del feticismo delle merci. La tragica ironia del percorso intellettuale di Lukács è che lui stesso, da soggetto rivoluzionario quale era in origine, divenne una colonna dello stalinismo e dunque il sintomo di un processo storico determinato. Da questo punto di vista, peraltro, la sua vi­cenda personale è identica a quella intellettuale di Marx. Nato a Budapest nel 1885, figlio di un noto finanziere ungherese e di una madre discendente di una delle più antiche e ricche famiglie ebree dell’Europa orientale, Lukács non sembrava davvero taglia­to per una carriera da comunista. I suoi primi interessi filosofici, sviluppati nella forma di una scrittura cupa e tragica, vertevano sull’etica e l’idealismo; il suo pensiero politico, invece, era una forma di anticapitalismo romantico. Opere come Anima e forma (1910) e Teoria del romanzo (1916) sono il riflesso di un astratto, utopico ripudio della civiltà borghese; vi si avvertono gli influssi di uno strano miscuglio in cui confluiscono Hegel, Kierkegaard, Dostoevskij, Tolstoj, Georg Simmel e Max Weber. La rivoluzione bolscevica indusse Lukács ad abbandonare pro­gressivamente la metafisica tragica per approdare al materiali­smo storico; e il crollo dell’ancien régime ungherese, nel 1918, lo spinse fra le braccia del Partito comunista ungherese di Bela Kun. Nel 1919, il giovane filosofo kierkegaardiano divenne com­missario politico per l’educazione e la cultura della disgraziata Repubblica sovietica ungherese, promuovendo teatri aperti ai la­voratori e lanciando una controversa campagna di educazione sessuale che fece conoscere ai ragazzi l’idea di libero amore, screditando la monogamia dei loro genitori. Il comunismo avreb­be finalmente risolto le tragiche antitesi fra essenza ed esisten­za, fatto e valore, soggettivo e oggettivo, individuo e totalità che avevano funestato le sue prime riflessioni. L’armoniosa totalità di poteri sociali che il giovane Lukács ave­va scoperto nel mondo dell’antichità classica subiva così un mutamento di epoca, e ritornava in vita sotto forma di futuro socialista. Il marxismo era insomma il completamento della grande eredità umanista borghese: proprio per questo il Lukács maturo si mostrò favorevole al Comintern ogniqualvolta fu indotto a stringere un’alleanza politica con l’Occidente bor­ghese – come nel periodo del Fronte popolare –, mentre lo osteggiò ogniqualvolta tese ad abbandonare questa politica di distensione – come nel periodo immediatamente precedente alla seconda guerra mondiale, quando la socialdemocrazia venne bollata come “socialfascismo”, in occasione del patto nazi-sovietico o sotto il peso della guerra fredda. In realtà non fu Lukács a zigzagare per adattarsi alla politica sovietica, ma fu piuttosto quest’ultima a zigzagare attorno a lui. In un certo senso il Lukács della rivoluzione ungherese si era li­mitato a tradurre in termini concreti un conflitto metafisico fra il valore spirituale autentico e la corruzione prodotta dall’esistenza temporale: il primo assunse le sembianze del proletariato rivolu­zionario, mentre la seconda fu impersonata dalla società borghe­se. Ancora assolutista nel suo modo di pensare, il Lukács neofita marxista predicava l’intollerabilità di qualunque compromesso fra i due e proprio per questo si era meritato il rimprovero di Lenin, che lo accusò di infantile estremismo. Non molto tempo dopo la morte di Lenin, tuttavia, Lukács avrebbe cambiato il proprio atteggiamento politico sostenendo entusiasticamente la dottrina staliniana del “socialismo in un solo paese” e scagliando alcuni nobili anatemi nei confronti dell’avanguardia culturale rivoluzio­naria in nome di un’estetica marxista assai più classica. Poiché il tentativo di piegare il reale per adattarlo ai suoi desideri era fal­lito tanto nell’ambito della riflessione filosofica quanto in quello della prassi rivoluzionaria, decise stoicamente di adeguare i pro­pri desideri a una dura realtà sovietica.

E tuttavia la devozione mostrata da Lukács nei confronti della cul­tura classica – se non addirittura della grande eredità umanistica borghese – costituì anche una tacita critica del filisteismo stalinia­no. Dopo essere transitata dall’antichità sino al futuro socialista, l’i­dea di totalità finì perciò per trovare una sua collocazione nel ro­manzo realista – unico rifugio concessole dal fallimento delle spe­ranze rivoluzionarie. Quanto alla fiamma dell’utopia, che appare qua e là capricciosamente in Dostoevskij, sembrò brillare per poco nell’Ungheria insorta ma anch’essa venne subito spenta dal tragico declino del socialismo trasformatosi in oppressione dello Stato. Era venuto il momento di riscoprirla nell’enorme tradizione del realismo letterario europeo che da Balzac e Scott giungeva sino a Tolstoj e Thomas Mann. Perciò individuo e totalità organica, sentimento e ra­gione, reale e ideale avrebbero finalmente trovato una loro concilia­zione in Wawerleye ne Il rosso e il nero, rinunciando definitivamente al tentativo di raggiungere la sintesi nello Spirito del Mondo o nella repubblica dei lavoratori. In definitiva il realismo era solo un altro nome con cui chiamare l’arte autentica, un modello in confronto al quale tutto il movimento modernista e decadente da Flaubert a Brecht poteva solo risultare inferiore e perdente. Se un simile atteggiamento era utile a creare un muro di aristocratico di­sprezzo nei riguardi delle immagini convenzionali di robusti aratori sovietici si rivelava anche un modo per scartare, considerandola robaccia, quasi tutta la produzione letteraria da Zola sino a Joyce. Così Lukács divenne un critico letterario, e fu nei panni del criti­co che conquistò grande notorietà in Occidente come esponente di una venerabile stirpe di pensatori marxisti occidentali, il cui interesse nei confronti della cultura e della filosofìa sembrava smussare gli eccessi di un materialismo storico per il resto al­quanto rozzo e schematico – almeno per il raffinato gusto intel­lettuale occidentale. E in fin dei conti c’è davvero un pizzico di ironia nel fatto che la “svolta verso il soggetto” di Lukács – co­me ci fa notare questo libro – non sia stata affatto un allontana­mento dalla rivoluzione più cruenta ma abbia rappresentato, in­vece, un decisivo passo in direzione di quest’ultima.

La ricezione di György Lukács nella cultura italiana

Elio Matassi

Elio Matassi

di Elio Matassi

«Gli argomenti umani», 10, 2010

 

Il 1968 è una data discrimine per la ricezione di György Lukács nella cultura italiana, una data che attraversa più in particolare l’esperienza estetica del giovane Lukács premarxista – in particolare su questo aspetto molto belli i saggi di Alberto Asor Rosa, Il giovane Lukács teorico dell’arte borghese [1] e di Tito Perlini, Utopia e prospettiva in Lukács [2]–, e quella, invece, del periodo così detto estremistico, cui hanno dedicato studi di ampio respiro Luciano Amodio e Marzio Vacatello [3].

Nel primo caso è stata tematizzata l’esperienza saggistica, il saggismo di cui è stata fornita un’interpretazione finalmente corretta. Il saggismo era stato erroneamente identificato a partire dal suo aspetto più estrinseco, dall’essere contraddistinto dall’apparente assenza di un’unità tematica centrale, un metodo intrinsecamente perché estrinsecamente frammentario. In tal modo si era progressivamente oscurato proprio l’aspetto più originale del saggismo di Lukács, che Alberto Asor Rosa e Tito Perlini hanno, invece, ben messo in evidenza: il fatto di essere costruito intenzionalmente su pretesti estetico-letterari, la cui occasionalità stabilisce e fonda nel contempo la specificità dell’approccio saggistico. Il singolo pretesto scopre e manifesta indirettamente, perché solo indirettamente, attraverso la mediazione dei pretesti-forme lo spirito saggistico esercita le proprie finalità, ossia sempre da un’angolazione specifica, lo spazio teorico privilegiato, la forma-saggio, lo specchio per eccellenza. Il procedimento conoscitivo postulato da Lukács, in modo particolare nel saggio L’anima e le forme, lo scrivere e il pensare «bei Gelegenheit von» stabiliscono in ultima analisi il legame sottile eppure evidente che esiste tra la molteplicità delle forme trattate, ognuna delle quali è essenziale, ovviamente con la sua pregnanza storico-concettuale, allo ‘specchio’ che tutte dovrà rifrangerle, perché solo in questa complessa irradiazione esso potrà sussistere per quello che è intrinsecamente, ossia specchio. Senza le forme, senza quelle forme determinate neppure lo specchio saggistico potrebbe esistere. Alberto Asor Rosa e Tito Perlini hanno compiuto proprio nel 1968 un’operazione intellettuale analoga a quella dei primi recensori del saggio L’anima e le forme, Emma von Ritook e Franz Baumgarten [4].

Emma von Ritook, per esempio, nella sua penetrante recensione aveva colto fin dall’inizio il centro su cui è costruita l’unità problematica del libro, che a una lettura estrinseca può apparire sfuggente se non addirittura inesistente: il problema autentico era quello della forma, non tanto come pura astrazione, quanto come forma letteraria, un aspetto che riusciva penetrare il problematicismo specifico del saggismo; un rapporto problematico che si legittima attraverso due membri e il secondo è sempre la forma, mentre il primo è variabile e può avere molti nomi, uomo, mondo, vita, destino, natura, spirito. Il saggismo si prospetta come una sorta di ‘rapporto al quadrato’, come Verhalten di un Verhalten, ossia esasperazione di un problematicismo connesso al relazionismo formale. La natura intrinsecamente saggistica dell’opera lukacsiana giovanile è al centro dell’attenzione anche nella recensione di Franz Baumgarten; viene in modo particolare ben colta la duplicità dell’esperienza saggistica, il fatto che nel pensiero del giovane Lukács il movimento dalla vita all’arte e dall’arte alla vita si svolga sempre contemporaneamente in ambedue le direzioni. Quello che in particolare Alberto Asor Rosa riesce a cogliere è il nuovo ordine formale prospettato dal giovane Lukács con il suo statuto e la sua articolazione. Le due estremità concernenti il saggismo, la forma saggistica e quella tragica sono egualmente fondate sulla stessa anima, ne scandiscono per così dire la duplicità intrinseca, caratterizzantesi non come verità doppia e alternativa, l’una escludente radicalmente l’altra, ma come estrema proiezione di una forma di verità che suole presentarsi nella sua veste affermativa e in quella negativa.

Nel commentario al periodo estremistico del giovane Lukács di Luciano Amodio vengono messi in evidenza due nuclei: in primo luogo il passaggio da una concezione ancora etica, una responsabilità declinabile in termini esclusivamente individuali a una visione comunitaria che presume l’acquisizione di una Weltgeschichte di stampo hegelianeggiante con la presa di distanza da ogni forma, diretta o surrettizia, di costruzione eticizzante alla stregua di August von Cieszkowskji e di Moses Hess. Mediante la progressiva valorizzazione del presente, Lukács si allontana in maniera definitiva dal soggetto astratto dell’etica, una scelta che con il Moses Hess und die Probleme der idealistischen Dialektik, diventerà irreversibile. Dal punto di vista speculativo il passaggio può essere schematizzabile come una transizione da una forte vocazione per i postulati etici (con un’allusione trasparente a un modello di responsabilità pregiudizialmente alternativo a ogni disegno comunitario) a una prossimità all’etica dialettica, ossia un’etica inquadrabile alla luce del prospettivismo storico che supera, trascendendole, le tragedie individuali per prospettarle in un progetto di più ampio respiro. Svolta documentabile nei celebri saggi della maturità, le Faust-Studien e Der junge Hegel, quando attraverso Goethe ed Hegel, i due massimi esempi di etica dialettica, Lukács scopre il valore del prospettivismo storico, prendendo definitivamente le distanze dall’eredità neokantiana e dall’estetismo intrinseco alle sue prese di posizione giovanili.

Per quanto concerne il secondo nucleo, il dibattito riguarda i punti cardine attorno a cui ruota tutta la polemica su Storia e coscienza di classe: la critica alla dialettica engelsiana alla natura e il concetto di coscienza imputata.

In un’annotazione di Storia e coscienza di classe, Lukács aveva stabilito che il metodo dialettico doveva essere limitato alla conoscenza della realtà storico-sociale, in quanto nella conoscenza della natura non sono presenti le determinazioni decisive della dialettica, l’interazione tra soggetto e oggetto, l’unità di teoria e prassi, la modificazione storica del sostrato categoriale come base della loro modificazione del pensiero. Deborin e Rudas interpretano queste e analoghe affermazioni di Lukács nel senso di una negazione della dialettica nella natura, come se la natura procedesse secondo leggi che nulla hanno a che fare con la storia umana. Di qui le accuse di dualismo rivolte contro Lukács, anche se Lukács parlava esplicitamente di una differenza fondamentale nella conoscenza e non nell’oggetto e si era semplicemente limitato a dire che la dialettica assume nella storia e nella natura due forme diverse. Il secondo motivo di polemica è la teoria della coscienza imputata: con questa espressione Lukács definisce il livello di coscienza che il proletariato può oggettivamente raggiungere in un dato momento storico, ma che non sempre di fatto raggiunge. È compito e responsabilità dell’avanguardia fare in modo che la classe si elevi quanto più possibile a livello di coscienza storicamente raggiungibile. Rudas in particolare criticherà questa tesi, argomentando che essa sostituisce alla coscienza di classe reale (ossia empiricamente, statisticamente data) una costruzione astratta e mitologica cui non corrisponde nulla di concreto, senza comprendere che la mediazione tra la coscienza di classe data e quella possibile non è operata hegelianamente, come egli scriveva in maniera sarcastica, dalla Signora Storia, bensì dal partito rivoluzionario. È questo il vero nodo della controversia che non venne compreso dai critici di Storia e coscienza di classe e che rese ancor più amara e grottesca la sentenza che si abbatté su Lukács e che venne, invece, contestualizzata pienamente nel 1968 in Italia.

[1]    Alberto Asor Rosa, Il giovane Lukács teorico dell’arte borghese, in «Contropiano», I, 1968, pp.59-104.

[2]    Tito Perlini, Utopia e prospettiva in Lukács, Dedalo, Bari, 1978.

[3]    Luciano Amodio, Commentario al periodo estremistico di G. Lukács, 1919-1921, in «Il corpo», II, 1967, n. 5, pp. 361-431; Marzio Vacatello, Lukács. Da «Storia e coscienza di classe» al giudizio sulla cultura borghese, La Nuova Italia, Firenze, 1968.

[4]    Emma von Ritook, Rezension, in «Zeitschrift für Ästhetik und Allgemeine Kunstwissenschaft», VII, Stuttgart, 1911, p. 324; Franz Baumgarten, Rezension, in «Logos», 1912, p. 249.