di Costanzo Preve
«Primo Maggio» n. 16 1981-82
Queste brevi note sono dedicate alla segnalazione e alla sollecitazione a uno studio personale approfondito della fondamentale opera dell’ultimo Lukács, Ontologia dell’Essere Sociale, Editori Riuniti (due volumi in tre tomi, di cui il primo già pubblicato anni fa, L. 45.000). Lo scrivente, che considera la tendenza filosofica fondamentale e l’argomentazione teoretica di base di questo lavoro estremamente corretta e anzi illuminante per orizzontarsi nell’attuale congiuntura teorica mondiale, è peraltro tristemente consapevole, da un lato, della propria inadeguatezza soggettiva a cogliere appieno la pregnanza filosofica di questo capolavoro di passione teorica, e dall’altro lato, della quasi totale impossibilità oggettiva che nell’attuale situazione storico-politica italiana un lavoro del genere possa anche soltanto essere preso seriamente in considerazione.
Premesso questo, essendo «Primo Maggio» una rivista di storia del movimento operaio e di analisi e ricerca sulla «composizione di classe» una recensione di carattere genericamente filosofico potrebbe forse essere inappropriata. Ci si accosterà allora all’Ontologia con un’ottica consapevolmente limitata, tendente a discutere quasi esclusivamente il rapporto che crediamo possa intercorrere fra la problematica teorica che emerge dalla Ontologia stessa (la dialettica materialistica fra soggettività ed oggettività a cui il lavoro sociale dà luogo nel rapporto di produzione capitalistico) e l’attuale crisi del pensiero che mette al centro della sua riflessione la «composizione di classe». Non sì troverà qui dunque un riassunto del ricchissimo contenuto dell’Ontologia (da rinviare ad altra sede), ma soltanto una prima tematizzazione di questo rapporto, iniziando da alcune riflessioni sullo stato attuale del «pensiero della composizione di classe» per finire con alcune indicazioni sull’utilità della Ontologia per chi si sente impegnato a proseguire una riflessione sul nodo di problemi che un tempo connotava la «problematica operaista».
1. La tendenza teorica marxista che ha messo al centro dell’analisi del rapporto sociale capitalistico di produzione la problematica della «composizione di classe» ha raggiunto risultati rilevanti, in parte ormai consolidati sul piano storico e irreversibili su quello teorico. Il carattere globalmente positivo di questa tendenza teorica presenta inoltre un aspetto specificamente nazionale, italiano, e un aspetto internazionale, che formano in realtà un unico complesso teorico indissolubile, anche se possono essere meglio trattati separatamente, per comodità e chiarezza.
L’aspetto nazionale della rilevanza della scuola teorica della centralità della composizione di classe deve essere visto nel fatto che solo essa seppe di fatto porsi come alternativa globale allo storicismo togliattiano. Quest’ultimo non ebbe certo mai vera rilevanza teorica, essendo sempre più in fondo modellato sulle esigenze tattiche del «far politica» del «partito nuovo» e funzionando come ideologia della legittimazione di quest’ultimo e come «campo teorico» nel quale potevano anche giocare delle «mezze ali» (da Amendola a Ingrao). Lo storicismo fu comunque il medium della socializzazione intellettuale di intere generazioni di «oppositori politici» della DC, e di fatto agì come potente «ostacolo epistemologico» alla comprensione del ruolo specifico delle lotte operaie nello sviluppo capitalistico; quando fece uso del concetto di «composizione di classe» lo fece in modo statistico-positivistico, senza mai legare composizione tecnica e composizione politica nel loro rapporto con la lotta di classe. Opposizioni teoriche allo «storicismo marxista» ce ne furono certo molte (da Della Volpe a Luporini, da Colletti prima maniera a Geymonat), ma l’unica opposizione teorico-pratica fu di fatto storicamente soltanto la scuola della composizione di classe.
L’aspetto internazionale deve essere visto invece nel fatto che la scuola della «composizione di classe» seppe in un certo modo opporsi simultaneamente agli impianti teorici in apparente opposizione ma in realtà in segreta solidarietà antitetico-polare del «marxismo orientale» e del «marxismo occidentale», queste due grandi narrazioni «marxiste» rispettivamente della crescita delle forze produttive e dell’autocoscienza rivoluzionaria del soggetto-oggetto della storia idealtipicamente concepito, il proletariato astratlo in-sé-e-per-sé. Entrambe queste «grandi narrazioni» saltavano con palese fastidio le corpose specificità materiali dei comportamenti e delle culture delle concrete «composizioni di classe», la prima perché interessata esclusivamente alla manipolazione dei concreti comportamenti operai dentro la compatibilità del meccanismo politico del «socialismo reale», la seconda perché interessata alla concettualizzazione di forme pure e astrattamente perfette di comportamento rivoluzionario «veramente» comunista. La teoria della composizione di classe si sporcava invece le mani con la forza-lavoro come capitale variabile e nello stesso tempo come limite logico-storico del capitale, incurante della Grande Narrazione della Classe Operaia come principale forza produttiva (marxismo orientale) o come soggetto-oggetto unico della storia che raggiunge l’autocoscienza finale di essere tale (marxismo occidentale).
Consapevole della propria novità teorica, e inebriata dei suoi successi, la teoria della composizione di classe fece molto precocemente lo sciagurato «passetto in avanti» che l’avrebbe patologicamente trasformata in una forma di gentilianesimo operaio (1’«operaismo», appunto), per il quale lo stesso rapporto di produzione capitalistico è posto (e dunque, a rigore, è revocabile, come in ogni idealismo che si rispetti) dalla attività «classista» della composizione di classe stessa, che si tratta volta per volta di definire nella sue forme fenomeniche (dalla «autonomia del politico» alla pratica autovalorizzante del desiderio). L’acclimatarsi rigoglioso di questo «gentilianesimo operaio» è certo facilmente spiegabile in termini di continuità storica del ceto intellettuale italiano, analogamente alla continuità storica delle strutture statuali dal fascismo alla democrazia cristiana. Ma non è questo l’essenziale, e anzi una analisi in termini di mera sociologia degli intellettuali potrebbe portarci fuori strada. La questione di fondo risiede nel fatto che in effetti la teoria della composizione di classe, così come è stata di fatto finora praticata, si trova strutturalmente in bilico fra due crepacci teorici e pratici. Da un lato, non può e non deve regredire, in modo esplicito o silenzioso agli impianti concettuali dello storicismo italiota, del materialismo dialettico orientale o del marxismo filosofico occidentale, pena la perdita secca e immediata di tutte le conquiste teoriche faticosamente realizzate. Dall’altro lato, la continua immanente tentazione strutturale di trasformare l’attività generica della composizione di classe in un demiurgo onnipotente del rapporto sociale di capitale la porta facilmente a confluire (come ramo e affluente apparentemente «di sinistra» e «operaio») in quel grande mare di pensiero soggettivistico e irrazionalistico che ha mutuato oggi dalla storia dell’architettura il nome di «pensiero post-moderno», in cui, consegnato il lavoro sociale e la riproduzione materiale alle macchine, i soggetti si aggirano fra simulazioni simboliche mimando un comunismo psichedelico fra le macchinette elettroniche. Molti indizi permettono di affermare che a questo si è già da tempo arrivati. La filosofia accademica italiana usa già il concetto di «composizione di classe» come legittimazione pseudo-materiale e referente/destinatario della propria lettura soggettivistico-irrazionalistica dei rapporti sociali. Il massimo esponente dell’operaismo legittima con la propria personale interpretazione della composizione di classe la sparizione completa del nesso che lega dialettica, lavoro sociale e memoria storica, fondando il «comunismo» proprio sulla radicale assenza di memoria storica, vista quest’ultima (in modo pseudonicciano) come nemica dell’erompere del desiderio liberatore. Infine la scuola della «autonomia del politico» (uno dei fenomeni più ipocriti e reazionari della storia – peraltro non brillante – della cultura politica italiana) ha già da tempo abbandonato ogni riflessione materialistica sulla teoria della composizione di classe per i giochi di simulazione politologici conditi con una sorta di misticismo filosofico a metà fra esistenzialismo e neo-positivismo.
In tutti e tre i casi segnalati (ma se ne potrebbero fare altri) c’è un denominatore filosofico comune: il rifiuto radicale di una considerazione ontologica della specificità dell’essere sociale, il sorriso di scherno verso ogni tentativo di riconsiderazione materialistica della teoria del valore, e soprattutto la volatizzazione del ruolo cardine del lavoro sociale nella riproduzione dei rapporti sociali. Si fa uso letteralmente di tutto quello che offre il mercato filosofico internazionale, in un bricolage frenetico che offre l’apparenza di una grande varietà e anticonformismo di superficie, combinando insieme Baudrillard e Heidegger, Luhmann e Lyotard, Wittgenstein e Foucault. Non bisogna però farsi trarre in inganno dall’effetto di diversità da supermercato. Questi materiali tecnici apparentemente eterogenei si combinano in realtà in un «sistema teorico» ferreo e chiuso assai più di quello hegeliano. Questo sistema teorico ruota intorno all’idea-forza della sparizione della centralità del lavoro sociale alienato come chiave ermeneutica fondamentale per la comprensione dei rapporti di classe. La risoggettivizzazione esistenzialistica che ovviamente ne consegue deve però adattarsi all’epoca della «tecnica» in cui viviamo, con conseguente adozione di tutta la concettualizzazione neo-positivistica del lavoro capitalistico diviso, dalle scienze della natura alle scienze sociali. L’effetto finale è una «virile» e «disincantata» ermeneutica della manipolazione, che può essere maxweberianameme accettata come «gabbia d’acciaio» o heideggerianamente messa in discussione come «destino della metafisica occidentale» (ed è ovvio che questo seconda versione è molto più simpatica della prima), ma che è comunque interpretata come «falsificazione definitiva» del materialismo storico e della critica dell’economia politica. Coloro stessi che mantengono l’aspirazione al «comunismo» come valore lo fanno ormai in modo del tutto staccato dalle legalità ontologiche strutturali che il mondo dell’essere sociale presenta. In questa situazione l’Ontologia di Lukács si pone a un tempo come radicalmente «inattuale» (di fronte alle tendenze filosofiche che appaiono maggioritarie oggi) e sorprendentemente «attuale» nell’indicare gli elementi teorici generali per un superamento in avanti dell’impasse concettuale in cui ci troviamo, e in cui si trova ovviamente anche ciò che resta di razionale e di progressivo nella teoria della composizione di classe.
2. Il termine Ontologia dell’Essere Sociale non è affatto «vecchio» e obsoleto come potrebbe sembrare al lettore distratto. Tutt’altro. In primo luogo, il termine «ontologia» deve essere inteso nel contesto di un indirizzo polemico verso la «tendenza gnoseologica» della filosofia borghese contemporanea (Lukács parla anche talvolta di ontologia come di intentio recto e di gnoseologia come di intentio obliqua, in un’accezione che peraltro non ha nulla a che fare con la «teoria del rispecchiamento» ingenua del Diamat sovietico, ma che incorpora nella nozione di intentio recto la distinzione dialettica fra essenza e fenomeno). In un primo tempo questa tendenza gnoseologica era legata al compromesso fra borghesia e religione (il «compromesso bellarminiamo») in cui il pensiero borghese legato allo sviluppo della scienza e della tecnica riceveva il semaforo verde per il suo libero procedere nella incorporazione capitalistica del sapere scientifico mentre in cambio accettava di non dare una interpretazione materialistica generale alla totalità dinamica del sapere scientifico in continua crescita. In un secondo tempo, caduta ogni pretesa di residua «verità ontologica» dei dogmi religiosi, e ridotto il bisogno religioso a categoria esistenzialistico-psicologistica atta a «dare un senso» all’universo sociale capitalistico che in quanto tale non ne ha nessuno, la tendenza gnoseologica diventa apertamente sofistica accademica estenuata, da un lato, e teoria generale dell’uso manipolatore delle scienze sociali come «ingegneria capitalistica», dall’altro. In secondo luogo, il termine «ontologia dell’essere sociale» deve essere inteso nel contesto di una polemica esplicita con il «marxismo orientate», l’ideologia statale di legittimazione dei paesi a «socialismo reale» che, in qualità di «marxismo monopolistico di stato», sancisce pseudoscientificamente l’inesorabilità storica del «meccanismo unico» di politica, economia e ideologia che sincronizza insieme stato, partito e sindacato come caso particolare dell’applicazione alla società umana delle leggi generali «dialettiche» della natura e della storia. Il «marxismo orientale», questa grande narrazione feticistica delle forze produttive, è costantemente e dettagliatamente individuato nell’opera di Lukács come scolastica della manipolazione, naturalizzazione unidimensionale della storia umano-sociale e ideologia del potere.
È proprio in quanto il dispotismo burocratico del «socialismo reale» violenta sistematicamente e strutturalmente il carattere specificatamente «ontologico» dell’agire sociale umano in ciò che appunto lo differenzia dai complessi inorganici e organici del mondo naturale che lo stesso termine di «ontologia dell’essere sociale» è automaticamente in opposizione frontale con il marxismo sovietico. In terzo luogo, il termine «ontologia dell’essere sociale» deve essere inteso nel contesto di una polemica esplicita contro ogni tentativo (spesso perseguito in modo soggettivamente onesto e ricco di intelligenza) di opporsi al «marxismo orientale» in nome di un «marxismo occidentale» il quale, riprendendo posizioni del giovane Lukács o di Karl Korsch, lavora sull’ipotesi di una concezione idealistica di proletariato come coincidenza di soggetto e di oggetto caratterizzante proprio l’essere sociale capitalistico rispetto ai modi di produzione precapitalistici. Il «marxismo occidentale», questa grande narrazione idealistico-esistenzialistica del soggetto rivoluzionario, è costantemente e dettagliatamente individuato nell’opera di Lukács come risposta ontologica a una falsa ontologia (il Diamat), cioè come risposta soggettivistica impotente alla manipolazione pseudooggettivistica dell’universo sociale (si pensi all’opposizione di Sartre al marxismo sovietico, s’intende non dal punto di vista della sua legittimità politica – sacrosanta – quanto dal punto di vista della sua capacità teoretica di superare realmente lo stalinismo). In quarto luogo, il termine «ontologia dell’essere sociale» deve essere inteso programmaticamente come riaffermazione dell’unità inscindibile fra materialismo dialettico e materialismo storico, non certo nel senso della individuazione delle «leggi sociali» come caso particolare, applicato al sociale, delle «leggi dialettiche» del mondo naturale (si è già visto come questa non sia altro che l’ideologia della legittimazione dell’odierno «socialismo reale»), quanto nel senso della inseparabilità di principio fra ideologia e scienza, fra filosofia e conoscenza scientifica, fra forma e contenuto.
Come si vede, si sono qui elencate almeno quattro buone ragioni per motivare la scottante attualità di questo «titolo», apparentemente così obsoleto e «fuori moda». E tuttavia, siamo rimasti ancora a monte del discorso di fondo da fare che ci permetterà di cogliere il nucleo teorico della proposta ontologica di Lukács, fondata sull’isolamento metodologico della categoria di lavoro come posizione teleologica, da un lato, e come modello di prassi sociale, dall’altro lato. La scelta metodologica «strategica» della categoria ontologica del lavoro non ha ovviamente nulla a che vedere né con l’apologetica lavoristica delle mani callose, del sudore della fronte e del lavoro «produttivo» (Lukács non è Kim II Sung, e neppure Lin Piao – qui non c’è nessun Yu Kong che rimosse le montagne né tantomeno Robinson Crusoé che costruisce il «capitalismo in una sola isola») né con una teoria generale del lavoro «creatore» (già individuata come teoria borghese nel Marx della Critica al Programma di Gotha). Tutto al contrario. Il lavoro è la «categoria ontologica centrale», la Urform della prassi umana, perché è in virtù delle sue caratteristiche e in particolare del suo carattere teleologico che l’Essere Sociale si costituisce nella sua originalità, nella sua differenza qualitativa rispetto alla sfera della natura organica e inorganica. L’attività lavorativa consiste nella «posizione di uno scopo all’interno dell’essere materiale» e la sua realizzazione come risultato adeguato, ideato, voluto, rappresenta la formazione di una nuova oggettività. Mentre tutta la filosofia tradizionale, da Aristotele a Hegel, mette aporeticamente in antitesi teleologia e causalità, nel lavoro – sostiene Lukács – la teleologia appare come categoria specifica della prassi sociale, ma all’interno del mondo causalmente determinato. Si tratta di una «concreta, reale, necessaria coesistenza» di causalità e teleologia, nell’ambito della quale la causalità si trasforma, per opera della teleologia in «qualcosa di posto», ne assume cioè il carattere fondamentale che consiste nel richiedere un «autore consapevole», una «coscienza che ponga degli scopi». L’atto del «porre» ha dunque, nella visione lucacciana, un «carattere ontologico insuperabile» in virtù del quale la coscienza umana cessa di essere un epifenomeno e dà impulso alla trasformazione e innovazione della natura.
A questo punto, siamo già in grado di fare due osservazioni. In primo luogo, la delucidazione ontologica del rapporto fra causalità e teleologia condotta da Lukács permette di prendere posizione nei confronti della posizione teorica che ha in Lucio Colletti il principale sostenitore, posizione che liquida integralmente come «metafisico» tutto il complesso teorico marxiano, viziato secondo Colletti di «dialettismo teleologico» e opposto alla «causalità scientifica» delle scienze della natura. Nelle parti della sua opera dedicate a Hegel, Lukács chiarisce invece come sia proprio nella polemica contro l’assorbimento metafisico della causalità nella teleologia (e inversamente nell’assorbimento della teleologia nella causalità) che il concetto marxiano di lavoro si demarca nettamente da quello hegeliano, con il quale rompe proprio su questo punto. È noto che l’automatismo teleologico che mette la dialettica al di sopra e fuori dei complessi di posizioni teleologiche dei singoli e dei gruppi umani concretamente definiti dentro le possibilità storiche determinate dai rapporti sociali di produzione (e ovviamente dalla loro rivoluzionarizzazione cosciente) finisce con l’avallare o una vera e propria «teoria del crollo» o quanto meno una ancora più ambigua e teoricamente pericolosa «idea generica di crollo». Le posizioni teoriche di Colletti (e si vedano, a un maggior livello di serietà, le posizioni di Bedeschi, e, a un livello più folkloristico e da rotocalco, quelle di Pellicani e Settembrini) sono rivolte a liquidare la nozione classico-marxiana del rapporto fra causalità e teleologia insieme con la posizione volgar-marxista. Tutto il lavoro di Lukács è una risposta preventiva e esauriente a questo episodio italiano di quel grande fenomeno filosofico «imperialistico» che è stato nel secondo dopoguerra il pensiero di Sir Karl Popper, il cui rapporto con il Diamat è simile a quello dei duellanti nei pupi siciliani: combattono con grandi urli e sfide, ma hanno bisogno l’uno dell’altro.
In secondo luogo, e ciò è ancora più importante, la delucidazione metodologica lucacciana del rapporto fra causalità e teleologia finisce inevitabilmente con l’incontrare l’analoga problematica che nel linguaggio di Heiddeger si chiama rapporto fra destino storico del mondo occidentale e progettualità soggettiva dentro questa destinalità. Sempre più appare infatti chiaro che il punto di tangenza fra Heidegger e il marxismo non sta (come si è a lungo creduto) nella opposizione piccolo-borghese del vivere-per-la-morte all’ottimismo proletario del vivere-per-la-rivoluzione, quanto piuttosto nella spietata (e corretta) diagnosi negativa heideggeriana del marxismo come culmine soggettivistico della metafisica occidentale in cui l’umanesimo prometeico del lavoro è soltanto posto a livello della totalità, ma non messo in questione.
E tuttavia, quale differenza fra Lukács e Heidegger! Il passeggiatore solitario della Foresta Nera coglie certo in modo profondo e acuto la struttura teorica portante della metafisica occidentale (parola che è anche una metafora per indicare il destino del mondo borghese capitalistico diventato da «occidentale» una società «mondiale») e la coglie in modo molto più profondo, a esempio, dei «francofortesi». Tuttavia in lui permane irrisolto il rapporto fra differenza ontologica e struttura dialettica dei comportamenti umani e delle posizioni teleologiche, con finale svalutazione dell’agire politico e invito all’ascolto dell’Essere. In Lukács invece una analoga posizione di svalutazione dell’umanesimo prometeico del lavoro (nel suo linguaggio: soggettivismo settario e manipolazione staliniana) mantiene però aperta la possibilità di esiti alternativi e non manipolatori delle posizioni teleologiche legate al lavoro stesso. Ci sta qui indubbiamente una nozione più corretta di dialettica.
Le due osservazioni fatte sopra ci permettono dunque di capire che il progetto teorico dell’Ontologia non ha nulla a che vedere, da un lato, con l’automatismo dialettico-teleologico imputato pretestuosamente da Colletti a tutto il pensiero marxiano e che è in grado di opporsi seriamente, dall’altro, agli esiti antidialettici che coronano la spietata (e, ripetiamo, fondamentalmente giusta) diagnosi di Heidegger sull’umanesimo/economicismo come coronamento finale, segretamente e paradossalmente nicciano, della metafisica occidentale. Tutto questo non è poco. Tornando alla «teoria della composizione di classe» vediamo infatti che essa, avendo sempre disprezzato la filosofia e facendosene un vanto, è scivolata (così come i famosi «scienziati praticoni» contro i quali polemizzava il vecchio Engels) verso le peggiori filosofie che il mercato delle idee offriva: gentilianesimo attivistico e demiurgico, niccianesimo straccione della «rude razza pagana», teoria dei rizomi e delle macchine desideranti, autovalorizzazioni proletarie e mitizzazione politologica del comando.
Tutto questo era in una certa misura inevitabile. La teoria della composizione di classe doveva rompere, per costituirsi autonomamente come tale, con quelle forme di pseudo-teologismo pretestuoso e ideologico per il quale la «classe operaia» era una sorta di ideal-tipo progettuale che doveva sempre «farsi carico delle superiori esigenze della comunità nazionale», in vista, ovviamente, di una sorta di modello di capitalismo keynesiano e/o di socialismo reale. Se questo era il «fine», era inevitabile concludere con lo slogan: abbasso il regno dei fini! Ed è interessante che la polemica contro il regno dei fini di neokantiana e socialdemocratica memoria coincidesse con un «vogliamo tutto!» che dovrà un giorno essere analizzato come paradigma delle grandezze e delle miserie del Sessantotto.
Il carattere ontologico del concetto lucacciano di posizione teleologica non ha ovviamente nulla a che vedere con il socialismo neo-kantiano del «regno dei fini» da approssimare con la popperiana «ingegneria sociale e spizzico». È infondato dunque il timore di chi può pensare che si voglia ritornare a una concezione finalistica e ideal-tipica della classe operaia che abolisca quella materialistica e strutturale della teoria della composizione di classe. Lo impedirebbe lo stesso approccio ontologico lucacciano.
La scuola della composizione di classe dovrà invece prima o poi fare chiarezza al suo interno sul suo atteggiamento verso la teoria marxiana del valore. È noto che la composizione staliniana della presunta «legge del valore-lavoro» ha fatto cadere in discredito l’intera concettualizzazione marxiana del valore, debolmente difesa da chi pensava di cavarsela riducendo il «valore» a semplice metafora della «alienazione» o del «mondo-a-testa-in-giù» del Colletti prima della abiura. Nella Ontologia la teoria del valore è ampiamente trattata in termini non dissimili da quelli che caratterizzano in Italia scuole marxiste come quella di Gianfranco La Grassa. Conformemente al carattere filosofico dell’opera non si è di fronte a un approccio tecnico ai primi problemi economici della teoria del valore, quanto invece a una trattazione ontologica generale che connette l’«astrazione reale» del valore con la specificità del modo di produzione capitalistico (e su questo Lukács è sufficiente chiaro).
Tutti sanno che la tendenza teorica immanente alla teoria della composizione di classe conduce (almeno nella forma che fino a ora conosciamo) all’abbandono, implicito o esplicito, della teoria del valore. Nessun anatema, nessuna scomunica, nessun peccato mortale: tutto deve essere discusso, tutto deve essere preso in considerazione. Tuttavia sarebbe assurdo chiudere gli occhi di fronte agli esiti di questo abbandono: soggettivizzazione integrale di tutta la sfera dell’agire sociale, opposizione polare dell’insorgere ribellistico della classe contro il comando dispotico del capitale più o meno «socialista», esercizi politologici in bilico fra lo «scambio politico» e le nostalgie cromwelliane di una volontà stracciona di potenza. Vi è qui un campo di riflessione per tutti i sostenitori della teoria della composizione di classe.
3. L’unità armonicamente flessibile del nucleo teorico di base dell’Ontologia offre uno stridente contrasto con la disarticolazione del pensiero marxista italiano dell’ultimo ventennio. Quest’ultimo è stato caratterizzato, in economia, dalla ricezione neo-ricardiana della cosiddetta «scuola di Modena» e dalla estenuante e sterile scolastica sraffiana; in politica, dalle velleitarie manipolazioni politologiche delle varianti della scuola della autonomia del politico; in filosofia, dal bricolage soggettivistico dei temi più disparati mutuati da praticamente tutte le scuole filosofiche del Novecento. Non si tratta qui soltanto dell’opportunismo degli intellettuali italiani «mercuriali e frettolosi» (la stupenda definizione è di Sergio Bologna), necessitati per ragioni accademiche a versare il loro «sapere marxista» nelle compartimentazioni universitarie legalmente riconosciute. Questo fatto certo esiste, e rende impossibile lo scrivere la storia del marxismo italiano degli ultimi tempi, in cui non c’è più il carcerato Gramsci, l’ingegner Bordiga, eccetera, ma solo le scadenze dei concorsi universitari. Tuttavia non è certo questo l’elemento essenziale. La disarticolazione accademica del marxismo italiano è invece da ricondurre (a parere dello scrivente) alla debolezza strategica anticapitalistica del referente sociale fondamentale, la composizione di classe caratterizzata dalla dominanza dell’operaio-massa e dalla nuova piccola borghesia «effimera»; questa composizione di classe si è rivelata capace di dare poderose spallate e di sapere mettere la sabbia negli ingranaggi della riproduzione, ma non di conseguire vittorie strategiche sul piano politico.
Giusto o sbagliato che sia questo giudizio (che certo molti lettori rifiuteranno con indignazione e fastidio), resta in tutta la sua interezza il contrasto fra l’unità teorica dell’Ontologia e la disarticolazione del mercato italiano delle idee. Si presti molta attenzione al fatto che l’opera dì Lukács si intitola Ontologia dell’Essere Sociale, e non ardisce esplicitamente intitolarsi Ontologia del Capitalismo Contemporaneo oppure Ontologia del Socialismo Reale. Lukács infatti da un lato è consapevole dello stato di assoluta inadeguatezza dell’attuale teoria marxista nei confronti di una analisi scientifica sia del capitalismo occidentale sia del socialismo reale, e ritiene correttamente dall’altro che un lavoro filosofico-ontologico si esercita su un materiale che sta a monte di una analisi concreta e specifica, che è cosa ben diversa. E tuttavia l’«essere sociale» è una evidente metafora sia del capitalismo sia del socialismo reale, che vengono correttamente posti insieme in quella che nel linguaggio più formalizzato di Ernst Bloch si chiamerebbe «unità avvolgente dell’epoca» e nel linguaggio più formalizzato di Charles Bettelheim si chiamerebbe «comune dominanza del modo di produzione capitalistico».
È questo un punto di importanza strategica. La separazione di principio fra capitalismo occidentale post-keynesiano, da un lato, e socialismo reale post-staliniano, dall’altro, si manifesta oggi in molte forme. E tuttavia soltanto la piena consapevolezza della loro reale unità ontologica, proprio partendo apparentemente «alla lontana» (dal lavoro e dalla riproduzione, dalla ideologia e dalla estraneazione), può permettere di porre le condizioni preliminari per uscire dalla presente impasse teorica. Da questo punto di vista poco conta che nelle sue dichiarazioni giornalistiche Lukács (a differenza di Ernst Bloch) abbia ripetutamente sostenuto che il «peggior socialismo è migliore del migliore capitalismo», avallando così la separazione di principio fra il mondo sociale dei paesi dell’Ovest e dei paesi dell’Est. Conta invece molto di più il fatto che nella sua opera filosofica fondamentale (da questa – e non dalle dichiarazioni giornalistiche – occorre giudicare un filosofo) Lukács non porta affatto acqua al mulino della tesi di una separazione ontologica di principio fra l’agire sociale e le posizioni teleologiche possibili a Est e a Ovest, quanto invece al contrario sostiene organicamente la tesi dell’unità estraniata dell’universo sociale attuale, ad Est come ad Ovest.
Vi è qui un punto di grande importanza per la teoria della composizione di classe. Anch’essa infatti oppone un rifiuto di principio alla trattazione differenziata dell’azione della classe operaia nei paesi in cui ufficialmente la classe operaia stessa è «al potere» e nei paesi in cui essa è invece ancora ufficialmente «forza-lavoro». Anzi, punto forte della teoria della composizione di classe è l’unità metodologica nella trattazione delle lotte in URSS e negli USA, in Italia e in Polonia, in Francia e in Ungheria. Come si vede, vi è qui un punto di tangenza con la problematica teorica lucacciana di grande importanza teorica e pratica.
Qui si vorrebbe mettere provvisoriamente il punto finale. Inutile infatti è recriminare ancora sugli esiti irrazionalistici e soggettivistici di un Tronti o di un Negri, di un Vattimo o di un Cacciari. Basta. Quello che c’era da dire, sul versante critico-negativo, è già stato grosso modo detto. Ora bisogna andare avanti, passare all’elaborazione in positivo e alla produzione di nuove conoscenze. Queste ultime non verranno presto, e certamente non verranno «a comando» e «su commissione». Non spetta neppure a un’opera di filosofia il farlo, in quanto essa riflette soltanto sulle condizioni metodologiche che rendono possibile l’avanzamento reale della conoscenza. Il ringraziamento che dobbiamo a Lukács è il ringraziamento a chi, in un momento oscuro, ci esorta a «non disperare» sui destini storici delle nostre convinzioni non solo con un generico appello alla «speranza» (si pensi all’ultimo Sartre) ma anche e soprattutto con la razionalità convincente di una analisi dialettica della ontologia dell’essere sociale.