di Riccardo Merolla
«Angelus novus», 15-18, 1969
Senza dubbio ‘c’è luogo a procedere’ nell’attuale fioritura di studi lukacsiani e nella più generale operazione politico-culturale di vasto raggio che in questi ultimi tempi si va consumando – o, forse, sarebbe meglio dire che solo ora, come non mai, essa si va chiarendo e delineando in tutte le sue reali componenti, perché, in effetti, è in atto ‘da sempre’ – ed intesa appunto, fra l’altro, ad una riconsiderazione globale dell’attività del filosofo ungherese. Quasi nuova forma di ‘nemesi storica’, non sfugge più nulla a tale eccesso di lukacsiana ‘totalità’ e, resi oramai adulti e maturi dalle passate ‘battaglie delle idee’, si finisce per abbracciare in un unico sguardo tanto il giovane autore de L’anima e le forme o di Teoria del romanzo quanto le sue più recenti teorizzazioni di un ‘nuovo inizio’ nella storia del movimento operaio. Così le riflessioni sulla coesistenza, sui problemi del tempo libero, sui nuovi modelli socialisti e sulla questione cecoslovacca, come l’individuazione, dopo l’antifascismo e la lotta per la pace, di una diversa serie di mediazioni dello scontro tra capitalismo e socialismo, quali la lotta contro la manipolazione o tutte le altre variegate ma sempre ricorrenti riduzioni dei reali conflitti di classe a conflitti di idee e di culture. Ma a tale destino sembrerebbe non sfuggire neppure il più incriminato teorico del lontano 1933 o dell’immediato dopoguerra – che pur sembrava ormai allontanato sullo sfondo di aree culturali ‘depresse’ e ‘paleomarxiste’ – se si vanno rimeditando e ripubblicando taluni suoi scritti, che in parte a quell’epoca risalgono, con il titolo di per sé abbastanza significativo di Marxismo e politica culturale, come riprova e documento di un iter sostanzialmente unitario del teorico ungherese, quasi avessimo ancora bisogno di simili conferme.
Per questo ci è sembrata abbastanza significativa la breve e recente nota di Cesare Pianciola, e non solo perché, sia pure con i suoi sottintesi umori polemici, richiama la nostra attenzione su taluni dei temi che abbiamo individuato, quanto piuttosto perché ci ripropone in una sintesi efficace alcuni nodi di problemi su cui bisognerà ritornare brevemente e che sono stati fatti propri da tutti coloro che, almeno a partire da una certa epoca (1958-59), hanno tentato dei rapidi consuntivi sulla ‘fortuna’ di Lukács in Italia. Sia pur partendo da diversi punti di vista, essi ne hanno per lo più derivato la conferma dell’inesistenza, nel nostro paese, di condizioni oggettive favorevoli per una rigorosa ed approfondita analisi, per una compiuta acquisizione del pensiero lukacsiano. Tutto ciò potrà anche essere vero, almeno in parte, e si potrà pur sottolineare che anche nei confronti di Lukács, come di altri più pressanti problemi di storia della cultura novecentesca, i nostri ambienti intellettuali nella maggior parte dei casi non hanno certo brillato al momento opportuno, in fatto di capacità effettive e reali di seria indagine scientifica, di aggiornamento culturale, di rinnovamento di taluni vieti e consunti atteggiamenti, del resto tipici in quella storia dell’intellettuale italiano che solo oggi si comincia a scrivere, preferendogli il retrivo trasformismo di sempre e l’eterno equivoco, ammantato di progressismo, della conciliazione degli opposti, fermi restando gli eterni valori della ‘tradizione’. Ma non è questo che oggi ‘può’ e ‘deve’ interessarci anche perché tali tentativi sono stati sempre equivocamente condotti, pur quando non ne erano dichiarati in maniera esplicita gli intenti, al fine di vedere quanto vi fosse di ancor vivo e fruibile nel pensiero di Lukács, la qualcosa non ‘può’ costituire più un problema reale ed attuale. Il vero problema dell’hic et nunc è semmai costituito dalle domande sul ‘perché’ del ‘caso’ Lukács in Italia e sulle ‘implicazioni’ che a tale perché si riconnettono. In altre parole, crediamo che l’unica ricerca che abbia ancora un senso sia soltanto quella tutta polemicamente tesa a chiarire non già i motivi della mancata o della parziale assimilazione del filosofo ungherese quanto piuttosto quelli della sua pur ‘massiccia presenza’ nella cultura italiana del secondo dopoguerra. Perché in fondo di lukacsiani in Italia ce ne sono sempre stati e, sotto mutate spoglie, ce ne sono tuttora; se, tranne pochi fedeli, non sono rimasti sempre gli stessi, non è certo colpa nostra, dal momento che l’eclettismo e le ‘follie amatorie’ con le posizioni più contrastanti sono stati spesso i segni distintivi di tanti intellettuali indigeni. Si potrebbe infatti ripetere con Scalia che la «contraddittorietà obiettiva in cui è vissuto il pensiero lukacsiano è una esemplare short story della cultura realistica e marxista ufficiale», a patto però di poter fare una piccola ma necessaria precisazione: che essa lo è, almeno nella stessa misura, anche della cultura marxista critica ed eterodossa. Parlare di Lukács oggi si può, a nostro avviso, solo se ciò possa permetterci di fornire un contributo alla storia della formazione dell’‘intellettuale borghese’ italiano dalla Resistenza ai nostri giorni.
La riprova che Lukács ha costituito una costante nelle strutture portanti della cultura italiana del secondo dopoguerra, il suo più stimolante punto di riferimento e di raccordo, anche quando ne costituiva, evidente o tacito, il frequente bersaglio polemico, la componente tra le più essenziali e non a caso caratteristiche di molti intellettuali d’orientamento marxista, ce la fornisce, se non altro, il fatto che a partire dall’epoca delle prime e timide apparizioni il suo nome, quasi contrappunto o perenne glossa in margine, ha sempre accompagnato tutte le celate schermaglie o le aperte polemiche intrecciatesi all’interno del fronte marxista italiano. Se si eccettua infatti la comparsa, sulla «Rassegna comunista» del lontano 1921, del saggio Rosa Luxemburg marxista, le prime traduzioni di Lukács si ritrovano sul «Politecnico». E che fin dall’inizio il filosofo ungherese sia utilizzato a conferma di taluni spunti polemici di parte, siamo autorizzati a pensarlo da una premessa a quelle pagine de La distruzione della ragione sull’ultimo numero della rivista, in cui Franco Fortini ha voluto vedere la mano dello stesso Vittorini. In essa si rinvengono in embrione molti dei motivi destinati per lungo tempo a scandire i tempi e i ritmi dell’acquisizione lukacsiana: fra l’altro la definizione di ‘maggior teorico marxista vivente’, il polemico richiamo all’opera ‘maledetta’ del giovane pensatore e il primo accenno di una opposizione Gramsci-Lukács, in base alla notazione conclusiva che quella sua critica intransigente all’irrazionalismo viene ad essere piuttosto ‘quaderno dal fronte’ che non ‘quaderno dal carcere’. Ora non ci sembra questa la sede idonea a delineare gli intenti e i limiti dell’esperienza rappresentata dal «Politecnico», ma ci sembra necessario almeno sottolineare che certo esso non riuscì in quel suo tentato recupero della grande cultura borghese del Novecento che, se attuato, avrebbe forse cambiato di segno e comunque avrebbe in ogni caso impresso ben altri sviluppi alle nostre considerazioni sul fatto artistico ed intellettuale. Ma non fu neppure un caso che non vi riuscisse, proprio perché quel suo interessante ma confuso discorso era frammisto all’altro, contrastante e senza dubbio più equivoco, della riscoperta dei ‘valori’ dell’uomo, dell’affermazione di binomi del tipo la poesia è verità o ‘la poesia è libertà’, delle relazioni intercorrenti tra cultura e politica, della funzione storica dell’intellettuale e della sua richiesta di un nuovo e sempre antico ‘mandato sociale’, quando non sembrasse addirittura giunto il momento in cui «la cultura dovrebbe, finalmente, ‘prendere il potere’».
Senonché il ‘potere’ le fu brutalmente negato dalle strumentalizzazioni che ne proposero i ‘politici’. Fu la prima grande svolta quella del 1946-’47: la guerra fredda, l’intransigente affermazione del più rozzo ždanovismo, la schematica e semplicistica ripresa dei termini della polemica Aragon-Garaudy e delle note rampogne di ‘pericoloso liberismo’, e ci fu anche, più tardi, l’eco delle violente accuse levate in Ungheria all’indirizzo di György Lukács. Questo nome veniva così a sottolineare ancora una volta, quasi in risposta alle provocatorie affermazioni del «Politecnico», i gravi umori e le battaglie che furono di quell’epoca.
Ciò che caratterizzò, a detta di Massimo Caprara, le discussioni allora in atto in Ungheria, fu «un metodo nuovo, […] un tono di pacato e chiaro commercio di idee su argomenti bene individuati». E certo le deformazioni furono piuttosto grossolane; documento caratteristico dei tempi, non si risparmiava davvero nelle trite citazioni d’obbligo dai compagni Ždanov, Fadeev, Rudas, Revai e simili, ed accusava violentemente Lukács soprattutto per il suo mancato riconoscimento della superiorità della cultura socialista e sovietica sulla cultura imperialista e decadente. Ma, a parte lo schematismo di talune contrapposizioni e del più generale e ancor grezzo impianto teorico (relativamente, soprattutto, al problema dell’eredità), Caprara finisce per dire cose che il Lukács dell’epoca e quello ‘di poi’, e non solo quello de La letteratura sovietica, in linguaggio ‘esopiano e non’, avrebbe potuto sottoscrivere e di fatto avrebbe confermato più tardi, certo alla luce di argomentazioni ben diversamente fondate ed articolate. Per di più l’articolo terminava con un preciso invito che Lukács stesso e tanti in Italia, ‘lukacsiani o no’, avrebbero avvertito, allora come sempre, in tutta la sua necessità e in tutto il suo ‘valore’ etico-politico:
Quel che si chiede agli scrittori progressisti è l’interpretazione del senso nuovo nel quale la storia del mondo sta muovendosi, del ruolo e delle lotte dei nuovi creatori dell’avvenire.
Che era poi un modo come un altro, burocratico ed autoritario quando si vuole, di offrire il ‘mandato sociale’ richiesto.
2. I dieci lunghi inverni che dall’esperienza del «Politecnico» giungono alle soglie dell’ottobre ungherese appaiono senza dubbio assai variegati e sfumati, a volte persino tutt’altro che rettilinei; tanto che ci sembra, una volta in più, impossibile condurre un corretto discorso su Lukács in Italia senza tener conto dei vari e complessi problemi – e talora non solo o non tanto di ordine strettamente culturale – che a questo fenomeno vanno frequentemente intrecciandosi. Solo così le apparenti aporie, le posizioni contraddittorie, le fratture o le polemiche in atto potranno in seguito ricomporsi in una sostanziale unità lungo taluni punti nodali e determinate prospettive di sviluppo. Che anzi, forse, quanto più sarà chiaro ed evidenziato il momento della distinzione, tanto più ciò tornerà utile anche al discorso unitario di fondo, all’analisi globale di ‘lungo periodo’.
Sono appunto di questi anni le traduzioni dei maggiori contributi di Lukács teorico e critico della letteratura, e il ritmo diverrà sempre più incalzante in ragione dell’approssimarsi o dell’evolversi dei fatti d’Ungheria. Già nel 1949 era apparso Goethe e il suo tempo, ma il silenzio era stato pressoché unanime, come ha già avvertito Fortini, non solo per la sprezzante quanto semplicistica liquidazione che ne aveva fatto Benedetto Croce poco prima che fosse pronta l’edizione italiana, ma anche per più precise diffidenze di natura politica: era quello l’anno della polemica ungherese e dell’autocritica lukacsiana, avvenimenti che fecero sì che il libro non venisse neppure menzionato nel citato articolo di Caprara (i ‘sacri testi’, come si è visto, erano allora ben altri!). Sorte abbastanza consimile toccò ai Saggi sul realismo, segnalato appena, fra l’altro, da una recensione di G. Carocci e da taluni contributi del gruppo gravitante intorno a «Il pensiero critico», sulle quali cose bisognerà però ritornare in un secondo momento.
Ma non si poté più tacere, e la situazione mutò radicalmente da questo punto di vista, quando nel 1953 apparvero i saggi riuniti ne Il marxismo e la critica letteraria. Fu dapprima Carlo Salinari che con una recensione fortemente polemica tentò di liquidare quello che pur gli era sembrato il libro di critica letteraria più vivo che fosse uscito in Italia in questo dopoguerra. Dopo una breve presentazione del volume ed un avvio di chiara intonazione gramsciana (in cui si diceva, fra l’altro, che «l’introduzione della critica marxista in Italia potrebbe significare […] soprattutto una chiara indicazione sulla via del realismo, un punto fermo nella battaglia per superare i residui del tradizionale distacco fra la letteratura e la vita nazionale»), il critico passava immediatamente all’analisi dell’impianto teorico e metodologico dell’opera di Lukács, la quale finiva per apparirgli da questo angolo visuale «ancora schematica e sommaria, talvolta astratta ed imprecisa». In particolare sembrò che la formulazione del rapporto tra fenomeno ed essenza, il quale era poi fondamentale per definire esattamente il concetto di ‘tipicità’, fosse ancora enunciata «solo dal punto di vista del soggetto e non nella sua realtà oggettiva: vale a dire che quella dialettica è ancora idealistica e non materialistica». Di qui conseguiva l’impossibilità di fruire delle generali impostazioni lukacsiane al fine di un confronto e di una verifica da effettuarsi sui problemi impostati dalle estetiche più avanzate delle filosofie borghesi, i quali in questo modo venivano pericolosamente elusi «pena di vedersi tornar fuori quei problemi ad ogni momento della nostra indagine: pena soprattutto il pericolo di cadere in una esposizione astratta e dottrinaria. […] è per questo che – in quel campo – malgrado la loro frammentarietà [finiva col concludere Salinari] mi sembrano ancora più utili e validi per noi gli appunti di Antonio Gramsci». In questo modo veniva così riconfermata, sia pure in modo diametralmente opposto, l’alternativa Gramsci-Lukács già affiorata nel lontano 1947 e che ora era utilizzata per rivolgere contro il filosofo ungherese l’accusa di sostanziale antistoricismo, soprattutto per quanto concerneva l’analisi dell’involuzione delle ideologie borghesi nella seconda metà dell’800. Tanto che, dopo essere rimasto per lungo tempo sottinteso, si suggeriva alla fine dell’articolo l’accostamento, magari sfumato, di Lukács e Croce:
In modo assai diverso dalla crociana, è anch’essa una critica sempre un po’ frigida e distaccata.
E la triangolazione si attuava compiutamente quando veniva chiaramente alla luce l’altro costante punto di riferimento di queste pagine:
Esageriamo, se il nostro pensiero corre ancora una volta a De Sanctis e alla sua sorprendente capacità di aderire pienamente e senza residui alle singole situazioni poetiche?
oppure
E forse non è sbagliato pensare che – sia pure per un periodo di storia letteraria completamente diverso – lo schema desanctisiano di interpretazione del nostro ottocento (scuola democratica e scuola cattolico-liberale) finisca per essere uno strumento molto più efficace di comprensione storica e un modulo critico in fondo più vicino alle esigenze del marxismo di quanto non sia lo schema di Lukács di interpretazione della letteratura europea dell’ultimo secolo.
Ed è infine alla luce di tali considerazioni che Salinari si chiedeva quanto i modelli proposti da Lukács potessero poi tornare utili alla nuova letteratura realistica italiana: meglio certo attenersi al nazional-popolare che agli esempi del grande realismo borghese! Ma se per il momento era rimasto sullo sfondo il rifiuto della lukacsiana polemica antinaturalista, esso venne ripreso e sviluppato invece in un saggio più articolato e decisamente stroncatorio di Valentino Gerratana. Da un lato vi si ribadiva il fondamentale antistoricismo lukacsiano e l’assenza di un’impostazione dialettica del rapporto tra fenomeno ed essenza; ma d’altro canto Gerratana sviluppava il discorso di Salinari con la nota proposta di distinzione fra ‘realismo come metodo’ e ‘realismo come tendenza’ e soprattutto impegnandosi in una difesa d’ufficio del naturalismo. La prima formula, che doveva poi godere di tanta fortuna nell’ambito della critica marxista ufficiale e già presente del resto nelle proposte di Anna Seghers, serviva chiaramente a ricondurre le indicazioni lukacsiane sul terreno delle tendenze neorealistiche su cui erano in quel momento concentrati gli sforzi della politica culturale comunista; infatti «solo se ci si riferisce a questo secondo aspetto del realismo – sosteneva Gerratana – la lotta per il realismo nell’arte ha un contenuto concreto» e «per questo la lotta per il realismo è sempre lotta per una tendenza, e non per un metodo». Del resto «nei suoi termini generali il problema era stato già visto da Gramsci, quando notava che non è esatto parlare di lotta per una ‘nuova arte’, ma si deve parlare di lotta per una ‘nuova cultura’». Infatti anche in Gerratana la triangolazione suaccennata veniva a ricomporsi e in un modo ancor più preciso ed articolato. Giacché il nome di De Sanctis ritornava in un momento decisivo e cruciale del suo discorso, quello cioè del rifiuto della componente antinaturalista di Lukács.
Come ha mostrato il nostro De Sanctis […] nel momento in cui una nuova tendenza letteraria cerca di aprirsi la strada del realismo contro le vecchie tendenze del formalismo arcadico ed estetizzante, e il nuovo contenuto non sempre riesce a crearsi le sue forme, cioè ad esprimere se stesso in modo adeguato, concentrare il fuoco contro il naturalismo, e criticare la nuova tendenza come equivalente alla vecchia contro cui è sorta, significa inevitabilmente portare acqua al mulino del formalismo.
Poco prima v’era stata, ma molto più sfumata e forse anche scarsamente rilevante, l’allusione a Croce, sostenendosi in polemica con Lukács che il rapporto dialettico di forma e contenuto è sì il risultato di un processo storico, il quale però «può essere anche laborioso e complesso, e non è un miracolo che caschi dal cielo, come la crociana intuizione lirica».
Se ci siamo soffermati tanto a lungo sull’analisi di queste posizioni ciò è stato determinato anche dalla constatazione che sia Salinari che Gerratana venivano a delineare un particolare schema di rifiuto dei contributi lukacsiani che è abbastanza tipico e caratterizzante per molti degli interventi succedutisi tra il 1953 e il ’54. Come tratto più significativo di questo fenomeno è poi sembrato già a Franco Fortini che la sottile rete di mediazioni ed influenze si sia venuta a stabilire non solo all’interno del gruppo dei marxisti ufficiali o comunque gravitanti, quali compagni di strada, intorno alla linea culturale del P.C.I., ma abbia finito per interessare anche alcuni settori della critica borghese. Ed è forse il caso di approfondire e di documentare più di quanto non sia stato fatto tale sistema di corrispondenze. È vero ad esempio che insistono sul tema del ‘dialogo’ aperto da Lukács tra cultura occidentale ed orientale soprattutto Contessi, Banfi e Caretti, ma è poi lo stesso Contessi a condividere con Gerratana, Della Volpe e Banfi le più vivaci riserve sull’ortodossia marxista del filosofo ungherese. Banfi inoltre riprendeva ormai note diffidenze tanto nei riguardi dello storicismo di tipo lukacsiano quanto nei confronti delle relazioni stabilite tra fenomeno ed essenza, fra forma e contenuto, avvertendo che in tutto ciò spirava «un tono evidente di idealismo deteriore […] e di astratte semplificazioni» e non evitando neppure di lamentare come, una volta definito il realismo come la teoria generale dell’arte, «venga a mancare il rilievo per il realismo a favore del quale noi lottiamo oggi». Contessi, concorde in ciò con Salinari, finiva per preferirgli Gramsci; così Luporini, pur non facendo menzione di Lukács, dimostrava di servirsi più volentieri di De Sanctis e Gramsci per definire la sua ‘nozione di realismo’. La nota di Pietro Citati, infine, oltre ad essere uno dei più interessanti e stimolanti consuntivi dell’opera di Lukács pubblicata fino a quel momento in Italia, rivela delle analogie fin troppo eloquenti con la recensione di Salinari, come là dove si afferma:
È allora soltanto la differenza delle due culture che può spiegare le difficoltà dell’assorbimento: l’appartenenza di Lukács ad un filone democratico-realistico post-hegeliano che è il più assente dal terreno della nostra storia, e, di converso, il nostro particolare abito storicistico, col suo amore per l’oggetto concreto, irripetibile, al posto dell’escussione di temi generali.
E, dopo aver constatato che quella lukacsiana non è in realtà una poetica bensì un’estetica, che il realismo non è uno stile, ma lo stile, la poesia, e che, «nata in difesa della dialettica, questa cultura si è capovolta per strada in una precettistica, in un classicismo immobile», anche Citati indulgeva all’accostamento con Croce:
Non ci sembra del tutto casuale che, più di una volta, qualche termine del linguaggio di Croce possa permetterci una ‘traduzione’ abbastanza calzante. Sotto l’enorme differenza di culture c’è, di fatto, più di una parentela di problemi reali. In ambedue i casi, l’identità, l’unicità dei valori poetici, e la robusta totalità della poesia […] si sono sviluppati e maturati nel corso di una strenua polemica antidecadente e antiromantica.
Eppure, nonostante tutto, si ha abbastanza chiara l’impressione che anche in tutti questi contributi ora citati, in forme e ritmi diversi, taluni frammenti del discorso lukacsiano comincino ugualmente a passare, così come si può desumere ad esempio dalla parte conclusiva dell’articolo di Banfi – con la sua dialettica di progresso e decadenza, con la stabilita identità di realismo ed umanesimo a proposito della ‘grande arte’ – o dalla luporiniana ‘nozione di realismo’. Per di più ci sembra assai significativo che, nella maggior parte dei casi, tra le fitte maglie dell’ostracismo decretato a Lukács finirono per filtrare tanto la teoria della Wiederspiegelung con le note distinzioni tra conoscenza artistica e scientifica quanto la problematica del ‘tipico’. Del resto le difficoltà oggettive che travisarono e senza dubbio ritardarono, in questo primo momento, una più massiccia e qualificata diffusione dell’insegnamento lukacsiano sono ormai note e difficilmente confutabili da parte ufficiale. Tanto che a noi sarà sufficiente riprendere appena i termini del problema. Mentre infatti da un lato perdurano diffidenze di natura politica ed almeno formali ossequi ai diktat anche culturali emanati dall’Unione Sovietica, quelli che appaiono poi i motivi determinanti sono soprattutto la tematica del ‘nazional-popolare’ e, sua diretta filiazione nelle battaglie del presente, la difesa ad oltranza del neorealismo. Tra il 1948 e il ’51 appaiono infatti i Quaderni dal carcere e non bisogna dimenticare che, tramite il recupero di Gramsci, di De Sanctis e della linea dell’hegelismo napoletano, e in generale tramite l’affannosa ricerca di un filone democratico-progressista nelle nostre tradizioni culturali, si tentava di fornire una risposta autoctona allo ždanovismo, di articolare una sorta di ‘via italiana alla cultura socialista’. In tale momento è oggi abbastanza evidente che Lukács costituiva un elemento di disturbo e di confusione. Le evidenti origini tedesco-hegeliane del suo marxismo non potevano certo essere fruibili nella tardiva battaglia ‘culturale’ impegnata contro la cosiddetta ‘ideologia dei monopòli’, quando ormai si era permessa la generale ristrutturazione e riorganizzazione ‘politica’ ed ‘economica’ del capitale. Per di più la sua formazione chiaramente mitteleuropea e macrostoricistica, nonché la sua strenua polemica antinaturalista, contrastavano nettamente tanto con la nazional-provincial ricerca di una tradizione progressista italiana e con la lotta per il neorealismo quanto con la scarsa vocazione teorica dei critici ortodossi.
Ma il ritmo binario, e magari equivoco, che ha fin qui caratterizzato il ‘caso’ Lukács in Italia, prosegue e si accelera fino alle sue conseguenze ultime negli anni che vanno dal’54 al’56. Pur permanendo talune opposizioni, si comincia ad avvertire che ‘anche’ il critico ungherese può essere utilizzato. Certo la perdurante difesa di moduli veristici e bozzettistici farà sì che il discorso antinaturalista non venga mai pienamente accettato, ma quella battaglia per una cultura realistica che si è portata innanzi in un primo momento su basi assolutamente provvisorie ed instabili, quasi sentimentali e fideistiche, va ora entrando in una fase caratterizzata da tentativi almeno minimi di precisazioni teoriche ed ideologiche. Da questo punto di vista l’attività svolta da Lukács, previ taluni ridimensionamenti e traduzioni in termini nazionali, può senz’altro offrire un valido ed ineccepibile sostegno, costituisce anzi la garanzia stessa dell’esistenza almeno nominale di una metodologia critica e di un’estetica di impianto marxista. Non solo i ritmi delle traduzioni risultano sempre più accelerati, ma è ad esempio innegabile che l’interesse per Lukács si faccia molto più vivo ed insistente perfino in riviste come «Il Contemporaneo» e «Società». Ma, quel che più conta, il nome di Lukács accompagna più o meno esplicitamente, anche quando la sua presenza è sottintesa e celata, quasi tutte le polemiche culturali tipiche di quegli anni: da quelle seguite all’introduzione nella nostra area culturale di Spitzer ed Auerbach fino a quelle, forse più determinanti ma anche più penose, sul Metello e su Senso, evidenti equivoci e grossolani abbagli questi ultimi, su cui oggi non è neppure il caso di insistere, ma che comunque attestano la sempre maggiore penetrazione di taluni spunti del discorso lukacsiano anche nella formazione e nelle teorizzazioni dei ‘renitenti’ di un tempo. E gli avvenimenti dell’ottobre ungherese agiranno da questo punto di vista soltanto come freni assolutamente temporanei e scarsamente decisivi, che anzi vedremo come essi contribuiranno semmai ad accelerare il ‘disgelo’ già in atto, mediante l’utilizzazione delle vicende biografiche e culturali di Lukács in senso antistalinista ed antidogmatico, nonché ‘coesistenziale’. Non è da sottovalutare, infatti, l’importanza che in questo senso venivano ad assumere testi come La lotta fra progresso e reazione nella cultura d’oggi e Il significato attuale del realismo critico ed il conseguente ripensamento di taluni punti nodali del discorso lukacsiano, già presenti, in fondo, nelle opere precedenti. Non sarà forse mai sufficientemente chiarito quale profonda incidenza ebbero ad esercitare sulle formulazioni del teorico ungherese la politica dei fronti popolari e la sostituzione, tutta democratico-borghese, del conflitto fascismo-antifascismo alla reale contraddizione tra capitalismo e socialismo. Questi riposti sensi ed implicazioni del discorso di Lukács, ora resi più espliciti, contribuirono ampiamente, a nostro avviso, alla revisione di talune posizioni di resistenza, che erano state pressoché generalizzate ed unanimi all’interno della critica militante e partitica. Si comprese che essi potevano avallare risultati, non solo culturali ma finanche politici, di equivoche linee frontiste, resistenziali ed antifasciste, destinate ancora per lungo tempo a gravare e condizionare pesantemente le prospettive e le lotte dei partiti del movimento operaio. Chi aveva a suo tempo teorizzato per gli intellettuali tedeschi una necessaria «unità di tradizioni democratiche nella vita sociale e tradizioni realistiche nell’arte, nonché, come effetto di tale unità, una costante aspirazione alla popolarità, un indissolubile collegamento coi grandi problemi della vita nazionale» o si era dichiarato «profondamente convinto del rapporto sussistente tra realismo, popolarità e antifascismo», poteva a buon diritto essere accolto nell’area del marxismo ufficiale italiano, per quante resistenze e critiche potessero rimanerne confermate e magari rafforzate, ora e in futuro.
Ma l’accenno a questi temi ci condurrebbe necessariamente al di là del decennio che per il momento ci siamo proposti di analizzare e ci porterebbe ad anticipare molti degli atteggiamenti che gli intellettuali comunisti assumeranno nei confronti di Lukács e che invece in questo preciso momento appaiono ancora sfumati ed incerti. Non così era invece avvenuto per taluni gruppi di opposizione – o ‘marxisti critici’, come spesso vollero definirsi – i quali si trovarono lukacsianamente impegnati in una difficile lotta su due fronti: arroccati per lo più intorno a ‘rivistine indipendenti’, operanti tra Milano, Bologna e Roma, da un lato tentarono di diradare l’atmosfera conformista e dogmatica della sinistra ufficiale, evitando dall’altro a tutti i costi, non escluse le intonazioni di tipo velleitaristico e moralistico, di coincidere con la stampa borghese. Per molti di essi Lukács costituì fin dall’inizio un costante punto di riferimento, anche perché, formati su ben altre letture ed esperienze che non i critici ortodossi, seppero cogliere subito in lui quelle caratteristiche di grande ‘critico-saggista’ educato alle più alte tradizioni della cultura mitteleuropea, cui alcuni di essi polemicamente si richiamavano e da cui tentavano di mutare, talora perfino riuscendovi, moduli ed atteggiamenti. Il saggio lukacsiano Lo scrittore e il critico, con il suo richiamo ai modelli della grande tradizione dell’umanesimo romantico, la sua esplicita tendenza ad una lettura ‘totale’ dell’opera, frutto dell’incontro fecondo di filosofia, storia letteraria e critica, esercitò su non pochi di essi un’influenza destinata a protrarsi per lunghi anni ancora, quando non ne costituì la componente a tal punto essenziale e caratterizzante che non se ne dovevano più separare, anche quando si indirizzarono verso altri interessi e prospettive culturali. Qualità queste che dovevano essere riconosciute all’ungherese dalla stessa Armanda Guiducci, e non solo nei suoi primi interventi, ma anche quando aveva ormai avuto inizio il suo graduale procedimento di ‘decodificazione’ e di distacco, ma che soprattutto per un saggista-poeta della tempra di Franco Fortini dovevano costituire tanto la ragione non ultima della sua adesione quanto la segreta matrice di tanto parte della sua stessa scrittura critica.
E già nel 1951 egli si trovò a confermarlo in modo abbastanza esplicito e diretto quando, parlando dei vari metodi di lettura di un testo letterario, così concludeva:
Mi basta aver accennato con quanto ho scritto […] ad una prospettiva di lavoro critico, che non ha nulla di nuovo, perché è stata sempre quella della critica maggiore, ma che frequentemente viene dimenticata; quella che ci ha riproposta, non piccolo merito, l’ultimo libro di Lukács: una critica del significato totale dell’opera, della sua facies complessiva. […] come lo scrittore deve volere una scrittura totale, nulla sacrificando ad un calcolo prudente e ingenuo di ‘artisticità’, così il critico deve volere una lettura, ed un lettore, totali.
Ma a Lukács ci si richiamò anche, come già era avvenuto per Gramsci, per rinvenire in lui la «legittimazione di una critica allo stalinismo e allo ždanovismo», l’alternativa e la speranza di un discorso socialista sull’arte costruttivo e più originale, un «contributo teorico nel senso eversivo, antistaliniano», obiettivi in cui si logorarono per anni le forze di questi intellettuali marxisti che, come è stato detto, si lasciarono massacrare, andando all’assalto impugnando gli ‘eterni valori’, preferendo ‘cadere correttamente’ piuttosto che comprendere che «solo un discorso politico batte un discorso politico».
Resta comunque il fatto che fu in nome e con la scorta dei più alti risultati raggiunti dalla ‘grande’ tradizione borghese e progressista, che appunto Lukács aveva contribuito a riscoprire e a riqualificare, che si combatterono da parte ‘critica’ le battaglie di quegli anni. Abbastanza indicativa da questo punto di vista è, fra le altre, la posizione di Renato Solmi e il suo rifiuto della problematica di Adorno e di Benjamin, di cui egli pur contribuisce a diffondere le opere più significative con rara conoscenza specialistica dei testi e con osservazioni che rimangono a tutt’oggi tra le più attente e penetranti, rifiuto che, non a caso, sarà motivato dal richiamo all’impostazione umanistica ed antidecadente del teorico ungherese. E fu forse dovuto proprio all’influenza lukacsiana – la quale agì evidentemente come elemento catalizzatore e di coagulo – che poté sembrare per alcuni anni comune e, tutto sommato, abbastanza unitario il discorso condotto da intellettuali che le vicende culturali e politiche future dovevano poi nettamente differenziare e polemicamente contrapporre. Il massimo sforzo in questa direzione fu senza dubbio condotto dal gruppo che si raccolse tra il 1955 e il ’57 intorno alla rivista «Ragionamenti», la quale, non a caso, tornò con particolare insistenza su Lukács; i suoi interventi furono poi tanto più qualificati ed interessanti in quanto spesso si riferirono ad opere e scritti fino a quel momento non ancora comparsi in Italia. Sull’ultimo numero appariva la traduzione di Che cos’è il marxismo ortodosso, del resto anticipata e in un certo senso preparata dal bel saggio di Thomas Müntzer, Il giovane Lukács (n. 9, febbraio-aprile 1957), che, a parte i suoi pregi intrinseci, è rimasto per lungo tempo l’unico contributo cui si sia potuto far riferimento per la conoscenza della prima attività lukacsiana. Intanto si intrecciavano sulla rivista i due piani di rendiconti relativi all’opera di Lukács, ma non soltanto ad essa, intesi da un lato (A. Guiducci e L. Amodio) ad un ridimensionamento dei risultati estetici proposti dal filosofo ungherese alla luce di recenti acquisizioni semantiche e neopositivistiche e, dall’altro (Fortini), alla salvaguardia, variegata e sfumata quanto si vuole, ma pur sempre risentita ed evidente, dei valori e delle indicazioni umanistiche lukacsiane nella loro ‘integrità’ e ‘totalità’. Non a caso si vennero a stabilire in questo periodo singolari concordanze tra le osservazioni fortiniane su Spitzer ed Auerbach e quelle condotte pressoché contemporaneamente da Cesare Cases, anche se Fortini assume nello stesso tempo un atteggiamento già più problematico, di minore e meno intransigente fiducia nel ‘Maestro’, tanto da giungere perfino a chiedersi se l’antidoto alla Stilcritica possa essere a tutti gli effetti rappresentato dall’oggettivismo lukacsiano…
Ma si rischierebbe a questo punto di non chiarire compiutamente e quindi comprendere l’influenza decisiva che il teorico ungherese venne ad esercitare su questo gruppo di intellettuali marxisti, se noi continuassimo a procedere nell’analisi delle sole testimonianze e conferme dirette, costituite cioè dagli interventi su Lukács in cui essi si produssero in questi anni. A nostro avviso andarono oltre e dimostrarono di aver assimilato il nucleo centrale ed effettivo del suo discorso politico culturale, fino al punto di materiare ed improntare di esso le loro stesse proposte sull’‘autonoma iniziativa intellettuale’ e sull’esigenza della costituzione di ‘autonomi istituti di ricerca’, che largamente caratterizzarono i loro ‘contributi ad un discorso socialista’ appunto in quel periodo. Sarà quindi necessario ripercorrere rapidamente le tappe di quella lotta ambigua che sul ‘fronte della cultura’ si era venuta conducendo dopo il fallimento dell’esperienza del «Politecnico» e le cui componenti avevamo tentato di individuare già nelle prime battute di questa nostra ricostruzione.
Il ‘potere’, come si è detto, fu dunque negato alla cultura. Ma ciò non significò d’altro canto la fine del progressismo italiano. Non significò che, dopo la delusione di vedersi privati della possibilità immediata di fungere da guide ‘illuminate’ del processo storico, si avesse la forza e il coraggio di ritenere che era ‘alfine’ giunto il momento di liberarsi di ogni ‘discorso intellettuale’, tanto più se si voleva ricostituire un più corretto rapporto con una prassi che fosse ‘effettivamente rivoluzionaria’. Che anzi la situazione del tutto particolare fece sì che, al massimo, l’unità ‘ciellennista’ della cultura resistenziale si frantumasse in una serie di proposte, di diverso livello e serietà certo, ma pur sempre affini e strettamente convergenti per la comune mancata comprensione del fatto che la lotta impegnata contro la ‘cultura borghese’ doveva necessariamente condurre ad una sconfitta, e sul piano culturale e, quel che più conta, sul piano delle sue implicazioni pratiche e politiche. Giacché la ‘pura lotta culturale’ poteva al massimo dar vita ad una nuova e diversa forma di ‘cultura borghese’. Tanto è vero che quella stessa ‘eredità’, coltivata con equivoco atteggiamento di odio-amore, doveva inevitabilmente risorgere nelle loro stesse operazioni intellettuali e, come prima cosa, «per scrivere poesia antiborghese, fu necessario resuscitare il moribondo concetto borghese della funzione storica dell’intellettuale e restituirlo a nuova vita».
Fu così che nella mutata situazione si giunse alla nota formula della ‘politicità e autonomia della cultura’. Impegnandosi nella lukacsiana battaglia su due fronti cui si è già accennato, si tentò di reagire tanto ai ritorni neocrociani e neoermetici all’‘intuizione lirica’ e al disimpegno quanto ai condizionamenti burocratici dei ‘politici’: contro il revisionismo quindi, ma, al contempo, contro ogni forma di dogmatismo e di ‘naturalismo erariale’. In quel Il senno di poi che è, nello stesso tempo, una ripresa della tematica dei ‘dieci inverni’ trascorsi, quanto un ambiguo e contraddittorio tentativo di superarla, Franco Fortini così ebbe ad esprimersi:
La Resistenza e il dopoguerra ci avevano fin troppo persuasi della interdipendenza fra attività ‘culturale’ e ‘attività politica’. Ci avevano avvezzi a tradurre continuamente un comportamento politico in termini di storia, di filosofia, di sociologia, di metodologia letteraria, e viceversa; la guerra fredda invece voleva pretendere che no, che quel ‘viceversa’ non era lecito.
Accanita fu appunto in questi anni la lotta per quel ‘viceversa’, per sostanziare cioè il mondo della cultura di una consistenza almeno altrettanto evidente di quella caratterizzante il mondo della prassi, giacché
l’azione per una società di liberi ed eguali o, come si suol dire, per l’unificazione del genere umano, non è affatto diversa, anzi coincide, con quella vòlta ad istituire una più alta, ricca e complessa comunicazione fra gli uomini, a sostituirne una vera, o più vera, all’intreccio ridicolo di pseudo-comunicazioni in mezzo alle quali viviamo: quindi anche una lettura più autentica, una lettura capace di sostenere lo sguardo delle grandi opere, per realizzarle.
La cultura si configura cioè, in ultima istanza, sempre più come valore universale e non già come ‘espressione ideale dei rapporti materiali dominanti’. Anzi ora, sussunta da un movimento progressivo di liberazione dell’individuo, essa torna ad essere umanistica riscoperta, dopo la parentesi della ‘decadenza’, dei ‘valori dell’uomo’, dei suoi sentimenti, delle sue aspirazioni più sante e più giuste. Ecco perché per l’‘intellettuale’ Fortini
il tener viva la coscienza della negazione, della contestazione, della insoddisfazione e della rivolta nelle classi oppresse dalla economia e dalla cultura del privilegio seguita a parerci compito altrettanto prezioso quanto quello di predisporre le tecniche della loro liberazione; queste possono fallire, mentre quella coscienza è il solo bene che non può esser loro tolto e il pegno di ogni bene futuro.
Sembrano ormai irrimediabilmente rimossi in lontananze remote ed arcane i tempi di chi pur aveva detto:
Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza.
Risposte più generiche e marxianamente meno qualificate non potevano essere fornite da intellettuali che si vedevano e si sentivano estromessi dal reale processo storico. Eppure, anziché condurre fino alle estreme conseguenze quel loro discorso, trasformandolo da smisurato atto d’orgoglio in una reale consapevolezza della loro tragica e mistificata situazione di ‘intellettuali’, e ritenere irrimediabilmente tramontata ogni possibilità di ‘autonoma e specifica’ proposta politica che venisse dal ‘fronte della cultura’, finirono per consumare i loro sforzi nella tentata costituzione di un ‘blocco storico’, di un ‘fronte’, appunto, dei ricercatori. L’alleanza e l’organizzazione avrebbero, da un lato, costretto i ‘politici’ al pieno riconoscimento dei loro diritti di autonoma gestione degli strumenti teorici della lotta di classe, alla loro qualificazione di elaboratori e custodi di una corretta strategia rivoluzionaria, di specialisti e competenti in fatto di analisi di lungo periodo. Ma tale alleanza avrebbe al contempo permesso – sempre nelle loro intenzioni – di controbattere la dirompente marea della restaurazione capitalistica, creando all’interno del sistema dei frammenti di società nuova e anticipando così nella barbarie della divisione del lavoro i presupposti stessi dell’alba radiosa dell’umanesimo socialista.
E non fu un caso che discorsi consimili trovassero largo spazio e costituissero, anzi, la tensione effettiva ed ultima di quella stessa rivista che, alleanza di fatto di ricercatori ed ‘osservatori marxisti’ di diversa provenienza, si era mostrata così ampiamente e con tanta competenza interessata alle teorizzazioni di György Lukács. In «Ragionamenti» erano confluite tutte le forze intellettuali che negli anni precedenti avevano dato vita a quelle piccole riviste ‘indipendenti’ che, per l’esplicita testimonianza di uno dei protagonisti, oggi costituiscono una rarità bibliografica ma che allora erano state una ‘rarità ideologica’. Ma altri periodici si allinearono, ‘compagni di strada’, all’indirizzo dei marxisti critici e ne fiancheggiarono l’azione dall’esterno, in una complessa e talora ambigua trama di rapporti e di mediazioni; fu il caso ad esempio di «Questioni» e, soprattutto, di «Nuovi Argomenti», sul quale apparvero tra gli altri taluni interventi di Roberto Guiducci, uno dei più attivi collaboratori di «Ragionamenti». Questi interventi, unitamente ad altri, tutti risalenti al’54-’56, furono più tardi pubblicati nel volume Socialismo e libertà, che può ben essere preso a modello della tipica situazione in cui allora versavano taluni settori della cultura italiana di sinistra, tanto in esso vi appaiono articolate e come compendiate quelle proposte e quella tematica di cui ci stiamo interessando. Guiducci non solo vi ribadiva lo stretto legame intercorrente tra cultura e politica, ma, compiendo un ulteriore mistificato e mistificante processo, vi riaffermava «la necessità di una rinascita culturale ad ampio raggio che nutra la condotta politica»: ecco cosa significava in realtà porre con nuova urgenza il decisivo problema dell’organizzazione della cultura. Poiché è vero che la cultura ha una sua ragion d’essere soltanto se essa riesce ad esprimere e a rispecchiare con i suoi strumenti specifici la ‘totalità’ delle reali linee del processo storico, ma è poi anche vero che allora come non mai si poneva – così continuava Guiducci – la necessità che alla libertà della politica corrispondesse un’eguale libertà della cultura: solo così «la cultura, muovendosi, allargandosi, sviluppandosi, può nutrire la politica di contenuti e di tecniche operative». Oggi è oramai chiaro che soltanto su tali basi assolutamente ‘ideologiche’, nel senso più deteriore e marxiano di ‘falsa coscienza’, potevano nascere proposte, e così postulate, come quelle di una organizzazione culturale di sinistra,
una fondazione chiaramente transitoria, anche se non meno impegnata: il compito è limitato infatti ad indurre gli organi politici a tener conto della componente culturale per il loro stesso funzionamento ad alto livello. Ciò avvenuto, lo scopo sarebbe di fatto raggiunto. Ma, e questo è l’altro lato, la stessa possibilità di funzionamento e di successo dello strumento provvisorio implica un suo graduale consolidarsi anche se in forme diverse ed organiche. L’accettazione, da parte degli organi di partito, comporterebbe infatti l’innesto e l’unione delle forze intellettuali fuori e dentro il partito in un corpus unitario di lavoro e comporterebbe anche il collegamento diretto con la classe operaia in una interrelazione stretta di reciproci scambi.
Solo su tali basi, si diceva, distorcenti nel modo più assoluto i reali rapporti di forze, si potevano concepire, nelle prime esperienze del ‘disgelo’ e del ‘dialogo’, speranze folli come questa:
C’è forse dunque ancora una risorsa in Europa, coltivata e preparata in questi ultimi dieci anni nella sua parte più sensibile: che la cultura di sinistra, fattasi forza ideologica di fondo come nuova organizzazione della cultura, possa essere il punto in cui si riesca a dissolvere la rigida contrapposizione cui i tempi moderni paiono averci condannato e che la nuova ideologia riesca a dare un contributo decisivo ad una ricostruzione della politica su nuove basi, così che quest’ultima possa farsi strumento adatto ad una realizzazione originale del socialismo con metodi e in forme diverse, adeguate ai tempi mutati.
È abbastanza evidente l’influenza che su tali discorsi venivano ad esercitare taluni spunti e proposte gramsciane, ma al contempo non ci sembra sia da sottovalutare neppure il contributo essenziale che al fine di certe precisazioni e prospettive di sviluppo si dovette, a nostro avviso, al rapido diffondersi dell’opera di Lukács, del resto attentamente letta e commentata, come si è visto, da questi marxisti critici. Certo la sua stessa concezione dell’arte come forma di conoscenza, fornita di una sua intrinseca capacità di incidenza e di trasformazione progressiva nel mondo delle cose e dei fatti, di anticipazione di taluni modelli di vita più ‘umana’ e più ‘libera’, anche se in seguito potrà essere contestata da taluni furori neopositivistici, per il momento costituisce una suggestione innegabile e profondamente radicata. Ed era stato proprio Lukács in fondo, al di là di certe sue ‘esopiane’ chiusure contenutistiche e sociologiche, che si era battuto per una nozione di cultura tutta umanisticamente tesa a recuperare, oltre la barbarie capitalistica, la ‘totalità degli eterni valori’, a sanare nella ristabilita ‘comunione’ dell’intellettuale con il ‘corpo mistico del proletariato’ le gravi aporie di quell’‘individuo problematico’, che egli aveva pur si magistralmente denunciate e drammaticamente impostate in un lontano passato. Mentre in più recenti analisi, e non più ‘esopiane’ queste, egli aveva ancora una volta parlato del nuovo slancio fornito alla letteratura realista dalla rivolta umanistica contro l’imperialismo ed aveva pur detto che
il centro, il nocciolo di questo contenuto determinante per la forma è sempre, in ultima istanza, l’uomo. Quale che possa essere il punto di partenza diretto, il tema concreto, lo scopo immediato ecc. di una creazione letteraria, la sua essenza più profonda si esprime nella domanda: che cos’è l’uomo?.
Il sostenitore della dialettica di ‘progresso e reazione’, assurta talora alla più astratta e generica, ma umanisticamente più suggestiva, contrapposizione di categorie come ‘vita’ e ‘morte’ o ‘decomposizione’, il sottile teorizzatore delle più svariate mediazioni del conflitto capitalismo-socialismo e, più in generale, della complessiva riduzione della reale lotta di classe a fittizie lotte di modelli ideologici e culturali, poteva ben essere all’origine di molte delle pagine da noi riportate. Così che si poté paradossalmente scrivere:
Levare nell’Europa degli Anni Venti l’immagine dell’umanesimo socialista; parlare di Goethe, per così dire, al soldato dell’Armata Rossa […]: questo l’onore di Lukács.
Mentre da altra parte gli veniva un riconoscimento ben più significativo:
L’unità organica e l’equilibrio dell’opera del Lukács poggiano su una tensione fra la disciplina normativa di tutta la concezione del materialismo dialettico e l’aspirazione alla realizzazione compiuta di una grande arte realistica, pegno di un rinnovamento morale e sociale dell’uomo, di una riaffermazione dell’antica universalità della sua vita personale e di un rapporto riconquistato fra artista e mondo sociale. Tale tensione costituiva l’orizzonte ideale di un nuovo umanesimo socialista […]. In vista di questo futuro si spiega esemplare quel passato largo e ricco della cultura borghese classica.
Siamo così alfine giunti ai temi di fondo che finora erano rimasti sottesi ed appena percettibili in queste formulazioni ‘critiche’: il ruolo, cioè, che in esse venivano a giocare il ‘recupero di parte operaia’ della tradizione culturale borghese e la nuova e messianica prospettiva aperta sulle ‘sponde’ del socialismo; due motivi che, come è noto, costituirono i preminenti punti nodali, i cardini stessi delle indagini lukacsiane, e quanto al contempo realmente le distinse per acume e serietà di preparazione nell’ignobile vuoto della contemporanea ricerca marxista. Alla luce di tali nuovi elementi sarà possibile infatti ricondurre ad unità le osservazioni finora condotte sulla linea culturale e politica perseguita dai marxisti ‘critici’ e superare quell’impressione di frammentarietà e dispersione che può averle finora caratterizzate. Poiché in fondo quei discorsi chiaramente, o perlomeno immediatamente non-operativi e quel pensare di poter ‘lavorare sui giunti culturali della nazione’ potevano avere un senso solo se ad essi si sottendeva la duplice e lukacsiana tensione, sospesa tra il ‘donde’ e il ‘dove’ della ricerca intellettuale. Infatti così era già stato detto:
D’accordo: la vera storia dell’umanità comincerà col socialismo. Ma quella preistoria che conduce al socialismo è un elemento integrante della formazione del socialismo stesso. E le tappe di questo cammino non possono essere indifferenti per i seguaci dell’umanesimo marxista.
E altrove si era ribadito che
la questione dell’eredità è […] strettamente connessa alla missione storica universale del proletariato: la missione di distruggere il triste mondo capitalistico per creare una nuova società, pegno di un grandioso sviluppo culturale. […] Proprio perché la borghesia si allontana sempre più, nell’ideologia, dalle grandi tradizioni dell’umanità, e perché il proletariato non può tirar fuori dal nulla, per magia, né la sua pugnace ideologia, né, più tardi, il suo nuovo ordine sociale e l’ideologia corrispondente, è compito indispensabile del movimento operaio rivoluzionario riallacciarsi ai punti culminanti dell’evoluzione umana.
Se a tutto ciò si aggiunge il fatto che ormai, con l’avvento del socialismo, «la letteratura profetica è divenuta […] una possibilità effettiva», si può comprendere come non vi potesse essere ambiente culturale più adatto e pronto a recepire tali indicazioni se non quello, tutto democratico-borghese, degli intellettuali italiani formatisi nel clima e nella temperie della Resistenza. Solo tenendo ben presente questa particolare situazione si può almeno spiegare, se non certo comprendere e giustificare, come dei marxisti siano potuti giungere ad affermare che «l’ideologia di sinistra si può porre come ideologia dominante e pretendersi erede della totalità del pensiero umano passato e presente», oppure nutrire, ancora alla fine dei lunghi ‘dieci inverni’ trascorsi, speranze come queste: «Oggi il comunismo è tornato ad essere, a poter essere, quello che abbiamo sempre creduto dovesse essere, e cioè l’‘erede della filosofia classica tedesca’», tanto più che il proletariato non è soltanto l’arma della filosofia «perché esso è anche l’arma della poesia e dell’arte».
Nessuno seppe più allora sottrarsi al fascino della lukacsiana concezione del ‘grande realismo’ o della violenza di quella sua contrapposizione «dei giganti del passato ai nani dell’attuale periodo di sviluppo della borghesia»; nessuno, neanche quella stessa Armanda Guiducci che pur, già allora, mostrava talune riserve nei riguardi della teoria estetica dell’ungherese, basata com’era sull’apparato gnoseologico del materialismo dialettico. Ella finiva così per accogliere quel ‘ritmo ternario’ di cui aveva parlato Cases e che aveva costituito la struttura portante dell’analisi lukacsiana sui fatti letterari degli ultimi due secoli: l’ascesa della borghesia, la fine della funzione progressiva della stessa e l’avvento della decadenza nell’ideologia e nella letteratura, che il socialismo, con il suo ritorno al realismo, era destinato a superare e ricomporre.
È questo un momento decisivo nel Lukács, [ebbe a dire la Guiducci] determinante la qualità stessa della sua critica; criteri in cui la passione si mescola all’intelletto e l’analisi letteraria, lontanissima dall’essere un ‘commentario’ o un ‘esercizio’, impegna tutto l’uomo György Lukács. Criticate il Lukács teorico, non abolirete perciò la vitalità eccezionale della sua opera, la forte tensione che la tiene in equilibrio fra una nostalgia quasi titanica della grande arte realistica del passato – l’età degli eroi nell’arte – e l’aspirazione autentica – perciò, al fondo, inappagata e problematica – verso un migliore futuro dell’uomo, dell’artista, meglio, dell’uomo-artista.
Questo senso tutto lukacsiano del ‘donde’ e del ‘dove’ penetrò dunque assai profondamente in questo gruppo di intellettuali fino al punto di motivare non solo tentati ‘recuperi’ culturali, come quello di Thomas Mann, ma di sostanziare persino più precise proposte ‘scientifiche’ ed ‘organizzative’:
noi, che auspicando una politica rigorosamente scientifica ed un progresso finalmente umano e umanamente controllato, pensiamo che la cultura debba rimanere, oltre che elaborazione scientifica, anche antenna sensibile dello svilupparsi delle potenzialità: ricerca e insieme sempre speranza. […] Più di quanto può sembrare, e soprattutto nel socialismo, il futuro è, dopotutto, uno strumento per l’oggi e lo determina e lo obbliga.
Giacché, e qui il cerchio da noi tracciato ormai si conchiude, non era soltanto la richiesta di un’orgogliosa autonomia dal blocco dei ‘politici’ e la conseguente auto-limitazione di ogni ‘effettivo’ potere o l’auto-condanna nel chiuso di una rinnovellata turris eburnea, non era soltanto questo che doveva rendere inconsistente, inoperante e destinata al fallimento quella loro proposta di opporre ‘piano a piano’, ‘organizzazione ad organizzazione’ tramite la costituzione di ‘autonomi istituti di ricerca socialista’. Ciò che contribuiva a rendere ancora più astratti e mistificati, e perciò assorbibili, quei loro sforzi e li condannava ad una grave e reale, questa sì, impotenza, era poi quella loro appassionata ma illusoria tensione verso il futuro, verso il ‘dove’ dell’uomo, dato che quell’iniziativa ‘pratica’ doveva poi giungere a «prefigurare nei propri quelli che saranno gli strumenti di lavoro culturale della società socialista» o ad «operare perché si formasse un inizio, un frammento di società nuova, un modo di ‘essere insieme’». La richiesta di una distinzione di poteri sfociava dunque ancora una volta in una assurda riaffermazione dell’orgoglio e dell’‘onore’ dei vati della cultura, e ancora una volta ‘mediando’ i reali conflitti di classe tramite le istituzioni culturali si giungeva a collocarsi, seconda e nuova avanguardia storica del proletariato, accanto a quei partiti che in effetti non sembravano più essere in grado di incarnare la ‘coscienza’ di classe, né tantomeno di guidare alla rivoluzione o di anticipare neanche il minimo frammento del mondo a venire. Giacché
il tentativo di costituire organismi culturali autonomi di sinistra, se nella forma non può avere che un senso provvisorio, nelle sue linee tendenziali contiene un modello significativo di anticipazione. La fondazione di organi culturali non può essere infatti che una conclusione originale in una società socialista, maturata attraverso un lungo travaglio preparatorio, e nei partiti di sinistra occidentali la più profonda preparazione al potere, tenendo conto dei dati più avanzati dell’esperienza rivoluzionaria.
Se confrontiamo, infine, tali utopie con quelle espresse più volte da Lukács, vi notiamo un di più di presunzione e di impazienza. Ci troviamo cioè di fronte ad evidenti pretese di far passare per ‘immediate proposte politiche’ dei ‘discorsi culturali’, pur e proprio conservando questa loro equivoca formulazione. La lotta, anche se condotta con tenacia, doveva necessariamente risultare impari e risolversi in un drammatico fallimento su entrambi i fronti. Su quello ‘esterno’ perché non c’è niente che meglio comporti l’integrazione che l’accettare l’idea che il proletariato ‘erediti’ la cultura borghese o perché non c’è niente che più facilmente si presti ad essere schiacciato nella società del capitale che le velleità rivoluzionarie degli intellettuali e l’illusorio progetto di costruirvi gradualmente dei modelli di società futuribile. E sul fronte ‘interno’ perché, ignorando gli sconfinamenti, i ‘politici’ di prima come quelli di dopo il ‘disgelo’ non potevano volere di meglio che confinare in un limbo ‘specifico’ ed ‘autonomo’ i ricercatori, purché accettassero appunto di rimanervi come tali e per sempre.
Certo nessuno vorrà qui confondere i diversi piani e livelli e valori dei due discorsi culturali che contemporaneamente si venivano in questo periodo conducendo da parte marxista: e senza ombra di dubbio ci appare oggi maggior titolo di merito l’aver proposto i modelli del grande realismo borghese – soprattutto se nello stesso tempo, oltre a Mann, si era in grado di salvare dalla lukacsiana nozione di ‘distruzione della ragione’ anche un Kafka o un Proust – che non l’essersi impegnati nella difesa di retrivi moduli naturalistici di tipo schiettamente populistico, nell’attenzione troppo insistentemente rivolta a stantie ricostruzioni di arcane e metastoriche plebi rurali o di informi larve del sottoproletariato urbano, e, infine, nel continuare a ritenere «la fedeltà di classe un analogon della fedeltà al pandiramerino». Meglio di tutti Franco Fortini nel più volte citato Lukács in Italia seppe esprimere quel senso di apertura intellettuale e di grandiose prospettive culturali europee che sembrò schiudersi con la penetrazione delle opere del critico ungherese nel provinciale, arcadico e micro-storicistico orizzonte della cultura nazionale. E da questo punto di vista, ma soltanto da questo, aveva ancora una volta ragione lo stesso Fortini quando individuava l’elemento più integro e prezioso dell’insegnamento fornito da Lukács in quella sua «proposta imperterrita di misurarci con le massime dimensioni della storia umana e con le massime possibilità dell’uomo». L’aver colto questo fu motivo non ultimo dell’essere riusciti a perseguire un ben diverso aggiornamento europeo o a formulare ben più ampie, articolate e suggestive proposte ideologiche e culturali che non gli intellettuali comunisti, i quali, sempre in ritardo sui tempi reali, soltanto in seguito tenteranno di comprendere che la cultura nel frattempo era andata oltre Manzoni o Verga o De Sanctis, oltre Croce o Gramsci, oltre Levi o Jovine o Pratolini, e nel far ciò dovranno pagare lo scotto della tardiva consapevolezza con l’ecclettismo, gli improvvisi ed acritici abbracci, i drastici e semplicistici rifiuti che furono loro propri. Il ‘realismo borghese’, si ripete, era certo preferibile al ‘nazional-popolare’, ma sul piano appunto della cultura borghese e del suo rinnovamento; esso invece non doveva avere efficacia alcuna sul piano delle indicazioni per una reale lotta rivoluzionaria di parte operaia, la quale è condotta per trasformare radicalmente ‘tutte’ le strutture di un sistema dato e non già per ereditarne la ‘cultura’ come proprio patrimonio ideale e tanto meno per fare di quei ‘valori’ la propria arma, i propri strumenti specifici ai fini della rivoluzione. L’aver tenuti irrimediabilmente distinti, nonostante gli sforzi contrari, i due piani della teoresi e della prassi, l’aver preferito alle ‘opere’ i ‘discorsi’ sull’ideologia e sulla cultura, l’aver ritenuto che la verità fosse di per se stessa rivoluzionaria o che la poesia fosse libertà, tutto ciò fece sì che taluni almeno di questi marxisti critici potessero essere annoverati tra i pochi intellettuali italiani di formazione grande-borghese e mitteleuropea, ma fece sì, anche e soprattutto, che essi rimanessero appunto ‘intellettuali’ e ‘borghesi’.
3. Seguirono di poi altri dieci lunghi anni; e furono su tutta la linea anni di frequenti ripensamenti ed autocritiche, ma spesso troppo e solamente parziali. Essi si aprono infatti sotto gli auspici del XX Congresso da un lato e degli avvenimenti ungheresi dall’altro: vicende tutte che, in modo più o meno diretto, finirono con l’interessare, quando non addirittura col travolgere, la persona stessa di György Lukács. È noto a tutti oramai come l’eco ne giungesse amplificata anche nel nostro paese; e fu ragione non ultima questa che contribuì a determinare la fortuna di opere come La lotta fra progresso e reazione nella cultura d’oggi e Il significato attuale del realismo critico, cui abbiamo già fatto riferimento nelle pagine precedenti. Certo la seconda soprattutto rivelava innegabili pregi intrinseci, dovuti alla maggiore organicità e varietà di articolazioni con cui venivano ora affrontati da Lukács ad esempio i problemi posti dalla letteratura d’avanguardia e in genere dalla cultura del Novecento. Ma furono principalmente motivi esterni, a nostro avviso, quelli che determinarono la particolare atmosfera con la quale venne accolto questo nuovo contributo lukacsiano: il suo sapore di documento dal fronte, la sua maggiore spregiudicatezza nei giudizi espressi sulla letteratura sovietica, l’indubbia scomparsa delle sue punte più ‘esopiane’. Ma non fu assente anche un’altra e più importante ragione, la quale ritorna del resto a conferma di una delle ipotesi di lavoro da noi più costantemente perseguita; ancora una volta fu un’opera di Lukács ad aprire in Italia un nuovo dibattito culturale: nel caso specifico quello sull’avanguardia, che in seguito si nutrì anche di altre linfe, ma pur sempre dal Realismo critico prese il suo primo avvio.
I contemporanei ‘contributi’ e ‘prolegomeni’ estetici venivano frattanto utilizzati come puntelli teorici e metodologici per caparbie quanto attardate battaglie realistiche. Mentre le schermaglie avanguardiste e le più tarde traduzioni delle opere filosofiche di maggior impegno (La distruzione della ragione, 1959; Il giovane Hegel, 1960) finivano per approfondire e rendere insanabili fratture già in atto da tempo sul fronte ‘critico’ fra neopositivisti e lukacsiani ortodossi: protesi gli uni verso il ‘grande mare’ dell’integrazione neocapitalista quanto ostinatamente ancorati gli altri ai lacci del paleo o hegelo-marxismo. Ed ultima trama di una tela che non si era voluta tessere cominciando ab initio, fu infine la volta del Lukács ‘maledetto’: il teorico borghese della decadenza e il geniale deviazionista di sinistra dell’epoca del suo ‘tirocinio marxista’. Soltanto allora si poté toccare con mano la differenza di toni e l’‘abisso’ intellettuale che intercorrono dall’Anima e le forme al Marxismo e la critica letteraria o alla Distruzione della ragione. Soltanto allora prese forma definitiva la consapevolezza dello ‘iato’ originatosi un tempo tra le potenti sintesi saggistiche e le lucide diagnosi di quel primo sistematore della tragica problematica dell’artista moderno e il più maturo, ma anche più opaco ed equivoco, assertore di una necessaria Weltanschauung progressista e democratica dell’arte. Il circolo si è così finalmente chiuso, smentendo di stretta misura le più cupe previsioni di chi nel 1965 aveva detto:
Alla sensibilità intellettuale e culturale italiana vent’anni non saranno sufficienti a far conoscere l’opera di Lukács.
Il decennio trascorso presenta quindi ancora punte polemiche e linee di sviluppo non proprio uniformi, ma al contempo risulta anche più distaccato e disincantato di quello precedente, almeno in taluni settori avanzati. Gli equivoci più grossolani degli ‘inverni progressisti’ vengono consumati nella maggior parte dei casi, magari per generarne di nuovi, più sottili e diversi; ma nel complesso il discorso sull’arte, sulla cultura, e quindi anche quello su Lukács, poté liberarsi alla distanza delle sue scorie più impure ed allotrie, tanto da poterne individuare con maggiore approssimazione ‘splendori e miserie’. Rispetto agli anni passati notiamo senz’altro un ‘di più’ di rigore e di lucidità, un ‘di meno’ di passione e di fervori eteronomi. Anche nei confronti di Lukács è questa ormai l’epoca dei consuntivi, che, per quanto non escludano ancora equivoci e polemiche, non ricordano più i tempi cruenti delle ‘zuffe’; al contrario potranno invece verificarsi quegli acritici ed onnicomprensivi abbracci da cui aveva preso le mosse la nostra ricerca. Ma tutto ciò costituisce piuttosto il punto d’arrivo dell’oggi e si perde nel vivo della cronaca; ancora esso non è neppure estensibile a tutti e se saranno molti o pochi quelli che vi approderanno non è problema che possa interessarci. Il punto di partenza è stato invece diverso e taluni che lo hanno abbandonato o comunque allontanato, lo hanno fatto pagando con la rinuncia alle proprie stesse idee di ieri, secondo un processo difficile e spesso perfino drammatico. Se noi l’abbiamo voluto distendere tutto su un piano orizzontale e ridurre per ora in così breve spazio, ciò è avvenuto per almeno due motivi. Da un lato – ed è l’aspetto più importante – la rapidità di una sintesi introduttiva avrebbe permesso di cogliere con maggiore efficacia quale e quanta influenza abbia ancora continuato ad esercitare sugli intellettuali italiani una personalità come quella di Lukács; in una situazione mutata, certo, sia negli schieramenti che nelle prospettive, ma essa si sarebbe pur sempre fatta sentire nei momenti e nei dibattiti decisivi, negli stessi sviluppi peculiari della nostra cultura, anche se ormai doveva accondiscendere a risultare frammista a quella di altre fonti e suggestioni. D’altro canto l’aver una volta per tutte anticipato le sequenze principali di questo ultimo atto del ‘caso’ Lukács ci consentirà in seguito di allontanarci con maggiore facilità da rigidi piani cronologici e da fastidiosi criteri annalistici, del resto assolutamente incompatibili con la complessità dei problemi in questione e l’intrico della sottile rete di mediazioni che sarà necessario stabilire.
Frattanto, a partire appunto dal 1956, anche la politica culturale perseguita dal P.C.I. aveva subito parziali modifiche e riassetti. Innegabili erano state le scosse e gli squilibri che la crisi ungherese aveva determinato, e soprattutto al livello di intellettuali e compagni di strada; ma altrettanto innegabili erano risultate le capacità di assorbimento e di assestamento che al contempo distinsero gli organi direttivi del partito, e politici e culturali. Si finì per potenziare sempre più, soprattutto per linee esterne, le direttive del ‘disgelo’ e del ‘dialogo’, si consumarono i più grossolani equivoci che avevano contraddistinto l’antico ždanovismo e il più recente nazional-populismo e si inaugurò, quasi pendant culturale alle indicazioni strategiche a livello politico, una sorta di ‘via italiana all’eclettismo culturale socialista’. Si verificarono, e si verificano tuttora del resto, notevoli quanto acritici, adialettici ed astorici tentativi di riguadagnare il tempo perduto e di rimettersi alla pari con le situazioni mutate: e nell’ambito di cui ci stiamo interessando non scomparvero né Gramsci né De Sanctis, ma essi si fusero con Lukács e Della Volpe, con Spitzer ed Auerbach, col realismo e con l’avanguardia. Si pensò di poter scegliere ‘fior da fiore’, appropriandosi dei tratti più generali di ogni contributo che sembrassero passibili di conciliazioni e mediazioni, senza molto preoccuparsi, in realtà, di dar vita ad una ricerca che fosse originale almeno al livello di sistemazione storica e teorica e che quindi potesse condurre ad una reale assimilazione e comprensione dei materiali e dei dati raccolti prima di passare troppo celermente alla fase dell’appropriazione. Restando del tutto inoperanti, nella sostanza almeno, perché nell’apparenza furono ripetute a piena voce, le lukacsiane indicazioni sul tertium datur e sulla duplice lotta contro il dogmatismo e il revisionismo, perché mentre da un lato entrambi paradossalmente perdurarono, dall’altro, unico fatto veramente nuovo forse, si finì per insistere sempre più sul secondo termine: al riformismo politico ‘di sempre’ si accompagnò un ‘sempre’ più accentuato e costantemente aggiornato revisionismo culturale ed ideologico. ‘La compromissione reiterata’: questo il titolo che proporremmo per un libro ancora tutto da scrivere sulla politica culturale comunista di questi anni.
Comunque si vennero sempre più abbandonando stantie e retrive parole d’ordine. Il processo fu certamente molto lento, ma oggi, sul finire di un altro decennio, ormai abbastanza chiaro ed inequivocabile nelle sue componenti essenziali. Apparvero sempre più squalificate e declassate almeno le vecchie formulazioni sull’‘impegno’ o sulla letteratura e la critica ‘militanti’; si abbandonarono, anch’essi cautamente, gli antichi abbagli neorealistici e si venne sempre più affermando, anche dentro il partito, la nozione di intellettuale come specialista, autonomo ricercatore su cui urgevano sempre meno scelte operative eteronome, ferme restando naturalmente la fedeltà ai principi ultimi della ‘linea’. Anche ‘fuori’ tale fenomeno si andava generalizzando sempre più e permetteva così di consumare le mistificazioni più macroscopiche. Ciò non significa ovviamente che non esistano a tutt’oggi residui abbastanza evidenti dell’antico nesso politica-cultura; solo ci sembra che per poterli più correttamente demistificare sia necessario rendersi conto, anche e soprattutto, delle trasformazioni frattanto avvenute. Si è infatti aperta una nuova fase, «un periodo di autentica distinzione dialettica [sugli aggettivi non siamo completamente d’accordo], non già tra i partiti quali essi sono oggi (fittizie incarnazioni dei movimenti e delle esigenze reali) ma fra gruppi e tendenze, e fra momenti dell’azione e momenti della teoresi, fra ricerca e strumentazione». L’ironia della sorte ha voluto che fosse proprio il partito ad attuare in linea di massima le indicazioni di un marxista ‘critico’: riprova di quanto poco utilizzabili fossero sul piano della contestazione pratica e politica anche quelle ultime indicazioni, perché come le precedenti nate da un’inesatta analisi della realtà e perciò integrabili da parte di chi non chiedeva di meglio che si desse vita a polemiche ‘alternative’ culturali anziché politiche.
Gli anni che seguirono subito dopo il XX Congresso appartengono ovviamente alla preistoria di tale processo reale, ma da questo punto di vista ci sembra ugualmente significativo, per alcuni cenni premonitori che vi fanno la loro comparsa, il dibattito svoltosi presso l’Istituto Gramsci dal 3 al 5 gennaio 1959 sui Problemi del realismo in Italia. Esso risulta equivocamente in equilibrio tra il nuovo e l’antico. Dà irrimediabilmente sul passato per l’oggetto stesso che vi è posto all’incanto – il realismo – ma poi, e soprattutto, per alcune richieste e proposte che vi sono avanzate: l’impegno militante degli artisti, le reiterate distinzioni tra metodo e tendenza, i binomi del tipo realismo = umanesimo, arte = conoscenza della realtà ecc. Ma risulta al contempo proteso verso il futuro quando si afferma da più parti l’autocritico e parziale ripensamento degli equivoci trascorsi, la necessità di riprendere in esame, magari alla luce e ai fini sempre del realismo, i risultati culturali delle ‘avanguardie’ o di altri momenti salienti della produzione contemporanea o quando si levano talune voci contro il dirigismo culturale, le estetiche precettistiche e i vizi del contenutismo. Ma anche per ciò che riguarda più da vicino i frequenti accenni che vi è dato rinvenire alle tesi lukacsiane, ci accorgiamo di trovarci di fronte ad un ritmo binario. Da un lato vi sono infatti riprese le ormai note obiezioni, ricalcanti gli schemi già fissati nel lontano 1953: sembrerebbe quasi che sei anni siano trascorsi senza lasciare alcuna traccia, come se nel frattempo sia in sede di sistemazione teorica sia nella prassi critica attuata nel vivo delle polemiche non ci si fosse avvalsi più volte di taluni spunti o corollari direttamente derivati dall’ungherese. Salinari e Gerratana sono ancora una volta i più accaniti, ma è poi soprattutto il secondo che ripete pedissequamente le violente requisitorie di un tempo: unico elemento nuovo l’individuazione del pericolo di ‘sociologismo’ cui va incontro una estetica prescrittiva che non tenga conto delle caratteristiche specifiche della società cui si riferisce l’opera d’arte in oggetto. La qual cosa significava da un lato spezzare un’altra lancia a favore di quel microstoricismo italiano che aveva finora lavorato quasi esclusivamente sulla storia locale delle classi subalterne e dall’altro significava, cosa ancor più grave, ignorare la più che trentennale lotta condotta da Lukács contro il ‘sociologismo’ e il marxismo volgare’.
Eppure, nonostante il tono talora anche sferzante degli interventi, non ce la sentiremmo di definire Lukács unicamente come il costante bersaglio polemico di questo dibattito. Egli è piuttosto tanto più presente proprio quando non ne ricorre esplicitamente il nome: ad esempio nella relazione introduttiva di Salinari, il quale del resto si era mostrato sempre meno caustico nei confronti del teorico ungherese, laddove si individuano «alcuni tratti fondamentali dell’arte concepita come rispecchiamento del reale» nella ‘consapevolezza’, ‘storicità’, ‘tipicità’ e ‘partiticità’ del fatto artistico. Infatti Salinari non aveva mai messo in dubbio la generale concezione, propria del materialismo dialettico, secondo cui «l’arte è una delle forme del rispecchiamento dialettico del mondo esterno nella coscienza dell’uomo» (anche se egli preferirà richiamarsi a Lenin piuttosto che a Lukács) ed aveva pur condotto in questi anni – a voler tralasciare altri aspetti minori del peculiare lukacsianesimo del critico – una sua lotta contro i miti decadenti o il cronachismo della narrativa realistica contemporanea.
Ma ci è sembrato poi ancor più significativo il recupero tutto particolare che di alcune indicazioni lukacsiane si tentò in un secondo dibattito sull’Avanguardia e il decadentismo, sempre promosso dall’Istituto Gramsci tra il 5 e il 6 luglio dello stesso anno. Il resoconto riportato sul n. 18-19 del «Contemporaneo» è abbastanza indicativo anche per altri punti di vista che caratterizzarono la politica culturale comunista in quel periodo; ma l’aspetto che in questa sede maggiormente ci interessa è il costante richiamo alle note teorizzazioni di Lukács sull’avanguardia proprio negli interventi più polemici nei confronti della relazione di Mario De Micheli, il quale aveva liquidato come troppo schematiche e semplicistiche sia l’identificazione di decadentismo ed avanguardia che la convinzione di una loro comune radice reazionaria. Indicazioni in tal senso è possibile ricavare, ad esempio, pur tra molte cautele, negli interventi di Sereni e della Rossanda; ma esse diventano molto più esplicite poi in Antonello Trombadori e perfino in un antilukacsiano convinto quale Della Volpe. Questi accusò De Micheli di non aver tenuto abbastanza presenti gli avvertimenti del teorico ungherese relativi agli stretti rapporti fra decadentismo e avanguardia, ed infine sostenne che il termine e il concetto stesso di avanguardia non potevano servire a dei materialisti marxisti:
e dobbiamo sostituirvi [così concludeva Della Volpe] quello di realismo socialista: cioè di una poetica generale che per principio (trasparente già nella sua stessa denominazione) mira ad evitare il formalismo e ogni squilibrio di forma e contenuto e a restaurare quindi con la piena umanità dell’arte (ch’è senso e ragione) la pienezza dell’arte stessa, e a confortare, infine, la vocazione alla classicità ch’è propria dell’opera d’arte autentica.
Ma se la tesi dellavolpiana veniva ad essere, bisogna riconoscerlo, alquanto diversa dai discorsi di fondo degli altri interventi, Trombadori non aveva remora alcuna nel denunciare «una troppo frettolosa volontà di negare alla posizione di Lukács un valore che va oltre gli stessi limiti di pensiero e di metodo dello studioso ungherese», perché proprio per non perdere di vista le grandi linee storiche tendenziali della lotta delle idee e della ricerca creativa «non soltanto preferisco – diceva il critico – mantenere un atteggiamento cauto nei confronti della tesi lukacsiana, ma starei attento a non discostarmi troppo da quanto in essa vi è di giusto come esame di tendenza complessivo, come indicazione degli elementi caratterizzanti dei grandi movimenti artistici moderni». In altre parole, quando si trattava di respingere i furori avanguardistici e, in genere, ‘modernistici’ di taluni compagni di strada, allora ci si accorgeva di quanto potesse tornare utile uno studioso come Lukács.
E più in generale si può dire, concludendo, che saranno proprio gli aspetti più esterni e fastidiosamente precettistici del Lukács teorico quelli che finiranno per filtrare in certe sistemazioni ufficiali, a dispetto di tutte le polemiche di Gerratana e per tutte le varianti e gli innesti che vi si potranno apportare. Mentre il persistere di talune pregiudiziali di fondo – ad esempio il rifiuto delle analisi di ‘lungo periodo’ o della componente antinaturalista – impedirà una considerazione serena ed accorta dei pregi effettivi del saggista e del critico della letteratura ottocentesca, che non erano invece sfuggiti, come abbiamo visto, ad altri più attenti lettori di Lukács e che avrebbero potuto esercitare un’utile funzione di aggiornamento, di rinnovamento in senso europeo e non-conformista, e comunque indirizzare ben diversamente le nostre considerazioni sulle tradizioni culturali italiane e sulle vicende della cultura contemporanea. Ma ovviamente non è il caso di indulgere alla tentazione dei ‘se’, soprattutto quando essi non ci interessano poi realmente; basterà qui accennare al fatto, questo si reale, che Lukács è andato sempre più acquistando col tempo, al di là delle polemiche e delle profonde incomprensioni, la venerabilità un po’ fredda ed ufficiale di un ‘classico’, l’etichetta un po’ equivoca di ‘grande teorico marxista’. Il suo nome e la sua stessa firma torneranno ad apparire con sempre maggiore frequenza prima sul «Contemporaneo», poi su «Rinascita» e perfino su «l’Unità». E non sarà certo dovuto al caso che, mentre sono passati quasi inosservati i capolavori giovanili, l’interesse maggiore dei ‘partitici’ si sia sensibilmente spostato in questi ultimi anni su quegli interventi più direttamente politici che rivelano in Lukács un convinto assertore delle vie nazionali al socialismo e della coesistenza pacifica. Come non è certo un caso che gli Editori Riuniti, i quali in un ventennio si sono limitati a pubblicare due sole opere di Lukács, fra l’altro le peggiori che egli abbia scritto, abbiano ora sentito la necessità di dare alle stampe un volumetto che da uno dei quattro brevi scritti che vi sono raccolti deriva il titolo assai significativo: Il marxismo nella coesistenza. E nella copertina si parla di «impegnate prese di posizioni del celebre filosofo marxista».
Ma il dibattito sul realismo e l’avanguardia, sul lukacsiano concetto di ‘totalità’, sul rifiuto o meno della sua categoria della ‘mediazione’, si era frattanto esteso e rapidamente diffuso anche al di fuori dell’area del marxismo ufficiale. Anzi, a dire il vero, era stato ancora una volta proprio in taluni ambienti eterodossi che esso aveva ricevuto il suo primo avvio e soprattutto la sua prima seria e qualificata impostazione. All’inizio si era articolato, come abbiamo avuto occasione di ricordare in più riprese, intorno ai risultati e alle proposte del ‘realismo critico’; ma nuovo materiale doveva essere in seguito fornito alla discussione in atto dalla comparsa della traduzione del saggio di Adorno, La conciliazione forzata, contenente uno dei più serrati e violenti attacchi che nei confronti di Lukács si era avuto occasione di conoscere fino a quel momento. Questo scritto, certo molto diseguale e non sempre felice, ebbe tuttavia l’indubbio merito di permettere di riallacciare un discorso che, almeno in parte, era rimasto interrotto dopo la prima apparizione dei Minima Moralia (dovuta per di più proprio ad un lukacsiano, come abbiamo visto) e che d’altro canto si veniva sempre più sottilmente intrecciando a considerazioni di diversa natura: non bisogna infatti dimenticare che proprio tra il’59 e il’60 appaiono La distruzione della ragione e Il giovane Hegel. Così la polemica veniva necessariamente ad ampliarsi fino a pervenire ad alcuni problemi di fondo che, travalicando ormai le indicazioni del ‘realismo critico’ investirono le più generali considerazioni sulla funzione dell’arte nelle società moderne, soprattutto in quelle a capitalismo avanzato, o addirittura interessarono diverse ed ormai opposte Weltanschauungen. In altre parole si stabilì un collegamento senza dubbio più immediato e diretto di quanto non fosse avvenuto per il passato tra il lukacsiano rifiuto di taluni fenomeni della letteratura novecentesca o le conseguenti proposte di ben diversi spunti e modelli e il più generale impianto ideologico e filosofico che a quel rifiuto e a quelle proposte si sottendeva.
Pertanto quell’unità di intenti almeno – se non proprio di vedute – che aveva caratterizzato fino al 1956 la cultura marxista d’opposizione, si venne frantumando nel corso degli anni, dando origine ad una serie ininterrotta di gruppi e tendenze (anche a non voler considerare alcuni tentativi di ‘far parte a se stessi’) che, ormai noti a tutti, sarebbe tra l’altro impossibile indicare in questa sede in tutte le loro variegate sfumature e diversificazioni. Rimane comunque il fatto che risultarono mutate le stesse condizioni oggettive in cui essi si trovarono ad operare. In precedenza bersagli polemici ed obiettivi erano stati al contempo più limitati ma anche più chiaramente definibili: guerra fredda e stalinismo, Occidente ed Oriente, capitalismo e socialismo erano stati i punti fermi, le costanti di cui essi avevano dovuto tener conto e che allo stesso tempo avevano tentato di superare. Si erano infatti sentiti uniti dalla comune battaglia impegnata tanto contro la cultura neo-idealistica e neo-ermetica quanto contro le involuzioni burocratiche e dogmatiche dei compagni militanti all’interno dei partiti: di qui erano nate, già in epoca di ‘disgelo’, quelle indicazioni di un fronte unito dei ricercatori e degli intellettuali da noi già analizzate. Certo distinzioni era possibile farne ad ogni momento; l’individualismo intellettuale rimase pur sempre più un pericolo da combattere che non un vizio di fondo definitivamente allontanato e i risultati che furono effettivamente raggiunti interessarono gruppi ristretti, anche se i più attivi e preparati. Tuttavia è anche indubbio che tali distinzioni si resero sempre più profonde ed ormai insanabili nel periodo in cui, venute meno le condizioni stesse di quella loro lotta su due fronti, in un clima di revisionismo e di cauto riformismo ormai imperanti e pressoché generalizzati, mutarono radicalmente le prospettive e le indicazioni che essi furono in grado di suggerire.
La prova generale fu in un certo senso costituita dalla polemica Guiducci-Cases, la quale ebbe sì ancora una volta ad oggetto le teorizzazioni del filosofo ungherese: e da questo punto di vista, come per il tono, i moduli e la violenza stessa degli interventi, essa appartiene senza dubbio al passato; ma ben presto si ebbe l’impressione sempre più evidente che questo nuovo riesame delle posizioni lukacsiane, lungi dall’essere un ennesimo tentativo di misurarsi con esse per distinguerne il loglio dal frumento, veniva piuttosto a configurarsi come una precisa resa dei conti con un recente e più generale passato culturale che si era voluto velleitaristicamente contraddistinto da un’equivoca politica di alleanze. Fu invece questo il momento dei ‘distinguo’, tanto più che un po’ tutti si sentivano responsabili degli errori del passato e volevano ricrearsi una sorta di personale verginità intellettuale e politica; si preferì quindi insistere sulle differenze e sulle distanze, che senza dubbio ci furono piuttosto che sulle analogie che pur in modo massiccio erano ancora presenti. Il fatto che la polemica finisse per travolgere con sé ben altri temi di fondo è dimostrato, se non altro, dalla constatazione – da noi già fatta – che i suoi più lontani residui vennero a saldarsi con il dibattito di poco più tardo sulle ‘summe’ filosofiche di György Lukács: ancora una volta egli veniva così a scandire tempi e ritmi della nostra cultura di sinistra. I termini dello scontro Guiducci-Cases sono ormai troppo noti perché sia il caso di tornarvi sopra e per questo abbiamo preferito trarne piuttosto alcune considerazioni generali. Certo è che l’apertura delle ostilità e la sempre più manifesta frattura ormai originatasi tra i due gruppi doveva produrre un’altra importante conseguenza che non può essere, questa no, trascurata: il riavvicinamento della schiera dei lukacsiani ortodossi all’area del marxismo ufficiale. Riavvicinamento – è doveroso riconoscerlo – non cercato né tantomeno voluto, ma pur sempre esistente di fatto e magari anche ‘machiavellicamente’ imposto. E non solo perché il richiamo ‘di sempre’ alle grandi tradizioni dell’umanesimo borghese, con tutte le differenze di tono e di livello da noi costantemente poste in rilievo, doveva necessariamente condurre a ‘comuni’ equivoci, comuni incomprensioni e gravi rifiuti di talune componenti della cultura borghese, ostacolandone un corretto processo di comprensione globale, ma anche perché, nel caso specifico di paleo- e neo-marxismo, se Cases poté contare su un minimo di appoggio e di fiancheggiamento, questi gli vennero dagli intellettuali di partito.
Di qui si dipartono in ogni caso gli infiniti rivoli della ‘moderna cultura d’opposizione e di contestazione’ che in questi ultimi tempi abbia preferito abbandonare la ‘lezione dei classici’, ormai ‘metafisici’ ed immobili nel loro statico splendore di rivoluzionari un po’ demodée, di antesignani di aree primitive e depresse e del tutto appartenenti alla preistoria degli ‘splendidi lumi neocapitalistici’. Alla antica abusiva quanto abusata mania ‘citatologica’ dai grandi del passato se ne è sostituita una altrettanto maniaca dai più recenti campioni di tecniche operative ispirantesi ad un generico marxismo di impronta sociologica e neopositivistica: tecniche più raffinate e sottili insomma di integrazione in apparati e situazioni senza dubbio diverse. Le tappe di questo processo sono state molte, troppe per meritare di essere ricordate tutte. D’altro canto siamo abbastanza convinti che anche se volessimo sceglierle a caso, non ne verrebbe meno il rigore generale della ricostruzione: del resto non costituirebbero queste scelte proprio degli efficienti campioni di indagini ‘empiriche’ e ‘scientiste’? Resta comunque il fatto – questo sì grave e serio – che neopositivisti o metodologi, rappresentanti del New-Criticism anglosassone o autori di processi ad estetiche metafisiche, epigoni dellavolpiani o estetologi empirici, nuovi ma anche meno dignitosi ‘trattatisti dell’angoscia’ o sagaci studiosi dell’alienazione, assertori di rifiuti, grandi rifiuti e rifiuti di ogni rifiuto o teorici di arti e letterature da civiltà industriali o transindustriali, stilcritici o semantici, strutturalisti o preziosi restauratori di atteggiamenti formalisti, custodi della vecchia e storica o ideatori di nuove e dirompenti avanguardie…, resta comunque il fatto, dicevamo, che tutti i citati e citabili rappresentanti della cultura ‘moderna’ nostrana divennero i più autorevoli interpreti delle esigenze di informazione, della diffusione di più ampi ‘consumi culturali’ soporiferi e diversivi, del potenziamento di certi canali e di certe sollecitazioni, che sono poi i tratti più tipici della cultura della nuova società capitalistica. Mentre i più aggiornati esperimenti di riformismo politico degli anni sessanta permettevano che passassero incontrastati il piano politico di ristrutturazione del sistema e il piano economico di ammodernamento delle tecniche e degli strumenti di accumulazione e concentrazione del capitale, questi rappresentanti delle più ‘moderne’ istanze indigene, affiancati dai divulgatori (spesso neanche fedeli e sufficientemente preparati) delle più ‘moderne’ risultanze della ricerca d’oltralpe, preparavano l’ingresso anche della nostra cultura nell’area neocapitalistica. La loro opera di aggiornamento permise alle espressioni della sovrastruttura borghese di consumare taluni impacci e divenire più agili e disinvolte, fra l’altro nel loro programma di affiancamento ideologico al processo reale di reificazione e proletarizzazione: la riduzione della ‘società’ in ‘fabbrica’ si ottiene anche con quegli strumenti di persuasione occulta che sono quelli della cultura, soprattutto se resa più razionale, e quindi più efficiente e funzionale, per aver bevuto alla fonte delle più moderne tecniche operative.
Divergenze e diversificazioni continuarono certo a sussistere, e non solo nel tono e nel livello, cioè nella ‘qualità’, ma anche nella misura, cioè nel ‘quanto’ di effettiva integrazione, anche se, a parte taluni ripensamenti recentissimi e perciò non si sa quanto reali e totali, la demarcazione fu al massimo fra la sacra fames di raggiungere l’‘altra sponda’ e le secche di un cauto riformismo illuminato, che solo per il piglio più nuovo e spregiudicato si distingueva da quello di sempre. È quest’ultima un’osservazione amara che comincia a farsi strada, e molto lentamente, proprio in alcune parole ‘recenti’ come quelle di Gianni Scalia, che pur è stato uno dei protagonisti tanto della precedente fase dell’‘autonomia e politicità della ricerca intellettuale socialista’ quanto delle nuove proposte perennemente sospese tra integrazione e riformismo.
La duplicità di sfumature e risvolti di questo iter abbastanza unitario spiega anche la variegata gamma delle posizioni che nei confronti di Lukács si assunsero negli ambienti intellettuali ora descritti. Esse oscillano generalmente tra un rifiuto sempre più categorico ed un’accettazione limitata e parziale, magari rivista e corretta alla luce di Adorno-Benjamin-Goldmann e perfino Marcuse. Si procede cioè, da un lato, dalle più antiche opposizioni che in sede più propriamente filosofica si sono levate contro il Lukács ‘metafisico’ dal fronte neo-marxista e neo-empirista (Armanda Guiducci, Franco Fergnani e, in genere, il gruppo raccolto attorno a «Il pensiero critico», nuova serie – ma sono soltanto alcuni esempi) alle più recenti obiezioni, neopositiviste anch’esse, ma d’altra origine, che, in sede di ‘applicazione sistematica del metodo semiologico’ o di ‘introduzione del concetto operativo di mentalità’ quale è offerto dalle ‘scienze empiriche della cultura’, si sono espresse da chi ha tentato di conciliare avanguardia e realismo, sostituendo a Lukács Brecht, Majakovskij o altre ‘interpretazioni del marxismo’, fino a giungere alle recentissime riserve di ascendenza dellavolpiana e althusseriana (ad esempio il Lukács di Marzio Vacatello, Firenze 1968). D’altro canto soprattutto dopo la pubblicazione dei capolavori giovanili, si tende a riprendere talune osservazioni che Müntzer e soprattutto Amodio espressero a suo tempo sulle pagine di «Ragionamenti» circa l’elemento ‘utopico’ che si conserverebbe anche nel Lukács marxista e realista, e le si sviluppa in modo più organico ed articolato: l’esempio più illuminante – ma si tratta pur sempre di un unico esempio – può essere costituito da Tito Perlini, di cui è uscito recentemente Utopia e prospettiva in György Lukács (Bari 1968), la raccolta senza dubbio più ampia di studi lukacsiani che sia finora uscita in Italia e la più ricca di materiale documentario e bibliografico.
Così il discorso culturale, divenuto più autonomo e specifico, permetteva di superare sì le più grossolane e stantie prospettive progressiste, ma non solo finiva talora per riesumarne altre, di un progressismo certo più sfumato ed appena percettibile, ed aggrapparvisi disperatamente in extremis (e non sarà forse un caso che il commento a Lukács sia divenuto sempre più un commento all’‘utopia’ e alla ‘prospettiva’); tale discorso poi, e soprattutto, non attuava il superamento nell’unico senso possibile, quello della fine del discorso intellettuale appunto e dell’inizio del discorso sulla prassi politica e rivoluzionaria, ma conduceva sulla vita della sua pura e semplice spoliticizzazione, e quindi della sua più immediata e diretta integrazione. Certo l’antidoto a questa situazione reale non poteva davvero essere costituito da un astratto, velleitario quanto attardato paleomarxismo, del resto sempre più hegeliano e sempre meno marxista, che continuò costantemente a richiamarsi ai ‘classici’ e a Lukács, alla ‘totalità’ e al realismo, all’umanesimo e all’‘uomo integrale’. Per questo ricercatori come Cesare Cases e Vittorio Saltini, i più ostinati e caparbi del resto tra i lukacsiani di vecchia maniera, finirono sempre più per apparire come degli isolati, che non contavano affatto nella conduzione del processo culturale, a cui non rimase niente altro da fare che compiacersi di questo loro isolamento e di questa loro aristocratica fedeltà – unici puri – ai ‘principi primi’. Mentre i neolukacsiani dell’ultima ora affinarono sempre più il loro discorso e rivalutarono soprattutto alcuni spunti del filosofo ungherese che potessero essere utilizzati anche in un taglio ‘avanguardistico’ e servire di base per ogni soluzione prospettica e futuribile di società socialista, essi rimasero gli unici che si sobbarcarono per alcuni anni il gravoso incarico di difendere il maestro su tutta la linea: oggi non sapremmo dire quanto ciò fosse dovuto a fede incrollabile, a coerenza, a coraggio o ad incoscienza e cecità intellettuale o, forse, un po’ a tutte queste cose prese insieme. Certo essi rimasero, al di fuori di quelli ancora operanti nei partiti operai, gli eredi unici, o quasi, del vecchio progressismo borghese, con gli equivoci realistici ed ottocenteschi: ed ormai dovrebbe risultare chiaro che tali nostre considerazioni non possono essere accusate dagli interessati di riecheggiare spunti e polemiche di tipo neopositivistico perché provengono da ben altra direzione.
E non sarà certo il caso di dimostrare il lukacsianesimo ortodosso di questi due intellettuali, tanto esso è noto a tutti, anche per esplicite loro professioni di fede. Ci sembra invece operazione senza dubbio più degna di essere condotta e più feconda di sviluppi quella intesa a considerare il modo tutto particolare da essi seguito nel più recente ‘preteso’ superamento di Lukács, che pur essi proclamano e che nel complesso, a nostro avviso, si limita ad un superamento di taluni schemi precettistici più fastidiosi e consunti, di taluni furori antinovecentisti più retrivi ed ormai inutilizzabili, ma non investe, soprattutto in Saltini, la più grande proposta umanistica e positiva. In altre parole si supera Lukács proprio quando si è ormai fatta strada la convinzione che egli non permette, in fondo, una spiegazione, una giustificazione totale e completa della cultura come valore universale, un’assimilazione onnicomprensiva dell’eredità borghese. Solo che a questo punto ci sembra doveroso rilevare che le posizioni dei due ‘ex-lukacsiani’ si dividono ed infrangono il blocco monolitico di un tempo. Non riusciamo infatti a liberarci da un sospetto: Vittorio Saltini abbandona Lukács perché ormai «è giunta l’ora di tornare a Hegel senza intermediari», oppure perché egli non avrebbe consentito il recupero dell’altro idolo a lungo vagheggiato: Schiller. Del resto il critico aveva sempre mostrato di ritenere che «fondamentale problema della cultura socialista è assorbire l’eredità positiva di quella borghese»; soltanto che ora egli si accinge all’assorbimento anche di quella che Lukács aveva stigmatizzato come ‘negativa’. Ma un altro dubbio non riesce ad abbandonarci; che, in ultima istanza, questo allontanamento dalle direttrici e dai parametri del passato sia sempre stato più affermato, che non effettivamente e compiutamente realizzato; e non solo perché ancora il 30 giugno 1968 continua a professarsi ‘lukacsiano convinto’, ma poi soprattutto perché trova ancora «inopportuno ironizzare […] sui valori umanistici, che oggi certuni liquidano facilmente come valori borghesi», o perché si ritiene, contro ogni masochismo nichilista, che «chi combatte sensatamente la società capitalistica, rivendica (in modo esplicito o implicito) l’attuazione di quei valori (d’uguaglianza, giustizia, libertà e felicità per tutti) che la cultura borghese ha elaborato quando fu rivoluzionaria, ma che la società borghese non è in grado di realizzare. Il pensiero socialista porta solo alle loro conseguenze tali valori». Forse ha veramente ragione Saltini: queste ultime sono cose che nemmeno Lukács avrebbe mai detto, almeno in questa forma!
Per Cesare Cases, invece, il discorso è in parte diverso. Alcuni dei suoi ultimi scritti contengono osservazioni e spunti di ben altra natura: così le obiezioni alle tesi lukacsiane sull’antifascismo e la coesistenza o all’eccessiva importanza da lui attribuita agli intellettuali nella ‘rinascita del marxismo’, come, in genere, tutte le affermazioni che sembrerebbero autorizzarci a parlare di una ‘svolta’. Ma anche in questo caso, seppure in una misura diversa, il discorso di fondo rimane ugualmente equivoco e se non altro confuso, giacché non è possibile sfuggire all’impressione che ci si trovi di fronte ad un nuovo estremo tentativo di riproporre la mistificazione di un discorso politico basato su valori come la ‘volontà rivoluzionaria’, la ‘prospettiva’, la certezza che ‘la non verità dell’estetica si risolverebbe soltanto nella verità della politica’ o la contestazione della ‘insensatezza del mondo’, quando non addirittura di fronte alla volontà velata di resuscitare l’ultimo discorso possibile sull’arte, la cultura e il ruolo degli intellettuali. Ci lasciano infatti molto perplessi e fortemente dubbiosi affermazioni recentissime come queste, sorte come commento alle note considerazioni di Baran:
Di un’‘avanguardia’ composta di intellettuali non si può quindi più parlare: quando si è sprofondati nella medesima palude e risulta impossibile tirarsene fuori […], una pretesa del genere è inadeguata. Con maggiore legittimità si può però tuttora parlare di un ‘compito dell’intellettuale’, poiché grazie alla sua cultura questi è più facilmente in condizione di rendersi conto dell’illibertà propria e altrui: non è un uomo libero che risveglia i non-liberi alla libertà, ma un non-libero che dà il senso dell’illibertà ai non-liberi assorbiti nel benessere.
Parole che del resto confermano dubbi meno recenti di chi come noi ha sempre guardato con sospetto ogni fusione di proposte avanguardistico-umanistiche, in cui anche Cases si è voluto cimentare in modi tutti particolari e personali.
Alla schiera dei lukacsiani appartenne anche Franco Fortini ed anzi siamo fermamente convinti che un discorso su Lukács e le influenze da lui esercitate sulla cultura italiana resterebbe senza dubbio mutilo ed incompiuto senza l’accenno alla sua attività di ricercatore. E se l’abbiamo finora passato sotto silenzio (in questa ultima parte del resto, giacché nelle altre Fortini ha costituito il nostro più costante punto di riferimento, anche quando non ne appariva esplicitamente il nome) ciò non è certo dovuto a dimenticanza o a facili liquidazioni. Che anzi i risultati da lui raggiunti continuano tenacemente ad apparirci come il più alto punto d’arrivo cui potesse pervenire in Italia un intellettuale borghese, per le caratteristiche stesse della sua formazione europea, per il tono, il livello e il valore innegabile di tanta parte della sua scrittura critica e saggistica, per la lucidità e il rigore di talune analisi come lo stesso ‘splendido isolamento’ in cui continua a consumare gli equivoci ultimi, gli errori e le mistificazioni di fondo, senza dubbio le più alte, raffinate e complesse cui fosse dato di approdare. Il suo nome ritorna quindi soltanto ora non solo per ragioni esterne che risulteranno chiare nelle pagine seguenti ma anche, e soprattutto, perché ci è sembrato doveroso condurre su di lui un discorso a parte, vista la distanza che realmente lo separa dagli ‘altri’ e vista anche la tenacia e la fermezza con cui egli stesso ha voluto scindere, almeno a partire dagli anni sessanta, la propria responsabilità e la propria ricerca da quelle dei suoi antichi e recenti compagni di strada.
Franco Fortini era stato a suo tempo il primo, e certo tra i pochi, che aveva messo in luce gli equivoci che si sottendevano alla «famosa immagine delle bandiere borghesi risollevate dal fango ad opera di un braccio proletario», che si sottendevano cioè alla illuministica pretesa di assicurare al nostro paese quella rivoluzione democratico-borghese che non aveva mai avuto e alle grossolane interpretazioni di impianto nazional-popolare. In una fase in cui erano tutt’altro che scomparse temperie resistenziali e linee frontiste la sua voce si era pur levata contro
l’illusione che nella attuale fase politico-economica italiana, romanzo e film possano svolgere una funzione ‘progressista’ e ‘popolare’ che non sia di retroguardia, illusione che nasce dalla indebita trasposizione nel nostro tempo della funzione progressista esercitata dalla letteratura nazional-popolare in una fase ormai tramontata della borghesia (errore di Gramsci) e della funzione progressista esercitata dalla letteratura socialista negli attuali paesi socialisti.
Lo stesso Senno di poi che, proprio perché fungeva da introduzione concludeva i Dieci inverni, pur portandosi dietro gli errori di un recente passato, chiudeva un’epoca e se non altro segnava la data di morte delle vecchie formule dell’engagement e delle illusorie richieste di ‘autonomi istituti di ricerca socialista’: anche in questa resa dei conti fu il primo fra i suoi compagni di un tempo, egli che pur era potuto apparire «il difensore della legislazione della libertà letteraria ed artistica» e la sua scrittura «una continua ‘dichiarazione dei diritti’ del cittadino e dell’artista». Ma le analisi fortiniane, le sue ricostruzioni storico-culturali e teorico-culturali si fanno sempre più lucide e demistificanti man mano che ci avviciniamo ai nostri giorni e agli scritti migliori di Verifica dei poteri. Egli procede oltre, fino alla negazione di ogni ‘mandato sociale’, fino al recupero di quell’‘eterna porta stretta’ che è l’economia politica e la sua critica pratica; si fa quindi storico di un processo che ha coinvolto la sua stessa persona e le sue stesse illusioni, il processo ad un periodo in cui, «con le apparenze di una convulsione vitale, la storica grande pretesa delle guide morali e intellettuali della Sinistra dava – insieme alla Sinistra medesima – gli ultimi tratti». Egli, ancora una volta tra i primi, ha compreso tutta la miseria e l’ipocrisia della lotta intrapresa contro la pianificazione capitalistica con le armi della letteratura: la miseria perché ne ha sperimentato personalmente l’inefficacia; l’ipocrisia, perché ne ha visto consumare fino in fondo tutti i furori integrazionistici e le funzioni di copertura degli interessi ideologici del capitale nella sua fase più avanzata. Egli è finalmente giunto a toccare il fondo dell’equivoco progressista, tramite la stessa vivisezione delle sue forme più fastidiose di ‘falsa coscienza’, tramite la scarnificazione della sua mistificazione ultima del ‘movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti’:
si tratta di uscire da un fatale errore della cultura di sinistra, cioè quello di ritenere che alla lotta di classe corrisponda necessariamente una lotta tra due culture. Probabilmente la cultura è una sola: la cultura dei ‘proprietari’, dei proprietari della coscienza, dei proprietari di dio, dei proprietari dell’essere.
Mai come in questo momento si è avuta l’impressione di trovarci molto vicini al discorso unico e ultimo che si sarebbe dovuto sempre fare; ma esso non rimane l’unico e l’ultimo anche per Fortini.
Verifica dei poteri è infatti un libro ambiguo e bifronte, e ciò non sarà dovuto soltanto al fatto che esso raccoglie gli scritti di prima e di dopo il ’60, ma proprio perché gli stessi discorsi che seguono a quella ‘svolta’ conservano un ritmo equivoco, un’illusione ultima:
C’è luogo a procedere: nell’ordine dell’agire pratico ossia politico e anche in quello, paradossale più di sempre, della parola letteraria. Che ormai solo se accetta di venire emessa senza speranza di ritorno o di eco può attraversare, quando che sia, il corpo dei suoi destinatari.
Dal crollo e dalle macerie della fortiniana ‘distruzione della ragione’ si è pur salvata la speranza ultima, quella di sempre in fondo: la poesia liberatrice; ormai essa è allontanata nelle brume incerte di altri lidi, è possibile solo da ‘un’altra riva’, ma rimane pur sempre l’unico valore.
Ed è a questo punto che anche il nostro discorso deve ormai muoversi in altre direzioni e non soltanto perché in questi termini si è già scritto sull’ultimo Fortini – e sarebbe certamente inutile ripetere le cose dette quando molte di nuove rimangono ancora da dirne – ma soprattutto perché proseguirlo in questo senso significherebbe allontanarci irrimediabilmente da quanto ha costituito il punto di partenza, l’angolo visuale precipuo della nostra ricerca. Nella sede presente interessa molto di più riannodare l’intrapresa analisi su Lukács in Italia e riuscire a comprovare, nonostante tutte le apparenze, il ‘quanto e il quale’ del debito che anche le affermazioni recenti di Franco Fortini hanno contratto nei confronti del pensatore ungherese. Egli magari non sarà neanche stato l’unica musa – non si vuol qui togliere a Fortini nulla di ciò che spetta a Fortini – e fors’anche l’operazione è stata possibile solo dopo una lunga e dolorosa selezione che ha salvato solo alcuni tratti, pochi ma quelli che contano veramente, del teorico marxista dagli anni’30 in poi, i quali sono andati a fondersi, perché ormai lo potevano, con gli accordi e le risultanze della sua gioventù ‘maledetta’; ma tutto ciò non può cancellare in noi l’impressione che Lukács costituisca tuttora uno dei punti di riferimento essenziali del ‘nuovo’ Fortini. E forse anche egli lo ammetterebbe e lo ammette di fatto con una certa facilità e con il coraggio di sempre. Anche le nostre osservazioni precedenti del resto celavano tale fine o comunque ne costituivano la premessa indispensabile; ma è ormai ora di abbandonare ogni ‘discorso indiretto’ e di venire al fondo delle cose.
E bisognerà innanzitutto dire, proprio per intendere i motivi e la misura del superamento lukacsiano attuato da Fortini, che egli ha tra i primi contribuito ad intaccare uno dei più consunti luoghi comuni che ha accompagnato, ed anzi promosso e facilitato, la diffusione dell’opera di Lukács in Italia: la sua possibilità, cioè, di fornire un’alternativa allo stalinismo. Alcune voci contrarie si erano talora levate anche in precedenza e proprio dalle pagine di «Ragionamenti» (ad esempio quelle di Armanda Guidacci, Amodio e Müntzer) ma erano rimaste isolate e per di più ambigue, proprio per essere state prima e contemporaneamente anche quelle che più avevano utilizzato Lukács in senso anti-dogmatico. Franco Fortini, invece, proprio ripercorrendo dall’interno la storia del ‘mandato sociale’ in nome del quale gli intellettuali furono chiamati a testimoniare, riesce ad individuare tutti gli equivoci dell’antifascismo dei ‘fronti popolari’ e della politica delle alleanze, da cui György Lukács fu, sul piano politico come su quello culturale, certo direttamente e massicciamente influenzato, tanto che «le sue contraddizioni sono della stessa specie di quelle che egli rimprovera a Stalin». Non si vuol qui negare la reale funzione ‘frontista’ di Lukács o le stesse vicende biografiche che mostrano come abbia pagato di persona la sua opposizione, ma chiarire che si tratta soltanto di una lotta interna allo stalinismo: che insomma riteniamo che solo nell’ambito dell’ideologia staliniana si possano comprendere molti tratti del Lukács marxista. Certo, leggendo gli interventi che si succedettero al 1° Congresso degli scrittori sovietici del 1934 o riesumando le scarne notizie che si possono ricavare dal 1° Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, tenuto a Parigi nel 1935, restiamo veramente impressionati dai punti di contatto, dalle analogie innegabili dei discorsi di fondo, a parte le differenze di tono e di livello che è pur sempre doveroso riconoscere. Il fatto è che per troppo tempo abbiamo avuto, e forse abbiamo tuttora, una visione monolitica e statica dello stalinismo; ed in fondo lo stesso ‘disgelo’ e gli stessi attacchi kruscioviani sono stati anch’essi dogmatici e burocratici. Tutto ciò non ci ha permesso un’analisi più precisa ed attenta, che stabilisse anche differenze e sfumature all’interno del discorso unitario. Questo soltanto, unitamente ad altri fattori che qui non è il caso di esaminare, ha potuto consentire che a Est come ad Ovest Lukács sia potuto passare per l’antesignano di una ‘rivolta reale e alternativa al regime’ quando essa ne costituì al massimo una proposta riformista e liberalizzatrice. La storia dello stalinismo è ancora tutta da scrivere e non è certo nostra intenzione neppure fondarne le premesse, ma la pubblicazione recente del dibattito svoltosi a Mosca dal 17 agosto al 1° settembre del 1934, che doveva segnare l’atto di nascita della tragicomica Unione degli scrittori sovietici, ha rivelato in tutta la sua evidenza le influenze che la cultura ufficiale dovette innegabilmente esercitare sulle formulazioni del Lukács maturo, ferme restando la maggiore ampiezza e profondità, la varietà di articolazioni e la minore provvisorietà dell’impianto teorico, come i diversi esiti e risultati critici, la diversa latitudine in cui poté spaziare la sua ricerca.
Ora tutto ciò è stato almeno in parte anticipato da Fortini, anche se non sempre egli lo ha condotto fino alle sue estreme conseguenze; infatti quel Lukács che per questo o per altri motivi è stato cacciato dalla porta, rientra poi dalla finestra. Si è già detto che Verifica dei poteri è un libro ambiguo e bifronte e se ne sono anche accennate le ragioni. Non resta ora che approfondirle e chiarirle anche alla luce della influenza che il teorico ungherese ha continuato ad esercitare sul nostro; influenza che non poteva non riuscire contraddittoria e stridente se giustapposta a quegli inizi di discorso corretto in cui egli si era pur provato. La verità è che, anche dopo il 1960, Fortini ha continuato ad intrecciare tra loro ipotesi di lavoro e di ricerca quanto mai diverse; ed anche a non voler considerare le parti più caduche di quel suo libro, quelle che più danno verso il passato, non per questo un evidente equivoco di fondo cessa di serpeggiare pur tra le sue pagine più nuove e lucide. Tanto che egli può perfino giungere a mescolare a quelle sue prime considerazioni demistificanti, che è riuscito a far proprie nel corso mosso e drammatico di venti lunghi anni, il retaggio di ben più antiche proposte che ormai si consideravano sepolte in un passato equivoco e confuso. Ecco così riapparire nell’ultimo saggio sulle Istituzioni letterarie e progresso del regime, quasi spettro di altri tempi, il tema dell’‘autogestione’ «come linea di comportamento che in parte può rientrare nel sistema, in parte ne esorbita». E ancora una volta le conseguenze che se ne traggono risultano drammaticamente protese a restituire al regno della parola quella stessa consistenza del prosaico mondo della prassi che pur lo stesso Fortini sembrava avergli negato:
E, più semplicemente e immediatamente, c’è anche da proporre e da attuare, con apparente modestia, la costruzione di modelli di ricerche, di studi, di scritture saggistiche o critiche, di gestione di istituzioni letterarie; non in concorrenza con quelle esistenti ma come una tra le innumerevoli forme di partecipazione al ‘movimento reale che abolisce lo stato di cose presente’, cioè alla generale azione politica per il comunismo.
Ebbene noi siamo convinti che all’origine di tutto ciò è ancora una volta l’insegnamento del maestro di un tempo – anche se non più solo ed assoluto – magari depurato di quelle scorie più impure cui del resto neppure il primo Fortini si era troppo facilmente concesso ed abbandonato. Ma ciò che indubbiamente rimane, pur nella precarietà e nella miseria dell’ora presente, sono quelle sue più generali proposte umanistiche, quella tensione prospettica verso il ‘dove’ dell’uomo alla luce della ‘concezione del mondo’, che si è fatta vieppiù difficile e precaria, che è ormai il frutto di una conquista e di una riconquista quotidiane, ma che è pur sempre riaffermata in tutta la sua necessità. Così come permane una certa idea e una certa ‘funzione’ della critica o il sempre ribadito nesso arte-vita, ora presente in tutta l’immediatezza provocatoria di un tempo, ora magari più sfumato ed incerto e come purificato dalla lettura del giovane Lukács.
Non è certo sfuggito il tono accorato e nostalgico con cui Fortini continua a rincorrere quell’immagine del critico-saggista,
una figura del critico che è di un’alta tradizione: il critico come il diverso dallo specialista, come colui che discorre sui rapporti reali fra gli uomini, la società e la storia loro, a proposito e in occasione della metafora di quei rapporti, che le opere letterarie sono.
Accanto alla consapevolezza che «gli anni recenti l’hanno resa quasi incredibile», conflittualmente s’accampa la olimpica e caparbia certezza che quell’immagine proposta seguiti ad essere giusta. Su tale certezza appunto è costruito l’intero saggio che dà il titolo al volume e che è del 1960. Non a caso Lukács vi regna sovrano ed ancora una volta vi ritorna quel suo lontano scritto del 1939, Lo scrittore e il critico, che già avevamo avuto occasione di individuare come una delle letture più attente e costanti di taluni intellettuali italiani. Anzi la scrittura critica vi diventa l’unica forma di mediazione ormai possibile, l’unica veramente indispensabile e anche la più responsabile, visto che essa viene ad essere presente in tutti i giunti della produzione e della circolazione culturale: «Esercitare la critica, svolgere il discorso critico vuol dire allora poter parlare di tutto a proposito di una concreta e determinata occasione», vuol dire «compiere scelte, individuare argomenti, costruire discorsi, impiegare linguaggi che siano scelte, argomenti, discorsi e linguaggi tendenzialmente augurabili ad una società nella quale ‘il libero sviluppo di ciascuno condizioni il libero sviluppo di tutti’». Ma in Verifica dei poteri sono anche presenti i primi accenni che in seguito potranno assicurare la fusione con i risultati dell’Anima e le forme: così quelli a Goldmann e al concetto di ‘struttura dinamica significante’ come la ‘forma’ stessa e la ‘funzione’ del saggio. Accenni che si svilupperanno poi tanto nell’Introduzione all’opera giovanile di Lukács (Milano 1963) quanto, e soprattutto, in quella terza parte del Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo (1964-65), che così fastidiosamente riesce stridente rispetto alle lucide analisi contenute nelle prime due: riprova quest’ultima, se ancora ne occorressero, di quanto radicata rimanga in Fortini la voluta ambiguità del discorso di fondo, tanto da costituire l’equivoca e duplice matrice all’interno di una stessa esemplificazione saggistica. La fusione lukacsiana è naturalmente consumata nell’unica direzione possibile e pagando l’unico prezzo possibile: essa anziché fungere da conferma della enorme distanza intercorrente tra le due fasi dell’attività dell’intellettuale ungherese, si preferisce, sulla scorta di talune affermazioni di Thomas Müntzer, raccorciarla, magari in modo velato ed indiretto. Anziché ricavare dall’Anima e le forme la conferma almeno correttamente borghese della fine ultima del proprio discorso, la conferma di quelle analisi tragiche ma lucide che lo stesso Fortini ha talora mostrato di essere in grado di condurre, si preferisce andare a cercarvi precedenti di ironici e saggistici rifiuti alla ‘morte’, di mediazioni e di estremismi che, sotto altre spoglie, ritornerebbero anche nel Lukács maturo: ennesimo esempio di una lettura prospettica e conciliatrice.
La verità è che non si vuole ‘morire’, anche quando ci si è approssimati, più di quanto altri fossero stati in grado di fare, alla consapevolezza e alla irresolubilità di quella morte, che è indispensabile proprio ai fini del ‘movimento reale che abolisce lo stato di cose presente’. Ed ecco allora che la ricorrente ‘autogestione’ degli istituti letterari può assumere una nuova ‘maschera’: essa è impossibile, al limite, senza una trasformazione della società circostante, ma è pur sempre valida come proposta pratica e politica del sindacato della cultura, giacché anche dopo la fine del ‘mandato sociale’ gli intellettuali non mancano certo di ‘civica attività possibile’. Una volta constatato che «la classe operaia è coatta all’impiego pratico della propria vita, al principio di prestazione, al lavoro immediatamente utile», se è vero che, «in quanto essa sia classe rivoluzionaria ossia ‘vera’ negazione, opera oggettivamente ad abolire la ‘informalità’ della propria esistenza e dell’esistenza in genere: quindi a ‘formalizzare’ la vita», non dimentichiamo neppure che «l’opera d’arte e di poesia non è (ma questo è tutto il suo onore) se non la profezia metaforica o la metafora profetica di quella formalizzazione». Ecco perché, in ultima analisi, «l’uso letterario della lingua è omologo a quell’uso formale della vita che è il fine e la fine del comunismo», ed ecco perché «rimane campo vastissimo […] al discorso letterario, alla sua utilità».
Non si può sfuggire al sospetto che il Lukács giovane sia solo servito, dopo la drammatica constatazione della fine del mandato sociale, a rendere più sottile e rarefatta, più ‘ermetica’ se si vuole, ma non per questo meno ostinata e fideistica, l’illusione di sempre: che insomma la prassi non sia una cosa diversa dal ‘sogno di una cosa’, da quella ‘facoltà formatrice sulla vita che è appunto il proprio delle opere d’arte’. L’onore del poeta è salvo. Si perpetua ancora una volta la certezza, che è di Fortini come era stata di Lukács e di tutta la tradizione umanistica, che il poeta ‘porti la spada’ per il mondo e proprio in quanto poeta agisca; ritorna l’illusione dell’incidenza della parola ai fini della lotta dell’oggi e ai fini di quell’anticipazione del ‘dove’ dell’uomo, che è sua da sempre: utopia e prospettiva quindi. Naturalmente ora che i due piani del presente e del futuro sembrano irrimediabilmente o temporaneamente allontanati, la parola diviene sempre più sfumata e profetica, lieve ed appena allusiva; essa torna ad essere speranza o, se si preferisce, fede ultima. Ecco perché perfino i dubbi e gli interrogativi possono diventare gli stessi:
L’interrogativo sulla possibilità di star commettendo un errore di metodo critico, di poetica e finalmente di vita, fa tutt’uno con quello (che ha sempre perseguito i migliori politici dell’opposizione rivoluzionaria) sul possibile errore di metodo nell’intento di ‘trasformare il mondo’.
E che il ritmo binario ed ambiguo scelto da Fortini non sia dovuto al caso né ad un temporaneo offuscamento, ed invece costituisca quella paradossale costante che ormai è la sua, lo dimostrano anche i suoi ultimi scritti. Così egli ha ragione quando dà vita a quella sua bella e suggestiva ricostruzione storica dell’avanguardia e della neo-avanguardia, la più concisa e rapida, ma anche la più incisiva e corretta nel mare magnum di carte, saggi e volumi che sull’argomento in questi ultimi anni ci hanno sommerso fino a toglierci il respiro. Ma al contempo ha anche ragione Tito Perlini – ma solo in questo ha ragione – quando nota che in realtà Fortini non è riuscito e non ha voluto mantenersi aderente a questa sua radicale impostazione per quanto riguarda il modo stesso di sentire, di valutare e di ‘praticare’ la poesia: il suo presentarsi come forma, appunto, che è in grado di sottrarsi al mondo della necessità e della casualità e di ribadire la libertà di un ‘dove’ che fonda il ‘donde’. Egli continua così ad oscillare «tra la fedeltà alla poesia come anticipazione ideale ed una radicale svalutazione delle speranze e illusioni che minano alla base una simile concezione in una società a capitalismo organizzato in cui la mercificazione tende a farsi totale»; ciò gli permette di consumare l’equivoco ultimo e la lacerazione – che ormai non può più tuttavia apparire ‘tragica’ per la sua caparbia quanto monotona reiterazione – «tra un attaccamento ostinato ai valori che si esprimono nell’arte come affermazione dell’assente e l’opposta tendenza a liquidare tale fedeltà come un residuo mitologico, una ostinata illusione di cui urge sbarazzarsi in nome di una visione radicalmente demistificata che miri a risolvere in prassi». Residuo mitologico ed illusione che sono poi anche di Perlini.
Né ci sembra convincente e decisiva la recente replica di Franco Fortini. O meglio essa lo è soltanto nella misura in cui conferma e ribadisce i risultati del suo saggio – e in ciò egli ha ancora una volta pagine felici e certo all’altezza delle sue migliori. Per il resto sono cose che già conosciamo e di cui abbiamo già parlato in questo nostro scritto. Qui, come nel saggio e nella stessa nota di Perlini, si fa un gran parlare di Lukács, e non solo di quello ‘giovane’ ma anche dell’autore de La distruzione della ragione; vi ritorna insistentemente ancora una volta, come ha avvertito lo stesso Fortini, «la vecchia (anzi millenaria, direbbe l’immancabile imbecille) voce di Lukács». Ultimo esempio, almeno al momento attuale, delle tante polemiche che si sono incrociate sulla testa e sui testi del teorico ungherese. Come abbiamo visto, esse hanno accompagnato, commentato e chiosato un ventennio ed oltre di cultura italiana, tornando a scandirne le tappe fondamentali e le svolte decisive, costituendone infine una delle componenti primarie così nelle ‘miserie’ come – talora e di rado – negli ‘splendori’. E quel che è peggio, tali polemiche hanno indebitamente accompagnato anche un ventennio ed oltre di storia del movimento operaio italiano con le conseguenze che ormai tutti conosciamo. Mentre ci si azzuffava sui valori e sui principi primi, si permetteva la restaurazione neocapitalistica senza nemmeno tentare (o se ciò è stato fatto ne sono noti i risultati) di fornire una risposta che non fosse più intellettuale, ma politica e realmente alternativa a quelle articolate dalle dirigenze riformiste dei partiti, che costituivano ormai il diverso, l’altro, se non perfino l’opposto della classe. Si trattava di un discorso difficile, certo; solo che oggi non si può più continuare ad interrogarci sul ‘perché’ non lo si è fatto. E se comunque può risultare più o meno giusto il rimprovero per non averlo condotto realmente, non si può davvero pretendere l’assoluzione completa o la giustificazione per non averlo neppure tentato.
Ed è per questo che nel ripetere che negli ultimi venti anni in Italia si è fatto un gran parlare di Lukács, troppo forse, lo facciamo con la consapevolezza, ma anche con una punta d’orgoglio, che l’‘imbecille’ fortiniano fosse rivolto potenzialmente anche a noi.