Lukács: ritorno al concreto

di György Lukács

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.

Intervista concessa a Naïm Kattan e pubblicata nella “Quinzaine Littéraire”, 1/15 dicembre 1966 con il titolo “Lukács: revenir an concret”. Tradotta e pubblicata in italiano da “L’Espresso”, n. 2, gennaio 1967, p. 11 con il titolo “Lo scrittore a piede libero”, senza indicazione del traduttore.


L’appartamento di Lukács è all’ultimo piano di un edificio che si affaccia sul Danubio. Le pareti sono tappezzate di libri. Guardo a caso: opere complete di Hegel e di Marx. Sulla scrivania, altri libri, riviste in ungherese, in tedesco, in francese. È qui, che da dieci anni, Lukács prosegue nel suo lavoro.

Si sa che fu Ministro della Cultura nel governo di Imre Nagy. Dopo che la rivoluzione ungherese fu schiacciata, Lukács visse alcuni mesi, in un esilio volontario, in Romania. Dal suo ritorno, si è imposto il compito di terminare la sua “summa” filosofica. Un primo volume di più di mille pagine è già stato pubblicato in tedesco. Lukács è in tenuta da lavoro: pantaloni scuri, giacca kaki. Piccolo e magro, dà l’impressione di possedere un mondo. Ci si dimentica che egli ha 82 anni.

«Ho cominciato la mia vera opera a 70 anni», esordisce Lukács. «A volte, si direbbe che esistano delle eccezioni alle leggi biologiche. In questo senso sono un seguace di Epicuro. Ma io pure invecchio. Per molto tempo ho cercato la mia vera strada. Sono stato idealista, poi hegeliano, e in Storia e coscienza di classe ho cercato di essere marxista. Durante lunghi anni sono stato funzionario del Partito Comunista a Mosca; è in questo periodo che ho avuto il tempo di leggere e rileggere molto, da Omero a Gorki. Fino al 1930, però, i miei scritti erano soprattutto delle esperienze intellettuali. È dopo che vennero i primi traguardi e le basi per il lavoro successivo.

Questi scritti possono sembrare oggi superati, ma essi hanno forse fornito ad altri un suggerimento, una spinta. Certo, può sembrare strano che io abbia dovuto toccare il settantesimo anno per mettermi a lavorare intorno alla mia opera. Una vita non è poi infinita. Pensate a Marx, a questo genio colossale. Ebbene egli non è riuscito a dare che un abbozzo del suo metodo. Nella sua opera non ci sono tutte le risposte che vorremmo. In realtà, stava nel suo tempo. Io utilizzo il suo metodo per i miei studi di estetica. Se egli vivesse oggi, sono sicuro che scriverebbe di estetica». Continua a leggere

L’ultima intervista

di György Lukács

Intervista registrata il 16 aprile 1971, in una località non distante da Budapest. Tale intervista fu pubblicata per la prima volta in francese, in versione ridotta, da Yvon Bourdet nella rivista L’Homme et la société, n. 20, 1971, pp. 3-12.

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.


Bourdet – La ringrazio di cuore per aver accettato di parlare con me in francese.

Lukács – Deve sapere però che parlo francese molto male, con accento ungherese e una grammatica tedesca. (Lukács ride divertito)

Bourdet – Non è vero. Ho presente la sua intervista alla televisione francese e devo dire che lei si esprime benissimo.

I. Giudizi di Lukács sull’austromarxismo

 

Bourdet – Vorrei prima di tutto porle alcune domande sull’austromarxismo: quando lei andò a Vienna, dopo la prima guerra mondiale e dopo la sconfitta della Repubblica ungherese dei consigli, ha avuto rapporti con i socialisti austriaci?

Lukács – Sì. Sono stato in ottimi rapporti con Otto Bauer. Non bisogna tuttavia dimenticare la situazione di allora: eravamo dei fuoriusciti coi quali, voglio dire contro i quali, il regime poteva, in ogni momento, prendere delle misure anche illegali. Ognuno di noi aveva dovuto dare alla polizia la propria parola d’onore di non immischiarsi minimamente negli affari della politica interna austriaca. Nonostante ciò, come spesso avviene nei circoli dei fuoriusciti, ero stato incaricato, dal Partito comunista ungherese, di tenere certi rapporti, e in particolare il Partito mi aveva ordinato di prendere contatto con Otto Bauer ogni volta che uno di noi fosse, per esempio, minacciato di estradizione, e anche per discutere tutta una serie di altri problemi. Continua a leggere

N. Tertulian, Modernité et Antihumanisme. Les combats philosophiques de Georg Lukács (segnalazioni)

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Nicolas Tertulian

Modernité et Antihumanisme

Les combats philosophiques de Georg Lukács

Klincksieck, 2020

368 pages
coll. Critique de la politique
N° dans la collection : 20
Parution : 08/11/2019
EAN13 : 9782252043363

Ce livre rassemble des articles dont la rédaction s’étend sur plus de trois décennies. Il esquisse les linéaments d’une philosophie de la démocratie radicale, centrée sur la figure du penseur hongrois Georg Lukács (1885-1971).
À travers une critique rigoureuse des tendances antihumanistes du XXe siècle — et notamment des systèmes conceptuels développés par Martin Heidegger et Carl Schmitt —, Lukács a rappelé dès les années 1930 les exigences d’une pensée européenne responsable, désireuse à la fois d’assumer ses origines révolutionnaires et de tirer les conséquences des grandes catastrophes politiques du XXe siècle. Dans son oeuvre propre, Lukács pose les fondements philosophiques d’une pensée de l’égalité et de l’inclusion qui, sans rien perdre du mordant critique de sa matrice marxiste, s’efforce d’articuler les différents niveaux de manifestation d’une rationalité plurielle. La tâche ultime de la philosophie ne doit pas être de séparer, d’opposer et de discriminer, mais de retrouver dans la théorie de la connaissance, l’expérience quotidienne, la création artistique, l’instauration institutionnelle, l’unité d’un projet humain. Lukács revient ainsi au premier plan du combat pour une modernité ouverte et sans mépris, pour une véritable culture de l’égalité dans la démocratie.

Lire un extrait…

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Nicolas Tertulian, né en 1929 à Iaşi en Moldavie roumaine, est un philosophe, esthéticien et essayiste, installé en France depuis 1982. Spécialiste reconnu de la pensée de Georg Lukács, il a enseigné de 1982 à 2010 l’« Histoire de la pensée allemande (XIXe-XXe siècle) » à l’EHESS. Il est l’auteur, en français, de deux ouvrages consacrés à la pensée lukácsienne. D’innombrables publications, du Brésil au Japon, ont fait connaître ses travaux, notamment ses études critiques sur Heidegger et Schmitt. Nicolas Tertulian est décédé en septembre 2019 à Suresnes, sans avoir vu paraître ce livre.

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Table des matières

Présentation de Pierre Rusch

Première partie. Lukács et la pensée ontologique du XXe siècle
Chapitre 1 : Histoire de l’Être et révolution politique. Réflexions sur un ouvrage posthume de Heidegger
Chapitre 2 : Qui a peur du débat ? Réponse à M. de Beistegui
Chapitre 3 : Lukács et Heidegger – les deux ontologies (une confrontation)
Chapitre 4 : Le concept d’aliénation chez Heidegger et Lukács
Chapitre 5 : Nicolai Hartmann – Lukács, une alliance féconde

Deuxième partie. Lukács et le marxisme du XXe siècle
Chapitre 6 : Adorno – Lukács : polémiques et malentendus
Chapitre 7 : Distanciation ou catharsis ? (Sur les divergences entre Brecht et Lukács)
Chapitre 8 : Gramsci, l’Anti-Croce et la philosophie de Lukács
Chapitre 9 : Ernst Bloch – Georg Lukács, paradoxes d’une amitié
Chapitre 10 : Sartre : de l’intelligibilité de l’histoire

Troisième partie. Figures de l’antidémocratie
Chapitre 11 : Croce et Gentile – de l’amitié à l’hostilité
Chapitre 12 : Arnold Gehlen – la genèse de sa pensée
Chapitre 13 : Carl Schmitt : la théologie politique
Chapitre 14 : Carl Schmitt : le juriste et le Führer
Chapitre 15 : Scènes de la vie philosophique sous le IIIe Reich : Steding, Schmitt, Heidegger

La teoria della reificazione in Lukács

Grazie a Matteo Bifone, che ci regala la sua tesi di laurea specialistica su Lukács. Non sarebbe male se anche le tesi potessero essere pubblicate su questo sito e i giovani studiosi volessero affidare alla comunità lukacsiana i propri sforzi.

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(clicca sull’immagine per visualizzare la tesi in pdf)

Indice

Cap 1: Contestualizzazione storico-filosofica dell’opera (pp. 7-28):
1.1 Introduzioni dell’autore pp. 7-11
1.2 Contesto storico-politico dell’opera pp.11-15
1.3 Hegel e la reificazione come seconda natura pp. 15-22
1.4 Alienazione e reificazione in Marx pp. 22-28

Cap 2: La reificazione e la coscienza di classe del proletariato (pp. 29-67):
2.1 Il fenomeno della reificazione pp. 29-36
2.2 Le antinomie del pensiero borghese pp. 36-46
2.3 Il punto di vista del proletariato pp. 46-67

Cap 3: bifone_la_teoria_della_reificazione_in_lukacs (pp. 68-107)
3.1 La reificazione come falsa coscienza in J.Gabel pp. 68-96
3.2 oggettivazione e reificazione in Sartre pp. 96-107

Georg Lukács e il patto col diavolo

di George Steiner

[Georg Lukacs and His Devil’s Pact, «The Kenyon Review» Vol. 22, No. 1 (Winter, 1960), pp. 1-18, trad. it. Ruggero Bianchi, in G. Steiner, Linguaggio e Silenzio, Rizzoli, Milano 1972, pp. 327-342]

Nel ventesimo secolo non è facile per un uomo onesto fare il critico letterario. Vi sono tante cose più urgenti da fare. La critica è un’aggiunta. Giacché l’arte del critico consiste nel sottoporre le opere di letteratura proprio all’attenzione di quei lettori che forse hanno meno bisogno di un tale aiuto: forse che un uomo legge critiche di poesia o teatro o narrativa se non possiede già per conto suo una cultura letteraria di notevole livello? Su l’un lato e l’altro, per giunta, vi sono due tentatori. A destra, la Storia Letteraria, con la sua aria solida e le sue credenziali accademiche. Alla sinistra, la Recensione, non proprio un’arte, ma piuttosto una tecnica devota alla teoria poco plausibile che ogni giorno dell’anno viene pubblicato qualcosa che vale la pena di leggere. Anche la critica migliore può soccombere all’una o all’altra di queste tentazioni. Ansioso di raggiungere la rispettabilità intellettuale, la posizione salda dello studioso, il critico può diventare, come Sainte-Beuve, quasi uno storico della letteratura. O può cedere alle pretese del nuovo e dell’immediato: una parte significativa delle dichiarazioni critiche di Henry James non è sopravvissuta ai luoghi comuni di cui esse erano molto prodighe. Le buone recensioni sono ancor più effimere dei brutti libri.

Ma vi è ancora un’altra ragione importante per cui è difficile a una mente seria, nata in questo secolo tormentato e periglioso, dedicare il grosso delle proprie energie alla critica letteraria. La nostra è, in maniera preminente, l’epoca delle scienze naturali. Il novanta per cento di tutti gli scienziati vive oggi. Il ritmo delle conquiste in campo scientifico, il ritrarsi dell’orizzonte davanti allo spirito che indaga, non è più assolutamente confrontabile con quello del passato. Ogni giorno si scoprono nuove Americhe, sicché la tempra della nostra epoca è permeata di valori scientifici. Questi estendono la propria influenza e il proprio fascino molto al di là dei confini della scienza intesa in senso classico. La storia e l’economia sostengono di essere, in qualche misura fondamentale, delle scienze; e così pure la logica e la sociologia. Lo storico dell’arte affina strumenti e tecniche che considera scientifici. Il compositore di musica dodecafonica collega i suoi esercizi austeri a quelli della matematica. Durrell ha scritto nella prefazione all’Alexandria Quartet che il suo tentativo è quello di tradurre nel linguaggio e nello stile della sua narrativa la prospettiva della relatività. Vede la città di Alessandria in quattro dimensioni.

Tale ubiquità della scienza ha recato con sé nuove modestie e ambizioni nuove. Diffidando del semplice istinto, la scienza esige una mitologia di rigore e di prova. Come splendido compenso, offre il miraggio della certezza, della conoscenza sicura, del possesso intellettuale salvaguardato dal dubbio. Lo scienziato grandissimo rifiuterà tale prospettiva; persevererà nel dubbio anche nel cuore della scoperta. Ma la speranza della verità oggettiva e dimostrabile è sempre presente e ha attirato a sé le menti più vigorose dei nostri tempi.

Nella critica letteraria non vi sono terre promesse di fatti stabiliti, né utopie di certezza. Per la sua stessa natura, la critica è personale. Non è suscettibile di dimostrazione né di prova coerente. Non dispone di strumenti più esatti della barba di Housman che si rizzava quando la grande linea di poesia gli saettava nella mente. In tutta la storia, i critici hanno cercato di dimostrare che il loro métier era una scienza in fin dei conti, che aveva canoni oggettivi e strumenti per pervenire alle verità assolute. Coleridge imbrigliò il proprio genio intensamente personale e spesso instabile al giogo di un sistema metafisico. In un celebre manifesto, Taine proclamò che lo studio della letteratura non era meno esatto di quello delle scienze naturali. I. A. Richards ha sottoscritto la speranza che vi sia un’oggettiva base psicologica all’atto del giudizio estetico. Il suo discepolo più eminente, W. Empson, ha applicato alle arti della critica letteraria le modalità e i gesti della matematica.

Resta però il fatto: il critico letterario è un uomo singolo che giudica un dato testo secondo l’attuale disposizione del proprio spirito, secondo il proprio umore o l’edificio delle proprie convinzioni. Può darsi che il suo giudizio abbia un valore maggiore del vostro o del mio soltanto perché si basa su una gamma più vasta di conoscenze o perché è presentato con chiarezza più convincente. Non lo si può dimostrare in maniera scientifica, né può pretendere di essere durevole. I venti del gusto e della moda sono incostanti e ogni generazione di critici ricomincia da capo a giudicare. Le opinioni sui meriti di un’opera d’arte sono, per giunta, inconfutabili. Balzac riteneva che la Radcliffe fosse grande come Stendhal. Nietzsche, una delle menti più acute che mai si siano occupate di musica, finì per sostenere che Bizet era un compositore più genuino di Wagner. Possiamo essere profondamente convinti che tali opinioni sono ingiuste ed erronee. Ma non possiamo rifiutarle come uno scienziato può rifiutare una teoria falsa. E chissà che una qualche epoca futura non concordi con giudizi che oggi sembrano insostenibili? La storia del gusto è un po’ come una spirale. Le idee che in un primo momento vengono considerate oltraggiose o di avanguardia diventano le credenze reazionarie e consacrate della generazione successiva.

Il critico moderno si trova dunque doppiamente in pericolo. La critica ha intorno a sé qualcosa di un’epoca più agiata. È difficile, su basi morali, resistere alle fiere sollecitazioni dei problemi economici, sociali e politici. Se vi è la minaccia di una qualche forma di barbarie e di autodistruzione politica, lo scrivere saggi sulle belles-lettres pare un’occupazione piuttosto marginale. Il secondo dilemma è di natura intellettuale. Per eminente che sia, il critico non può partecipare all’avventura principale della mente contemporanea: l’acquisizione della conoscenza positiva, il dominio del fatto scientifico o l’esplorazione della verità dimostrabile. E se è onesto con se stesso, il critico letterario sa che i suoi giudizi non hanno una validità duratura, che domani possono essere capovolti. Una cosa soltanto può conferire alla sua opera un po’ di durevolezza: il vigore o la bellezza del suo stile. Grazie allo stile, la critica può a sua volta diventare letteratura.

I maestri della critica contemporanea hanno cercato di risolvere questi dilemmi in modi differenti. T. S. Eliot, Ezra Pound e Thomas Mann, per esempio, hanno fatto della critica un’appendice alla creazione. I loro scritti critici sono commentari alle proprie opere poetiche; specchi che l’intelletto presenta alla fantasia creativa. In D. H. Lawrence, la critica è autodifesa: pur discutendo apparentemente di altri scrittori, di fatto Lawrence stava difendendo il proprio concetto dell’arte del romanzo. Leavis ha accettato la sfida a testa bassa. Ha posto le sue energie critiche al servizio di un’appassionata visione morale. È tutto intento a stabilire standard di maturità e di ordine in letteratura perché la società nel suo complesso possa procedere in una maniera più matura e ordinata.

Ma nessuno ha offerto ai dilemmi morali e intellettuali che assediano la critica letteraria una soluzione più radicale di quella di Georg Lukács. Nelle sue opere si concretizzano due convinzioni. La prima, che la critica letteraria non è un lusso, che non è quello che il più sottile critico americano ha definito «un discorso per dilettanti». Ma che, al contrario, è una forza militante e fondamentale per la formazione della vita degli uomini. In secondo luogo, Lukács afferma che l’opera del critico non è né soggettiva né incerta. La critica è una scienza con un proprio rigore e una propria precisione. La verità del giudizio si può verificare. Georg Lukács è, naturalmente, marxista. Anzi, è l’unico grande talento critico che sia emerso dal grigio servaggio del mondo marxista.

II

In un saggio che risale al 1948, Lukács tracciò un’analogia significativa. Disse che la fisica newtoniana aveva dato alla coscienza settecentesca il suo principale impulso liberatore, insegnando alla mente a vivere la grande avventura della ragione. Secondo Lukács, tale ruolo dovrebbe essere svolto ai giorni nostri dall’economia politica. È attorno all’economia politica, in senso marxista, che dovremmo ordinare la nostra comprensione delle vicende umane. Lukács stesso giunse alla letteratura attraverso l’economia, così come si può dire che Aristotile si accostò al dramma tramite un’indagine sistematica in campo morale.

Il materialismo dialettico sostiene che la letteratura, come tutte le altre forme d’arte, è una «sovrastruttura ideologica», un edificio dello spirito costruito sulle fondamenta del fatto economico, sociale e politico. Nello stile e nel contenuto l’opera d’arte riflette esattamente la sua base storica e materiale. L’Iliade non era meno condizionata dall’ambiente sociale (un’aristocrazia feudale frantumata in piccoli regni rivali) di quanto non lo fossero i romanzi di Dickens, che riflettono con tale vigore l’economia della produzione in serie e la crescita di un nuovo pubblico di massa. Pertanto, sostiene il marxista, il progresso dell’arte è sottoposto alle leggi della necessità storica. Non possiamo concepire Robinson Crusoe prima della nascita dell’ideale mercantile. Nel declino del romanzo francese dopo Stendhal osserviamo l’immagine di un più vasto declino della borghesia francese.

Ma dove c’è legge c’è scienza. E quindi il critico marxista nutre la convinzione di essere impegnato non in cose opinabili ma in determinazioni di realtà oggettiva. Senza tale convinzione, Lukács non avrebbe potuto dedicarsi alla letteratura. Raggiunse la maturità intellettuale in mezzo alla ferocia caotica della guerra e della rivoluzione nell’Europa centrale. Giunse al marxismo per la strada tortuosa della metafisica hegeliana. Nei suoi primi scritti vi sono due note dominanti: la ricerca di una chiave per comprendere l’apparente tumulto della storia e il tentativo dell’intellettuale di giustificare la propria scelta della vita contemplativa. Come Simone Weil, cui egli spesso mi fa pensare, Lukács ha l’anima di un calvinista. Si può immaginare come abbia dovuto lottare per disciplinare in se stesso l’inclinazione naturale alla letteratura e all’aspetto estetico delle cose. Il marxismo gli offrì la possibilità fondamentale di restare critico letterario senza aver l’impressione di aver dedicato le proprie energie a uno scopo piuttosto frivolo e impreciso. Nel 1918 Lukács aderì al partito comunista ungherese. Durante il primo breve periodo di governo comunista a Budapest, prestò servizio come commissario politico e culturale con la quinta Armata Rossa. Dopo la caduta di Béla Kun, Lukács andò in esilio. Rimase a Berlino fino al 1933 e quindi si rifugiò a Mosca. Là rimase e lavorò per dodici anni, facendo ritorno in Ungheria soltanto nel 1945.

È questo un fatto di ovvia importanza. Il tedesco è la lingua principale di Lukács, ma l’uso che ne fa è diventato fragile e sgradevole. Il suo è lo stile dell’esilio; ha perso i caratteri della parlata viva. Più essenzialmente: tutto il tono di Lukács, il tenore fervido e a volte angusto della sua visione, riflette il fatto dell’esilio. Da Mosca, circondato da una piccola cerchia di compagni d’esilio, Lukács osservò l’estendersi della crisi sull’Europa occidentale. I suoi scritti sulla letteratura francese e tedesca divennero una difesa appassionata contro le menzogne e la barbarie del periodo nazista. E ciò spiega un grosso paradosso nella produzione di Lukács. Pur essendo comunista per convinzione, materialista dialettico in virtù del suo metodo critico, egli ha tenuto lo sguardo decisamente fisso al passato. Thomas Mann vide nelle opere di Lukács un senso eminente della tradizione. Nonostante le pressioni dei suoi ospiti russi, Lukács prestava soltanto un’attenzione distratta alle conquiste celebrate del «realismo sovietico». Insisteva invece sulla grande tradizione della poesia e della narrativa europea del Settecento e dell’Ottocento, su Goethe e su Balzac, su Walter Scott e Flaubert, su Stendhal e Heine. Quando scrive di letteratura russa, Lukács tratta di Puškin o di Tolstoj, non dei poetastri dell’epoca staliniana. La prospettiva critica è rigorosamente marxista, ma la scelta dei temi è «centroeuropea» e conservatrice.

In mezzo all’apparente trionfo del fascismo, Lukács mantenne una serenità appassionata. Si sforzò di scoprire la tragica pecca, il seme di caos, da cui era scaturita la follia di Hitler. Una delle sue opere, un libro in se stesso stridulo e spesso mendace, s’intitola La distruzione della ragione (1955). È il tentativo filosofico di risolvere il mistero drammatizzato da Thomas Mann nel Dottor Faustus. Come si scatenò l’ondata di tenebre sull’anima tedesca? Lukács fa risalire le origini del disastro all’irrazionalismo di Schelling. Ma al tempo stesso insisteva sull’integrità e la forza vitale dei valori umani. Essendo comunista, Lukács non dubitava che il socialismo avrebbe finito per prevalere. Considerava suo compito particolare quello di organizzare in vista del momento della liberazione le risorse spirituali presenti nella letteratura e nella filosofia europee. Quando le poesie di Heine tornarono a essere lette in Germania, era disponibile un saggio di Lukács che tracciava un ponte tra il futuro e il mondo semidimenticato del liberalismo cui Heine era appartenuto.

Lukács dunque ha offerto una soluzione al duplice dilemma del critico moderno. In quanto marxista, scorge nella letteratura l’azione delle forze economiche, sociali e politiche. Tale azione si basa su certe leggi di necessità storica. Per Lukács la critica è una scienza ancor prima di essere un’arte. La sua preferenza per Balzac su Flaubert non dipende dal consenso o dal gusto personale. È una determinazione oggettiva cui si è pervenuti tramite un’analisi del fatto materiale. In secondo luogo, Lukács ha conferito al suo stile un’intensa immediatezza. Affonda le proprie radici nelle battaglie e nelle circostanze sociali del tempo. I suoi scritti sulla letteratura, come quelli su Tolstoj, sono strumenti di combattimento. Comprendendo la dialettica del Faust di Goethe, dice Lukács, si è meglio attrezzati a leggere gli enigmi sanguinosi del presente. La caduta della Francia nel 1940 è scritta a grossi caratteri nella Comédie humaine. Gli argomenti di Lukács hanno a che fare con problemi fondamentali della nostra vita. Le sue critiche non sono una semplice eco alla letteratura. Anche quando è settario e polemico, un libro di Lukács ha sempre una curiosa nobiltà. Possiede quella che Matthew Arnold chiamò «alta serietà».

III

Ma, in pratica, quali sono i grossi risultati di Lukács come critico e storico delle idee?

Ironicamente, una delle sue opere più influenti risale a un periodo in cui il suo comunismo era venato di eresia. Storia e coscienza di classe (1923) è un caso quasi leggendario. È un livre maudit, un libro dato alle fiamme, di cui sono rimaste relativamente poche copie1. Si trova in esso un’analisi fondamentale della «reificazione» dell’uomo (Verdinglichung), della degradazione della persona umana a oggetto statistico tramite i processi industriali e politici. L’opera fu condannata dal partito e ritirata dall’autore. Ma ha portato a una tenace vita sotterranea e taluni scrittori, come Sartre e Thomas Mann, l’hanno sempre considerata il capolavoro di Lukács.

A mio parere, tuttavia, la sua preminenza si trova altrove: nei saggi e nelle monografie da lui scritte durante gli anni Trenta e Quaranta, che cominciarono a uscire in una sfilza di volumi imponenti dopo la fine della guerra. L’essenza di Lukács si trova nello studio di Goethe e i suoi tempi (1947), nei saggi sul Realismo russo nella letteratura mondiale (1949), nel volume intitolato Realisti tedeschi dell’Ottocento (1951), nel libro su Balzac, Stendhal e Zola (1952) e nella grande opera su Il romanzo storico (1955). A ciò bisognerebbe aggiungere alcuni volumi massicci di carattere più squisitamente filosofico, quali Contributi a una storia dell’estetica (1954), e quello che è forse il magnum opus di Lukács, lo studio di Hegel (di cui apparve il primo volume nel 1948).

È impossibile dare una descrizione breve e tuttavia accurata di una gamma così vasta di materiale. Ma vi sono alcuni motivi che emergono come classici arricchimenti della comprensione che noi abbiamo della letteratura.

Vi è l’analisi lukacsiana del declino del romanzo francese. Lukács è il più grande studioso vivente di Balzac e vede nella Comédie humaine il massimo monumento del realismo. La sua interpretazione di Les illusions perdues è un esempio perfetto del modo in cui la visione dello storico vien fatta pesare sulla struttura di un’opera d’arte. È questa visione a indurre direttamente Lukács a una condanna di Flaubert. Tra Balzac e Flaubert vi è la sconfitta del 1848. Lo splendore delle speranze liberali era sbiadito e la Francia si stava dirigendo verso la tragedia della Comune. Balzac guarda il mondo con l’ardore primitivo della conquista. Flaubert guarda il mondo come attraverso una lente, con disprezzo. In Madame Bovary il bagliore e l’artificio delle parole sono diventati fini a se stessi. Quando Balzac descrive un cappello, lo fa perché un uomo lo porta. La descrizione del berretto di Charles Bovary, dal canto opposto, è un pezzo di virtuosismo tecnico; sfoggia la padronanza che Flaubert ha del vocabolario dei sarti francesi. Ma la cosa è morta. E dietro questo contrasto nell’arte del romanzo, Lukács scorge la trasformazione della società attraverso il capitalismo maturo. In una società preindustriale, o in una società in cui l’industrialismo rimane su piccola scala, il rapporto dell’uomo con gli oggetti fisici che lo circondano ha un’immediatezza naturale. Questa viene distrutta dalla produzione in massa. L’arredamento della nostra vita è il frutto di processi troppo complessi e impersonali perché qualcuno li possa dominare. Isolato dalla realtà fisica, respinto dalla trasandatezza disumana del mondo delle fabbriche, lo scrittore cerca rifugio nella satira o nelle visioni romantiche del passato. Tutte e due le ritirate sono esemplificate in Flaubert: Bouvard et Pécuchet è un’enciclopedia del disprezzo, mentre Salammbô può essere considerato il sogno a occhi aperti di un antiquario un po’ sadico.

Da tale dilemma scaturì quella che Lukács definisce l’illusione del naturalismo, la convinzione che l’artista possa ricatturare un senso di realtà con la semplice forza dell’accumulazione. Mentre il realista seleziona, il naturalista enumera. Come l’insegnante di Hard Times di Dickens, esige fatti e ancora fatti. Zola aveva una fame inesauribile di particolari circostanziati, una passione per gli orari e gli inventari (viene in mente il catalogo dei formaggi in Le ventre de Paris). Provava piacere a infondere la vita in una citazione della Borsa valori. Ma la sua teoria del romanzo, sostiene Lukács, era radicalmente falsa. Porta alla morte della fantasia e al reportage.

Lukács non scende a compromessi con la propria visione critica. Esalta Balzac, realista e animato da princìpi clericali; e condanna Zola, progressista in senso politico e precursore del «realismo socialista».

Ancor più autoritario e originale è il trattamento che Lukács fa del romanzo storico. È questo un genere letterario la cui critica occidentale ha dedicato soltanto un’attenzione superficiale. È difficile focalizzare bene la sfera del romanzo storico. A volte, la sua testa è nelle stelle mitologiche, ma più sovente il grosso si può trovare nella buona terra della letteratura commerciale. Il concetto stesso evoca alla mente improbabili amorosi che inseguono giovinette terrificate eppure vestite vaporosamente attraverso copertine di libri riccamente decorate. Solo rarissimamente, quando interviene uno scrittore come Robert Graves, comprendiamo che il romanzo storico ha virtù ben precise e una nobile tradizione. È a queste che Lukács si rivolge in uno studio importante, Il romanzo storico.

Tale forma nacque da una crisi della sensibilità europea. La rivoluzione francese e l’epoca napoleonica avevano diffuso nella coscienza della gente comune un senso dello storico. Mentre Federico il Grande aveva chiesto che le guerre fossero condotte in maniera tale da non disturbare il corso normale degli eventi, le armate di Napoleone marciarono su e giù per l’Europa riplasmando il mondo lungo la strada. La storia non era più qualcosa che riguardava archivi e principi; era diventata la struttura della vita quotidiana. A tale mutamento i romanzi di Waverley reagirono in maniera profetica e diretta. Anche qui, Lukács si muove su un terreno fresco. Noi non prendiamo Walter Scott con assoluta serietà. Con ogni probabilità, commettiamo un’ingiustizia. Se ci teniamo a sapere che artista attento fosse Scott e quale penetrante senso storico sia all’opera in Quentin Durward o The Heart of Midlothian, la cosa migliore è leggere un libro scritto a Mosca da un critico ungherese.

Lukács prosegue esplorando l’evoluzione della narrativa storica nell’arte di Manzoni, Puškin e Victor Hugo. La sua lettura di Thackeray è particolarmente suggestiva. Egli sostiene che gli elementi archeologici in Henry Esmond e The Virginians esprimono la critica di Thackeray alle condizioni sociali e politiche dei suoi tempi. Togliendo la parrucca al Settecento, il romanziere satireggia la falsità delle convenzioni vittoriane (ciò che i marxisti chiamano zeitgenössische Apologetik). Personalmente ritengo che Lukács interpreti male Thackeray. Ma si tratta di un errore fruttuoso, come lo sono spesso gli errori della buona critica, e conduce a un’idea originalissima. Lukács nota che il discorso arcaico, per abilmente maneggiato che sia, di fatto non avvicina il passato alla nostra fantasia. I maestri classici del romanzo storico scrivono narrativa e dialogo nel linguaggio dei propri tempi. Creano l’illusione del presente storico tramite la forza della fantasia realizzata e perché essi stessi sperimentano il rapporto tra la storia passata e il proprio tempo come un rapporto di continuità viva. Il romanzo storico vacilla quando questo senso di continuità non è più prevalente, quando lo scrittore sente che le forze della storia trascendono la sua comprensione razionale. Egli allora si rivolge a un passato sempre più remoto o esotico per protestare contro la vita contemporanea. Invece del romanzo storico, troviamo laboriosa archeologia. Si confronti la poetica della storia implicita in La certosa di Parma con l’artificio erudito di Salammbô. Tra artefici meno abili di Flaubert questo senso dell’artificio è rafforzato dall’uso arcaico del linguaggio. Il romanziere si sforza di rendere autentica la propria visione del passato scrivendo i dialoghi in quella che suppone sia stata la sintassi e lo stile del periodo in questione. È, questo, un debole artificio. Forse che Shakespeare avrebbe fatto meglio a far parlare Riccardo II in inglese chauceriano?

Ora, come osserva Lukács, questo declino del concetto classico del romanzo storico coincide esattamente con il passaggio dal realismo al naturalismo. In entrambi i casi, la visione dell’artista perde la propria spontaneità: in un certo modo, egli è estraneo al proprio materiale. Ne consegue che i problemi di tecnica diventano predominanti a spese della sostanza. L’immagine di Glasgow in Rob Roy è storicamente percettiva, ma scaturisce in maniera più significativa dai conflitti sociali e personali della narrazione. Non è un pezzo di restauro antiquario. Ma questo è proprio ciò che è l’immagine di Cartagine in Salammbô. Flaubert ha costruito un sontuoso guscio vuoto attorno a un’azione autonoma. Come osservò Sainte-Beuve, è difficile conciliare le motivazioni psicologiche dei personaggi con l’ambiente storico presentato. Walter Scott credeva nello spiegarsi razionale e progressivo della storia inglese. Vedeva negli avvenimenti dei propri tempi una conseguenza naturale di energie liberate nel corso del Seicento e del Settecento. Flaubert, al contrario, si volse all’antica Cartagine o ad Alessandria perché trovava insopportabile la propria epoca. Non essendo in sintonia con il presente – vide nella Comune un tardo spasimo del Medioevo – non riuscì a raggiungere una comprensione fantastica del passato.

Si concordi o no con questa analisi, la sua originalità e la sua ampiezza di riferimenti sono evidenti. Essa illustra l’esercizio essenziale di Lukács: lo studio attento del testo letterario alla luce di problemi politici o filosofici di vasta portata. Lo scrittore o l’opera singola sono il punto di partenza. Di qui la discussione di Lukács si muove all’esterno attraverso un terreno complesso. Ma il tema o l’idea centrale sono tenuti continuamente di vista. Infine, la dialettica si fa serrata, ordinandone gli esempi e le convinzioni.

Analogamente, il saggio sulla corrispondenza tra Goethe e Schiller verte soprattutto sulla discussa questione della natura delle forme letterarie. La discussione dell’Hyperion di Hölderlin dà il via a uno studio del ruolo cruciale e tuttavia ambiguo svolto dall’ideale ellenico nella storia dello spirito tedesco. Nelle sue numerose considerazioni su Thomas Mann, Lukács s’interessa di quello che considera il paradosso dell’artista borghese in un secolo marxista. Lukács sostiene che Mann decise di star fuori dalla corrente della storia, pur rendendosi conto del carattere tragico della propria scelta. Il saggio su Gottfried Keller è un tentativo di chiarire il difficilissimo problema dell’arresto dello sviluppo della letteratura tedesca dopo la morte di Goethe. In tutti questi esempi, non è possibile separare il singolo giudizio critico dal più ampio contesto filosofico e sociale.

Essendo la sua discussione così serrata e fitta, è difficile offrire citazioni significative dalle opere di Lukács. Forse un breve passo tratto da un saggio su Kleist può comunicarne il tono dominante:

Il concetto di passione di Kleist porta il dramma vicino all’arte del racconto. Una singolarità intensificata è presentata in una maniera che ne sottolinea la unicità accidentale. Nel racconto ciò è assolutamente legittimo. Questo è infatti un genere letterario concepito appositamente per rendere reale il ruolo immenso della coincidenza e della contingenza nella vita umana. Ma se l’azione rappresentata resta al livello di coincidenza… e se riceve la dignità di dramma tragico senza prova alcuna della sua obiettiva necessità, si avrà inevitabilmente un effetto di contraddizione e di dissonanza. I drammi di Kleist, di conseguenza, non indicano la strada maestra del dramma moderno. Tale strada va da Shakespeare, attraverso gli esperimenti di Goethe e di Schiller, al Boris Godunov di Puškin. A causa del declino ideologico della borghesia, essa non ebbe un seguito adeguato. I drammi di Kleist rappresentano una strada laterale irrazionale. La passione individuale isolata distrugge il rapporto organico tra il fato della persona individuale e la necessità sociale e storica. Con la dissoluzione di tale rapporto, le basi poetiche e filosofiche del genuino conflitto drammatico sono a loro volta distrutte. La base del dramma si fa esile e angusta, esclusivamente privata e personale… Le passioni kleistiane rappresentano senza dubbio una società borghese. La loro dialettica interna riflette conflitti tipici di individui che sono diventati «monadi senza finestre» in un ambiente borghese.

Il riferimento a Leibniz è tipico. La qualità della mente di Lukács è filosofica, nel senso tecnico della parola. La letteratura concentra e concretizza quei misteri di significato che costituiscono l’interesse principale del filosofo. Sotto questo aspetto, Lukács appartiene a una tradizione notevole. La Poetica è critica filosofica (il dramma visto come il modello teorico dell’azione spirituale); come lo sono gli scritti critici di Coleridge, Schiller e Croce. Se l’andatura è pesante, è perché la materia in discussione è insistentemente completa. Come altri critici filosofi, Lukács affronta problemi che hanno tormentato l’indagine dai tempi di Platone. Quali sono le distinzioni fondamentali tra epica e dramma? Che cos’è la «realtà» in un’opera d’arte, l’antico enigma dell’ombra che pesa di più della sostanza? Qual è il rapporto tra la fantasia poetica e la percezione comune? Lukács solleva il problema del personaggio «tipico». Perché certi personaggi letterari – Falstaff, Faust, Emma Bovary – possiedono una carica di vita maggiore di quella di una moltitudine di altre creature fantastiche e anzi della maggior parte degli esseri viventi? È perché sono archetipi in cui i caratteri universali convergono e ricevono una forma memorabile?

Le indagini di Lukács attingono a un campo straordinario di documentazione. Egli dà l’impressione di possedere tutta la letteratura europea moderna e tutta la letteratura russa. Questo consente una rara combinazione di robusta esattezza filosofica e di ampiezza di visione. Per contrasto, Leavis, che non è meno moralista né lettore meno attento di Lukács, è cautamente provinciale. In fatto di universalità, l’equivalente di Lukács sarebbe Edmund Wilson.

Ma la medaglia ha un suo rovescio. La critica di Lukács ha la sua parte di cecità e di ingiustizia. A volte scrive con oscurità astiosa quasi ad affermare che lo studio della letteratura non dovrebbe essere un piacere ma una disciplina e una scienza, difficile da accostare come le altre scienze. Questo l’ha reso insensibile ai grandi musicisti del linguaggio. Lukács manca di orecchio; non possiede quel diapason interiore che consente a Ezra Pound di scegliere senza sbagliare l’istante di gloria di un lungo poema o di un romanzo dimenticato. Nell’omissione di Rilke da parte di Lukács vi è un’oscura protesta contro la meraviglia del linguaggio del poeta. In un certo senso, scrive troppo mirabilmente. Anche se lo negherebbe, inoltre, Lukács tende davvero all’errore fondamentale della critica vittoriana: il contenuto narrativo, la qualità della favola, influenza la sua valutazione. La sua incapacità di includere Proust, ad esempio, getta il dubbio su tutta la visione che Lukács ha del romanzo francese. Ma la trama della Recherche du temps perdu, il fasto e le perversità che Proust descrive, offendono ovviamente il moralismo austero di Lukács. Il marxismo ha un credo puritano.

Come tutti i critici, anch’egli ha le sue avversioni particolari. Lukács detesta Nietzsche ed è insensibile al genio di Dostoevskij. Ma essendo un marxista coerente, fa della cecità una virtù e attribuisce alle sue condanne un valore oggettivo e sistematico. Leavis si trova evidentemente a disagio con le opere di Melville. T. S. Eliot ha condotto una lunga e sottile polemica con la poetica di Milton. Ma in essa le cortesie fondamentali vengono rispettate. Le argomentazioni di Lukács sono ad hominem. Infuriato dalla visione del mondo di Nietzsche e Kierkegaard, egli ne consegna le persone e le fatiche all’inferno spirituale del prefascismo. Questa, naturalmente, è un’interpretazione erronea e grottesca dei fatti.

Di recente, questi difetti di visione si sono fatti più drastici. La distruzione della ragione e i saggi di estetica apparsi da allora, ne sono guastati. Senza dubbio, vi è un problema di età. Lukács aveva settant’anni nel 1955 e i suoi odii si sono irrigiditi. Vi è in parte il fatto che Lukács è ossessionato dalla rovina della civiltà della Germania e dell’Europa occidentale. Va a caccia dei colpevoli da consegnare al Giudizio Finale della storia. Ma vi è soprattutto, a parer mio, un intenso dramma personale. All’inizio della sua brillante carriera, Lukács strinse un patto con il demone della necessità storica. Il diavolo gli promise il segreto della verità oggettiva. Gli diede il potere di impartire benedizioni o pronunciare condanne in nome della rivoluzione e delle «leggi della storia». Ma dal ritorno di Lukács dall’esilio, il diavolo è rimasto in agguato nei dintorni, chiedendo il proprio onorario. Nell’ottobre del 1956, ha picchiato con forza alla porta.

IV

Accenniamo qui a fatti di natura personale. La parte svolta da Lukács nell’insurrezione ungherese e il monachismo successivo della sua vita personale hanno un ovvio interesse storico. Ma contengono un elemento di agonia privata cui un estraneo difficilmente può accedere. Un uomo che perde la propria religione perde le proprie convinzioni. Un comunista per cui la storia si mette a fare salti mortali corre il rischio di perdere la ragione. Forse, è peggio così. Quanti non l’hanno provato, tuttavia, difficilmente possono capire che cosa significhi un simile crollo di valori. Inoltre, nel caso di Lukács, i moventi dell’azione sono oscuri.

Accettò il posto di ministro della Cultura nel governo di Nagy. Non, ritengo, per essere tra le guide di un movimento antisovietico, bensì piuttosto per conservare il carattere marxista della vita intellettuale ungherese e proteggerne l’eredità fondamentale contro le forze rinascenti della destra agrario-cattolica. Più essenzialmente, forse, perché un Lukács non può aderire a un solo lato della storia anche quando questa assume forme assurde. Non può essere uno spettatore. Ma il 3 novembre, un giorno prima che l’Armata Rossa riconquistasse Budapest, Lukács si dimise. Perché? Aveva deciso che un marxista non deve opporsi alla volontà dell’Unione Sovietica in cui s’incarna, nel meglio e nel peggio, il futuro del materialismo dialettico? Fu convinto a ritirarsi da una causa persa da amici che temevano per la sua vita? Non sappiamo.

Dopo un periodo di esilio in Romania, Lukács ottenne il permesso di tornare in patria. Ma non gli fu più consentito di insegnare e la sua opera passata divenne oggetto di attacchi e di scherni sempre più feroci. Tali attacchi in realtà sono anteriori all’insurrezione di ottobre. L’Ungheria aveva la sua versione in miniatura di Ždanov, un omuncolo feroce di nome Joseph Revai. Dapprima allievo di Lukács, ma poi geloso della celebrità del maestro, Revai pubblicò un opuscolo sulla Letteratura e democrazia popolare nel 1954. In esso redasse un atto d’accusa stalinista di tutto il lavoro di Lukács. Accusò Lukács di aver costantemente trascurato la letteratura sovietica contemporanea. Lo accusò di essere pericolosamente antiquato nella sua concentrazione su Goethe e Balzac. Persino un romanzo mediocre di un comunista, sostiene Revai, è infinitamente preferibile a un grande romanzo di un reazionario o di un premarxista. Lukács pone gli ideali letterari «formalistici» al di sopra degli interessi di classe e di partito. Il suo stile è inaccessibile al lettore proletario.

Dopo ottobre, tali accuse si fecero meno stridule. I pubblicisti ungheresi e tedesco orientali tirarono fuori di nuovo le vecchie accuse di eresia rivolte ai primi scritti di Lukács. Rievocarono la sua ammirazione giovanile per Stefan George e scorsero tracce di «idealismo borghese» nelle sue opere mature. Il vecchio tuttavia non fu toccato e per uno di quei giudizi strani, kafkiani, ammessi a volte dai regimi comunisti, gli fu persino consentito di pubblicare un volumetto di saggi presso una casa editrice della Germania Occidentale (Wider den missverstandenen Realismus, Amburgo, 1958).

Può darsi che la relativa immunità di Lukács sia dovuta all’interesse che gli intellettuali socialisti al di fuori della cortina di ferro hanno avuto per il suo caso. Ma certamente il problema più importante è questo: come considerò Lukács stesso le sue convinzioni e i suoi risultati alla luce della tragedia di ottobre? Fu attirato dal grande limbo della delusione? I suoi dei finirono per abbandonarlo?

Questioni del genere non possono essere spinte molto lontano senza cadere nella futilità: esse coinvolgono quel luogo intimo di illusione vitale che conserva la coscienza religiosa o rivoluzionaria. Il giudizio espresso da Lukács sulla rivoluzione ungherese si trova in una prefazione da lui scritta nell’aprile del 1957: «Avvenimenti importanti si sono verificati in Ungheria e altrove, costringendoci a rimeditare molti problemi connessi con l’opera di tutta la vita di Stalin. La reazione a quest’ultimo, sia nel mondo borghese che nei paesi socialisti, sta assumendo la veste di una revisione degli insegnamenti di Marx e di Lenin. E ciò costituisce certamente la minaccia principale al marxismo-leninismo». Queste parole sembrano eludere disperatamente il punto. Ma teniamo bene in mente una cosa soltanto: per uomini come Koestler o Malraux, il comunismo fu un espediente temporaneo di passione. Il comunismo di Lukács è la fibra stessa della sua intelligenza. La sua interpretazione della crisi dell’ottobre 1956, qualunque possa essere, sarà stata ottenuta entro la cornice di una visione dialettica della storia. L’uomo che ha perso la vista continua a vedere quanto gli sta intorno in forma di immagini ricordate. Per sopravvivere intellettualmente, Lukács deve aver elaborato un compromesso interiore di qualche genere: simili spedizioni punitive nella propria coscienza sono tipiche della condizione marxista. Il suo commento sulla minaccia del revisionismo ci indica la strada. Se lo interpreto in maniera corretta, Lukács sta dicendo che l’episodio ungherese è un’estensione finale, una reductio ad absurdum della politica stalinista. Ma tale politica era una falsa partenza dalla dottrina marxista-leninista e la violenza con cui venne attuata ne prova soltanto il fallimento. La giusta reazione al disastro ungherese non implica pertanto un abbandono dei princìpi primi marxisti. Al contrario, bisogna tornare a tali princìpi nella loro formulazione genuina. O, come si esprimerebbe uno dei capi dell’insurrezione: «Opponiamoci all’Armata Rossa in nome del Soviet dei lavoratori di Leningrado del 1917». Vi è forse, in questa idea, l’antico, ingannevole sogno del comunismo separato dall’oscurantismo e dalle ambizioni particolari della dominazione russa.

Lukács si è sempre ritenuto responsabile verso la storia. Ciò gli ha consentito di produrre un corpo di opere critiche e filosofiche che esprimono intensamente lo spirito crudele e serio dell’epoca. Che noi ne condividiamo o no le convinzioni, non c’è dubbio che egli ha conferito alla Musa minore della critica una notevole dignità. Gli ultimi anni di solitudine e di pericolo ricorrente non fanno che sottolineare quanto ho osservato all’inizio: nel Novecento non è facile per una persona onesta fare il critico letterario. Ma, del resto, non lo è stato mai.

1 Storia e coscienza di classe è ora reperibile in francese. Viene inoltre ristampato anche nell’edizione tedesco-occidentale delle opere complete di Lukács, insieme con altri saggi giovanili che sono tra i suoi migliori prodotti in campo filosofico e fanno di lui un autentico predecessore di Walter Benjamin. Le autorità culturali dell’Est permettono queste pubblicazioni occidentali di libri marxisti eretici ma prestigiosi: è questo un tocco caratteristico di politica «bizantina».

La lotta fra progresso e reazione nella cultura d’oggi

di György Lukács

[A haladas és reakció harca a mai kulturabán, in «Társadalmi Szemle», giugno-luglio 1956; G.L., La lotta fra progresso e reazione nella cultura d’oggi, trad. it. Giorgio Dolfini, Feltrinelli, Milano 1957,  ora in G.L., Marxismo politica culturale, Einaudi, Torino 1968].


I.

Quando parliamo di un problema che divide tutta un’epoca in due campi opposti, dobbiamo chiederci qual è, nella teoria e nella prassi, il principio che agisce qui, vale a dire la forza che stabilisce questa scissione in due campi.

Sembra evidente, anche a prima vista, che ci troviamo di fronte a due mondi: quello del capitalismo e quello del socialismo. Una contrapposizione, questa, indubbiamente giusta, in quanto rispecchia la contraddizione fondamentale della nostra epoca. Tuttavia il problema che si pone è questo: se si possa trasporre una tal contraddizione su un piano concreto direttamente e senza alcuna mediazione. Continua a leggere

Come si diventa materialisti storici?

di Edoardo Sanguineti

1227476042Come si diventa materialisti storici?, Piero Manni, 2006.

Io sono naturalmente molto sensibile all’onore che mi è stato fatto, e al piacere che mi è stato procurato, per essere stato invitato qui a parlare oggi a voi, in occasione di questa festa, che tutti sentiamo, credo, con molta partecipazione: il compleanno del compagno Ingrao. Ho scelto questo titolo con un punto interrogativo, come una questione che si pone, a mio parere, non soltanto quale questione importante di ripensamento storico, ma tale da mantenere, io credo, una profonda attualità. Perché credo che sia possibile, ancora oggi, diventare materialisti storici. Anzi, potrei dire che ho messo, per una sorta di cautela, un punto interrogativo soltanto per rendere evidente che si tratta di un problema complesso, da meditare, e quello che vi offrirò oggi è semplicemente una specie di schema preventivo.

Non ho steso nessun testo: ho una scaletta e un pacchetto di fotocopie per alcune citazioni. Credo che ad un certo momento, ma lo faccio già adesso, citerò una frase che amo molto di Walter Benjamin: “Non ho niente da dire, soltanto da mostrare”. E l’idea che un discorso possa fondarsi su sole citazioni, idea che, come è noto, era una sorta di ideale sublime per Benjamin – se posso modestamente associarmi nell’ammirazione di questo progetto – è valida anche per me. Non mi dispiacerà, poiché è previsto dalla cortesia degli organizzatori, che questo testo venga poi pubblicato, una volta che sia stato scritto. E forse toglierei il punto interrogativo. Sarebbe interessante proporlo come una specie di manualetto, un poco come si potrebbe scrivere un libro che avesse come tema: Come coltivare bene i fiori sopra le terrazze romane. Così, Come si diventa materialisti storici non come un problema, ma piuttosto come una breve guida per incitare a un fai-da-te riguardo all’atteggiamento da assumere, a livello del pensiero e a livello della pratica concreta, nella nostra vita quotidiana.

Perché ho scelto questo tema? Per tante ragioni, ma quello che mi ha sempre interessato è il fatto che, in tutta la tradizione del materialismo storico, si afferma che la classe proletaria riceve la coscienza dall’esterno. L’essere proletari è una condizione di fatto, ma la coscienza dell’essere proletari e dei significati della responsabilità e delle possibilità che il ritrovarsi in tale condizione sociale pone, è altra cosa. È pressoché considerato un principio da non discutere più – e non è stato mai, in fondo, che io sappia, largamente discusso – l’idea che sono gli intellettuali che (viene subito in mente naturalmente l’immagine dell’”intellettuale organico” suggerita da Gramsci) portano la coscienza di classe a un gruppo sociale fondamentale ed essenziale come il proletariato, il quale da solo, per ragioni storiche molto complesse, non aveva, e in un certo senso non ha ancora elaborato – non in quanto proletari in ogni caso – una sua prospettiva culturale autonoma.

Marx e Engels non erano specificamente proletari, anzi erano piuttosto lontani come uomini di classe, e diedero l’esempio di qualcuno che, esterno alla classe, assume come compito preciso (da questo nasce – se da altro non nascesse – il Manifesto del ’48) quello di costituire un partito, e di dare, attraverso la costituzione di questo partito, coscienza di classe a una classe che non ha la coscienza – in questo segnando una differenza nei confronti di un lungo processo storico di una borghesia che, attraverso un lavoro secolare, era riuscita a costituire i propri intellettuali. E – ho già fatto il nome di Gramsci e lo farò ancora – quando Gramsci affronta il problema del ruolo degli intellettuali, della storia degli intellettuali, che è uno dei punti come si sa più significativi delle sue riflessioni, massime nei Quaderni del carcere, offre precisamente questa prospettiva: tocca al proletariato riuscire a costituire dei gruppi intellettuali, che si presentano ormai con una funzione politica diretta, consapevoli del ruolo storico che, allora si diceva, perché allora era storicamente esatto, la classe operaia doveva assumere.

Anche se, tuttavia, gli Arbeiter di cui parla Marx non sono necessariamente la classe operaia. Lo sono in una condizione storica specifica. Tanto che oggi c’è una tendenza molto forte a far coincidere la fine del proletariato con la fine della classe operaia. Ma questa è, a mio parere, una identificazione impropria. Quello che Marx e Engels hanno in mente è la classe degli sfruttati, dei proletari, e tutta la loro visione dipende dall’idea che, col processo storico in atto, e con la previsione che, per quel tanto di cui erano capaci (ed erano capaci piuttosto di forti previsioni, a mio giudizio), riuscirono a formulare, le due classi essenziali avrebbero ridotto a questo contrasto decisivo tra borghesia e proletariato, tra capitalismo e – per il momento – classe operaia, tutto l’insieme dei conflitti di classe, stringendosi in un dialogo evidentemente mortale, in qualche modo, che avrebbe occupato il resto della storia dell’età borghese.

A questo punto allora si potrebbe porre la seguente questione: ma come gli intellettuali acquistano coscienza di classe? Perché, se la coscienza di classe presso i proletari è assunta a partire dai gruppi intellettuali, questi gruppi intellettuali da dove la cavano? Una risposta molto chiara, se volete, viene prima di tutto da Marx ed Engels, i quali hanno molto riccamente, anche se non programmaticamente, nei loro testi, fatto riferimento alla loro storia, alla loro formazione. Ci sono indicazioni che sono diventate in un certo periodo quasi manualisticamente obbligate. Gli utopisti francesi, gli economisti inglesi, la filosofia dialettica hegeliana, come in una sorta di maneggevole catechismo, divenivano gli strumenti da cui era partita una visione dialettica materialistica.

Dunque, in qualche modo, alle origini sta già un paradigma esplicativo, ma naturalmente ha un valore molto particolare perché si tratta di un momento aurorale, iniziatico. Vorrei ricordare, a questo proposito, come tratto molto importante, la sottolineatura costante che viene fatta – da Marx particolarmente, ma anche da Engels—: “Non abbiamo inventato niente”. Perché si sapeva che esistevano le classi, si è sempre saputo che esistevano i conflitti di classe, si è sempre riconosciuto il ruolo (sempre vuol dire nella cultura borghese matura) dell’economia come motore dinamico della storia essenziale, e una qualche idea di dialettica si era sviluppata, almeno nella forma idealistica consolidata nella Germania, che rappresentava il grande laboratorio intellettuale di allora (al di qua e al di là del Reno era distribuita provvidenzialmente una sorta di divisione di compiti storici, per cui in Francia si faceva quello che in Germania si pensava).

Ma una volta pubblicato il Manifesto, una volta che questa coscienza viene elaborata e l’idea originale sostenuta da Marx e Engels è come limitata alla proposizione: “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”, che è, per loro dichiarazione, la sola cosa di cui si rendono responsabili, e cioè al di là di quelle che sono le conoscenze, a integrarle, a svilupparle, e per tanti riguardi a rovesciarle —perché l’essenziale momento è il rovesciamento della dialettica hegeliana – bene, esiste solo quest’idea fondamentalmente: che l’ultima classe che può rivestire un ruolo decisivo nello sviluppo storico è quella che potenzialmente è in grado di porre fine alle lotte di classe. Come classe ultima del processo storico essa non si limita ad un’acquisizione di poteri in modo – come è accaduto molte volte – da sostituirsi alla classe precedentemente dominante, ma punta a porre fine, una volta per tutte, attraverso la mediazione di una “dittatura del proletariato”, con la conclusione quindi della dittatura borghese, alle dittature storiche e aprire, per così dire, il regno della libertà. Io ho sempre guardato con molta meraviglia alla critica conservatrice nei confronti del marxismo, quando viene rimproverato costantemente a Marx e Engels di non aver mai elaborato una “teoria dello Stato”, di non aver mai offerto un programma concreto, di fronte alla categoria “Comunismo” e affini. Ma sarebbe stato assurdo da parte loro fare qualcosa del genere, poiché il principio fondamentale è precisamente la distruzione dello Stato, la quale avviene certamente attraverso l’assunzione di una dittatura proletaria, ma che ha precisamente il ruolo di annullare sé stessa.

Mille volte Marx spiega quello che accadrà dopo, ma proprio spiegando che non lo sa, e non può saperlo. Ma non solo. Penso a Engels, per esempio quando si pone il problema di cosa accadrà della famiglia dopo che si è soppressa la famiglia borghese, dopo che Marx ha spiegato insieme a lui chiaramente fin dal Manifesto: “La distruzione della famiglia non siamo noi a volerla”. Chi la compie? Come accade storicamente? E il capitalismo che distrugge i valori familiari e, anzi, sgombra il campo – è il suo compito storico – da tutte le mitologie affettive psicologiche sacrali che accompagnano la famiglia, mettendo in luce un nudo rapporto economico come costitutivo, e come persone degne di stima avevano, del resto, molto giustamente visto nella loro attività rivoluzionaria. Basti pensare a certe parole famose di Kant sopra il matrimonio, il suo fondamento giuridico, l’uso reciproco degli organi sessuali e cose di questo genere, che come sgombero delle sovrastrutture ideologiche fantasmatiche patetiche mitiche religiose non è niente male.

Il problema però si pone certamente in modo diverso quando, come dicevo, elaborato il Manifesto, costituito un partito, e per giunta accompagnato tutto questo da indizi evidenti di sviluppo di coscienza nel proletariato, bene: che cosa accade agli intellettuali che si trovano di fronte a questo? E una conversione di tipo intellettuale, poniamo, come può accadere ad un filosofo neoplatonico che un bel giorno decide invece di passare ad essere uno strutturalista di ferro. Il mondo è pieno di conversioni di pensiero: si è educati in un certo ambiente, si assume una qualche posizione, poi questa viene approfondita, sviluppata, contraddetta, abbandonata, respinta e via dicendo. E dopo è semplicemente un problema di coscienza intellettuale, oppure ci sono elementi di ordine, come dire, empirico? C’è una storia esistenziale specifica e difficilissima da schematizzare – si potrebbe dire: “le vie dell’inferno sono infinite”; cioè si può giungere alla stessa conclusione per ragioni estremamente differenziate e non schematizzabili in una sorta di percorso ideale e strutturato. Ma è possibile ragionare comunque sopra, non dico delle tipologie, tanto meno delle statistiche, per cui il materialismo storico possa essere assunto, e porre qualche problema di ordine generale? Ecco, da questo deriva la ragione del mio punto interrogativo.

Allora vorrei fare subito riferimento a quello che considero il pensatore più significativo che ha affrontato questo ordine di problemi: egli è naturalmente Lukács, autore di un’opera tanto celebre quanto credo, ormai, pochissimo letta, salvo da specialisti, storici e consimili: Storia e coscienza di classe. Libro contestatissimo, com’è noto, intorno a cui si travagliò enormemente Lukács; il saggio sopra la Coscienza di classe è del ’20, dunque un anno delicatissimo, sia che si pensi a quello che di recente era accaduto nella storia europea, oppure a quello che stava per accadere nella storia europea. Ma la cosa veramente importante è la Prefazione, tanto esecrata quanto discussa, quanto controversa, che egli stenderà nel ’67, facendo quella famosa autocritica per cui, com’è noto, il testo di Storia e coscienza di classe è giudicato da Lukács con molte riserve. Si trattò realmente di una solenne autocritica.

Tra le cose che hanno reso controversa quest’opera, fino a suscitare una certa stanchezza e infine indurre molti lettori a metterla in un deposito storico e ad archiviarla e non riproporla – com’è noto, particolarmente nel Sessantotto tedesco, ci fu un dibattito molto ampio; anche in Italia è apparso un volume che raccoglie tale dibattito intorno a Storia e coscienza di classe – nel complesso, salvo alcuni apporti filologici, perché pura occasione di recuperare alcuni scritti marginali di Lukács del periodo, c’è stato un dibattito che si è rivelato comunque effimero e che ha dato scarsissimi risultati, tanto nell’ordine teorico quanto, ovviamente, nell’ordine pratico.

Qui vorrei ricordare che il saggio Coscienza di classe, che costituisce uno dei capitoli del libro, pone cinque domande che possono essere utilmente ricordate in questa sede e a cui corrispondono i cinque paragrafi con i quali queste sono sviluppate. Anzitutto, che cosa si deve intendere, dal punto di vista teorico, per coscienza di classe? In secondo luogo qual è, dal punto di vista pratico, la funzione della coscienza di classe così intesa nella stessa lotta di classe? A tutto ciò va ricollegato un interrogativo ulteriore a proposito della coscienza di classe: si tratta di una questione sociologica “generale”, oppure essa rappresenta per il proletariato qualcosa di totalmente diverso rispetto ad ogni altra classe finora apparsa nella storia? Ed infine, l’essenza e la funzione della coscienza di classe sono qualcosa di unitario oppure si possono distinguere diversi livelli e strati? Quinta ed ultima questione: in caso di risposta affermativa, qual è il loro significato pratico nella lotta di classe del proletariato?

Sarebbe una vana ambizione quella di riassumere qui i cinque punti; in più lo scritto è di dimensioni sobrie, ma naturalmente, proprio per questo estremamente intenso. Al più citerò una proposizione che è, in qualche modo, conclusiva, tanto per dare un assaggio – e spero che questo assaggio metta appetito a qualche ex lettore, o non lettore eventualmente, di questo testo: “Il proletariato si realizza soltanto in quanto si sopprime, in quanto porta ad effettuazione la società senza classi conducendo fino all’ultimo la propria lotta di classe”. Che è cosa alla quale già accennavo, ma che rende tanto più interessante, allora, la questione della Prefazione con cui questo libro viene sconfessato dall’autore.

Perché questa Prefazione mi pare particolarmente interessante? Perché secondo me è il più grande documento elaborato da qualcuno che racconta, con grande penetrazione, gli anni del suo – sono parole sue – ”apprendistato del marxismo”. In questo scritto l’autore raccoglie e spiega gli scritti fra il ’18 e il ’30 e spiega come egli sia diventato marxista, o se preferite materialista storico (io preferisco sempre dire così). E ci sono due elementi che vorrei sottolineare. Il primo è questa strana sorta di autocritica; perché questa autocritica è insieme un’autoapologia: Lukács spiega come, in fondo, le cose che gli sono accadute nella mente e nell’attività pratica e politica, svolta per esempio negli anni d’Ungheria e poi nell’esilio a Vienna, siano andate così perché non potevano, date le circostanze, che andare così; e che l’itinerario e le contraddizioni, le difficoltà che egli ha incontrato non erano solo dei tratti personali, ma erano indizi di problemi oggettivi che si ponevano in quel momento al proletariato. Non erano esibizione di un documento personale, ma una riflessione che aveva un significato infinitamente più largo che un narcisistico ripensamento – sia pure intenso da parte di un uomo che era partito da posizioni prima di tutto di ordine etico ideale: si trattava di collegare lo sviluppo personale a un cammino più generale, individuando, nei nodi essenziali da lui percorsi, una serie di problemi che trascendevano di molto la sua persona.

La seconda cosa è – come dicevo – il fatto che l’autocritica diventa autoapologia. Perché nel radicare la propria storia personale negli eventi oggettivi, in fondo, egli viene a giustificare, in termini storici concreti, quello che potrebbe essere in astratto un insieme di scelte da rimproverarsi a lui e che gli furono, infatti, largamente rimproverate.

Egli dice: non voglio risalire alle mie “origini” – anche qui sono pagine dense, benché anche queste non lunghissime e difficilissime da riassumere – ma egli muove, in ogni caso, accennando a quella che definisce “la propria preistoria”, cioè il momento in cui ancora non si è posto il problema del marxismo come tale, benché – e comincia così, raccontando – avesse letto qualcosa di Marx già come studente liceale. “Intorno al 1908 presi in considerazione anche Il capitale, per dare un fondamento sociologico alla mia monografia sul dramma moderno”. Cioè, lì parte un momento talmente aurorale, in cui l’interesse verso il materialismo storico è semplicemente interesse di un intellettuale che deve affrontare alcuni problemi di vasta portata – l’ideale tragico, e una certa, come poi sarà battezzata, sociologia della letteratura – e, per poter avere una visione più larga, deve tener conto di tutto quello che, nella visione marxista, è stato suggerito, ma, come egli spiega, guarda a un Marx ’sociologo’ visto attraverso lenti metodologiche ampiamente condizionate da Simmel e da Max Weber. E poi c’è la lettura di Hegel, che diventa decisiva – e che del resto sarà decisiva per tutta la sua vita: e uno dei limiti, forse, proprio della posizione lukacsiana fu quello di aver mantenuto fino in fondo una sorta di subordinazione, che in sostanza si spiega proprio con questi ragionamenti intorno alle proprie vicende, nei confronti di Hegel. Ma egli osserva che aveva addirittura progettato, per esempio, un libro su Kierkegaard, che aveva fatto i conti, evidentemente, con la filosofia di Sorel, che durante la guerra aveva preso conoscenza delle opere di Rosa Luxemburg, ma che in quel tempo, per esempio, ignorava le posizioni di Lenin, e considerava come uno dei deficit strutturali degli anni del suo avvicinamento al marxismo aver conosciuto, male dapprima, tardi e con scarsa comprensione poi, le opere di Lenin.

Il passaggio da una classe alla classe che è ad essa specificamente nemica è un processo molto complicato. Lukács si sente un borghese e passa da una classe all’altra e, ad ogni passaggio che compie, egli mette in rilievo quello che di positivo ha acquistato attraverso i residui di portata culturale e psicologica, esistenziale e teorica, dalla sua visione originaria. Quanto ha ricavato di positivo, facendo un esempio, dall’anticapitalismo romantico, di cui troverà poi, se altro non fosse, traccia nel Manifesto stesso, una volta davvero letto e pensato?

L’autocritica o l’autoapologia di Lukács è tanto più rilevante perché non implica solo questo itinerario teorico ma anche un itinerario – come forse ho accennato – pratico, perché egli si impegna politicamente. Anzi, si può dire che la conclusione dello scritto del ’67 è il definitivo passaggio dall’impegno politico al puro impegno intellettuale. Lukács si considera, in base alle critiche che si è venuto facendo e alla complessità delle questioni che, a partire dal ’67, egli intende affrontare, meno atto di quanto potesse sperare all’attività politica concreta. Il suo ruolo è un ruolo eminentemente intellettuale, teorico, e naturalmente il rapporto teoria – prassi è uno dei temi che dovrà affrontare, come ogni materialista storico; ma, insomma, diventa decisivo tutto questo ripensamento della propria esistenza, anche per una decisione di statuto, oserei dire, professionale molto semplicemente, o di economia generale della propria riflessione e del proprio pensiero.

Io mi permetterò di utilizzare – si parva licet – anche qualche tratto personale mio, e, senza fare per questo nulla di paragonabile a quell’autocritica o a quell’autoapologia, dire qualcosa che forse può avere un interesse più largo di una mia storia personale perché, in qualche modo evidentemente anche io ho sperimentato, essendomi trovato all’interno di una formazione di cultura borghese, un itinerario, che certamente non è mio esclusivo, che moltissimi certo hanno attraversato, e che, senza nessuna pretesa, è inutile dirlo, di ordine paradigmatico particolarmente evidente, forse può aiutare qualcuno a trovare delle differenze o delle analogie, e ripensare a qualche tratto della propria esperienza.

Nella mia vita io ricordo particolarmente due episodi, e credo di non essere il solo che ha vissuto qualcosa del genere. Il primo episodio è legato a un personaggio che si chiarr/ava Fedele. Era un ragazzo che io conobbi quando, negli anni della guerra, la seconda guerra mondiale, andavo a giocare, come accadeva ai ragazzi del quartiere – nel ’40 avevo dieci anni – su un viale: allora abitavo a Torino, in quello che oggi si chiama Corso Matteotti e allora si chiamava Corso Oporto. Alla sera si trovavano i ragazzi miei coetanei, anno più anno meno, e le figlie delle portinaie, che erano le sole fanciulle che avevano l’accesso, in qualche modo, a questo viale, e che quindi rappresentavano, ai miei occhi, un archetipo di femminilità. A queste era facilmente concesso affacciarsi sulla porta degli edifici, e per combinazione nella zona dove abitavo c’erano molte portinerie e molte figlie di portinaie, e così, un passo dopo l’altro, venivano ad aggregarsi, sia pure con cautela e discrezione, e questo le rendeva ancora più rilevanti, alla piccola nostra banda di giovinettini, o maschietti, come si dice oggi. Un giorno comparve un tale che non apparteneva al quartiere; aveva alcuni anni di più, poteva avere quattordici o quindici anni. Era un operaio. Passando di lì, non so per quale occasione, né da dove arrivasse, ad un certo momento si ferma, dà un calcio al pallone col quale giocavamo, e si comincia a giocare insieme, e a chiacchierare con questa piccola banda. Credo che per gli altri ragazzi che erano con me non fu un incontro significativo. Per me lo fu moltissimo. Perché fu la rivelazione che esistevano persone al cui mondo non partecipavo, e che erano, in qualche modo, di un’altra razza. Non era in nessun modo un borghese, era un operaio, e compariva nella veste, però, di un giovane che veniva così, a intrattenersi en passant con altri giovani che erano lì a divertirsi. Fu una rivelazione perché non è che io non avessi mai visto degli operai, dei lavoratori, o dei proletari in vita mia, ma nel momento in cui svolgevano le loro funzioni quotidiane. Sarà pure venuto, certamente – anche se io ne conservo memoria poco significativa – qualcuno ad aggiustare un rubinetto che non funzionava, o altre cose di questo genere, con cui poi si poteva anche scambiare qualche parola all’occasione. Ma naturalmente, da questo a rendersi conto che erano, in qualche modo, d’una razza diversa, correva molto. Invece scoprii che esisteva veramente un altro pianeta, e lo scoprii perché, immediatamente, anche per una certa differenza di anni, età e ideologia si legavano fortemente insieme. Costui non era religioso per niente, ma quando dico “per niente” non dico semplicemente che era indifferente alle pratiche religiose; no, era un miscredente tranquillo. Inoltre aveva un tipo di idea della sessualità, del maschile e femminile, e cose di questo genere, alla quale non partecipavo in nessun modo, non solo perché empiricamente ero al di qua di una quantità di esperienze concrete, ma perché ne avevo un’idea assolutamente favolosa, come si addice a qualcuno che ha dieci anni, ed è investito da un certo tipo di educazione.

Fu la scoperta di un altro mondo. Lui ritornò qualche volta a passare da quelle parti perché gli piaceva, evidentemente, anche questo tipo di colloquio, perché probabilmente anche lui scopriva, attraverso questa conversazione, figure di altra specie di cui poteva, probabilmente, già avere molta conoscenza, ma con cui aveva avuto certamente poco dialogo. Insomma, ci annusavamo a vicenda, come può accadere a due specie di cani che si incontrano così passeggiando, e poi i padroni si intrattengono tra loro con^rsando; si annusano anch’essi e c’è qualche tratto che suscita stupore, perplessità, e in ogni caso interesse. Lui era interessato a capire perché io pensavo le cose che pensavo, perché mi comportavo in certi modi, e io ero ugualmente interessato a capile questo, in lui e in me.

E bene che io racconti la conclusione. L’ho perduto praticamente da allora, ma ci fu un incontro il giorno della liberazione di Torino. Erano scesi i partigiani in città. Io abitavo proprio all’angolo di Corso Oporto, dinanzi al quale c’era il comando militare delle SS e dei fascisti. La città fu abbandonata di notte dalle SS, che tentarono di fuggire e furono poi bloccate, in fuga, fuori da Torino, dai partigiani che stavano arrivando. E lui arrivò col rosso fazzoletto partigiano al collo, con un mitra, e quello integrò definitivamente la mia immagine di lui.

Da questo a capire che esistevano i proletari, non come categoria astratta, che del resto a quell’epoca avrei ignorato comunque, ma come fatto concreto, come fatto umano, e che questo coincideva con una certa idea di rivoluzione proletaria, che nel momento si manifestava attraverso la vittoriosa guerra contro il nazifascismo, il passo fu relativamente breve – tutto ciò naturalmente cominciò a modificare radicalmente la mia visione del mondo. Dopo, le mie posizioni si trasformarono sempre più sulla base di una esperienza culturale molto legata ad un certo irrazionalismo, quello che Lukács condannerà nella Distruzione della ragione. I grandi irrazionalisti furono per molto tempo i miei educatori. Da giovane fui incantato da Nietzsche, poi da Kierkegaard, poi da Schopenhauer, poi da Heidegger. Credo che molti siano passati in questo modo, prima di arrivare, poniamo, a Sartre; e non dico tanto il Sartre de L’Etre et le Néant, ma il Sartre della Critique de la raison dialectique, che avrebbe potuto contribuire naturalmente in modo molto più forte alle mie metamorfosi mentali e pratiche – ma ormai vi giungevo “avvertito”. Ma più tardi, quando io cominciai ad orientarmi verso una possibilità di professione intellettuale, negli anni del liceo, questi irrazionalisti si rivelarono dei maestri. Scoprii sempre di più che quello che mi interessava era la reazione da destra contro il capitalismo. Erano apologeti del capitalismo, beninteso. Heidegger è un filosofo nazista, non si discute. E non per le sue compromissioni politiche, ma perché il suo è un pensiero intrinsecamente nazista. Questo non impediva di scoprire in Heidegger certe critiche sopra la volgarità della chiacchiera borghese, del “sì” – non impediva di scoprire in Heidegger un pensatore che denunciava, per esempio, una manipolazione dell’idea di morte, e il mercato della morte, come veniva sviluppato all’interno della borghesia. Che questo fosse fatto, poi, in vista di un “essere per la morte” in nome del quale si poteva fare una sostanziale apologia delle posizioni naziste, poteva diventare assolutamente secondario di fronte alla quantità di problemi che egli veniva ponendo e che erano, per dirla nella maniera più schematica possibile, perfettamente leggibili da sinistra. Insomma, venivo scoprendo quello che avrei più tardi scoperto quando in Marx e in Engels trovavo l’apologia di Balzac.

Questi fu un grandissimo scrittore reazionario, ma un vero, grande realista, che, da destra, riuscì a capire il carattere catastrofico e rovinoso del dominio borghese in nome di un rimpianto del legittimismo, della monarchia, del cattolicesimo, ecc., ma che valeva infinitamente di più come diagnosi corretta dello stato delle cose, dello stato della questione e di appoggio al “che fare?” di quei maledetti poeti socialisti che Engels scherniva rabbiosamente, e che proponevano mondi ideali, soli dell’avvenire, felicità future,’sorti magnifiche e progressive, e non dicevano niente. Facevano della mera retorica, laddove Balzac insegnava davvero come le cose procedevano, dettando un quadro della borghesia da cui finalmente si poteva imparare qualcosa. Questo servì poi, molto più tardi, a confermare in me quelli che naturalmente erano, prima, dei puri sospetti.

Lì entra un altro amico, un compagno di scuola, Nino, figlio d’operai credo, iscritto al Partito, che mi induce a recarmi in federazione. Io non mi iscrissi al Partito, non mi iscriverò mai a niente per tutta la vita, però, di certo, mi feci un’idea di che cos’era il Partito Comunista Italiano. Conobbi gli operai impegnati, conobbi coloro che erano i dirigenti, i segretari, ecc. Non si facevano, poi, straordinarie conversazioni. Conobbi il cinema sovietico. Ero passato, un poco alla volta, da una posizione che fondamentalmente era di tipo anarchico – e anche qui, non nel senso politico, ma, come mi è accaduto qualche volta di dire, nel senso di un anarchismo ancora più radicale, se possibile, cioè proprio di un rifiuto, etimologicamente, di qualunque αρχή, non volevo avere nessun a priori, insomma; scriverò molto più tardi in una mia poesia un verso, se posso osare anche di citare un verso mio: “Non ho creduto in niente”. Questa proposizione mi suscitò molti contrasti presso alcuni benevoli amici che mi dicevano: «Ma come, ma proprio tu? Uomo dell’ideologia e linguaggio, tu che sei ostinato, tenace, testone, nello sviluppare i tuoi principi dici adesso: Non ho creduto in niente?» Tuttavia è una cosa che io penso a fondo, se per credere si intenda il pensare astrattamente che sia possibile raggiungere una sorta di verità, di certezza sulla quale riposare. A mio parere, il materialismo storico in tanto è importante, in tanto per me è significativo, in quanto costituisce l’abolizione di qualunque tipo di fideismo, di riposo in una verità posseduta, ed esiste proprio e soltanto nell’ordine della critica, della contestazione e dell’analisi —per quel che umanamente è possibile – corretta delle cose.

Dirò subito una cosa che mi sta a cuore: io uso la parola “ideologia” positivamente. Questo può apparire strano in un materialista storico, e la cosa è discussa persino nella Prefazione di Lukács, a cui facevo riferimento. L’uso fondamentale in Marx è naturalmente un uso negativo: l’ideologia è la falsa coscienza. A ciò io tendo a rispondere così: a questo mondo non ci sono che false coscienze. Perché nessuno è in grado di raggiungere una coscienza che non sia in qualche modo fondata sopra delle ipotesi, sopra una certa serie di prospettive, di risultati di esperienze, che non possono che essere parziali se davvero è vero che la coscienza viene dopo la realtà, e che prima esiste la realtà in una complessità tale che nessuno può dire: finalmente ho capito il mondo. No. Tutto quello che si può fare è crearsi una falsa coscienza, se così posso dire, che sia meno falsa di un’altra, ma naturalmente io sono il giudice e il responsabile di questa posizione, mi confronto con un cumulo di altrettanto numerose false coscienze che mi circondano, e qui è il bello, e possiamo discutere, ma possiamo soprattutto confrontarci nella lotta politica. Perché la discussione è un elemento concreto molto particolare, che se ha senso è un fare, e non è un dibattito contemplativo, non è un dibattito teorico; in questo momento medesimo io sto, nella misera dimensione di cui sono capace, comunque tentando, qui, di fare qualcosa. Non parlo perché voglio comunicare delle idee, ma comunicare una proposta pratica, qualcosa di praticabile, qualcosa che io cerco di praticare e che sottopongo ovviamente al vostro giudizio.

Allora il compagno di scuola rappresentò, come dire, una fase più evoluta di chi è impegnato, e mi diede il senso di questo impegno. Era un uomo di grandissima abilità come lo erano spesso i propagandisti dell’idea comunista nel Partito di allora. Pieni di attenzione, di riguardo alla debolezza di coloro che non erano ancora conquistati alla causa. Ne comprendevano le ragioni. Se io facevo obiezioni di fronte al socialismo reale, mi dicevano: «Ma certo, capisco benissimo, anche io ho condiviso molto di quello che tu dici. Tieni conto però che… ecc. ecc.», e questo poteva andare avanti all’infinito. Forse, se mai fossimo rimasti giovani, all’epoca in cui i dialoghi tra due persone spesso hanno grande significato, adesso saremmo ancora lì a discutere.

In ogni caso nel ’62, ormai diventato già, in qualche modo, responsabile, raggiunta ormai abbondantemente l’età della ragione, pubblico un libro su Alberto Moravia. Lo cito, perché questo libro conteneva un capitolo che mi stava molto a cuore, che era il capitolo dedicato ad Agostino. Agostino è un grande libro, è un libro di un grande realista, e tutto il sugo di Agostino, ai miei occhi, stava in una cosa che io forse potevo capire meglio di tanti altri rileggendola. E un libro politico. Agostino è un ragazzo tutto chiuso nell’ideologia borghese, di buona famiglia, un ragazzo per bene che si imbatte in una torma di ragazzacci, una banda, una gang poco raccomandabile. E scopre – esattamente come io avevo scoperto con quel ragazzo, Fedele, che farebbe pensare davvero che nomen est omen – al tempo stesso, in piena coincidenza, la differenza sessuale e la differenza sociale. E le scopre, naturalmente, in maniera spaventevole, perché è una piccola banda di delinquenti di fronte alla quale si trova, che lo schernisce e lo umilia fino in fondo perché è un borghese. Malgrado questo Agostino capisce che sta ricevendo grandi insegnamenti. La visione di Moravia è naturalmente la visione di uno che ha letto male Freud, ha letto male Marx, comunque conosce queste posizioni, pressappoco come le può conoscere chi legge un giornale femminile e osserva le risposte da piccola posta, opinioni sociologiche o interpretazioni di sogni, fatte per una tale clientela. Però Moravia era uomo di intelletto. La visione che egli offre del mondo proletario, che poi non è proletario, ma degli altri, dei diversi, di coloro che non sono borghesi, è una visione catastrofica. Sono delinquenti, in fin dei conti. Agostino è in un’impasse, in qualche modo, insolubile. Se vuole capire il mondo deve capire l’enorme importanza che ha per lui capire che è chiuso in una classe. Ma uscire da questa chiusura vuol dire degradarsi. E il libro si conclude non concludendo. Moravia non poteva pensare naturalmente a una “conversione di classe”; Moravia è un borghese – un borghese intelligente; e aveva quel tanto di realismo che gli permetteva di descrivere la crisi di un ragazzo, nella sua coscienza di classe come nella sua coscienza erotica. La coppia Freud – Marx è una coppia canonica d’epoca, oltre che specificamente chiave di volta, grimaldello per aprire le porte nel pensiero moraviano. La cosa si conclude, com’è noto, col bambino ossessionato ancora dall’immagine materna, che tenta di entrare in un postribolo, viene respinto e comprende che passeranno molti anni, non ricordo ora le parole esatte, prima che egli possa affrontare realmente quello che è il suo problema.

In ogni caso, se posso ancora aggiungere un tratto personale, io sono sempre rimasto molto impressionato da un raccontino de Le storie del signor Keuner di Brecht, dove si racconta che un tale incontra un amico dopo molti anni, e l’amico gli dice: «Non sei mutato per niente», e lui impallidisce. Io mi definisco volentieri “aspirante materialista storico”, credo che sia un lusso dichiararsi materialisti storici e sia una conquista che non si può prendere alla leggera. Gli anni di apprendistato continuano per tutta la vita. Rispondendo ad un piccolo questionario, una volta, alla domanda: “Qual è il suo difetto maggiore?”, dissi: l’ostinazione. “E la sua migliore virtù, a suo parere, qual è?”: l’ostinazione. E, in effetti, sono ostinato. Mi sono domandato appunto, se non fossi un poco in errore come quell’eroe brechtiano di fronte a questo problema, di non esser mutato. Ma poi mi sono accorto che: ero partito come irrazionalista e anarchico; ero diventato uno stalinista molto rigido, cosa che mi pareva allora naturalissima, dovendo scegliere tra capitalismo e socialismo – per dirla molto in breve: tra l’imperialismo americano (e la sua espressione allora involontariamente connessa ma suprema che era il nazismo), da un lato, e lo stalinismo reale, dall’altro; poi sono diventato filocinese, perché mi pareva che ciò potesse rappresentare un superamento delle burocratizzazioni del socialismo reale; non faccio l’elenco delle tappe presso cui sono passato, ma credo che l’ultimo approdo significativo, come precisa posizione, fosse il compromesso storico e l’eurocomunismo di Berlinguer, e questo nell’epoca stessa in cui io mi trovai a far parte del Parlamento (entrai in Parlamento nel ’79 e ne uscii nell’83). Dopo, accadde qualcosa che io giudico terribile, e cioè la fine del Partito Comunista Italiano, evento del quale penso che tutti stiamo ancora pagando il prezzo.

Ma quando mi domandano: “Che cosa pensi di fare come intellettuale? Che cosa pensi, in ogni caso che debbano fare gli intellettuali?”, la mia risposta è: Quello che hanno fatto sempre, se hanno svolto il loro ruolo. E cioè di collaborare a diffondere o consolidare, per quel tanto o pochissimo di cui sono capaci, la coscienza di classe. Non è cambiato niente. Il compito rimane lo stesso. Se il compito oggi è particolarmente difficile è perché il proletariato esce da una sconfitta planetaria, ha perso totalmente la coscienza di sé, e ci troviamo di fronte, nel migliore dei casi, a qualche residuo di ordine socialdemocratico. Ma per chi voglia saperne di più vorrei rinviare alla lettura, e questo è già superfluo per quello che ho detto, di Gramsci. Non soltanto là dove affronta esplicitamente il problema degli intellettuali, dell’intellettuale organico, dell’intellettuale tradizionale, e scopre che ogni classe sociale, che è il punto fondamentale, ha i suoi intellettuali organici; che gli intellettuali organici della borghesia si presentano come intellettuali tradizionali; che si tratta dunque, per un proletariato, di elaborare i propri intellettuali organici, di contrapporli a quelli tradizionali, e di convertire, al possibile, gli intellettuali tradizionali a diventare organici al proletariato – io preferisco dire al proletariato piuttosto che al partito, massime in un momento in cui il Partito non c’è.

Ma il secondo punto che mi sta a cuore sottolineare, e a cui mi permetto di rinviare molto rapidamente, sono le cosiddette Tesi di filosofia della storia di Benjamin, laddove, nel momento terminale della riflessione di Benjamin, cioè di uno dei più grandi pensatori in assoluto del Novecento, si pongono due punti. Uno: non è la deplorazione del nazismo che domina il testo, cosa troppo ovvia per spenderci molte parole – credo che in quelle pagine meravigliose ci sia appena un rapido accenno – ma della socialdemocrazia, con l’accusa che è la socialdemocrazia che ha distrutto la coscienza di classe, lo spirito di classe, la voglia di combattimento alla classe operaia, ed è responsabile della sua rovina. Questo mi pare un tratto da acquisire storicamente una volta per tutte; e non ha niente a che vedere con il compromesso. Il compromesso è una cosa che si può fare soltanto a partire da una posizione netta e forte di classe; soltanto allora ogni compromesso storico è un grande compromesso. Qui hanno ragione i nostri “nemici” – mi permetto di usare questo vocabolo plurale – quando dicono che in fondo la Repubblica italiana – loro dicono la Prima Repubblica, ma siamo ancora nella Prima Repubblica perché, che io sappia, non ne esiste né una seconda né una terza – e la Costituzione italiana sono nate da un grande compromesso storico, tra le due grandi forze popolari del proletariato e del popolo cristiano. Questo compromesso è un capolavoro che ha dato la più importante Costituzione di tutto l’Occidente, una Costituzione che, secondo me, davvero va difesa fino in fondo in un momento in cui invece viene insultata e vilipesa. Se io dovessi oggi dire che cosa dovrebbe fare un politico di sinistra che volesse essere veramente di sinistra, potrei rispondere con un’unica battuta: Vorrei che attuasse la Costituzione; non solo difenderla, ma svilupparla e portarla fino in fondo. Per dirla molto semplicemente: se io fossi Prodi, e mi si domandasse: «Qual è il tuo programma?», io, come programma, minimo ma chiaro, direi: Attuare i principi costituzionali. Garantire che questa sia una Repubblica fondata sul lavoro, cioè fatta da lavoratori, per cui lavoratore e cittadino formano una cosa sola, per cui si ha diritto alla salute in quanto cittadino, si ha diritto alla pensione in questo modo, si ha diritto alla scuola senza spese per lo Stato, in base alla Costituzione. Farei questo elenco. E ogni proposta di un programma dettagliato, di duecento e più pagine, dovrebbe fare riferimento, in ogni istante, al principio costituzionale al quale si vuole ricondurre. Ma io non sono Prodi, naturalmente, e tuttavia mi permetto lo stesso di dire questo.

Il secondo punto importante di Benjamin è il seguente: il proletariato è caduto in un errore spaventoso quando si è proposto di pensare alla felicità dei figli futuri, quando il problema, invece, è la vendetta. Bisogna vendicare le sofferenze dei padri. E questo coincide perfettamente col rifiuto dei padri fondatori quando dicevano: i comunisti, il giorno in cui realizzeranno il comunismo faranno quello che vorranno, noi non abbiamo niente né da dire né da progettare e tanto meno da preoccuparci della loro felicità. Noi siamo nati per vendicare le sofferenze dei padri: non esiste coscienza di classe se non esiste odio di classe.

Questa parola è talmente démodé, talmente desueta, che proprio per questo merita che io vi insista un momento, a questo punto. La borghesia odia il proletariato, perché non è contenta soltanto di sfruttarlo, ma nutre veramente un odio radicale e una piena coscienza del proprio statuto di classe. È deplorevole che il novantotto per cento, ad essere ottimisti, della gente che abita questo pianeta non abbia coscienza di classe, e sia rappresentata da proletari di fatto, o da sottoproletari, che è cosa ancora più terribile e pericolosa. Per questa gente io spero che la felicità dei figli sia diventata un lusso tale ai nostri tempi da togliere un po’ di buone preoccupazioni al riguardo, e riportare l’accento sopra le sofferenze, che non sono solo quelle da vendicare con odio, sofferte dai padri, ma anche quelle che intanto cominciano a soffrire direttamente, essi stessi, nella loro carne. Questo perché la condizione di disperati, che non è la povertà, beninteso – qui si rischia una grande confusione ideologica, di fronte all’unica dicotomia che si apre: quella tra sfruttatori e sfruttati; si può essere sfruttatori ed essere poveri e si può essere sfruttati ed essere ricchi; l’importante è capire come si sta nella società – è una condizione necessaria alla rivoluzione: non ci sono che le catene, da perdere.

Ma c’è una pagina che mi interessa, che è una pagina dei Minima moralia di Adorno, laddove l’autore si pone il problema se è bene o male essere gentili nei confronti degli altri. Adorno consiglia lo sgarbo, perché ogni rapporto di gentilezza con gli altri, viene in qualche modo a rafforzare l’idea che viviamo in un mondo “umano”. E doveroso, quindi, essere sgarbati di fronte agli altri per rendere evidente che i rapporti sono “disumani”.

Adorno tuttavia, in conclusione, dice: è possibile un rapporto solidale nella sofferenza. Dice poco, perché naturalmente Adorno non era un materialista storico, era un individualista sfrenato e irrazionale. Però era uomo di intelletto. Se approfondiamo quest’ultima espressione e la rendiamo politicamente esplicita, io credo che avremmo una buona linea di condotta: occorre essere sgarbati, sgarbati e carichi di odio nei confronti di coloro che non appartengono al proletariato e ne sono nemici; credo però che altrettanto forte possa essere la solidarietà umana con i proletari e, in esclusiva, con coloro che si rendono complici con noi di un progetto eversivo, e questo progetto eversivo conserva il nome di rivoluzione.

Occorreranno cinque anni, cinquanta, cinquecento, non lo so. La borghesia ha impiegato secoli per arrivare al potere. Naturalmente questo riguarda pochissimo il breve tempo della nostra esistenza, ma questo non cambia di un millimetro il “che fare?” di fronte al quale noi possiamo ritrovarci.

Adesso vorrei leggervi, per chiudere, una pagina di Brecht. Avrei voluto citare qualcosa dalle Cinque difficoltà per chi scrive la verità, che è un testo assolutamente straordinario. Avrei voluto citare un passo dei Dialoghi di profughi, dove, con straordinaria perfezione, si spiega quanto costa la conoscenza del materialismo storico, dato che gli studi sono cari, e si può avere una conoscenza un po’ provvisoria, a prezzo scontato, magari con poco Ricardo, con poco Hegel. Se si volesse approfondire però, occorrerebbe avere così tanto tempo e così tanto denaro a disposizione, che implica una posizione lussuosa, insomma. Essere materialisti storici è diventato un privilegio. Una pagina stupenda.

Vi leggerò invece una brevissima poesia di Brecht, e lo faccio tanto più volentieri perché ho pensato in onore di Ingrao questo mio intervento, e tutti e due amiamo la poesia: allora finire con un testo di un grande poeta mi pare la maniera migliore. E una poesia del 1933, e si chiama Lode del comunismo:

È ragionevole, chiunque lo capisce: è facile.
Non sei uno sfruttatore, lo puoi intendere.
Va bene per te, informatene.
Gli idioti lo chiamano idiota, e i sudici sudicio.
È contro il sudiciume e contro l’idiozia.
Gli sfruttatori lo chiamano delitto.
Ma noi sappiamo:
è la fine dei delitti.
Non è follia ma invece
fine della follia.
Non è il caos ma
l’ordine, invece.
È la semplicità
che è difficile a farsi.

Bibliografia essenziale

Benjamin Walter, Parigi capitale del XIX secolo, Einaudi, Torino 1986 (I “passages” di Parigi, Einaudi, Torino 2000);

Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962;

Gramsci Antonio, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975;

Marx Karl, Engels Friedrich, Opere, vol. VI, Editori Riuniti, Roma 1973;

Kant Immanuel, Scritti politici e di filosofia della storia, Utet, Torino 1956 (1965);

Lukács György, Storia e coscienza di classe, Sugar, Milano 1967;

La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959;

Cerutti Furio, Claussen Detlev, Krahl Hans – Jurgen, Negt Oskar, Schmidt Alfred, Storia e coscienza di classe oggi, con scritti inediti di Lukács (1918 – 1920), Edizioni aut aut, Milano 1977;

Brecht Bertolt, Storie da calendario, Einaudi, Torino 1959;

Poesie e canzoni, Einaudi, Torino 1959;

Scritti sulla letteratura e sull’arte, Einaudi, Torino 1973;

Dialoghi di profughi, Einaudi, Torino 1962;

Adorno Theodor Wiesengrund, Minima moralia, Einaudi, Torino 1979

Nota

Questo testo è, per volontà dell’autore, trascrizione fedele della registrazione della Lectio tenuta da Edoardo Sanguineti in occasione dei festeggiamenti per il novantunesimo compleanno di Pietro Ingrao, il 20 marzo 2006 a Roma, organizzati dal Centro studi e iniziative per la Riforma dello Stato, di cui è Presidente Mario Tronti.

Edoardo Sanguineti ha apportato alla Lectio “minimi ritocchi e restauri, anzi minimissimi”; e ringrazia Agnese Manni per la collaborazione e l’assistenza prestata per l’edizione.

Esitenzialismo o marxismo?

icoQuesta traduzione italiana riproduce l’edizione del 1947 di Existentialisme ou Marxisme?, titolo con cui apparve per la prima volta in assoluto quest’opera di Lukács. La traduzione è apparsa solo nel 1995 grazie all’editore Acquaviva. Rispetto all’edizione francese del 1961, essa non riporta la nota dell’autore per la seconda edizione.
Grazie a Marco Riformetti e Antiper.org.

Lukács parla

di György Lukács

intervista di Naïm Kattan

«La Quinzaine littéraire», 1-15 dicembre 1966

trad. it. gyorgylukacs.wordpress.com

Il suo appartamento è situato all’ultimo piano di uno stabile che dà sul Danubio. I libri tappezzano i muri. Guardo qua è la a caso: opere complete di Hegel e di Marx. Sul tavolo dei libri, delle riviste in ungherese, in tedesco, in francese. È qui che da dieci anni Lukács lavora alle sue opere.

Ho iniziato la mia opera vera e propria a settant’anni. Pare che esistano delle eccezioni alle leggi materiali. In questo sono un adepto di Epicuro. Anche io sto invecchiando. Da tanto tempo cerco la mia strada. Sono stato idealista, poi hegeliano. In Storia e coscienza di classe ho provato ad essere marxista. Per molti anni sono stato funzionario del partito comunista a Mosca. Ho potuto rileggere, da Omero a Gorky. Fino al 1930 tutti i miei scritti erano degli esperimenti intellettuali. Poi ci furono degli abbozzi e dei preparativi. Anche se sono superati, questi scritti sono stati di stimolo ad altri. Continua a leggere

Ontologia dell’essere sociale e composizione di classe

di Costanzo Preve

«Primo Maggio» n. 16 1981-82

Queste brevi note sono dedicate alla segnalazione e alla sollecitazione a uno studio personale approfondito della fondamentale opera dell’ultimo Lukács, Ontologia dell’Essere Sociale, Editori Riuniti (due volumi in tre tomi, di cui il primo già pubblicato anni fa, L. 45.000). Lo scrivente, che considera la tendenza filosofica fondamentale e l’argomentazione teoretica di base di questo lavoro estremamente corretta e anzi illuminante per orizzontarsi nell’attuale congiuntura teorica mondiale, è peraltro tristemente consapevole, da un lato, della propria inadeguatezza soggettiva a cogliere appieno la pregnanza filosofica di questo capolavoro di passione teorica, e dall’altro lato, della quasi totale impossibilità oggettiva che nell’attuale situazione storico-politica italiana un lavoro del genere possa anche soltanto essere preso seriamente in considerazione1.

Premesso questo, essendo «Primo Maggio» una rivista di storia del movimento operaio e di analisi e ricerca sulla «composizione di classe» una recensione di carattere genericamente filosofico potrebbe forse essere inappropriata. Ci si accosterà allora all’Ontologia con un’ottica consapevolmente limitata, tendente a discutere quasi esclusivamente il rapporto che crediamo possa intercorrere fra la problematica teorica che emerge dalla Ontologia stessa (la dialettica materialistica fra soggettività ed oggettività a cui il lavoro sociale dà luogo nel rapporto di produzione capitalistico) e l’attuale crisi del pensiero che mette al centro della sua riflessione la «composizione di classe». Non sì troverà qui dunque un riassunto del ricchissimo contenuto dell’Ontologia (da rinviare ad altra sede), ma soltanto una prima tematizzazione di questo rapporto, iniziando da alcune riflessioni sullo stato attuale del «pensiero della composizione di classe» per finire con alcune indicazioni sull’utilità della Ontologia per chi si sente impegnato a proseguire una riflessione sul nodo di problemi che un tempo connotava la «problematica operaista».

1. La tendenza teorica marxista che ha messo al centro dell’analisi del rapporto sociale capitalistico di produzione la problematica della «composizione di classe» ha raggiunto risultati rilevanti, in parte ormai consolidati sul piano storico e irreversibili su quello teorico. Il carattere globalmente positivo di questa tendenza teorica presenta inoltre un aspetto specificamente nazionale, italiano, e un aspetto internazionale, che formano in realtà un unico complesso teorico indissolubile, anche se possono essere meglio trattati separatamente, per comodità e chiarezza.

L’aspetto nazionale della rilevanza della scuola teorica della centralità della composizione di classe deve essere visto nel fatto che solo essa seppe di fatto porsi come alternativa globale allo storicismo togliattiano. Quest’ultimo non ebbe certo mai vera rilevanza teorica, essendo sempre più in fondo modellato sulle esigenze tattiche del «far politica» del «partito nuovo» e funzionando come ideologia della legittimazione di quest’ultimo e come «campo teorico» nel quale potevano anche giocare delle «mezze ali» (da Amendola a Ingrao).2 Lo storicismo fu comunque il medium della socializzazione intellettuale di intere generazioni di «oppositori politici» della DC, e di fatto agì come potente «ostacolo epistemologico» alla comprensione del ruolo specifico delle lotte operaie nello sviluppo capitalistico; quando fece uso del concetto di «composizione di classe» lo fece in modo statistico-positivistico, senza mai legare composizione tecnica e composizione politica nel loro rapporto con la lotta di classe.3 Opposizioni teoriche allo «storicismo marxista» ce ne furono certo molte (da Della Volpe a Luporini, da Colletti prima maniera a Geymonat), ma l’unica opposizione teorico-pratica fu di fatto storicamente soltanto la scuola della composizione di classe.4

L’aspetto internazionale deve essere visto invece nel fatto che la scuola della «composizione di classe» seppe in un certo modo opporsi simultaneamente agli impianti teorici in apparente opposizione ma in realtà in segreta solidarietà antitetico-polare del «marxismo orientale» e del «marxismo occidentale», queste due grandi narrazioni «marxiste» rispettivamente della crescita delle forze produttive e dell’autocoscienza rivoluzionaria del soggetto-oggetto della storia idealtipicamente concepito, il proletariato astratlo in-sé-e-per-sé. Entrambe queste «grandi narrazioni» saltavano con palese fastidio le corpose specificità materiali dei comportamenti e delle culture delle concrete «composizioni di classe», la prima perché interessata esclusivamente alla manipolazione dei concreti comportamenti operai dentro la compatibilità del meccanismo politico del «socialismo reale», la seconda perché interessata alla concettualizzazione di forme pure e astrattamente perfette di comportamento rivoluzionario «veramente» comunista. La teoria della composizione di classe si sporcava invece le mani con la forza-lavoro come capitale variabile e nello stesso tempo come limite logico-storico del capitale, incurante della Grande Narrazione della Classe Operaia come principale forza produttiva (marxismo orientale) o come soggetto-oggetto unico della storia che raggiunge l’autocoscienza finale di essere tale (marxismo occidentale).

Consapevole della propria novità teorica, e inebriata dei suoi successi, la teoria della composizione di classe fece molto precocemente lo sciagurato «passetto in avanti» che l’avrebbe patologicamente trasformata in una forma di gentilianesimo operaio (1’«operaismo», appunto), per il quale lo stesso rapporto di produzione capitalistico è posto (e dunque, a rigore, è revocabile, come in ogni idealismo che si rispetti) dalla attività «classista» della composizione di classe stessa, che si tratta volta per volta di definire nella sue forme fenomeniche (dalla «autonomia del politico» alla pratica autovalorizzante del desiderio). L’acclimatarsi rigoglioso di questo «gentilianesimo operaio» è certo facilmente spiegabile in termini di continuità storica del ceto intellettuale italiano, analogamente alla continuità storica delle strutture statuali dal fascismo alla democrazia cristiana. Ma non è questo l’essenziale, e anzi una analisi in termini di mera sociologia degli intellettuali potrebbe portarci fuori strada. La questione di fondo risiede nel fatto che in effetti la teoria della composizione di classe, così come è stata di fatto finora praticata, si trova strutturalmente in bilico fra due crepacci teorici e pratici. Da un lato, non può e non deve regredire, in modo esplicito o silenzioso agli impianti concettuali dello storicismo italiota, del materialismo dialettico orientale o del marxismo filosofico occidentale, pena la perdita secca e immediata di tutte le conquiste teoriche faticosamente realizzate. Dall’altro lato, la continua immanente tentazione strutturale di trasformare l’attività generica della composizione di classe in un demiurgo onnipotente del rapporto sociale di capitale la porta facilmente a confluire (come ramo e affluente apparentemente «di sinistra» e «operaio») in quel grande mare di pensiero soggettivistico e irrazionalistico che ha mutuato oggi dalla storia dell’architettura il nome di «pensiero post-moderno», in cui, consegnato il lavoro sociale e la riproduzione materiale alle macchine, i soggetti si aggirano fra simulazioni simboliche mimando un comunismo psichedelico fra le macchinette elettroniche. Molti indizi permettono di affermare che a questo si è già da tempo arrivati.5 La filosofia accademica italiana usa già il concetto di «composizione di classe» come legittimazione pseudo-materiale e referente/destinatario della propria lettura soggettivistico-irrazionalistica dei rapporti sociali.6 Il massimo esponente dell’operaismo legittima con la propria personale interpretazione della composizione di classe la sparizione completa del nesso che lega dialettica, lavoro sociale e memoria storica, fondando il «comunismo» proprio sulla radicale assenza di memoria storica, vista quest’ultima (in modo pseudonicciano) come nemica dell’erompere del desiderio liberatore.7 Infine la scuola della «autonomia del politico» (uno dei fenomeni più ipocriti e reazionari della storia – peraltro non brillante – della cultura politica italiana) ha già da tempo abbandonato ogni riflessione materialistica sulla teoria della composizione di classe per i giochi di simulazione politologici conditi con una sorta di misticismo filosofico a metà fra esistenzialismo e neo-positivismo.8

In tutti e tre i casi segnalati (ma se ne potrebbero fare altri) c’è un denominatore filosofico comune: il rifiuto radicale di una considerazione ontologica della specificità dell’essere sociale, il sorriso di scherno verso ogni tentativo di riconsiderazione materialistica della teoria del valore, e soprattutto la volatizzazione del ruolo cardine del lavoro sociale nella riproduzione dei rapporti sociali. Si fa uso letteralmente di tutto quello che offre il mercato filosofico internazionale, in un bricolage frenetico che offre l’apparenza di una grande varietà e anticonformismo di superficie, combinando insieme Baudrillard e Heidegger, Luhmann e Lyotard, Wittgenstein e Foucault. Non bisogna però farsi trarre in inganno dall’effetto di diversità da supermercato. Questi materiali tecnici apparentemente eterogenei si combinano in realtà in un «sistema teorico» ferreo e chiuso assai più di quello hegeliano. Questo sistema teorico ruota intorno all’idea-forza della sparizione della centralità del lavoro sociale alienato come chiave ermeneutica fondamentale per la comprensione dei rapporti di classe.9 La risoggettivizzazione esistenzialistica che ovviamente ne consegue deve però adattarsi all’epoca della «tecnica» in cui viviamo, con conseguente adozione di tutta la concettualizzazione neo-positivistica del lavoro capitalistico diviso, dalle scienze della natura alle scienze sociali.10 L’effetto finale è una «virile» e «disincantata» ermeneutica della manipolazione, che può essere maxweberianameme accettata come «gabbia d’acciaio» o heideggerianamente messa in discussione come «destino della metafisica occidentale» (ed è ovvio che questo seconda versione è molto più simpatica della prima), ma che è comunque interpretata come «falsificazione definitiva» del materialismo storico e della critica dell’economia politica. Coloro stessi che mantengono l’aspirazione al «comunismo» come valore lo fanno ormai in modo del tutto staccato dalle legalità ontologiche strutturali che il mondo dell’essere sociale presenta.11 In questa situazione l’Ontologia di Lukács si pone a un tempo come radicalmente «inattuale» (di fronte alle tendenze filosofiche che appaiono maggioritarie oggi) e sorprendentemente «attuale» nell’indicare gli elementi teorici generali per un superamento in avanti dell’impasse concettuale in cui ci troviamo, e in cui si trova ovviamente anche ciò che resta di razionale e di progressivo nella teoria della composizione di classe.12

2. Il termine Ontologia dell’Essere Sociale non è affatto «vecchio» e obsoleto come potrebbe sembrare al lettore distratto. Tutt’altro. In primo luogo, il termine «ontologia» deve essere inteso nel contesto di un indirizzo polemico verso la «tendenza gnoseologica» della filosofia borghese contemporanea (Lukács parla anche talvolta di ontologia come di intentio recto e di gnoseologia come di intentio obliqua, in un’accezione che peraltro non ha nulla a che fare con la «teoria del rispecchiamento» ingenua del Diamat sovietico, ma che incorpora nella nozione di intentio recto la distinzione dialettica fra essenza e fenomeno). In un primo tempo questa tendenza gnoseologica era legata al compromesso fra borghesia e religione (il «compromesso bellarminiamo») in cui il pensiero borghese legato allo sviluppo della scienza e della tecnica riceveva il semaforo verde per il suo libero procedere nella incorporazione capitalistica del sapere scientifico mentre in cambio accettava di non dare una interpretazione materialistica generale alla totalità dinamica del sapere scientifico in continua crescita. In un secondo tempo, caduta ogni pretesa di residua «verità ontologica» dei dogmi religiosi, e ridotto il bisogno religioso a categoria esistenzialistico-psicologistica atta a «dare un senso» all’universo sociale capitalistico che in quanto tale non ne ha nessuno, la tendenza gnoseologica diventa apertamente sofistica accademica estenuata, da un lato, e teoria generale dell’uso manipolatore delle scienze sociali come «ingegneria capitalistica», dall’altro.13 In secondo luogo, il termine «ontologia dell’essere sociale» deve essere inteso nel contesto di una polemica esplicita con il «marxismo orientate», l’ideologia statale di legittimazione dei paesi a «socialismo reale» che, in qualità di «marxismo monopolistico di stato», sancisce pseudoscientificamente l’inesorabilità storica del «meccanismo unico» di politica, economia e ideologia che sincronizza insieme stato, partito e sindacato come caso particolare dell’applicazione alla società umana delle leggi generali «dialettiche» della natura e della storia. Il «marxismo orientale», questa grande narrazione feticistica delle forze produttive, è costantemente e dettagliatamente individuato nell’opera di Lukács come scolastica della manipolazione, naturalizzazione unidimensionale della storia umano-sociale e ideologia del potere.

È proprio in quanto il dispotismo burocratico del «socialismo reale» violenta sistematicamente e strutturalmente il carattere specificatamente «ontologico» dell’agire sociale umano in ciò che appunto lo differenzia dai complessi inorganici e organici del mondo naturale che lo stesso termine di «ontologia dell’essere sociale» è automaticamente in opposizione frontale con il marxismo sovietico.14 In terzo luogo, il termine «ontologia dell’essere sociale» deve essere inteso nel contesto di una polemica esplicita contro ogni tentativo (spesso perseguito in modo soggettivamente onesto e ricco di intelligenza) di opporsi al «marxismo orientale» in nome di un «marxismo occidentale» il quale, riprendendo posizioni del giovane Lukács o di Karl Korsch, lavora sull’ipotesi di una concezione idealistica di proletariato come coincidenza di soggetto e di oggetto caratterizzante proprio l’essere sociale capitalistico rispetto ai modi di produzione precapitalistici. Il «marxismo occidentale», questa grande narrazione idealistico-esistenzialistica del soggetto rivoluzionario, è costantemente e dettagliatamente individuato nell’opera di Lukács come risposta ontologica a una falsa ontologia (il Diamat), cioè come risposta soggettivistica impotente alla manipolazione pseudooggettivistica dell’universo sociale (si pensi all’opposizione di Sartre al marxismo sovietico, s’intende non dal punto di vista della sua legittimità politica – sacrosanta – quanto dal punto di vista della sua capacità teoretica di superare realmente lo stalinismo).15 In quarto luogo, il termine «ontologia dell’essere sociale» deve essere inteso programmaticamente come riaffermazione dell’unità inscindibile fra materialismo dialettico e materialismo storico, non certo nel senso della individuazione delle «leggi sociali» come caso particolare, applicato al sociale, delle «leggi dialettiche» del mondo naturale (si è già visto come questa non sia altro che l’ideologia della legittimazione dell’odierno «socialismo reale»), quanto nel senso della inseparabilità di principio fra ideologia e scienza, fra filosofia e conoscenza scientifica, fra forma e contenuto.16

Come si vede, si sono qui elencate almeno quattro buone ragioni per motivare la scottante attualità di questo «titolo», apparentemente così obsoleto e «fuori moda». E tuttavia, siamo rimasti ancora a monte del discorso di fondo da fare che ci permetterà di cogliere il nucleo teorico della proposta ontologica di Lukács, fondata sull’isolamento metodologico della categoria di lavoro come posizione teleologica, da un lato, e come modello di prassi sociale, dall’altro lato. La scelta metodologica «strategica» della categoria ontologica del lavoro non ha ovviamente nulla a che vedere né con l’apologetica lavoristica delle mani callose, del sudore della fronte e del lavoro «produttivo» (Lukács non è Kim II Sung, e neppure Lin Piao – qui non c’è nessun Yu Kong che rimosse le montagne né tantomeno Robinson Crusoé che costruisce il «capitalismo in una sola isola») né con una teoria generale del lavoro «creatore» (già individuata come teoria borghese nel Marx della Critica al Programma di Gotha). Tutto al contrario. Il lavoro è la «categoria ontologica centrale», la Urform della prassi umana, perché è in virtù delle sue caratteristiche e in particolare del suo carattere teleologico che l’Essere Sociale si costituisce nella sua originalità, nella sua differenza qualitativa rispetto alla sfera della natura organica e inorganica. L’attività lavorativa consiste nella «posizione di uno scopo all’interno dell’essere materiale» e la sua realizzazione come risultato adeguato, ideato, voluto, rappresenta la formazione di una nuova oggettività. Mentre tutta la filosofia tradizionale, da Aristotele a Hegel, mette aporeticamente in antitesi teleologia e causalità, nel lavoro – sostiene Lukács – la teleologia appare come categoria specifica della prassi sociale, ma all’interno del mondo causalmente determinato. Si tratta di una «concreta, reale, necessaria coesistenza» di causalità e teleologia, nell’ambito della quale la causalità si trasforma, per opera della teleologia in «qualcosa di posto», ne assume cioè il carattere fondamentale che consiste nel richiedere un «autore consapevole», una «coscienza che ponga degli scopi». L’atto del «porre» ha dunque, nella visione lucacciana, un «carattere ontologico insuperabile» in virtù del quale la coscienza umana cessa di essere un epifenomeno e dà impulso alla trasformazione e innovazione della natura.17

A questo punto, siamo già in grado di fare due osservazioni. In primo luogo, la delucidazione ontologica del rapporto fra causalità e teleologia condotta da Lukács permette di prendere posizione nei confronti della posizione teorica che ha in Lucio Colletti il principale sostenitore, posizione che liquida integralmente come «metafisico» tutto il complesso teorico marxiano, viziato secondo Colletti di «dialettismo teleologico» e opposto alla «causalità scientifica» delle scienze della natura. Nelle parti della sua opera dedicate a Hegel, Lukács chiarisce invece come sia proprio nella polemica contro l’assorbimento metafisico della causalità nella teleologia (e inversamente nell’assorbimento della teleologia nella causalità) che il concetto marxiano di lavoro si demarca nettamente da quello hegeliano, con il quale rompe proprio su questo punto.18 È noto che l’automatismo teleologico che mette la dialettica al di sopra e fuori dei complessi di posizioni teleologiche dei singoli e dei gruppi umani concretamente definiti dentro le possibilità storiche determinate dai rapporti sociali di produzione (e ovviamente dalla loro rivoluzionarizzazione cosciente) finisce con l’avallare o una vera e propria «teoria del crollo» o quanto meno una ancora più ambigua e teoricamente pericolosa «idea generica di crollo». Le posizioni teoriche di Colletti (e si vedano, a un maggior livello di serietà, le posizioni di Bedeschi, e, a un livello più folkloristico e da rotocalco, quelle di Pellicani e Settembrini) sono rivolte a liquidare la nozione classico-marxiana del rapporto fra causalità e teleologia insieme con la posizione volgar-marxista. Tutto il lavoro di Lukács è una risposta preventiva e esauriente a questo episodio italiano di quel grande fenomeno filosofico «imperialistico» che è stato nel secondo dopoguerra il pensiero di Sir Karl Popper, il cui rapporto con il Diamat è simile a quello dei duellanti nei pupi siciliani: combattono con grandi urli e sfide, ma hanno bisogno l’uno dell’altro.19

In secondo luogo, e ciò è ancora più importante, la delucidazione metodologica lucacciana del rapporto fra causalità e teleologia finisce inevitabilmente con l’incontrare l’analoga problematica che nel linguaggio di Heiddeger si chiama rapporto fra destino storico del mondo occidentale e progettualità soggettiva dentro questa destinalità. Sempre più appare infatti chiaro che il punto di tangenza fra Heidegger e il marxismo non sta (come si è a lungo creduto) nella opposizione piccolo-borghese del vivere-per-la-morte all’ottimismo proletario del vivere-per-la-rivoluzione, quanto piuttosto nella spietata (e corretta) diagnosi negativa heideggeriana del marxismo come culmine soggettivistico della metafisica occidentale in cui l’umanesimo prometeico del lavoro è soltanto posto a livello della totalità, ma non messo in questione.20

E tuttavia, quale differenza fra Lukács e Heidegger! Il passeggiatore solitario della Foresta Nera coglie certo in modo profondo e acuto la struttura teorica portante della metafisica occidentale (parola che è anche una metafora per indicare il destino del mondo borghese capitalistico diventato da «occidentale» una società «mondiale») e la coglie in modo molto più profondo, a esempio, dei «francofortesi». Tuttavia in lui permane irrisolto il rapporto fra differenza ontologica e struttura dialettica dei comportamenti umani e delle posizioni teleologiche, con finale svalutazione dell’agire politico e invito all’ascolto dell’Essere.21 In Lukács invece una analoga posizione di svalutazione dell’umanesimo prometeico del lavoro (nel suo linguaggio: soggettivismo settario e manipolazione staliniana) mantiene però aperta la possibilità di esiti alternativi e non manipolatori delle posizioni teleologiche legate al lavoro stesso. Ci sta qui indubbiamente una nozione più corretta di dialettica.

Le due osservazioni fatte sopra ci permettono dunque di capire che il progetto teorico dell’Ontologia non ha nulla a che vedere, da un lato, con l’automatismo dialettico-teleologico imputato pretestuosamente da Colletti a tutto il pensiero marxiano e che è in grado di opporsi seriamente, dall’altro, agli esiti antidialettici che coronano la spietata (e, ripetiamo, fondamentalmente giusta) diagnosi di Heidegger sull’umanesimo/economicismo come coronamento finale, segretamente e paradossalmente nicciano, della metafisica occidentale. Tutto questo non è poco. Tornando alla «teoria della composizione di classe» vediamo infatti che essa, avendo sempre disprezzato la filosofia e facendosene un vanto, è scivolata (così come i famosi «scienziati praticoni» contro i quali polemizzava il vecchio Engels) verso le peggiori filosofie che il mercato delle idee offriva: gentilianesimo attivistico e demiurgico, niccianesimo straccione della «rude razza pagana», teoria dei rizomi e delle macchine desideranti, autovalorizzazioni proletarie e mitizzazione politologica del comando.

Tutto questo era in una certa misura inevitabile. La teoria della composizione di classe doveva rompere, per costituirsi autonomamente come tale, con quelle forme di pseudo-teologismo pretestuoso e ideologico per il quale la «classe operaia» era una sorta di ideal-tipo progettuale che doveva sempre «farsi carico delle superiori esigenze della comunità nazionale», in vista, ovviamente, di una sorta di modello di capitalismo keynesiano e/o di socialismo reale. Se questo era il «fine», era inevitabile concludere con lo slogan: abbasso il regno dei fini! Ed è interessante che la polemica contro il regno dei fini di neokantiana e socialdemocratica memoria coincidesse con un «vogliamo tutto!» che dovrà un giorno essere analizzato come paradigma delle grandezze e delle miserie del Sessantotto.

Il carattere ontologico del concetto lucacciano di posizione teleologica non ha ovviamente nulla a che vedere con il socialismo neo-kantiano del «regno dei fini» da approssimare con la popperiana «ingegneria sociale e spizzico». È infondato dunque il timore di chi può pensare che si voglia ritornare a una concezione finalistica e ideal-tipica della classe operaia che abolisca quella materialistica e strutturale della teoria della composizione di classe. Lo impedirebbe lo stesso approccio ontologico lucacciano.22

La scuola della composizione di classe dovrà invece prima o poi fare chiarezza al suo interno sul suo atteggiamento verso la teoria marxiana del valore. È noto che la composizione staliniana della presunta «legge del valore-lavoro» ha fatto cadere in discredito l’intera concettualizzazione marxiana del valore, debolmente difesa da chi pensava di cavarsela riducendo il «valore» a semplice metafora della «alienazione» o del «mondo-a-testa-in-giù» del Colletti prima della abiura. Nella Ontologia la teoria del valore è ampiamente trattata in termini non dissimili da quelli che caratterizzano in Italia scuole marxiste come quella di Gianfranco La Grassa. Conformemente al carattere filosofico dell’opera non si è di fronte a un approccio tecnico ai primi problemi economici della teoria del valore, quanto invece a una trattazione ontologica generale che connette l’«astrazione reale» del valore con la specificità del modo di produzione capitalistico (e su questo Lukács è sufficiente chiaro).23

Tutti sanno che la tendenza teorica immanente alla teoria della composizione di classe conduce (almeno nella forma che fino a ora conosciamo) all’abbandono, implicito o esplicito, della teoria del valore. Nessun anatema, nessuna scomunica, nessun peccato mortale: tutto deve essere discusso, tutto deve essere preso in considerazione. Tuttavia sarebbe assurdo chiudere gli occhi di fronte agli esiti di questo abbandono: soggettivizzazione integrale di tutta la sfera dell’agire sociale, opposizione polare dell’insorgere ribellistico della classe contro il comando dispotico del capitale più o meno «socialista», esercizi politologici in bilico fra lo «scambio politico» e le nostalgie cromwelliane di una volontà stracciona di potenza. Vi è qui un campo di riflessione per tutti i sostenitori della teoria della composizione di classe.24

3. L’unità armonicamente flessibile del nucleo teorico di base dell’Ontologia offre uno stridente contrasto con la disarticolazione del pensiero marxista italiano dell’ultimo ventennio. Quest’ultimo è stato caratterizzato, in economia, dalla ricezione neo-ricardiana della cosiddetta «scuola di Modena» e dalla estenuante e sterile scolastica sraffiana; in politica, dalle velleitarie manipolazioni politologiche delle varianti della scuola della autonomia del politico; in filosofia, dal bricolage soggettivistico dei temi più disparati mutuati da praticamente tutte le scuole filosofiche del Novecento. Non si tratta qui soltanto dell’opportunismo degli intellettuali italiani «mercuriali e frettolosi» (la stupenda definizione è di Sergio Bologna), necessitati per ragioni accademiche a versare il loro «sapere marxista» nelle compartimentazioni universitarie legalmente riconosciute. Questo fatto certo esiste, e rende impossibile lo scrivere la storia del marxismo italiano degli ultimi tempi, in cui non c’è più il carcerato Gramsci, l’ingegner Bordiga, eccetera, ma solo le scadenze dei concorsi universitari. Tuttavia non è certo questo l’elemento essenziale. La disarticolazione accademica del marxismo italiano è invece da ricondurre (a parere dello scrivente) alla debolezza strategica anticapitalistica del referente sociale fondamentale, la composizione di classe caratterizzata dalla dominanza dell’operaio-massa e dalla nuova piccola borghesia «effimera»; questa composizione di classe si è rivelata capace di dare poderose spallate e di sapere mettere la sabbia negli ingranaggi della riproduzione, ma non di conseguire vittorie strategiche sul piano politico.25

Giusto o sbagliato che sia questo giudizio (che certo molti lettori rifiuteranno con indignazione e fastidio), resta in tutta la sua interezza il contrasto fra l’unità teorica dell’Ontologia e la disarticolazione del mercato italiano delle idee. Si presti molta attenzione al fatto che l’opera dì Lukács si intitola Ontologia dell’Essere Sociale, e non ardisce esplicitamente intitolarsi Ontologia del Capitalismo Contemporaneo oppure Ontologia del Socialismo Reale. Lukács infatti da un lato è consapevole dello stato di assoluta inadeguatezza dell’attuale teoria marxista nei confronti di una analisi scientifica sia del capitalismo occidentale sia del socialismo reale, e ritiene correttamente dall’altro che un lavoro filosofico-ontologico si esercita su un materiale che sta a monte di una analisi concreta e specifica, che è cosa ben diversa. E tuttavia l’«essere sociale» è una evidente metafora sia del capitalismo sia del socialismo reale, che vengono correttamente posti insieme in quella che nel linguaggio più formalizzato di Ernst Bloch si chiamerebbe «unità avvolgente dell’epoca» e nel linguaggio più formalizzato di Charles Bettelheim si chiamerebbe «comune dominanza del modo di produzione capitalistico».26

È questo un punto di importanza strategica. La separazione di principio fra capitalismo occidentale post-keynesiano, da un lato, e socialismo reale post-staliniano, dall’altro, si manifesta oggi in molte forme. E tuttavia soltanto la piena consapevolezza della loro reale unità ontologica, proprio partendo apparentemente «alla lontana» (dal lavoro e dalla riproduzione, dalla ideologia e dalla estraneazione), può permettere di porre le condizioni preliminari per uscire dalla presente impasse teorica. Da questo punto di vista poco conta che nelle sue dichiarazioni giornalistiche Lukács (a differenza di Ernst Bloch) abbia ripetutamente sostenuto che il «peggior socialismo è migliore del migliore capitalismo», avallando così la separazione di principio fra il mondo sociale dei paesi dell’Ovest e dei paesi dell’Est. Conta invece molto di più il fatto che nella sua opera filosofica fondamentale (da questa – e non dalle dichiarazioni giornalistiche – occorre giudicare un filosofo) Lukács non porta affatto acqua al mulino della tesi di una separazione ontologica di principio fra l’agire sociale e le posizioni teleologiche possibili a Est e a Ovest, quanto invece al contrario sostiene organicamente la tesi dell’unità estraniata dell’universo sociale attuale, ad Est come ad Ovest.27

Vi è qui un punto di grande importanza per la teoria della composizione di classe. Anch’essa infatti oppone un rifiuto di principio alla trattazione differenziata dell’azione della classe operaia nei paesi in cui ufficialmente la classe operaia stessa è «al potere» e nei paesi in cui essa è invece ancora ufficialmente «forza-lavoro». Anzi, punto forte della teoria della composizione di classe è l’unità metodologica nella trattazione delle lotte in URSS e negli USA, in Italia e in Polonia, in Francia e in Ungheria. Come si vede, vi è qui un punto di tangenza con la problematica teorica lucacciana di grande importanza teorica e pratica.

Qui si vorrebbe mettere provvisoriamente il punto finale. Inutile infatti è recriminare ancora sugli esiti irrazionalistici e soggettivistici di un Tronti o di un Negri, di un Vattimo o di un Cacciari. Basta. Quello che c’era da dire, sul versante critico-negativo, è già stato grosso modo detto. Ora bisogna andare avanti, passare all’elaborazione in positivo e alla produzione di nuove conoscenze. Queste ultime non verranno presto, e certamente non verranno «a comando» e «su commissione». Non spetta neppure a un’opera di filosofia il farlo, in quanto essa riflette soltanto sulle condizioni metodologiche che rendono possibile l’avanzamento reale della conoscenza. Il ringraziamento che dobbiamo a Lukács è il ringraziamento a chi, in un momento oscuro, ci esorta a «non disperare» sui destini storici delle nostre convinzioni non solo con un generico appello alla «speranza» (si pensi all’ultimo Sartre) ma anche e soprattutto con la razionalità convincente di una analisi dialettica della ontologia dell’essere sociale.28

1 Significative e sintomatiche sono infatti alcune delle prime ricezioni. Una osservatrice generalmente attenta come Laura Boella, («Il Manifesto» 24 luglio 1981) definisce «ingenua» la rinascita teorica marxista propugnata da Lukács, derubricata (e così liquidata) a «grande e tragico documento degli anni ’60». Il progetto teorico lucacciano dell’Ontologia viene così privato del largo respiro che possiede e fatto diventare un episodio rispettabile ma caduco delle grandi speranze destinate a cadere con la caduta della primavera di Praga, laddove al contrario l’opera è assolutamente indipendente dalla fiducia nella riformabilità interna o meno dei sistemi di socialismo reale, mirando a un obiettivo teorico ben più alto, quello della rifondazione ontologica della filosofia marxista. Ancora più sintomatico è il fatto che gli stessi Editori Riuniti (cfr. notiziario libri ER, supplemento all’Unità del 28 giugno 1981) facciano segnalare il libro da un corsivo di Agnes Heller (nota oppositrice dell’insieme del progetto teorico lucacciano), nel quale, fra vari riferimenti alle qualità morali e al dramma storico delle vite intellettuali di Lukács e di Sartre, si prendono le distanze nel modo più netto dall’intenzione teorica che regge il testamento teorico di Lukács. In completo e cosciente disaccordo con queste valutazioni lo scrivente ritiene invece che l’Ontologia, sia invece l’opera teorica più riuscita di Lukács (anche se non certo la più brillante, che è forse Storia e Coscienza di Classe, né la più rigorosa, che è forse l’Estetica).

2 A più riprese Lukács ha esplicitamente fatto riferimento a Togliatti come a un tattico geniale e a un tempo come a un pensatore mediocre o addirittura inesistente. Nel contesto del discorso lucacciano il «tattico» e portatore di una visione potenzialmente manipolatrice della realtà sociale pericolosa per ogni rifondazione reale di una prassi socialista ontologicamente seria.

3 Si vedano i lavori dello storicista Giorgio Amendola sulla classe operaia italiana. L’attenzione ai dati numerici e occupazionali che vi si può trovare non ha nulla a che vedere con il rapporto fra composizione tecnica e politica della classe e la natura volta a volta specifica della lotta anticapilalistica e della stessa definizione differenziata di dominio capitalistico.

4 I1 generico termine di «scuola della composizione di classe» deve essere inteso come termine di demarcazione teorica e pratica da tutte le varianti esclusivamente culturali dell’opposizione alto storicismo.

5 Alcuni noti esponenti dell’«operaismo» (si vedano recenti dichiarazioni di Massimo Cacciari) affermano a gran voce di non voler aderire affatto alla «ideologia post-moderna di cui anzi colgono bene il carattere apertamente anti-operaio e filo-capitalista. Ma queste dichiarazioni appaiono un po’ tardive e imbarazzate: senza la seminagione ventennale di soggettivismo operaistico non avremmo avuto l’attuale congiuntura teorica italiana dominala dal post-moderno.

6 Si vedano in generale gli interventi di Pier Aldo Rovatti su «Aut Aut». In modo ancora più evidente questo appare in Gianni Vattimo (cfr. «Alfabeta», 29 settembre 1981): la sua ricostruzione della storia della filosofia italiana dopo il 1945 utilizza lo stesso concetto di «composizione di classe» come riferimento sociologico «materiale» al presunto venir meno di ogni filosofia fondata sul lavoro e sulla dialettica in favore di una filosofia del simulacro e della differenza. Sarebbe proprio l’attuale «composizione di classe» che caratterizza la società post-moderna che non saprebbe più che farsene della dialettica: conclusione che assomiglia come una goccia d’acqua a quella di Toni Negri.

7 Si veda l’ultimo scritto, assolutamente rivelatore, di Antonio Negri (cfr. Elogio dell’assenza di memoria, in «Metropoli», 5 giugno 1981). Negri lega insieme (del tulto correttamente) lavoro, dialettica e memoria storica, come termini correlati di un unico complesso teorico inscindibile. Ma poiché la sua concezione «autovalorizzante» del comunismo inteso come pienezza del consumo sociale tardo-capitalistico fruito e desiderato dall’«operaio sociale» perverso-polimorfo volta decisamente le spalle a una visione ontologico-dialettica del lavoro, e poiché il lavoro stesso è dialettica e viceversa, Negri in modo del tutto conseguente tira la conclusione che solo la più radicale assenza anche solo di «curiosità» per la memoria storica può permettere all’operaio sociale di non ricadere nell’obbrobrio laburistico-socialista della dialettica. Si tratta di un classico tema nicciano: la storia è nemica della vita e della sua pienezza, l’infrazione differenziale è l’unico rimedio contro la legittimazione dialettica della società repressiva. In Negri il tema nicciano è «genialmente» applicato alla «differenza» dalla tradizione del movimento operaio, la quale è effettivamente, aggiungiamo noi, utilizzata prevalentemente nella congiuntura attuale in modo reazionario. Tuttavia non è questo il modo corretto di lottare contro questo uso reazionario della tradizione del movimento operaio. La memoria storica è infatti inscindibilmente composta di due elementi contraddittori: da un lato vi è realmente una feticizzazione reazionaria di elementi culturali e politici legati alla precedente composizione tecnico-politica di classe, dall’altro lato vi è però anche una sedimentazione di cultura anticapitalistica ricca di esperienze vissute, passibile di diventare il lievito politico di una ricomposizione anticapitalistica. Ma per capire questo occorre essere – appunto – dialettici.

8 Gli esponenti di quest’ultima praticano anch’essi, per motivi assolutamente opposti a quelli di Negri, la totale «abolizione» della memoria Storica. Alberto Asor Rosa ci fa sapere («La Repubblica», 4 settembre 1981) di essere stato un «comunista che ha dissentito fin dal primo momento con la strategia del compromesso storico» (sic!). Sembra di sognare. Anche i bambini sanno infatti che nell’infausto triennio 1976-1979 l’unico esponente noto del PCI che si pronunciò apertamente e non in modo mafiosamente cifrato contro il compromesso storico applicato nell’unica forma concretamente possibile (e non fumosamente fantapolitica) fu il vecchio Terracini. Ma ora queste immorali canagliette vantano primogeniture per gli anni ’80. E si veda anche Mario Tronti («Laboratorio Politico», 3); il politologo afferma ora in modo ieratico che sarebbe sbagliato voler perseguire una sorta di nuovo New Deal. Nuovamente sembra di sognare.
Costui ha affermato proprio questo per dieci anni, ma ora, senza sottoporre la precedente opinione a un esame autocritico, dice disinvoltamente l’esatto opposto. Laddove l’elemento canagliesco non sta ceno nell’essersi sbagliali (figuriamoci!), quanto nel fare i furbi all’italiota sui propri errori. Un’ultima osservazione. Poiché questi signori, bene o male, fanno il «clima culturale» della sinistra italiana, non esiste alcuna seria possibilità che un lavoro ontologico come quello di Lukács, tutto rivolto contro la manipolazione tattica della realtà sociale per fini di potere politico, abbia la minima risonanza fra gli intellettuali italiani.

9 Questo si esprime popolarmente nello slogan seconda il quale quella che deve esser perseguita oggi non è l’idea «moderna» di liberazione del lavoro, ma l’idea «post-moderna» di liberazione da lavoro (cfr. Renato Nicolini in «Il Contemporaneo», «Rinascita», n. 22, 1981).

10 Significativo è l’uso di Heidegger nella recente filosofia politica di «sinistra». Esso potrebbe sortire risultali altamente positivi, dal momento che la nozione filosofica chiave di solidarietà antitetico-polare del nesso economicismo/umanesimo non è stata affatto scoperta da Althusser nella famosa Risposta a John Lewis, ma era già stata ampiamente tematizzata nella heideggeriana Lettera sull’Umanesimo: nozione chiave da cui partire per un reale superamento del marxismo della III Internazionale. Al contrario Heidegger viene usato non per gli spunti ontologici che pure contiene, ma proprio come vate di una accettazione destinale della «post-modernità» come rivelazione finale della metafisica occidentale (vedine le letture di Vattimo e di Cacciari).

11 Esemplare la scuola di Budapest, e in particolare Agnes Heller. Ancora una volta ribadiamo che si tratta a nostro parere di una prospettiva filosofica non più avanzata, ma più arretrata della prospettiva ontologica tardo-lucaciana. Quest’ultima infatti cerca di connettere i «bisogni» con una teoria materialistica della riproduzione sociale in condizioni contraddittorie di «estraneazione», mentre la prima regredisce di fatto ad una posizione smithiana (e dunque pre-marxiana, non post-marxiana) del rapporto fra bisogni ed essere sociale.

12 Conformemente alla natura di questa segnalazione (che non è una «recensione» ma un invito al lettore di «Primo Maggio» a misurarsi da solo con lo studio diretto di quest’opera fondamentale) lo scrivente, per guadagnare spazio, non ritiene di dover fare un riassunto dell’opera. Ci si consentano solo alcune sommarie indicazioni. L’opera è divisa in una parte di introduzione storica e di polemica teorica generale (volume 1) e in una parte sistematica che discute ontologicamente le categorie che Lukács propone (volume II in due tomi). La prima parte è divisa a sua volta in quattro parti: la prima tematizza il nesso fra neopositivismo e esistenzialismo come posizione antiontologica fondamentale caratterizzante il pensiero moderno della manipolazione, «borghese» e «socialista»; la seconda discute i tentativi fatti all’interno della filosofia borghese stessa (in particolare da Hartmann) per contrastare questa tendenza, tentativi falliti per lo scarso radicamento dialettico-materialistico di questa ontologia; la terza discute la «falsa e vera ontologia di Hegel», e consiste in un mirabile saggio sul rapporto fra Hegel e Маrx e i loro rispettivi progetti teorici; la quarta analizza i principi ontologici fondamentali di Marx, e consiste in una dettagliata analisi la quale, a mio parere, dimostra come il progetto teorico originale marxiano fosse strutturalmente differente sia dal «marxismo orientale» sia dal «marxismo occidentale». La seconda parte è divisa a sua volta in quattro parti: la prima analizza la categoria del lavoro come posizione teleologica che fa nascere una «nuova oggettività», le cui leggi di movimento fanno nascere catene causali di natura qualitativamente diversa dalle catene causali tipiche delle scienze della natura: la seconda analizza la riproduzione sociale, momento ontologico in cui l’«astrazione» del lavoro, dispiegatasi socialmente come «concreta» divisione del lavoro, dà luogo a un «complesso di complessi» che rappresenta la realtà poliedrica della società in cui concretamente viviamo; la terza, analizzando il «momento ideale» e l’ideologia, rappresenta una mirabile confutazione di tutte le posizioni scientistiche e meccanicistiche del rapporto fra struttura e sovrastruttura; la quarta infine tratta della «estraneazione», categoria che comprende tutti i concreti aspetti ontologici della situazione sociale nel capitalismo e, ciò che più conta, la discussione della possibilità ontologica di superamento reale del capitalismo stesso. Anche se la morte di Lukács non ha reso possibile il progetto di continuazione all’Ontologia in un’Etica, si può tranquillamente affermare che l’opera non è mancata o incompleta, perché la «fondazione ontologica dell’etica» raggiunge già un buon grado di compiutezza.

13 Nella filosofiat torinese della scuola di Abbagnano, non a caso fiorita all’ombra del vallettismo negli anni cinquanta (ma non si vuole qui certo stabilire un nesso causale о organico, ma solo segnalare una contiguità) la coesistenza fra raffinatezze gnoseologiche neokantiane, esistenzialismo attivistico laicizzato e apertura manipolatoria alle scienze sociali capitalistiche può addirittura essere toccata con mano. Non a caso la scuola fenomenologica milanese di Enzo Paci, che manteneva almeno una intenzione teorica anticapitalistica, ruppe con il «razionalismo» torinese del quale comprendeva bene – sotto l’арраrente asettica «deduzione» delle categorie kantiane – il carattere di apologetica capitalistica.

14 A ciascuno la prova. Si prenda, con modica spesa (i libri sovietici costano poco), un trattato sovietico di filosofia (a esempio il recente A. Sceptulin, La filosofia marxista-leninista, edizioni Progress, Mosca 1977, in lingua italiana). Un atteggiamento snobistico verso questi polpettoni tremendi ha poco senso: piaccia o non piaccia, questa è la filosofia che si diffonderà nei prossimi anni dall’Angola al Vietnam, dall’Etiopia a Cuba e che tenterà una controffensiva nella stessa Europa Orientale, in cui è attualmente del tutto delegittimata. Qualunque lettore attento può rendersi conto da solo che tutto il lavoro di Lukács è costruito, punto per punto, come confutazione convincente e superamento reale di questa scolastica manipolatoria.

15 Nella misura in cui la teoria della «composizione di classe» si evolve patologicamente in feticizzazione soggettivistica e anti-ontologica della «composizione di classe» stessa, che diviene demiurgicamente la leva che solleva l’intero rapporto sociale capitalistico, la teoria della composizione di classe diventa una variante del marxismo occidentale stesso. Di secondaria importanza diventa il fatto che il proletariato venga inteso sartrianamente come gruppo in fusione contro il pratico-inerte, trontianamente come rude razza pagana o negrianameme come devastatore di supermercati.

16 In questo senso la posizione lucacciana è più corretta di quella di Althusser, volta a una separazione troppo rigida tra ideologia e scienza. La posizione di Althusser si giustifica peraltro ampiamente data la congiuntura teorica in cui sorse. Si noti infine che la critica di Althusser alla dialettica idealistica hegeliana finisce per essere molto simile a quella lucacciana. nonostante il diverso linguaggio e l’opposta terminologia.

17 Laura Boella (recensione citala nella nota 1) inizia con il mettere correttamente in rilievo i punti qui indicati, per poi effettuare una virata di 180 gradi. Boella ritiene che il concetto di causalità lucacciano sia «chiuso», renda la storia un semplice progresso in avanti, senza incertezze e possibili rischi di fallimento. Considera ambigua l’opinione lucacciana secondo cui l’uomo può porre solo quegli scopi di cui domina effettivamente i mezzi di realizzazione, senza i quali la «posizione dello scopo rimane soltanto un progetto utopistico, una specie di sogno, più o meno come lo è stato il volo, da Icaro fino a Leonardo e oltre ancora». A questa posizione oppone il concetto (mutuato dal Bloch di Experimentum Mundi) di «causalità discontinua», come categoria caratterizzata da una sorta di «stato di sospensione», elemento di indeterminatezza che non si trasforma subito in effetto ed in questo modo permette al lavoro umano di aprirsi realmente al futuro come reale Siberia (nel linguaggio della Boella, «più in direzione dell’aut-aut kierkegaardiano che della mediazione hegeliana»). Lo scrivente esprime qui un totale dissenso con le opinioni di Laura Boella. Infatti la Boella rifiuta in toto (come la Heller, del resto) il progetto lucacciano, lasciando sintomaticamente cadere la domanda, apparentemente incidentale: «Chi non problematizzerebbe oggi l’assegnazione al lavoro del ruolo di categoria centrale della prassi sociale?». Problematizzare, nel linguaggio educato della Boella, è un modo cortese per negare. A questo punto poco vale opporre alla presunta «ontologia chiusa» di Lukács la «ontologia aperta» di Bloch. Di «ontologia qualsivoglia» non ne rimane in piedi nemmeno l’ombra, ma riemerge soltanto tutta la vecchia problematica del soggettivismo esistenzialistico e della teoria dei bisogni (nella forma educata alla Heller о in quella «maleducata» alla Negri, a piacere). Il lettore non si stupisca di questa polemica con Laura Boella. Non si tratta di beghe fra filosofi. Tutt’altro. È qui invece in gioco una «posta teorica» molto grossa; l’accordo o meno sul carattere ontologico centrale della categoria di lavoro, in mancanza del quale è inutile fare generiche considerazioni di «stima» sull’ultima fatica del vecchio Lukács.

18 È interessante notare che su questo punto nodale della differenza specifica fra dialettica hegeliana e dialettica marxiana Lukács, usando ovviamente un linguaggio del tutto diverso, finisca con il dire cose analoghe a quelle dette da Althusser sulla differenza fra contraddizione semplice (hegeliana) e contraddizione surdeterminata (marxiana). La contraddizione semplice ha infatti una struttura realmente teleologico-metafisica, in quanto si basa sul modello dell’uno che si divide necessariamente in due per ricomporsi necessariamente in uno e così via. La contraddizione surdeterminata non possiede questa struttura teleologico-metafisica, perché il «complesso dei complessi» dei nessi causali necessari stabilisce regolarità ontologiche prive di «fini predeterminati». Naturalmente il fatto che Lukács conservi un linguaggio, un periodare e una terminologia spesso hegelo-marxisia tende a celare questa profonda somiglianza. Ma essa non sfuggirà a chi faccia attenzione all’essenziale.

19 Il rifiuto collettiano della dialettica è abbastanza noto nel dibattito filosofico italiano, anche se la sub-cultura craxiana ed i rotocalchi culturali «progressisti» non si prendono la briga di approfondirne le argomentazioni, dal momento che l’unico argomento di carattere genericamente ontologico che interessa loro in questo anno del signore 1981 e il culo di Lori Del Santo. Sub-cultura сraxiana e rotocalchi radical-chiс capiscono per istinto che il rifiuto collettiano della dialettica è qualcosa di profondamente anti-comunista (non certo solo di anti-PCI, anche se tutto fa brodo), questo va loro bene, e tanto basta. Desta invece meraviglia la quasi totale cecità che c’è «a sinistra» sul fatto che non esiste quasi differenza filosofica fra i rifiuti della dialettica di un Colletti, di un Negri o di un Vattimo, con tutte le opportune distinzioni che pure si potrebbero fare in termini di destinatari sociali, rispettabilità accademica e tiratura editoriale. Si ha forse paura di cadere nel malcostume staliniano della diffamazione per «amalgamazione», paura ampiamente motivata? Ma qui non c’è nessuno sciagurato «fronte rosso» nella filosofia da difendere incarcerando i dissidenti. Anzi. C’è soltanto, con correttezza pluralistica, da rilevare alcune significative convergenze teoriche correlandole con la attuale congiuntura storica.

20 Come è noto, il marxista-umanista Lucien Goldmann aveva a suo tempo proposto un paragone storico fra un Lukács interpretato in chiave «marxista occidentale» (come autore di Storia e coscienza di classe) e un Heidegger interpretato in chiave di «filosofo esistenzialista della crisi» (come autore di Essere e tempo). È chiaro che le osservazioni che qui vengono fatte non hanno nulla in comune con quella (pur rispettabile, ma idealistica) problematica. Qui il confronto è stabilito fra l’ultimo Lukács della Ontologia, da un lato, ed il secondo Heidegger caratterizzato dalla Lettera sull’Umanesimo, dall’altro. Lo scrivente ritiene infatti che la critica compiuta da Heidegger nei confronti della nozione di «lavoro-produzione» così come di fatto è sta caratterizzata e praticata dai marxismi storicamente costituiti non possa essere applicata allo sforzo ontologico di Lukács.

21 In Heidegger, come è noto, non si tratta di «ritornare» alla situazione precedente lo sviluppo destinale della metafisica occidentale fino al suo coronamento nella Tecnica planetaria. Ma non si tratta neppure di «accettare» questo sviluppo apologizzandolo e «ringraziandolo». Heidegger non è infatti né un positivista né un critico romantico e passatista della scienza e della tecnica. Come Rousseau aveva assolutamente bisogno della nozione di «stato di natura» per criticare la società del suo tempo, pur ritenendo assolutamente irrealizzabile un ritorno indietro a esso, così Heidegger ha bisogno di ipotizzare una situazione ontologico-sociale pre-metafisica per poter interpretare il destino storico della società attuale, senza che questo implichi affatto il progetto di tornare a prima di Platone.

22 Ancora una volta: la «composizione di classe» non ha nulla di cui debba «farsi carico», in una accezione corretta di essa. È nella accezione trontiana che essa deve farsi carico del New Deal statuale attraverso l’autonomia del politico, cosi come nell’accezione negriana essa si fa carico di anticipare i nuovi comportamenti acquisitivi post-socialisti e post capitalisti non ancora maturali presso i restanti strati sociali. La questione è di vedere se i comportamenti e le posizioni teleologiche concrete delle singole concrete composizioni politiche di classe siano o no in grado di procedere o meno verso il superamento della estraneazione e la generalità-per-sé della specie. Agli studiosi dell’operaio di mestiere e dell’operaio-massa l’impostazione almeno di massima del problema.

23 Il rapporto del materialismo storico con la teoria del valore è analogo al rapporto del materialismo dialettico con la teoria della materia. E infatti non può essere una pura coincidenza il fatto che i sostenitori della totale obsolescenza della teoria del valore siano quasi sempre inclini ad una interpretazione fortemente empiriocriticista dei risultali della fisica moderna (ho presente in questo momento alcuni grotteschi scritti di Franco Piperno, ma non solo).

24 Questo problema teorico non si pone ovviamente in modo ultimativo, per una rivista come «Primo Maggio». Essa infatti, come rivista e miscellanea di saggi e documenti per una storia di classe, ha come compito primario quello di fornire al lettore informazioni, anziché interpretazioni. Tuttavia (pensiamo a editoriali come quello scritto da Marco Revelli per il numero 15) non può certo fare a meno, nella prognosi e nel commento dei fatti, di schemi interpretativi espliciti o impliciti. Non si tratta certo di fare una riunione di redazione per stabilire l’atteggiamento da prendere verso la teoria del valore. Si tratta di tematizzare questo problema proprio partendo dalla difesa del proprio punto di vista teorico e politico.

25 Lo scrivente si rende conto che queste osservazioni possono dare al lettore la sgradevole impressione che si voglia ancora una volta ricavare la sovrastruttura dalla struttura. È infatti esattamente quello che lo scrivente vuole coscientemente fare. Questo non significa peraltro che la spinta salarialistica del l’operaio-massa produca necessariamente neo-ricardismo in economia, che la spinta gestionale e di potere del ceto politico sedimentato nella curva ascendente della spallata operaia produca necessariamente l’autonomia del politico nelle scienze politiche, e che infine i bisogni estetizzanti e effimeri del consumo culturale della nuova piccola borghesia urbana dei servizi produca necessariamente il soggettivismo esistenzialistico in filosofia. Lo stesso Lukács nel capitolo sulla «ideologia» ci mette in guardia da questi ricalchi frettolosi. È vero invece che la pratica sociale specifica di consistenti gruppi intellettuali è la premessa ontologica per l’elaborazione di ideologie giustifìcazionistiche e/o di protesta.

26 Ernst Bloch, parlando di «unità avvolgente dell’epoca», parla anche di unità fra la «noia monolitica» a Est e la «noia pluralistica» a Ovest. La sua opera ontologica, Experimentum Mundi, presenta interessanti parallelismi con l’opera di Lukács, ed è infatti caratterizzata dal rifiuto di principio di usare «due pesi e due misure» per l’Est e per l’Ovest. In quanto a Charles Bettelheim, l’atteggiamento snobistico che la teoria della composizione di classe ha sempre avuto nei suoi confronti è assolutamente immotivato. Rifiutare la sua impostazione vuole infatti dire per forza di cose accettare l’impostazione di chi disarticola l’unità della nostra epoca in un Ovest capitalistico e in un Est a modo di produzione asiatico, dispotismo orientale, eccetera, con tanti saluti, tra l’altro, all’unità tematica di applicazione della stessa teoria della composizione di classe.

27 Un serio studioso di Lukács e Bloch. Guido D. Neri, (cfr. Aporie delle realizzazione, Feltrinelli) insiste infatti sul diverso atteggiamento di Lukács e Bloch verso il socialismo reale. Non si vuole qui certo negare che diversi atteggiamenti si possano riscontrare, non solo nelle dichiarazioni e nelle interviste, ma nello stesso apparato categoriale e concettuale. Ma si vuole qui insistere sul fatto che l’aspetto dominante dei due pensatori è l’unità tematica nella trattazione ontologica dell’essere sociale in condizioni di capitalismo occidentale e di socialismo reale.

28 Sarebbe importante che finalmente si assumesse a oggetto di seria analisi teorica la differenza strutturale fra gli impianti categoriali rispettivi di Lukács e di Sartre. A questo proposito lo scrivente ha già ampiamente espresso la sua opinione.