Dopo cinquanta anni

con György Lukács, Arnold Hauser e altri

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.

Una conversazione per radio tra György Lukács, a Budapest, e Arnold Hauser, a Londra, registrata dalla radio ungherese nell’anno 1969.


Conduttore – Trasmettiamo una conversazione che si sta realizzando tra la BBC londinese e la radiodiffusione ungherese. Nello studio londinese si trova il professore Arnold Hauser, il quale potremo chiamare semplicemente Arnold Hauser, poiché il famoso sociologo dell’arte nacque in Ungheria. Cominciò i suoi studi nella Facoltà di Filosofia dell’Università di Budapest, studiò filologia tedesca e francese, fece amicizia con Karl Mannheim e successivamente con Georg Lukács. Ci è noto il “Circolo della domenica”, sorto nel 1916, tra i cui membri figuravano, oltre a Lukács, Bela Balázs, Karl Mannheim, Frederich Antal, Anna Lesznai[1], Arnold Hauser e altri. È anche conosciuta la “Scuola libera delle Scienze dello spirito”, che sorse da questo circolo e nella quale i membri del “Circolo della domenica” tenevano conferenze di elevato livello accademico, malgrado fosse aperta a tutti. Durante il regime di Horthy la maggioranza dei partecipanti del circolo emigrò: lo stesso Hauser da mezzo secolo sta vivendo all’estero. Lì ha scritto, tra le altre cose, la sua opera principale, la Storia sociale della letteratura e dell’arte, pubblicata recentemente in ungherese. Questo avvenimento ci ha dato l’opportunità di invitare il professore Hauser a partecipare a questa conversazione. Per questo motivo si trovano invitati negli studi di Budapest gli accademici Georg Lukács e Julius Ortutay, il sociologo Tibor Huszár e l’editrice dell’opera di Hauser, Beatrix Kézdy.

In considerazione dell’antica amicizia esistente tra i due saggi chiediamo a Georg Lukács che lo saluti. Continua a leggere

Le basi ontologiche del pensiero e dell’attività dell’uomo

György Lukács

La conferenza sulle Basi ontologiche del pensiero e dell’attività dell’uomo fu redatta nei primi mesi del 1968 e doveva essere letta al congresso mondiale di filosofia che si sarebbe tenuto a Vienna nel settembre di quell’anno. Tuttavia, non avendo poi Lukács partecipato a quel congresso, il testo della conferenza fu reso pubblico nel 1969 sia in traduzione ungherese, sia nella stesura originale tedesca. Quanto al contenuto, la conferenza si fonda sulla cosiddetta «grande» Ontologia, il cui manoscritto era allora praticamente già terminato.

Originariamente apparso in italiano in L’uomo e la rivoluzione, Editori Riuniti, Roma 1973, ora Edizioni Punto Rosso, Milano 2013.


I. Chi voglia illustrare in una conferenza, anche soltanto entro certi limiti, almeno i principi più generali di questo complesso problematico, si trova di fronte a una duplice difficoltà. Da un lato bisognerebbe dare un panorama critico dello stato attuale della discussione su tale problema, dall’altro occorrerebbe porre in luce l’edificio concettuale di una nuova ontologia, perlomeno nella sua struttura fondamentale. Per essere in qualche modo esaurienti almeno sulla seconda questione, che è in concreto quella di fondo, dovremo rinunciare a soffermarci, per quanto brevemente, sulla prima. Continua a leggere

Lukács

di Agnes Heller

da Morale e rivoluzione, Savelli, Milano, 1979.

Veniamo ora ai tuoi rapporti intellettuali col tuo maestro György Lukács. Una discussa opera lukacsiana fortemente presente nei tuoi libri (sia in quello sulla vita quotidiana che nell’Uomo del Rinascimento) è l’E­stetica del 1963. Come giudichi, non solo sul piano del tuo debito intellettuale verso il maestro, ma anche sul piano storico-critico, quest’opera matura di Lukács, che non ha trovato molta comprensione in occidente?

Fin dal 1956, nelle discussioni del Circolo Petöfi sulla filosofia, era stata lanciata da parola d’ordine di affrontare i cosiddetti «problemi fondamentali della filosofia» come via per la rifondazione del marxismo. Proprio in un’epoca in cui la prassi politica era tutto per noi abbiamo sentito fortemente la mancanza di una base teorica, la «cecità» della nostra azione. Come ho già detto, le esperienze della «dialettica negativa» della rivoluzione ungherese non hanno fatto che accen­tuare questa consapevolezza.

L’Estetica fu per noi una rivelazione simile a quel­la vissuta dal giovane Lukács nel suo incontro con Ernst Bloch: sentivamo che la grande filosofia è pos­sibile, anche nella nostra epoca. Non solo il fatto che fosse stato scritto, ma anche la struttura e il contenuto del libro esercitarono su di noi un profondo influsso. L’avevo letto attentamente in manoscritto e dopo l’ho letto e riletto più volte. L’aspetto che ha inciso di più su di me, e che ritengo ancora oggi fondamentale, è la teoria delle oggettivazioni, affrontata nel libro in una prospettiva specifica, quella dell’oggettivazione artistica. In effetti, la concezione e la trattazione del mondo dell’arte come mondo di oggettivazioni ci fornì una metodologia generale. Da allora non si può fare a meno di comprendere la continuità storica attraverso la teoria dell’oggettivazione. Nel mio libro, La vita quotidiana, mi sono proposta di elaborarne una ver­sione generale. Decisiva non fu però soltanto la teoria dell’oggettivazione, ma anche il tentativo lukacsiano, di enorme importanza per me, di fornire attraverso di essa, una risposta al problema della validità dei valori. Sebbene nel libro di Lukács tale problema fosse for­mulato mediante le categorie di «memoria» e «auto­coscienza dell’umanità» e la parola «valore» non ve­nisse esplicitata, non si trattava che di questo. In fondo, l’Estetica era una filosofia della storia alterna­tiva a Storia e coscienza di classe. Sotto molti aspetti, Lukács ritornava qui alla sua giovinezza, riprendendo e riformulando categorie fenomenologiche ed erme­neutiche centrali dell’Estetica di Heidelberg. La cate­goria di «genere», messa in secondo piano nell’opera del ‘23, veniva di nuovo valorizzata e inserita nella teoria dell’oggettivazione. È un fatto estremamente importante, anche in relazione alle questioni epistemo­logiche. Su questa base, infatti, si può superare l’an­titesi di olismo e individualismo e risolvere il cattivo dilemma del soggetto-oggetto isolato e del soggetto collettivo, senza fare appello al soggetto trascendentale e senza intendere la sfera dell’oggettivazione come totalmente estraniata.

Sono vari i motivi per cui il libro, nonostante la sua enorme importanza, non è stato capito in occi­dente. Il primo e più rilevante è che non è stato as­solutamente letto. Posso portare tre testimoni: Goldmann, Bloch e Adorno. Tutti e tre hanno ammesso che non ce l’hanno fatta a leggerlo. E all’unisono hanno addotto questa motivazione: non si possono scrivere libri così lunghi, nessuno li legge più, non c’è tempo. Gli uomini nel mondo occidentale sono costretti a tenere il passo con le ideologie più recenti, e anche per i migliori è molto difficile opporre resistenza a tale pressione. Si tratta perlopiù di fenomeni di moda ohe vengono sostituiti da altri nel giro di breve tempo, ma tutti i pensatori, dovendo partecipare quotidiana­mente a pubbliche discussioni, sono tenuti a essere sempre up to date per poter reagire, sia pur critica­mente, alle «nuove ideologie». Non se ne parla nem­meno di occuparsi per quattro mesi, tutto il giorno, di un solo libro. Lukács raccontava di aver chiesto una volta a Mannheim perché citasse Marx da Storia e coscienza di classe invece di andarselo a leggere (o rileggere) direttamente. Mannheim rispose: devo leg­gere tutti i giorni i libri dei miei colleghi, come posso occuparmi per mesi di Marx? Per evitare ogni equi­voco: sono favorevole al dibattito delle idee e sono ben consapevole dell’essenzialità, per esso, della «reat­tività». Al tempo stesso, penso però che, pur inter­venendo nel dibattito, si dovrebbe opporre resistenza nella forma di una rigida selezione.

So bene che il punto di vista di Lukács: «Chi non conosco non può essere un uomo rispettabile», per quanto formulato ironicamente, ma con un contenuto profondamente serio, è irrilevante. Non credo però che lo sarebbe altrettanto se, di fronte a fenomeni di moda molto influenti (per esempio, i nouveaux philosophes francesi) si dicesse: «Non li conosco, ho stu­diato per quattro mesi l’Estetica di Lukács». Ma quando Ferenc Fehér ne preparò un’edizione ridotta e neppu­re questa trovò alcuna eco reale, fui costretta a cer­care le ragioni della mancata ricezione in questioni più di sostanza.

Un primo motivo è forse che il lettore in occidente si è abituato a un’iperriflessività della filosofia. Da lungo tempo le questioni metodologiche sono al centro della riflessione filosofica. Ciononostante, l’Este­tica è un’opera che non riflette sul proprio metodo, ne crea uno nuovo, senza tuttavia averne la coscienza. È un libro «ingenuo», che si avvicina direttamente al mondo dell’arte, alla «cosa», come diceva Hegel. L’oggettiva strutturazione del mondo in «fenomeno» e «essenza» viene presupposta come qualcosa di evi­dente, e lo stesso avviene per l’oggettività delle cate­gorie.

Il secondo motivo è forse che il libro è discontinuo, presenta parti deboli e altre efficaci. Importanti tesori teorici o si trovano in concezioni fondamentali, spesso nascoste da particolari, o in particolari formulati però a loro volta come materiale dimostrativo di argomentazioni inessenziali. Per fare un esempio: nel capitolo più brutto del libro, quello sul sistema di segnali, dove Lukács considera quella di Pavlov «la psicolo­gia» in generale, troviamo l’analisi del tatto, una delle più belle e convincenti che mi è capitato di leggere. Sì, qui bisogna veramente passare per il Purgatorio per arrivare al Paradiso. Ma ne vale la pena.

Veniamo ora all’ultimo motivo. Un uomo an­ziano che dopo trent’anni affronta di nuovo con disin­voltura i problemi filosofici fondamentali, non si po­teva liberare del tutto da tradizioni acquisite proprio in quei trent’anni. Lukács ha accettato durante lo sta­linismo il Diamat come interpretazione filosofica del mondo. Anche se avesse voluto, non avrebbe potuto abbandonarlo d’un tratto: la sua coscienza della con­tinuità era troppo forte per fare una cosa di questo genere. Perciò nell’Estetica egli si serve in diversi con­testi di categorie antidiluviane pur volendo, non sem­pre coerentemente, riempirle di nuovo contenuto. Que­sto avviene, per esempio, con i concetti di «rispecchia­mento» o di «realismo». Il rispecchiamento viene perlopiù identificato con l’antica categoria della mimesi (imitazione dei costumi, dell’ethos e non della cosid­detta «realtà»). Ma anche l’«imitazione della realtà» non sparisce del tutto, anzi, riemerge spesso. Il realismo viene identificato con l’unità di genere e indi­vidualità, e compreso attraverso la categoria della par­ticolarità. Ma questa concezione non si può legitti­mare completamente con la vecchia categoria di ri­specchiamento. Le dicotomie «essenza»-«fenome­no», nella realtà, e «genere»-«individuo», nel mondo delle oggettivazioni, non si possono coerente­mente mettere sullo stesso piano, perlomeno non sem­pre. Ma questo rientra anche nell’effetto-Purgatorio. Tuttavia ripeto: vale la pena passare attraverso questo Purgatorio.

Che cosa pensi del modo in cui la cultura marxista orientale ha in genere valutato l’opera di Lukács? Ti sembra che si possa parlare di una sufficiente assimi­lazione critica? Quanto possono aver pesato, sul pia­no critico, riserve e pregiudizi di tipo ideologico (re­lativi al tanto discusso «stalinismo» o «antistalini­smo» di Lukács)? Pensi che essi siano operanti an­cora oggi, in tutto o in parte?

Il destino dell’opera di Lukács è comune a tutti i pensatori significativi. Certamente non possiamo par­lare di una valutazione unitaria da parte della cultura marxista. Oggi ci sono diverse scuole marxiste e tra di esse alcune che rifiutano le idee di Lukács, o per­lomeno non hanno alcun interesse per la sua opera e molte altre che le attribuiscono invece una grande ri­levanza, appropriandosene e sviluppandola. Ma anche nel secondo caso non si tratta di una ricezione unitaria. Tutti noi abbiamo avuto il «nostro Lukács», così come abbiamo il «nostro Marx». Per l’uno è cen­trale Storia e coscienza di classe, per l’altro la sua so­ciologia della letteratura, per un terzo l’Estetica, per un quarto ancora la sua concezione della decadenza. Volendo delineare delle tendenze generali, se ne pos­sono tuttavia distinguere due principali. Per la prima, Lukács è il simbolo del radicalismo politico, per la se­conda, è il patriota della cultura europea. Per la pri­ma, egli rappresenta l’idea della rivoluzione totale, del­la redenzione attraverso il proletariato e dell’avanguar­dia rivoluzionaria, per la seconda, la convinzione che il socialismo raccoglie l’eredità dell’intera cintura uma­na, di una cultura che rappresenta lo sviluppo del ge­nere stesso. Entrambe le interpretazioni sono ad un tempo il frutto di un corretto intendimento e di un insostenibile fraintendimento, cosa del resto inevitabi­le, se vogliamo mediare la teoria di un pensatore con i problemi del nostro tempo.

Lukács ha parlato una volta (nel ‘19) del muta­mento di funzione del materialismo storico[1]. Lo stes­so si può dire del suo pensiero. Fanno già parte del patrimonio scientifico le molte (e diversissime) fun­zioni adempiute per esempio da Storia e coscienza di classe nel movimento socialista degli ultimi 50 anni. Ma è forse meno noto che anche la teoria del reali­smo ha mutato di funzione più volte. Dapprima era stata formulata contro il Proletkult, come difesa del­la ricezione democratica dell’arte contro un settarismo estremamente aristocratico, elitario. Successivamente divenne il bastione della tradizione culturale contro il «romanticismo rivoluzionario» staliniano. Più tardi ancora divenne un’ideologia conservatrice di rifiuto to­tale dell’arte moderna. Sebbene tutti e tre i momenti fossero presenti e intrecciati fin dall’inizio, la funzio­ne fondamentale della teoria è sempre stata, come ho detto, diversa.

Il mutamento di funzione comprende sempre l’ele­mento temporale. Il destino di alcune opere è stato di essere totalmente dimenticate (o, eccezionalmente, di essere sostenute da alcuni outsiders) per conoscere solo più tardi una ricezione di massa. Per esempio, il radicalismo di L’anima e le forme e di Teoria del ro­manzo per decenni è stato capito solo da Goldmann, mentre è diventato oggi «patrimonio comune».

Mi avete chiesto di dire qualcosa sull’assimilazione di Lukács nei movimenti marxisti. Vorrei però aggiun­gere che negli ultimi decenni Lukács, l’eterno out­sider, è diventato un accademico in Occidente, ed è assurto al rango di personaggio «ufficiale» in Oriente.

Il primo è un destino al quale nessun pensatore può sfuggire. Se uno viene letto, le sue opere diven­tano materia di insegnamento anche nelle università. Le idee vengono considerate «sapere» e vengono ap­prese come sapere obbligatorio alla stregua di qual­siasi altro. Numerosi studenti scriveranno le loro tesi su Lukács. Talcott Parsons o Lukács: entrambi po­tranno essere un biglietto d’ingresso nel mondo acca­demico. Può succedere benissimo con Lukács ciò che è avvenuto con Marx, o, per citare Kierkegaard, con Gesù Cristo, ossia di diventare materia di tesi attra­verso i dolori, e talvolta il martirio della propria vita.

Si può parlare di una sua innocenza anche per quan­to riguarda la sua postuma carriera ufficiale all’Est, soprattutto in Ungheria?

La questione, che avete ricordato, del suo «stali­nismo» o «antistalinismo» è attuale e lo rimarrà fino al giorno beato, e non mi aspetto che sia doma­ni, in cui l’ombra di Stalin si eclisserà definitivamente nel regno dell’Ade, nella storia passata. Solo allora potremo considerare l’opera di Lukács in sé, senza do­ver sollevare la questione della responsabilità.

Lukács fu entrambe le cose, stalinista e antistali­nista. Il suo è stato un costante confronto del proprio ideal tipo con la società e il partito sovietici. Era uno stalinista poiché sosteneva questo idealtipo, ed era un antistalinista, poiché non vide mai «realizzato» il pro­prio ideale nella società in cui viveva, e di conseguen­za si trovò sempre all’opposizione, anche contro la pro­pria volontà. Fu messo ai margini, misconosciuto, perseguitato, e persino incarcerato e deportato da un si­stema che riteneva «sostanzialmente» giusto. È un segno di alta moralità che la sua propria persecuzio­ne non lo abbia condotto ad abbandonare l’«ideale del regime»; ma fu un delitto morale che la perse­cuzione in massa di altri non lo abbia scosso nella sua fede.

I posteri non hanno alcun diritto di giudicarlo. E non perché può essere comprensibile la via che lui ha percorso, muovendo dal passato e in relazione al pe­riodo storico in cui è caduta la sua scelta esistenziale, il periodo della prima guerra mondiale. È stato Lukács a dire che l’anima non ha preistoria, ma nel pronun­ciare questa frase era mosso dalla più elementare istan­za morale: ha infatti pronunciato un giudizio su se stesso. Fin dal 1956 ha incominciato questo ripensa­mento e gradualmente, attraverso dure battaglie, ha compreso, nonostante tutte le incoerenze, la propria responsabilità. Nel suo ultimo anno di vita, ci diceva: «Sono un’esistenza fallita». Non lo era di certo lui, già un classico. Era troppo vecchio, così prossimo al­la morte che la sua catarsi non poteva attuarsi in vita. Tuttavia l’ha vissuta.

Quando ho letto l’intervista postuma di Heidegger un anno e mezzo fa, in cui non si scorge traccia di un sentimento di responsabilità, ho appreso ancora una volta ad apprezzare l’uomo che ha avuto il coraggio di dire: «Sono un’esistenza fallita», sciogliendoci in questo modo dall’obbligo del giudizio.

Lukács adesso è un santo nel Pantheon del regi­me ungherese. Ma anche così deve tener la bocca a posto. Questa collocazione gli viene da un aspetto del suo passato: la consacrazione insieme alla censura. Sì, insieme alla censura, poiché il ruolo svolto nel 1956 è stato messo sotto silenzio e la sua protesta contro l’intervento sovietico in Cecoslovacchia è stata nasco­sta e le sue ultime interviste non sono state pubblicate. Dopo gli avvenimenti del 1968 ha scritto un saggio, Sulla democrazia, in cui esponeva il punto di vista che l’Unione Sovietica è un paese «oggettiva­mente» ma non «soggettivamente» socialista. Que­sto scritto dopo la sua morte è stato «archiviato» dal partito per 50 anni. Tutto ciò mostra che questo po­sto nel Pantheon non gli spetta, egli contesta, contesta dalla tomba.

La questione del suo stalinismo o antistalinismo rimane comunque attuale.

Lukács ha scritto una volta un libro sulla «re­sponsabilità degli intellettuali». La sua vita esempla­re ci deve aiutare a pensare fino in fondo le implica­zioni di questa responsabilità.

[1] Cfr. G. Lukács, Il mutamento di funzione del materialismo storico, in Storia e coscienza di classe, Milano, Sugar, 1968, pp. 277-316.

La responsabilità sociale del filosofo

di György Lukács

[Die soziale Verantwortung des Philosophen, 1960 ca., inedito, trad. it. Vittoria Franco, in G. L., La responsabilità sociale del filosofo, Pacini Fazzi, Lucca 989]

Si ringrazia Toni Infranca per aver messo a disposizione questo testo.


Devo scusarmi subito in apertura se arriverò a rispondere alla questione solo dopo lunghi giri. Primo, [perché] mi sembra che la questione in sé non sia stata finora sufficientemente chiarita. Secondo, e più importante, perché scorgo nella situazione attuale problemi del tutto particolari, che rinviano oltre una specificazione normale della questione generale e la cui analisi soltanto consente teoricamente una risposta concreta.

I nostri ragionamenti devono dunque culminare nelle due questioni seguenti, fra di loro strettamente connesse: esiste una responsabilità specifica del filosofo, che va oltre la responsabilità normale di ogni uomo per la propria vita, per quella dei suoi simili, per la società in cui vive e il suo futuro? E inoltre: tale responsabilità nella nostra epoca ha acquistato una forma particolare? Per la teoria dell’etica, entrambe le questioni implicano il problema se la responsabilità contenga un momento storico-sociale costitutivo. È un interrogativo che va posto subito all’inizio, giacché proprio l’etica moderna, specialmente quella che si è sviluppata sotto l’influenza di Schopenhauer prima e di Kierkegaard poi, pone l’accento sul fatto che il comportamento etico dell’individuo «gettato» nella vita mira proprio a tenersi lontano da tutto ciò che è storico-sociale per pervenire all’essere ontologico, in contrapposizione netta a tutto l’essente. È ovviamente impossibile trattare qui, sia pure per grandi linee, tutto questo complesso di problemi. Possiamo occuparci solo di quegli aspetti che riguardano oggettivamente il nostro problema.

1. Nell’etica, così come si è configurata sinora, possiamo osservare – grosso modo* – due correnti decisive. La prima considera rilevante esclusivamente l’atto in sé della decisione etica, del comportamento. Questa concezione ha assunto nel corso dello sviluppo della nostra moralità incarnazioni così diverse che troviamo un tale atteggiamento fondamentale nella Stoa come in Epicuro, in Kant come nell’esistenzialismo, ecc. In base alla nostra impostazione del problema, concentreremo l’attenzione soprattutto sul tratto comune che abbiamo rilevato e tralasceremo di proposito le differenze, il cui significato non deve essere ovviamente sottovalutato; esse non sono tuttavia decisive per le questioni da chiarire in questa sede. Il momento decisivo ci sembra consistere nel fatto che l’atto della decisione etica, dell’assunzione di un comportamento eticamente rilevante viene posto come indipendente dal corso causale della realtà storico-sociale, viene cioè considerato come fondamento dell’etica la completa indipendenza reciproca dei due «mondi» dell’essere e del dover essere. Dei grandi filosofi, Kant è colui che ha compiuto nella maniera più decisa, fino al paradosso, questo sdoppiamento della realtà. La frattura attraversa la personalità che agisce e il suo atto. I presupposti e le conseguenze, anche quelle puramente spirituali, appartengono tutti al mondo fenomenico e sono perciò sottoposti incondizionatamente alla connessione inesorabile della causalità. L’actus purus della decisione etica è invece un noumenon, un momento dell’esistenza intellegibile dell’uomo, completamente indipendente dal fenomeno e dalla sua causalità.

Sembra spezzarsi così ogni collegamento fra l’esistenza interna (etica) dell’uomo e quella esterna (naturale, sociale), per cui, secondo una tale concezione, il nostro problema perderebbe ogni senso persino come questione. Non è assolutamente questo il caso in Kant. La riduzione di ciò che è eticamente rilevante alla personalità puramente intellegibile ha piuttosto, come vedremo subito, lo scopo di subordinare la totalità della vita umana al dover essere etico, di conferire ad essa una razionalità morale più elevata di quanto sia possibile – secondo Kant – sul terreno fenomenico. Solo se, come in Kierkegaard, l’abisso fra interno ed esterno acquista l’ampiezza metafisica di un assoluto, solo se, di conseguenza, l’incognito impenetrabile diviene la forma originaria dell’esistenza umana, la sua essenza ontologica, il sacrificio di Isacco da parte di Abramo, con l’impossibilità di separare dall’esterno il delitto dalla santità devota a Dio, può divenire il paradigma più elevato della prassi, l’espressione della sua irrazionalità ontologica e quindi della sua – altrettanto ontologica – essenza asociale, astorica. Non è così in Kant. Già l’analisi dell’imperativo categorico dimostra che la separazione rigida del fenomeno dal noumeno è rivolta proprio a fornire all’uomo sociale della realtà criteri saldi per la prassi della vita quotidiana. Questa intenzione è ciò che per noi è importante. Se dunque contraddizioni insuperabili vengono in essere, allora vuol dire che la problematica che qui emerge è una dimostrazione indiretta delle nostre tesi. Si tratta del contenuto dell’imperativo, che deve scaturire proprio dalla sua essenza puramente formale. Tutti conoscono il famoso esempio della – presunta – contraddizione logica che sorge necessariamente quando si voglia sottrarre un deposito. Nella sua critica, divenuta altrettanto famosa, Hegel rileva che, in questo modo, Kant abbandona il campo dell’etica, che egli stesso aveva rigidamente delimitato, e vuole determinare la questione se il deposito debba essere e che cosa debba essere con categorie che sono inadatte a questo scopo secondo i suoi stessi principi. (Del tutto diversamente per l’etica e per lo stesso Hegel).

Questo rinviare oltre l’actus purus dell’io noumenico in Kant non è però un caso o una inconseguenza. Proprio i postulati della ragione pratica mostrano che una tale trascendenza è per lui necessaria, se non vuole far sfociare la sua etica nel vicolo cieco dell’individuo ontologicamente isolato. Possiamo richiamarci di nuovo a connessioni universalmente note. Primo, al postulato di una coincidenza, in ultima istanza, fra l’applicazione delle norme etiche purificate da ogni ammiccamento alla fortuna e la felicità come stato permanente; secondo, a quello di un progresso infinito della perfettibilità: ai postulati dell’esserci di Dio e dell’immortalità dell’anima. Si tratta perciò di una trascendenza. Non soltanto si va oltre il mondo terreno, per poter porre la realizzazione di colui che si perfeziona eticamente come parte costitutiva del sistema, ma – in contrapposizione con molte religioni che prevedono la realizzazione dell’essere terreno in un al di là – si deve anche abbandonare l’intero ambito dell’essere, ritornare al dover essere del postulato. Non ci interessa qui la problematicità di una tale posizione. Ciò che abbiamo cercato di dimostrare si limita alla costatazione, che resta molto astratta, che perfino l’etica più decisamente formale e più ostinatamente orientata sull’atto puramente individuale della decisione è costretta a trascendere questo suo punto di partenza e ad elevare le categorie decisive della vita storico-sociale degli uomini (gli oggetti del loro agire, la fortuna, il loro perfezionamento) a momenti integranti del suo sistema. È chiaro che, in questo modo, l’uomo stesso in quanto essenza sociale, la sua relazione con i suoi simili e quindi, in maniera mediata o immediata, la stessa socialità, devono stare – indipendentemente se nell’al di qua o nell’al di là – al centro della sistematica anche in un’etica costruita in maniera soggettivo-formale.

Tale connessione risulta ancora più chiara, quasi fino alla trivialità, in quel gruppo di teorie etiche, che si è soliti etichettare sinteticamente (e in maniera non molto convincente), come utilitarismo. Anch’esse hanno come punto di partenza le intenzioni degli individui. Solo che qui l’altro è posto sin dall’inizio ineliminabilmente come partner. La dialettica fra egoismo e altruismo (non importa come queste espressioni appaiono dal punto di vista terminologico) costituisce necessariamente il tema centrale dell’etica, e pertanto il carattere sociale è metodologicamente assicurato. Da un lato, il motivo egoistico può venire assolutamente in primo piano, specialmente finché la regolazione automatica dell’agire individuale, egoistico, mediante l’economia complessiva vale come dogma incrollabile; dall’altro, proprio per questo, una tale struttura della società può essere astratta dal divenire storico e idealizzata a condizione «eterna» della relazione fra uomo e società. In casi estremi di tal genere, questa considerazione etica si trasforma a tal punto che appaiono rilevanti solo le conseguenze delle azioni umane. Ma ritorneremo fra breve su questa possibilità.

In generale, si tratta tuttavia di una relazione reciproca reale fra egoismo e altruismo; per meglio dire, si tratta del tentativo di far derivare da motivi egoistici le intenzioni e le azioni disinteressate e cariche di abnegazione fino all’eroismo. Ragionamenti siffatti potrebbero apparire spesso estremamente artefatti, sofisticati. Questo non può tuttavia offuscare la grande idea che vi è insita. Cioè che un’etica, che ha come punto di partenza uomini «naturalmente» egoisti, fa scendere tutto ciò che vi è di grande e progressivo nello sviluppo dell’attività umana dal cielo della trascendenza su questa terra della socialità reale, dei doveri e della responsabilità puramente sociali. Se tale concezione ha avuto talvolta, finché si è combattuto in suo nome per il «regno della ragione», un accento sovrastorico, con la vittoria della borghesia si è trasformata in una superficiale apologetica, mentre già con la teoria dell’«egoismo razionale» dei democratici rivoluzionari russi è emerso chiaramente il suo carattere progressivo. Il pensatore guida di questa tendenza, Cernicewskji, nel suo romanzo Che fare? ha indicato vari tipi che, in quanto rappresentanti dell’«egoismo razionale», [che va] da un’attività riformatrice nella vita quotidiana propria e altrui fino all’eroismo rivoluzionario ascetico e pieno di abnegazione, rendono chiare quelle conseguenze della responsabilità individuale e storico-sociale, che derivano con necessità logica dai principi di questa dottrina correttamente intesi.

Sebbene la trattazione adeguata dell’etica marxista sia possibile solo più oltre e anche se essa, per sua essenza, non parte assolutamente dall’intenzione, dall’atto etico, dobbiamo accennare brevemente già a questo punto alla sua relazione con la dottrina dell’«egoismo razionale». Già il giovane Engels, in una lettera a Marx, criticava il rifiuto astratto di ogni egoismo da parte degli idealisti «veri socialisti» e rilevava che anch’essi «sono comunisti anche per egoismo». Non è questa la sede per soffermarsi sul come tale dottrina si sia formata innanzitutto attraverso lo sviluppo della lotta di classe, degli interessi di classe, ecc. È importante solo che, in questo modo, si è sostanzialmente concretizzata la corrente storico-sociale in cui è inserita ogni vita individuale, che la vita etico-individuale deve farsi carico inevitabilmente di una responsabilità storico-sociale verso le decisioni, i comportamenti, ecc. e – ciò che è più decisivo – che perfino le virtù più elevate, le più socialmente determinanti, non sono contrapposte in maniera ascetico-dualistica all’uomo «naturale», ma in circostanze favorevoli possono essere sviluppate organicamente dalle sue proprietà «naturali». Questo è il fondamento etico-sociale del fatto che, per Lenin, anche nel socialismo gli uomini devono diventare uomini nuovi attraverso la realizzazione dei loro interessi individuali all’interno della nuova società; tutte le misure economiche di una corretta via al socialismo hanno una tale intenzione pedagogico-sociale: incanalare l’egoismo giustificato su base naturale in una socialità socialista. Potremo tornare solo più oltre sul come queste tendenze, qui rapidamente sfiorate, diventino le determinazioni più prossime della responsabilità sociale.

2. L’unità dell’etica si manifesta ancora più chiaramente là dove essa ha come punto di partenza l’estremo opposto, l’accentuazione solo o prevalentemente delle conseguenze. Una tale concezione, considerata in senso stretto nella sua applicazione coerente, dovrebbe negare ogni etica, considerarla irrilevante per l’essere e il divenire della società, in quanto la dottrina del diritto e dello Stato (o magari l’economia) farebbero le sue funzioni. Questa dottrina non è mai stata applicata in maniera conseguente. Essa emerge nel paradosso di Machiavelli, secondo cui il legislatore deve partire dal fatto che tutti gli uomini sono cattivi (amorali); sta, cioè, alla base della concezione machiavellica secondo cui azioni individuali cattive possono avere conseguenze socialmente utili. Ma una dottrina orientata semplicemente sulle conseguenze, che esclude completamente l’intenzione soggettiva, non può essere applicata nemmeno a livello giuridico. Anche un’imputazione puramente giuridica è costretta a prendere in considerazione momenti soggettivi come l’intenzione, la convinzione, il quadro reale o possibile delle circostanze, ecc. La questione del perché un uomo possa essere considerato responsabile delle conseguenze del suo agire non può essere dedotta dalla semplice catena delle cause e degli effetti, nemmeno da un punto di vista giuridico. Ha, dunque, ragione Hegel quando rifiuta tanto la priorità dell’intenzione quanto quella delle conseguenze.

Il necessario inserimento dell’intenzione nell’elaborazione etica delle conseguenze mostra però già al primo sguardo una dialettica alquanto complicata. Sarebbe ovvio e semplice affermare che nessuno è eticamente responsabile per le conseguenze imprevedibili delle sue azioni. Sarebbe comunque sostenibile una tale affermazione? Supponiamo che un uomo voglia sparare a Pietro, la sua pallottola manca l’obiettivo e colpisce a morte Paolo. Non vi è nessuna intenzione, e però non può nemmeno essere negata la responsabilità morale appellandosi al caso. Infatti, ogni azione si stacca – più o meno – da colui che la compie, acquista un suo proprio sviluppo immanente nel mezzo delle relazioni reciproche degli uomini. «Un proposito è condiviso, non è più tuo», dice il Wallenstein di Schiller. Il problema della responsabilità consiste in questo, che la dialettica propria dell’azione non [ne] elimina la paternità nel soggetto, nella sua intenzione e convinzione. Diventa un problema solo questo: fino a che punto, sotto quale aspetto, fino a quali conseguenze, diramazioni e implicazioni esiste una responsabilità? Non vi sono dubbi sul collegamento in genere fra azione e agente anche nelle mediazioni più complesse. Ciò che andrebbe concretamente elaborato in una casistica etica sono la misura e la proporzione.

Ma naturalmente ciò è impossibile in questa sede. È tuttavia necessario fornire almeno alcuni accenni metodologici sulle linee di soluzione. Sotto questo aspetto, Hegel ha intravisto l’essenza della questione quando ha detto: «devo conoscere la natura generale della singola azione». Entrambe queste determinazioni, la natura generale e la conoscenza, sono ugualmente importanti e problematiche.

Infatti, una semplice generalizzazione unilineare dell’azione non fa fare un solo passo avanti dal punto di vista etico. Il paragrafo del codice sotto cui deve essere giuridicamente sussunta un’azione singola esprime nella maniera più chiara questa generalità astratta e dimostra, nel contempo, che esso non può dare il minimo suggerimento per la soluzione etica. (E d’altra parte, si può viceversa dire: le grandi difficoltà, che emergono talvolta in tali sussunzioni giuridiche, derivano dal fatto che l’opinione pubblica, e anche la coscienza giuridica della problematica etica, si rendono conto della semplificazione). La generalità (die Allgemeinheit) eticamente proficua, che illumina la responsabilità, può essere trovata solo se noi consideriamo l’azione singola come momento mosso di un agire storico-sociale nella sua concreta e altrettanto mossa totalità e continuità. Infatti, solo sotto tale aspetto, la generalizzazione non è un’astrazione formale e priva di contenuto, ma è un tipo di astrazione che viene compiuto dallo stesso processo e riprodotto più o meno correttamente dalla coscienza esterna (anche da quella dell’agente). La generalità ha cioè, in una decisione etica, il suo passato storico-sociale e un futuro che sorge dallo stesso processo. È dunque importante il posto che occupa nel processo storico-sociale, in virtù della dialettica interna del suo nucleo essenziale, l’intenzione «di per se stessa» – quella che è, in maniera oggettivamente immanente, alla base della singola azione e che non è affatto necessariamente identica all’intenzione consapevole dell’azione in questione –, in quale connessione essa si inserisce, quali tendenze favorisce o ostacola. Solo così può venire in essere con chiarezza crescente una generalità concreta, eticamente vincolante. Prendiamo la relazione del poeta Stefan George con Hitler. L’esteta aristocratico ha comprensibilmente rifiutato con asprezza la grettezza plebea di Hitler ed è morto in esilio volontario piuttosto che divenire il poeta laureatus dell’hitlerismo. E tuttavia, nella sua poesia più tarda si esprime un’idea, un atteggiamento, la cui intenzione intima è orientata verso l’essenza storico-sociale dell’hitlerismo incombente ed è oggettivamente parte della preparazione di quest’ultimo. Il fatto che George abbia forse salutato un fascismo aristocratico alla Mosley e rifiutato solo l’aspetto ordinario delle forme fenomeniche tedesche non può diminuire la sua responsabilità, in quanto il generale, nel senso in cui lo intendiamo noi, dell’hitlerismo è, in tutti i fenomeni piccolo-borghesi, un aristocraticismo irrazionalistico, una generalizzazione dell’intenzione più profonda di George.

Non è naturalmente necessario che questa generalità acquisti una forma così chiara solo nel corso della storia. Può essersi già delineata nel corso dello sviluppo sociale fino a questo momento. Si pensi ancora una volta all’esempio del deposito di Kant. Simmel l’ha criticato in questi termini: se l’individuo che lo sottrae nega in generale la proprietà privata, l’argomentazione di Kant perde il suo fondamento. Io credo che qui Simmel non colga il reale senso profondo di Kant. Egli è rispetto a Hegel nel torto quando chiarisce che la sua sottrazione contraddice logicamente il concetto oggettivo di deposito; ma l’intenzione – nel senso stabilito sopra – di colui che se ne appropria contiene un’affermazione della proprietà privata e, insieme, del deposito e fa emergere quindi una contraddizione etica.

Proprio queste analisi delle conseguenze dimostrano che Hegel ha rigettato con buone ragioni entrambe le concezioni etiche, unilaterali ed estreme. Infatti, la responsabilità etica deriva da una particolare sintesi che unifica in sé tanto l’intenzione quanto la conseguenza, ma in un modo che le supera e le modifica entrambe. L’idea che così ne deriva si rafforza ancora se riflettiamo sul momento soggettivo della determinazione hegeliana trattata sopra: sulla conoscenza (della generalità). Che cosa conosciamo e come? Non si tratta nemmeno, in questo caso, di un concetto di imputazione astrattamente giuridico, come forse nella cura previdente del diligens pater familias. La conoscenza appartiene da un lato alla vita storico-sociale, è dunque momento di un processo; dall’altro non è identica alla previsione delle conseguenze attese nel momento dell’azione. Ciò è impossibile già per il fatto che l’oggetto di questa conoscenza è il generale già trattato. Se però, d’altro canto, vogliamo prendere in considerazione la dialettica soggettiva strettamente collegata con questa dialettica oggettiva, dalla quale deriva, dobbiamo tener conto del fatto che è possibile prevedere il corso della storia – e anche questo soltanto col marxismo – solo in modo molto generale. Dietro l’espressione hegeliana, che suona forse mitologica, dell’«astuzia della ragione», vi è il fatto indiscutibile della vita storico-sociale: che, cioè, le conseguenze delle azioni umane – siano esse individuali o collettive – non corrispondono alle intenzioni, che esse vanno qualitativamente oltre queste ultime.

Se questo è giusto – e si tratta di un fatto fondamentale dell’essere umano – quale senso può ancora avere il «conoscere» hegeliano? Noi crediamo che proprio in questo si esprime il giusto significato etico del generale. Se le conseguenze fossero esattamente prevedibili – per un intelletto addestrato a tale scopo –, l’agire sociale diventerebbe qualcosa di meramente tecnico. La responsabilità per il sì o per il no riguarderebbe un semplice calcolo e non necessiterebbe di un’analisi etica, proprio come l’ingegnere è responsabile del fatto che il ponte non crolli. Ciò che viene affermato o negato è tuttavia un generale più o meno determinato, ma in ogni caso concreto; ad esempio, i seguaci o gli oppositori della Rivoluzione francese non sapevano, e non potevano sapere, che favorivano o ostacolavano oggettivamente il sorgere del capitalismo francese. Per la loro responsabilità etica, questa conoscenza a posteriori non entra nemmeno in discussione.

L’«astuzia della ragione» determina dunque un orizzonte – storicamente diversificato – ma sempre ampiamente definito, nel cui ambito si può parlare di responsabilità in senso etico. In questo ambito di vita essa tuttavia sussiste e l’individuo non vi si può sottrarre. Certo, possono sopravvenire circostanze che provocano un pentimento, un cambiamento, ma neanche ciò può cancellare completamente la responsabilità precedente. I girondini a partire da un dato momento hanno combattuto contro i giacobini, ma una tale svolta non poteva annullare la loro corresponsabilità per tutto ciò che era accaduto fino a quel momento. Proprio l’accanimento con cui gli apostati lottavano contro coloro che erano stati loro compagni di ideali dimostra come questa struttura sia profondamente ancorata all’essenza dell’uomo.

Il medesimo stato di cose emerge, in maniera forse ancora più chiara, se tentiamo di chiarire ulteriormente l’essenza etico-sociale dell’agire. Finora abbiamo parlato solo di quella responsabilità che si lega ai fatti concreti degli uomini. Il concetto sociale di agire ha però anche un’altra dimensione. Nessun atto umano si esaurisce, infatti, in un ambiente sociale esattamente determinabile, ma è nel contempo e inseparabilmente, nei limiti in cui si riconnette alla vita pubblica, un momento che favorisce e ostacola un processo sociale. Da ciò consegue che il concetto di neutralità, dell’astenersi dall’agire qui non ha senso; sotto questo aspetto, anche il non agire è un agire che – in relazione alla responsabilità – non si differenzia, in linea di principio, dall’agire attivo vero e proprio. Hegel ha formulato in maniera molto plastica questa costellazione nella Fenomenologia: «Innocente è quindi soltanto il non operare come l’essere, non di un fanciullo, ma addirittura di una pietra». Questo vuol dire che l’astenersi dall’agire implica sempre un’accettazione o una negazione di quella situazione, struttura, istituzione, ecc., ciò che di solito in un’azione attiva, orientata positivamente o negativamente, forma il nocciolo dell’intenzione.

Vi sono qui naturalmente differenziazioni, che possono perfino avvicinarsi a zero, se l’azione in questione ha un carattere prevalentemente privato. (Va qui notato di passaggio che una simile dialettica si ha anche nella vita privata, solo che oggetto dell’intenzione sono gli individui singoli). Naturalmente, le situazioni che la vita sociale produce sono, proprio sotto questo aspetto, enormemente diverse. E questo già in relazione alla semplice possibilità del non agire; se, ad esempio, scioperano le maestranze di una fabbrica, vi è oggettivamente solo un sì o un no; l’«astensione» è qui semplicemente identica al no. Ma anche là dove la situazione, considerata in astratto, consente molto bene una neutralità, questa ha comunque, a seconda dello stadio dello sviluppo storico, una convergenza sull’accettazione o sul rifiuto della generalità in questione e questa tendenza si fa strada o si blocca a seconda della situazione storica. Il giovane Hegel si richiama al fatto che ad Atene, all’epoca delle rivolte, era stata pronunciata la sentenza di morte contro gli «apragmosini politici» e prosegue, nella direzione delle nostre considerazioni iniziali: «l’apragmosina filosofica, per sé [non disposta] a scegliere un partito, è per se stessa carica di morte per la ragione speculativa». Per lo stadio attuale della nostra ricerca, da ciò consegue, in primo luogo, che per quel che riguarda la responsabilità, tutti questi modi di comportamento devono essere straordinariamente differenziati anche a seconda dell’individualità, della sua situazione sociale, ecc. Può variare profondamente non solo il reale giudizio degli individui, ma – ciò che è più importante – anche la possibilità oggettiva della conoscenza di quella generalità che è in ultima analisi alla base dell’intenzione espressa nell’azione. L’espressione di Cristo «non sanno ciò che fanno» indica qui un polo [della questione], mentre l’espressione hegeliana citata sopra sull’apragmosina politica e filosofica indica l’altro.

Tuttavia, la differenziazione storica procede ancora oltre. Si pensi alla nostra conoscenza attuale circa la mancanza di sbocchi economici dell’economia schiavistica antica. È chiaro che dobbiamo, di conseguenza, giudicare le utopie reazionarie dell’antichità in maniera storicamente diversa da quelle dell’epoca moderna, con le prospettive oggettive dell’economia capitalistica che si allargano; dunque Platone diversamente da De Maistre. Sebbene in nessuno dei due casi potesse essere presente questa idea né su un piano oggettivamente sociale, né su quello soggettivo personale, resta tuttavia aperta la questione se essa non sia stata attiva, e non in maniera latente-immanente, in ciò che sin qui abbiamo chiamato intenzione dell’azione. Perfino in un consenso condizionato la responsabilità dovrebbe essere formulata diversamente. Oppure, prendiamo l’esempio del don Chisciotte. La inevitabile comicità delle sue azioni, che scaturisce dalla sua convinzione più pura, rinvia a una tale ignoranza oggettiva della generalità che è impossibile trascurarla completamente nell’analisi della responsabilità.

Tutto questo deve circoscrivere semplicemente l’ambito della problematica che sorge a questo punto e non vuole affatto significare che si pretenda di elencare anche solo le possibilità tipiche più importanti e, ancora meno, di trattarle concretamente.

Ma già questo quadro astratto rinvia a tratti essenziali del modo etico di trattare la responsabilità. Vediamo che la storia crea per l’etica un Giano bifronte di continuità e cambiamento qualitativo della struttura. Prendere in considerazione soltanto il secondo momento potrebbe portare facilmente a un relativismo storico. Solo nella inseparabilità dialettica dal primo – e quindi dalla continuità dell’eredità etica, dei valori etici – può sorgere quell’assoluto etico, i cui tratti essenziali sono da un lato una contraddittorietà dialettica (quindi, all’opposto di Kant: il conflitto dei doveri, il conflitto all’interno della responsabilità come uno dei punti centrali dell’etica); e, dall’altro, un assoluto che contiene in sé sempre la relatività storico-sociale come momento superato e da superare. Una trattazione soddisfacente di un problema quale il conflitto Antigone-Creonte ci sembra altrimenti impossibile. E anche a un livello più generale della connessione e del conflitto nella trasformazione storica del bourgeois e del citoyen, incontriamo la stessa connessione, la quale può essere chiarita solo mediante il riferimento dialettico reciproco e il superamento reciproco di continuità e trasformazione qualitativa e strutturale.

3. Crediamo: con l’entrata in scena del marxismo tutte le questioni qui trattate, che riguardano la responsabilità, si pongono in una luce nuova. Sembra dunque opportuno discutere brevemente almeno i principi più generali della nuova impostazione. Cominciamo con una delimitazione negativa: la dissoluzione, divenuta necessaria e di cui abbiamo parlato finora, delle due polarizzazioni unilaterali dell’etica non è una proprietà distintiva del marxismo. La si trova – sia pure in termini contenutistici e metodologici diversi – in Aristotele, nella Scolastica, in Hegel; il marxismo dà a questa tendenza solo un accento nuovo. In quanto detto finora, abbiamo mostrato che qualunque sia il punto di partenza ideologico e metodologico dell’etica, le sue sintesi sfociano sempre necessariamente nello sviluppo storico-sociale dell’umanità. Fra atto etico, convinzione etica e responsabilità da un lato, e destino sociale dall’altro, vi è dunque una connessione che, sia pure complessa e mediata, è tuttavia ineliminabile. L’elemento comune a ogni etica premarxista è tuttavia che in questa relazione reciproca le tendenze etiche che privilegiano l’individuo detengono il primato su quelle sociali. Anche quando i singoli sistemi sono contrapposti sotto tutti gli altri aspetti – pensiamo semplicemente a Platone e a Epicuro –, su quest’unica questione regna tuttavia un accordo generale. E nemmeno eventi così violenti come la grande Rivoluzione francese sono riusciti a smuovere completamente tale convinzione. Si può tutt’al più notare in alcune rappresentazioni pessimistiche, come le lettere estetiche di Schiller, una ritirata appena accennata. Resta comunque predominante l’etica dell’individuo, sia pure in una relazione più o meno conseguente col suo destino sociale.

Si esprime qui una grande idea: l’uomo, in quanto creatore responsabile del suo proprio destino, determina così il destino dell’umanità, di quel tipo di uomo che diventa predominante. Molte tendenze significative dell’etica concentrano le forze essenziali nell’elaborazione dei tratti fondamentali di quei tipi che sono adatti a condurre l’umanità sulla strada giusta. È sufficiente richiamare qui: l’antico saggio, il suo ritorno sotto diversa forma nel sage dell’Illuminismo, la dottrina dei discepoli di Cristo. (Anticipando ciò che sarà detto più oltre, emerge già qui almeno un lato del nostro problema specifico. La questione non è, infatti, che il filosofo in certi casi si assuma una particolare responsabilità per la dimostrazione sociale del tipo da lui indicato come modello). Solo per accennare alla ricchezza dei problemi che qui sorgono, si pensi al dramma di Tolstoj La luce nelle tenebre.

Ritorniamo al tema specifico: il marxismo ha una posizione radicalmente nuova proprio sulla questione del primato: in breve, è lo sviluppo sociale, più precisamente lo sviluppo delle forze produttive, che crea gli uomini ad esso necessari. Poiché, sin da quando il marxismo è sorto, si è sentito ripetere l’obiezione che non ha un’etica e che sostituisce questa con l’economia o la sociologia, vogliamo inserire qui alcune note chiarificatrici. Prima di tutto: non si può scambiare il principio sociale del marxismo con nessuna delle teorie del milieu sociale, ecc. Queste rispecchiano la cosificazione delle relazioni umane nel capitalismo e le fanno irrigidire concettualmente molto oltre il modello; contrappongono perciò l’individuo (l’uomo) a un ambiente codificato soggetto a una legalità propria, estranea all’uomo, inumana. Le leggi dell’economia e quelle della società sono certo anche per il marxismo leggi oggettive, cioè tali che funzionano indipendentemente dalla coscienza conoscente. Però non è un’oggettività estranea all’uomo a costituire l’oggetto e il sostrato dell’economia, bensì solo e soltanto il sistema (e il mutamento) delle relazioni fra gli uomini, le cui leggi essi – considerati individualmente – non hanno creato, ma che possono essere poste esclusivamente mediante il loro agire, le loro influenze reciproche, il loro influsso individuale e comune sulla natura in movimento. Nel marxismo viene dunque elaborata per la prima volta in maniera coerente l’idea che economia, società, storia non sono altro che lo sviluppo del sistema delle relazioni umane, che le leggi oggettive specifiche che in esse sorgono – d’altronde complicate e largamente mediate – sono sintesi delle azioni umane. Ciò che in Hegel appare ancora in forme mitologiche, acquista qui un’oggettività scientifica.

Questa presentazione sommaria, piuttosto unilaterale, deve semplicemente servire a dare una prospettiva ai problemi dell’etica e prima di tutto, naturalmente, a quelli che riguardano la responsabilità. Se dianzi abbiamo definito una grande idea la considerazione che l’uomo è il creatore del suo proprio destino, il marxismo diventa sotto questo rispetto la concretizzazione e il coronamento dello sviluppo dell’etica fino a questo momento. Infatti, la tesi secondo cui l’uomo crea se stesso viene condotta fuori dalla concezione idealistica hegeliana solo dal materialismo dialettico: il lavoro, in cui l’uomo diventa uomo, fa di se stesso un uomo, può acquistare un significato universale solo quando venga considerato alla lettera come lavoro fisico (che è nello stesso tempo anche spirituale, il demiurgo della spiritualità), se dunque dall’ontologia dell’uomo sparisce ogni trascendenza sovrumana.

Non è oggetto della nostra ricerca approfondire una concezione immanente del mondo. Sia consentita solo un’osservazione: che in questo modo anche dal concetto etico di responsabilità viene eliminato altrettanto radicalmente ogni rinvio a elementi trascendenti – abbiano questi il carattere di un essere trascendente, come in molte religioni, o quello di un postulato trascendente come in Kant. Questa negazione si trasforma però qui in un’affermazione concreta: il rifiuto di ogni al di là non fa ricadere su un’individualità isolata né conoscenza, né coscienza, come nel vecchio materialismo, ma, all’opposto, stabilisce un’unione intima, anche se certamente contraddittoria e alquanto mediata, fra l’uomo in quanto personalità e in quanto ente generico; e qui è da notare che per il marxismo il genere è un concetto non soltanto biologico-antropologico, ma anche, e soprattutto, storico-sociale. Non si deve dunque costruire un ponte complicato – come in ogni etica idealistica – su un dualismo autocreato; l’unità dialettica delle tensioni è, piuttosto, data naturalmente e socialmente. «L’individuo è – dice Marx – l’essenza sociale (…) La vita individuale e quella generica dell’uomo non sono distinte». Solo la loro forma relativa di realizzazione, la dialettica dell’unità delle contraddizioni si trasforma costantemente nel corso dello sviluppo storico-sociale. Il fondamento di questa unità, che si ottiene e si riproduce continuamente nel mutamento, è il lavoro. Dice Marx: «L’oggetto del lavoro è (…) l’oggettivazione della vita generica dell’uomo».

Questa immanenza in tutto ciò che riguarda l’uomo, la stringente necessità oggettiva in tutto ciò che segue dalle leggi di movimento delle relazioni umane, sono state molto spesso equivocate come fatalismo e, perciò, come esclusione dell’etica dal sistema del marxismo. Le due cose sono connesse e sono facilmente confutabili. Anche chi conosce Marx solo superficialmente deve sapere che nella sua economia le leggi si trasformano continuamente in tendenze, che esse in casi decisivi delimitano solo uno spazio oggettivo all’interno del quale l’azione umana prende la decisione. Si pensi alla definizione della giornata lavorativa. Marx mostra le tendenze capitalistiche che spingono verso il massimo e quelle proletarie che aspirano al minimo, un’antinomia i cui due termini «vengono entrambi stabiliti allo stesso modo dalla legge dello scambio delle merci». È dunque la lotta fra capitalista complessivo e operaio complessivo che decide sulla giornata lavorativa.

Non si dica che qui si tratta solo di categorie «sociologiche»; una tale affermazione non tiene, infatti, in nessun conto l’essenza della cosa: che, secondo la concezione di Marx, il sociale non è altro che una determinazione precisa dell’uomo stesso, della sua relazione con gli altri uomini. Capitalista complessivo e operaio complessivo sono dunque qui solo sintesi sociale; in realtà, si tratta del fare e del tralasciare degli uomini, i quali, nella grandezza come nella miseria, fanno la propria storia, però «non in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinata dai fatti e dalla tradizione». Per quanto le leggi dell’economia, le mediazioni fra individuo e ente generico possano essere così molteplici e mediate, la struttura indicata sopra di uno spazio concreto – entro il cui ambito concreto vengono prese dall’uomo decisioni concrete – di un’antinomia concreta che lo induce a una scelta responsabile, continua a sussistere per la totalità della vita umana.

Non possiamo qui naturalmente nemmeno accennare a tutta la ricchezza delle determinazioni che così sorgono. Basti solo ricordare il fatto che Marx, per l’individuo, concepisce perfino l’appartenenza di classe, che l’idea fondamentale di Lenin, per quel che riguarda la concezione del partito e di altre organizzazioni sociali, negli aspetti decisivi, prende questa direzione. Se noi dunque concludiamo la nostra breve panoramica con l’accenno alla relazione del marxismo con l’utopia, lo facciamo prima di tutto per mettere in luce in maniera ancora più chiara di quanto sia stato fatto finora la sua essenza determinante per l’etica. Il rifiuto dell’utopismo ha qui due momenti importanti. Il primo contesta al marxismo la possibilità di una predeterminazione utopica di quelle concrete forme di società che sono chiamate a sciogliere le contraddizioni di una formazione sociale. Proprio perché qui, per la prima volta, sta al centro la conoscibilità scientifica delle leggi e della tendenza di sviluppo della vita sociale, viene sottolineato con forza il suo carattere di approssimazione, la sua riduzione ai principi della linea evolutiva. Lenin rifiutò, perché metodologicamente impossibile, l’ideale conoscitivo di Bucharin, di una sociologia capace di fare previsioni «astronomicamente esatte». In secondo luogo, questo rifiuto teoretico-conoscitivo dell’utopismo è collegato con i processi di pensiero che, attraverso la mediazione della concezione generale della storia, sfociano nei problemi dell’etica. L’utopia come forma pone uno stadio già pronto, i cui contenuti e le cui forme devono garantire la convivenza armonica degli uomini, la quale – in qualche modo sempre – agli uomini, in quanto singoli e in quanto genere umano totale, piove dal cielo. Al contrario, il marxismo sottolinea, anche per il futuro, che gli uomini fanno da sé la loro storia, che essi e il sistema di riferimento ai loro simili sono il risultato della loro propria attività, che tutti i contenuti e le forme del futuro si sono sviluppate e si svilupperanno dal concreto fieri dell’umanità, indipendentemente dal fatto che questo avvenga con falsa o giusta coscienza. La giusta coscienza del socialismo fondato da Marx è dunque, prima di tutto, quella della giusta strada: dello scopo nei suoi principi generali, dei rispettivi mezzi nella loro particolare, spesso mutevole specificità, dei passi successivi nella loro particolarità. Che da qui seguano differenziazioni specifiche della responsabilità lo si può vedere – crediamo – già da questo brevissimo schizzo. La teoria della conoscenza del marxismo, secondo cui la prassi fornisce il criterio della teoria, ha conseguenze profonde anche per l’etica (supera, in un certo senso, il dualismo di ragion «pura» e ragion «pratica»).

Non è questo il luogo per trattare dell’influsso del marxismo sul pensiero filosofico. Esso è molto più forte di quanto di solito si supponga ufficialmente; se, infatti, la polemica impone a una filosofia una determinata struttura nell’impostazione dei problemi, uno spettro di posizioni, uno svuotamento della concezione dell’uomo che non porta a nulla, allora è presente un influsso, proprio come nel caso di filiazioni che tendono a sminuirlo. Inoltre, determinate analogie sorgono anche dal fatto che il marxismo, come molte altre correnti, è una reazione alla crisi dell’umanità iniziatasi nella metà del XIX secolo. In tali casi, possono sorgere parallelismi metodologici nella domanda e nella risposta, anche nella totale contrapposizione delle direzioni. Quanto più acuta diventa questa crisi, quanto più chiaramente si delineano le divergenze, tanto più fortemente tali tendenze possono giungere a espressione.

4. Tralasciamo la storia dello sviluppo del marxismo con i suoi molteplici punti di svolta, per riuscire a concretizzare il problema che ci siamo posti partendo dalla situazione del presente, dalle decisioni di cui essa ci fa carico, dalla responsabilità che queste ultime comportano.

Considerato dal punto di vista della nostra questione, neanche il marxismo è lo stesso di un secolo fa. Proprio a partire da questa distanza, non è la stessa cosa se si tratta di un piccolo gruppo, spesso illegale, di un partito di massa nel capitalismo, di un partito dominante della lotta per il socialismo in un paese minacciato da un intervento armato, ecc. Il presente è certamente il risultato di tutta questa storia. Esso contiene però – crediamo – anche qualcosa di qualitativamente nuovo. Bisogna perciò prima di tutto domandarsi: l’attuale situazione dell’umanità contiene effettivamente momenti che si possono con ragione considerare realmente nuovi nella storia? Giacché, altrimenti, il problema dovrebbe essere riferito primariamente alla generalità della storia e solo determinate applicazioni contenutistiche designerebbero l’esigenza del giorno. Mentre, a nostro avviso, si tratta di molto di più: che il problema dell’oggi si fonda naturalmente sui risultati della storia, è accresciuto da questi.

In che cosa consiste il nuovo per un agire responsabile ai nostri giorni? Cominciamo con lo sviluppo della tecnica: durante le due guerre mondiali essa ha imposto una crescente totalizzazione della strategia di guerra. È superfluo parlare del suo ulteriore sviluppo dopo il 1945. È noto che, con l’entrata nell’epoca atomica, si è affermata sempre più a livello di massa la sensazione della decadenza della cultura umana. Non senza fondamento oggettivo. Certo, a livello politico è spesso al servizio di un dominio imperialistico del mondo, a livello ideologico si mescola altrettanto spesso con gli accenti fatalistici secondo cui la tecnicizzazione è già andata molto in là nel controllo dell’umanità e la «massificazione», altrettanto fatale, costituisce il tratto fondamentale della vita sociale della nostra epoca. Questa tendenza è stata ancora più rafforzata da un’altra caratteristica essenziale della guerra divenuta totale. Mentre ancora la prima guerra mondiale scoppiò cogliendo di sorpresa l’opinione pubblica, ora la guerra ha bisogno di un’ampia preparazione ideologica di tutte le masse. È allora un contrassegno importante del nostro tempo che la propaganda ideologica dell’annientamento fatale inevitabile si sia trasformata in una rivolta senza precedenti contro tale fatalità. Centinaia di milioni credono ormai fermamente che lo scoppio della guerra si possa evitare, che il raggiungimento di tale obiettivo dipenda dall’attività delle masse – e quindi degli individui che le compongono. E queste non sono cieche speranze, illusioni infondate. Si tratta piuttosto di un prodotto di importanti eventi storico-mondiali. Sarà sufficiente elencare semplicemente i più rilevanti: il superamento del socialismo in un solo paese, costantemente minacciato, e la formazione di Stati socialisti con una popolazione di 800 milioni di persone; la lotta di liberazione dei popoli coloniali che trasforma una riserva materiale e umana esclusiva dell’imperialismo aggressivo in una zona potenzialmente neutra. La volontà sempre più determinata e consapevole delle masse a conquistare la pace poteva crescere solo su questo terreno; il suo rafforzamento retroagisce, tuttavia, sul solidificarsi di tali condizioni.

Viene così disegnato – crediamo – lo spazio storico e delineato l’ambito reale per esprimere chiaramente il problema della specifica responsabilità sociale oggi. Il contenuto centrale ci è già divenuto chiaro: è la responsabilità della guerra o della pace. Ciò che prima era la responsabilità di una cerchia relativamente ristretta, ora è diventata una questione dell’umanità. Soprattutto nell’epoca moderna, le masse sono diventate sempre più semplici oggetti della guerra. A partire dal contromovimento, il pacifismo ha annunciato una pura etica dell’intenzione: il rifiuto individuale di ogni partecipazione ad esso ha l’accento di un modello, di un comportamento intenzionalmente imitativo. Poiché, tuttavia, la struttura ideologica scaturisce da azioni individuali – e passive – ed è esclusivamente da ciò spinta a scatenare una reazione a catena, e poiché il rifiuto generalmente astratto della guerra elimina ogni concretezza sociale, dall’etica dell’intenzione sorge necessariamente un utopismo. Il tipo di comportamento socialista rivoluzionario (trasformazione della guerra imperialistica in una guerra borghese) pone certamente il problema storico-sociale in termini affatto concreti; contiene la negazione della guerra concepita in termini determinati e concreti e carica l’individuo che agisce di una grande responsabilità: egli non deve fermarsi alla semplice negazione e alle conseguenze che ne derivano per il suo proprio destino, ma porta una responsabilità anche per il mezzo a cui ricorre nella sua mediazione e per il risultato degli atti compiuti. Già queste linee molto generali mostrano la complicata dialettica nell’agire sociale concreto. La responsabilità primaria decisiva è per la deliberazione stessa: nella decisione qui presa viene infatti negato un determinato fenomeno storico-sociale, la guerra imperialistica. La responsabilità della deliberazione contiene dunque già la responsabilità per la giustezza del giudizio che vi è sotteso. Inoltre, il no qui espresso non è più una negatività astratta come nel pacifismo; esso contiene in maniera inseparabile un controstrumento sociale, il dovere di suscitare un contropotere sociale di opposizione alla guerra. La responsabilità si allarga e si concretizza dunque anche qui a partire dal contenuto sociale del movimento di opposizione da porre in moto. Infine, poiché suscitare un agire sociale concreto di quanti più uomini possibile è lo scopo posto, i mezzi impiegati, il destino degli uomini che vi prendono parte sono allo stesso modo oggetto di responsabilità.

*Così nel testo. (N.d.T.)