Lukács: ritorno al concreto

di György Lukács

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.

Intervista concessa a Naïm Kattan e pubblicata nella “Quinzaine Littéraire”, 1/15 dicembre 1966 con il titolo “Lukács: revenir an concret”. Tradotta e pubblicata in italiano da “L’Espresso”, n. 2, gennaio 1967, p. 11 con il titolo “Lo scrittore a piede libero”, senza indicazione del traduttore.


L’appartamento di Lukács è all’ultimo piano di un edificio che si affaccia sul Danubio. Le pareti sono tappezzate di libri. Guardo a caso: opere complete di Hegel e di Marx. Sulla scrivania, altri libri, riviste in ungherese, in tedesco, in francese. È qui, che da dieci anni, Lukács prosegue nel suo lavoro.

Si sa che fu Ministro della Cultura nel governo di Imre Nagy. Dopo che la rivoluzione ungherese fu schiacciata, Lukács visse alcuni mesi, in un esilio volontario, in Romania. Dal suo ritorno, si è imposto il compito di terminare la sua “summa” filosofica. Un primo volume di più di mille pagine è già stato pubblicato in tedesco. Lukács è in tenuta da lavoro: pantaloni scuri, giacca kaki. Piccolo e magro, dà l’impressione di possedere un mondo. Ci si dimentica che egli ha 82 anni.

«Ho cominciato la mia vera opera a 70 anni», esordisce Lukács. «A volte, si direbbe che esistano delle eccezioni alle leggi biologiche. In questo senso sono un seguace di Epicuro. Ma io pure invecchio. Per molto tempo ho cercato la mia vera strada. Sono stato idealista, poi hegeliano, e in Storia e coscienza di classe ho cercato di essere marxista. Durante lunghi anni sono stato funzionario del Partito Comunista a Mosca; è in questo periodo che ho avuto il tempo di leggere e rileggere molto, da Omero a Gorki. Fino al 1930, però, i miei scritti erano soprattutto delle esperienze intellettuali. È dopo che vennero i primi traguardi e le basi per il lavoro successivo.

Questi scritti possono sembrare oggi superati, ma essi hanno forse fornito ad altri un suggerimento, una spinta. Certo, può sembrare strano che io abbia dovuto toccare il settantesimo anno per mettermi a lavorare intorno alla mia opera. Una vita non è poi infinita. Pensate a Marx, a questo genio colossale. Ebbene egli non è riuscito a dare che un abbozzo del suo metodo. Nella sua opera non ci sono tutte le risposte che vorremmo. In realtà, stava nel suo tempo. Io utilizzo il suo metodo per i miei studi di estetica. Se egli vivesse oggi, sono sicuro che scriverebbe di estetica». Continua a leggere

Lukács parla

di György Lukács

intervista di Naïm Kattan

«La Quinzaine littéraire», 1-15 dicembre 1966

trad. it. gyorgylukacs.wordpress.com

Il suo appartamento è situato all’ultimo piano di uno stabile che dà sul Danubio. I libri tappezzano i muri. Guardo qua è la a caso: opere complete di Hegel e di Marx. Sul tavolo dei libri, delle riviste in ungherese, in tedesco, in francese. È qui che da dieci anni Lukács lavora alle sue opere.

Ho iniziato la mia opera vera e propria a settant’anni. Pare che esistano delle eccezioni alle leggi materiali. In questo sono un adepto di Epicuro. Anche io sto invecchiando. Da tanto tempo cerco la mia strada. Sono stato idealista, poi hegeliano. In Storia e coscienza di classe ho provato ad essere marxista. Per molti anni sono stato funzionario del partito comunista a Mosca. Ho potuto rileggere, da Omero a Gorky. Fino al 1930 tutti i miei scritti erano degli esperimenti intellettuali. Poi ci furono degli abbozzi e dei preparativi. Anche se sono superati, questi scritti sono stati di stimolo ad altri. Continua a leggere

The meaning of contemporary realism

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Presentiamo qui l’edizione inglese di “Il significato attuale del realismo critico” perché contiene alcune pagine (83-89) non presenti nelle edizioni italiana, francese e tedesca.

In this fascinating study the Hungarian philosopher and literary critic examines what he considers the three main trends in modern literature. First, he discusses the ‘literature of the avant-garde’ – experimental Modernism from Kafka, Joyce and Musil to Beckett and Faulkner. He criticises Modernism for its subjectivism, its ‘static’ view of the human condition, its dissolution of ‘character’, its obsession with pathological states, and its lack of a sense of history. According to Lukács, the ‘literature of the avant-garde’ has been the typical literature of Western capitalist society over the past fifty years. Its counterpart in Communist Eastern Europe, often equally narrow and dogmatic, though in Lukács’ view more promising in the long run, is so-called ‘socialist realism’. The main fault Lukács sees in socialist realist writers is that they over-simplify the problem of realism in literature by failing to see the contradictions in the everyday life of actual society. Their view of history – Utopia is already with us – is no less ‘static’ than that of Western avant-gardists. Contrasted with these two systems of artistic dogmatism stands, in Lukács’ view ‘critical realism’. The critical realists, represented at their best by Thomas Mann, Conrad and Shaw, are the true heirs to the great European realists of the nineteenth century – Balzac, Stendhal and Tolstoy. In their work the social changes that characterise our era are most truly reflected, character is not sacrificed to artistic pattern, the human condition is understood dynamically, in a historical context, the pathological aspects of modern life are placed in a ‘critical’ perspective. Thus, ‘critical realism’ is not only the link with the great literature of the past, but is also the literature that points into the future.

Colloquio con Lukács

di Sergio Segre

«l’Unità», 13 aprile 1957

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Nella sua casa a Budapest

BUDAPEST, 12 — Il professor Giorgio Lukács ci ha ricevuti questo pomeriggio nella sua abitazione, al quinto piano del numero 2 del Belgrad Kakpart, uno dei viali che costeggiano il Danubio. Era con noi il dottor Klaus Kroeber, di radio Berlino, e sapevamo fin dall’inizio che sarebbe stato pressoché impossibile ottenere un’intervista. L’interprete a cui ci eravamo rivolti perché ci organizzasse un incontro con Lukács ci aveva detto, ancora nella tarda mattinata, che non era nemmeno possibile vederlo, «poiché il professore non intende, per il momento, ricevere nessuno, specie se si tratta di giornalisti». Per questo incontro l’interprete aveva telefonato due ore di seguito ai più diversi uffici, dimenticando, evidentemente, che la via più breve è sempre quella diretta. Bastava, infatti, dare un’occhiata alla guida del telefono per avere numero e indirizzo dell’illustre filosofo. Continua a leggere

Carteggio Lukács-Cases

Balla Demeter (1931- ) Lukács György (1971)Il testo iniziale è di Cesare Cases. Il carteggio è stato pubblicato in C. Cases Su Lukács. Vicende di un’interpretazione, Einaudi, Torino 1985. A seguire sarà riportata una lettera casesinedita di L. a C., pubblicata in spagnolo in Testamento político y otros escritos sobre política y filosofia. Textos inéditos en castellano, a cura di A. Infranca e M. Vedda, Ediciones Herramienta, Buenos Aires, 2003. Continua a leggere

L’Ottobre e la letteratura

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Natan Altman. The Arch of the General Staff. 1918 di Nathan Altman (1889-1970, UKRAINE)

«Rinascita» n. 42, 27 ottobre 1967

Questo articolo è stato scritto dal grande filosofo marxista ungherese per la rivista di cultura cecoslovacca «Plamen», per gentile concessione della quale lo pubblichiamo contemporaneamente alla sua uscita a Praga.

1. La combinazione di questi due concetti molto raramente, in poche persone, suscita una immagine unitaria e conchiusa. Infatti l’incontestabile verità — astratta però rispetto all’esperienza immediata, — che oggi non può esserci uomo le cui fondamenta esistenziali e i cui modi di pensiero non siano determinati in maniera decisiva dall’Ottobre e dalle sue conseguenze, tale verità è difficilmente concretabile per i singoli appunto a causa di questa sua universalità. Inoltre le leggende sorte pro e contro creano oscurità sui fatti, insieme semplici ed estremamente complessi, delle grandi giornate rivoluzionarie ed anche sugli anni, importanti e ricchi di mutamenti, che di necessità ne uscirono. Cosicché, specialmente per chi non abbia vissuto di persona quei tempi, non è affatto facile aver concretamente chiara la connessione, pur razionalmente ammessa, con le questioni della vita d’oggi.

Se ora, io che sono stato contemporaneo — all’inizio osservatore da lontano, più tardi militante, se anche modesto, ma certo attivo — di questa svolta del mondo, cerco oggi di riassumerne nella memoria l’essenza e le conseguenze, e di riferire al presente il risultato così raggiunto, come primo passo verso tale concretizzazione, mi si rileva la figura di Lenin, il motore centrale, il cervello guida, la personificazione visibile della rivoluzione. E la sua figura si cristallizza meravigliosamente da un lato nella unità inscindibile di una potente volontà verso ciò che è radicalmente nuovo, e dall’altro in una matassa di contraddizioni reali dalla cui intima connessione risulta contemporaneamente la monumentalità umana della sua opera e la vastità dei problemi che quell’epoca aprì di necessità per ogni uomo.

Massimo Gorkij ha descritto nel modo più calzante l’effetto affascinante provocato da Lenin, che era, poi, il fascino della grande Rivoluzione, la ragione per la quale questi due momenti suscitavano nelle più diverse persone un odio infinito o l’amore più entusiasta. Secondo Gorkij, Lenin sapeva, «come nessuno prima di lui, impedire alla gente di continuare nel suo abituale modo di vita». Non si dimentichi: tutto ciò avveniva nel 1917, avveniva anche a persone che non vivevano in Russia, nel mezzo di una guerra mondiale che aveva fatto rovinare a tutto il mondo borghese, insieme con i suoi ideali, l’immaginaria sicurezza precedente il 1914, una guerra che costringeva ciascuno a riproporsi il problema della sensatezza o della insensatezza anche della propria vita privata. Ciò che Gorkij esattamente delinea qui come essenza dell’attività di Lenin, come irradiamento delle sue azioni, era l’essenza dell’epoca stessa, la domanda che questa rivolgeva ad ogni singolo individuo.

Nel suo aspetto più esteriore, «tale domanda sembra riguardare la violenza o la non violenza, se cioè approvare o negare un suo diritto universale a determinare, nell’intimo e all’esterno, la vita degli uomini. Per Lenin la risposta positiva era ovvia. Egli sapeva e proclamava, come marxista coerente, che quando l’umanità distrugge le sue vecchie forme di vita e s’accinge a costruire forme sostanzialmente nuove, sempre deve entrare in azione la violenza come inevitabile motore del rinnovamento. Non è questo il luogo per discutere l’aspetto storico-filosofico di tale alternativa. La stessa realtà sociale ha dato la risposta, annullando importanti voci contrarie come quella di Gandhi. Questa questione però, per la maggior parte di coloro che allora erano in vita, non era semplicemente un problema storicamente oggettivo. Per ciascuno di noi, la cui storia giungeva a questo bivio, la domanda si faceva personale, intima: quale posizione assumere, se la mia propria esistenza deve avere un senso, nei confronti di questa alternativa? Anche qui Gorkij ha molto chiaramente rilevato tale contraddittorietà, che risulta evidente da diversi frammenti di colloquio con Lenin. Il poeta si lamentava della crudeltà della vita quotidiana rivoluzionaria e nella replica, afferma il cronista, sorpresa e irata di Lenin vi è questa frase: «Con che metro misura lei, in una zuffa, il numero dei colpi necessari e di quelli superflui?». In un altro colloquio dello stesso periodo Lenin parla del suo amore per l’Appassionata di Beethoven, che egli però non voleva ascoltare troppo spesso. E, secondo l’espressione di Gorkij, «non proprio allegramente» aggiunse: «Si vorrebbero dire amabili sciocchezze e accarezzare il capo a uomini simili che, pur vivendo in un inferno ripugnante, riescono a creare cose tanto belle». Invece si deve, così conclude, «colpire senza pietà, sebbene noi, secondo il nostro, ideale, siamo contro ogni violenza nei confronti dell’uomo».

Naturalmente, in questo groviglio di tendenze e controtendenze, esiste una sicura norma di azione: il marxismo. Ed è superfluo dire quanto sia sempre stata importante per Lenin la sua dottrina integra, schietta. Durante la guerra, dopo lo scoppio della rivoluzione, negli anni del potere sovietico, la sua aspirazione fu costantemente questa: esporre la dottrina nella sua vera struttura, ripulita da tutte, le falsificazioni semplificatrici, applicarla secondo il suo senso vero. Non lo si mette in caricatura, ma si nota uno dei suoi aspetti, e non dei meno importanti, quando si considera Stato e rivoluzione una descrizione filologicamente esatta delle opinioni di Marx su questo insieme di problemi nella loro continuità storica. E nella pratica la repubblica dei Soviet appare di fatto come la chiave di volta, realizzata, di questo sistema di idee. Lo stesso Lenin però, al momento di introdurre la NEP, così descriveva la situazione teorica in relazione ai problemi del capitalismo di Stato nel socialismo: «A Marx non venne neppure l’idea di scrivere anche una sola parola su questa questione, e morì senza lasciare né una citazione né una indicazione incontrovertibile. Dobbiamo quindi cercare di aiutarci da noi stessi». E allo stesso modo il comunismo di guerra, già passato e in via di superamento, non lo considerava affatto una realizzazione della teoria di Marx. Esso «nacque forzatamente per la guerra e le rovine. Non era una politica che corrispondesse ai compiti economici del proletariato e neppure poteva esserlo. Si trattava di un provvedimento provvisorio».

Questo atteggiamento marxista allora — dopo decenni di deformazione e cristallizzazione opportunistico-dogmatica del marxismo — apparve a molti estremamente paradossale. E appare paradossale anche oggi, dopo decenni di deformazione dogmatica sotto Stalin. E questa paradossalità aumenta ancora se ci mettiamo davanti agli occhi il problema fondamentale della rivoluzione russa. Il marxista ortodosso Lenin fece esattamente il contrario di quanto diceva la previsione teorica di Marx — in linea di principio giusta, — secondo la quale la rivoluzione proletaria sarebbe scoppiata e avrebbe vinto dapprima nei paesi capitalistici più evoluti che avessero già liquidato i resti dell’arretratezza feudale. La Russia si trovava nel 1917 in una situazione rivoluzionaria e ciò, come Lenin giustamente vide, in relazione sia ai fattori oggettivi che a quelli soggettivi. La grande alternativa, capitalismo o socialismo, non venne posta da Lenin, e neppure dal suo partito, ma imperativamente dalla realtà sociale stessa. E Lenin si rese sempre conto fino in fondo del carattere alternativo della storia. Non esistono, diceva, situazioni senza uscita, non esiste cioè una «necessità» meccanicisticamente fatale dello sviluppo. Questo è il risultato delle attività umane, certo non solo degli individui, ma delle classi, delle masse. Per questo, secondo Lenin, una situazione rivoluzionaria nasce solo «quando “gli strati inferiori” non vogliono più il vecchio ordine e gli “strati superiori” non possono più vivere alla vecchia maniera». La guerra mondiale imperialista aveva creato in Russia una tale situazione rivoluzionaria e per i marxisti russi si trattava di reagire praticamente all’alternativa che in tal modo era stata loro posta.

Ed essi lo fecero, prima di tutto su appassionata iniziativa di Lenin, in un modo che contraddiceva la previsione teorica di Marx. Così Lenin fu alla testa di una rivoluzione sociale che, secondo un marxismo rigoroso, era irregolare. Ma la storia lo ha giustificato; noi sappiamo infatti che, nel corso di mezzo secolo, essa è diventata una determinazione esistenziale per gli uomini di tutto il mondo. Ma comunque, anche in questo caso Lenin ha forse negato la validità della teoria di Marx? Niente affatto. Egli ha sempre saputo che la Rivoluzione russa era un fatto decisivo nella storia del mondo, che bisognava approvare incondizionatamente; ma al tempo stesso sapeva che, benché questa grande iniziativa avrebbe efficacemente agito da esempio sul piano internazionale, essa non avrebbe potuto fare a meno di incarnare per lungo tempo quell’arretratezza economica che caratterizzava la Russia di allora in contrapposizione ai paesi capitalistici altamente sviluppati. Lenin agì dunque contro i presupposti teorici di Marx — ed agì bene, — ma senza dubitare un solo istante della loro validità sul piano storico universale. Per questo nel 1920 egli può scrivere positivamente sul significato internazionale della Rivoluzione russa. E tuttavia aggiunge: «Sarebbe ugualmente un errore dimenticare che dopo la vittoria della rivoluzione proletaria, anche se in un solo paese progredito… la Russia sarà immediatamente non più un modello, ma di nuovo un paese arretrato (nel senso del socialismo e del sistema sovietico)».

Queste riflessioni non vogliono fornire un quadro completo, e neppure vogliono avvicinarsi a tanto. Perciò interrompiamo qui, accennando soltanto, come conclusione integrativa, che Lenin, notoriamente il teorico di una rigida disciplina di partito, ugualmente nel 1920, a proposito del modo di mantenerla e di controllarla, scrisse che essa «si realizza… con la giustezza della direzione politica; con la giustezza della sua strategia e tattica politica, a condizione che le più larghe masse si convincano della sua giustezza per propria esperienza». Altrimenti la disciplina di partito si muta «inevitabilmente in una finzione, in una frase, in una farsa». La contraddizione, che qualche lettore attuale vi sente, è appunto l’unità leniniana tra disciplina di partito comunista e democrazia proletaria realizzata.

Allo stesso modo, tutto quanto negli esempi precedenti è apparso in superficie contraddittorio, non è nient’altro che un aspetto singolo di questo processo grandiosamente complicato e tuttavia grandiosamente unitario. Proprio perché questa unità costituisce il nucleo, l’essenza di tale processo, proprio perché la contraddittorietà in esso esprime solo la sua onnilateralità, la sua onnicomprensività, la sua intrinsecità rivoluzionatrice di tutto, appunto questo carattere della Rivoluzione del 1917, il carattere del suo centro spirituale, Lenin, non poteva non agire in modo tanto irresistibilmente affascinante (o, a seconda della classe e dell’atteggiamento, veementemente scostante). La crisi latente del vecchio mondo, già da qualcuno avvertita nel periodo della sicurezza come una corrente spirituale sotterranea, entrò come un uragano nella vita quotidiana degli uomini e li mise davanti a una cataratta di alternative le più diverse, mentre il vecchio mondo non era neppure in grado di formulare i propri problemi, balbettava oppure si inventava miti a richiesta. Di contro stava questa unità radiante e luminosa nell’esistenza e negli atti di un paese: la Russia rivoluzionaria. Non c’è da meravigliarsi che ogni opposizione, nella quale fosse viva anche solo una scintilla di autenticità, non potesse fare a meno di guardare in quella direzione. Walter Jens, che nessuno può sospettare di simpatie comuniste, ha scritto una volta: « Nessuno può mettere in dubbio infine che l’arte degli anni venti fu improntata, e non in piccola misura, dallo sguardo rivolto all’Unione Sovietica».

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Proletarians of all countries – Unite!, 1920 di Nathan Altman (1889-1970, UKRAINE)

2. E l’arte nostra? L’inizio sembra semplice. Il gorgo di quella pienezza di problemi cui qui si è accennato, fece diventare Majakovskij il lirico tribuno del primo decennio rivoluzionario. Ma forse il caso del poema I Dodici di Blok, è ancora più caratteristico. Infatti, per tutto il corso della sua vita, questo grande poeta fu estraneo al mondo di idee della Rivoluzione. Ciò che lo colpiva, ciò che dette alla sua poesia grandezza universale, fu il pathos della problematica umana che essa andava scavando, fu la visione di un mondo nuovo capace di chiarire in domande e risposte autentiche ciò che era umanamente irresolubile per il vecchio mondo. Il fatto che Blok dia espressione alla strada e non all’arrivo, all’ansia e non all’adempimento, segna nel modo più chiaro la sua originalità, fa del suo poema l’espressione durevole dello stato d’animo universale di quei giorni.

Naturalmente se parliamo degli effetti dell’Ottobre sulla letteratura, non è possibile limitarci semplicemente ai giorni e alle settimane del rivolgimento immediato. Una letteratura che voglia raggiungere e conservare una validità universale, deve dare immagini valide di tutta la gran strada percorsa dalla Rivoluzione socialista e che ne ha fatto un idolo o uno spauracchio per milioni di uomini. Anche qui ci troviamo di fronte ad una situazione doppiamente contraddittoria ed eppure, alla fine, unitaria. Già al I Congresso dell’Internazionale comunista, Lenin espresse il timore che lo sviluppo della rivoluzione potesse procedere ad un ritmo così rapido che la coscienza degli uomini fosse incapace di seguirlo. Questo avvertimento, se fosse rimasto senza contrasto, avrebbe potuto anche soddisfare coloro che considerano come unico criterio di un’avanguardia artistica e intellettuale la mera capacità di aderire ai mutamenti dei dati di superficie. Ma proprio contro queste semplificazioni avanguardistiche Lenin si richiama di nuovo al marxismo, al suo essere radicato tanto nei mutamenti quanto nella continuità, al marxismo che ha raggiunto il suo significato storico universale, la sua forza rivoluzionatrice appunto perché «si è appropriato ed ha elaborato tutto quanto vi era di prezioso nello sviluppo di oltre duemila anni del pensiero e della cultura umana». Di nuovo una richiesta contraddittoria, vecchia e nuova: tener d’occhio il nuovo nella sua novità sostanziale, non restare indietro rispetto alla sua concretezza, ma in modo da non perdere mai l’altro lato del fenomeno che lo fa essere un momento essenziale nell’evoluzione dell’umanità.

Quella grande epoca ha avuto anche una grande letteratura. (Qui parliamo esclusivamente di letteratura, ma è impossibile non accennare al cinema di quel periodo). È vero: il numero delle opere letterarie importanti non è troppo grande. Se però lo paragoniamo con la più grande delle rivoluzioni precedenti, con la Rivoluzione francese, esso appare abbastanza notevole. In questa non nacque nessun capolavoro letterario che per attualità e universalità sia possibile paragonare a canzoni popolari come la «Carmagnola»; solo alcuni decenni più tardi la grandezza umana di quei grandi anni diviene forma poetica in Balzac e Stendhal. Per contro, il primo periodo della Rivoluzione russa si presenta — cito solo dei grandi esempi, non faccio un catalogo — con lo Jegor Bulyciov e con Klim Samghin di Gorkij, con Il placido Don, col Poema pedagogico di Makarenko. E queste vette si levano su una quantità di ottime opere che, a volte non a un grande livello di ideazione, ma assai spesso con onestà umana e artistica, descrivono quel mondo di alternative sempre acute nel quale nessuno poteva continuare a vivere nel modo abituale. Il che portò talvolta a tragiche catastrofi, talvolta a mutamenti interni che resero possibile vivere in condizioni del tutto mutate; e ciò poteva avvenire tanto negli ambienti intellettuali delle metropoli, quanto nei villaggi sperduti, tanto nel mezzo dei conflitti armati tra la rivoluzione e la controrivoluzione, quanto in solitarie stanze di studio.

Il placido Don spicca in questa serie di opere per il suo scorrere, possente, irresistibile. È una epopea del dibattito che i contadini del Don tengono con il vecchio mondo dello zarismo, con il suo crollo, con la lotta per la vita e la morte fra il vecchio e il nuovo. Esso mostra come le alternative dell’Ottobre valessero per ogni uomo e come quella grande contraddizione sociale penetrasse nella vita intima e trasformasse in un campo di battaglia anche l’anima dell’individuo. È un’epopea di profonda veracità nelle psicologie e nei destini: i singoli individui impersonano i problemi generali di classe e le decisioni di classe divengono destino di individui inflessibili. Il pro e il contro di molti contadini di fronte alla rivoluzione proletaria raggiunge una incarnazione autentica nella figura di Grigorij Malechov, nel cui animo e nel cui destino si concentrano tutte queste tendenze, a battagliare nelle loro contraddizioni, per giungere poi alla conclusione che un cambiamento è inevitabile. Il vecchio non ritornerà mai più, ma il nuovo non è lì già pronto, deve essere creato.

Molto lontano da questo vasto universalismo il giovane Fadeev dà forma in Diciannove al destino degli attivi soldati della rivoluzione, i bolscevichi, convinti. Proprio perché tali personaggi, a causa dell’epoca staliniana, appaiono equivoci, a volte con ragione — e il Fadeev maturo ha contribuito personalmente non poco a che ciò avvenisse —, è necessario mettere qui in evidenza questa rara riuscita. Il giovane Fadeev raffigura il comunista convinto, eroico, come risultato del suo stesso divenire, e ne descrive il comportamento positivo nella lotta fino al sacrificio personale. Cosicché il suo eroismo è profondamente legato all’epoca, ha radici profonde nel proletariato e, nello stesso tempo, ha un incancellabile carattere personale. Il modo con il quale egli cerca, in maniera assolutamente consapevole, una soluzione concreta per la buona causa e al tempo stesso sa solo cadere da eroe per essa, lo fa divenire rappresentante della morale di quel periodo eroico, un «tipo» di quell’epoca che di simili ne produceva anche al di fuori della Russia. La letteratura rivoluzionaria non ha saputo eternare come figure poetiche i vari Lewin di Monaco e Otto Corvin di Budapest. È il Levinson di Fadeev che rappresenta qui l’intera epoca.

Il quadro dell’epoca più imponente, più netto e più maturo resta però il poema eroico di Makarenko sulla nascita pratico-spirituale, sull’educazione al socialismo. Il punto di partenza è dato dalla profondissima desolazione della guerra civile: bambini che la guerra ha trasformato in vagabondi, e per la massima parte, in delinquenti. È impossibile qui anche solo accennare al metodo pedagogico di Makarenko, al massimo possiamo indicarne alcuni momenti di novità umana. Makarenko descrive il vicolo cieco di quell’individualismo anarchico che non può non nascere nell’animo di giovani i quali sono costretti a puntare esclusivamente sulla propria forza, sulla sopravvivenza fisica; descrive però anche come esso possa essere superato, come cioè la cosciente solidarietà con la collettività, nella quale ciascuno deve concretamente vivere e agire e che ciascuno con le proprie azioni contribuisce a plasmare, produca una forma superiore di personalità. E come soltanto questa unione fra socialità ed essere personale, che nasce in modo estremamente complicato e che funziona per conflitti, porti in luce l’individualità e la libertà umane. Nel mondo di Makarenko lo sviluppo umano dei bambini avviene solo in seguito a decisioni alternative che molto spesso terminano con un fallimento, con la catarsi dell’autocritica. Ma proprio in questo, tale mondo si manifesta come un mondo di autentica, di nuova libertà; la catarsi è diretta esclusivamente al mutamento intimo, alla fondazione spirituale dell’azione futura; essa è insieme una dichiarazione di guerra, elevata nella pratica a concezione del mondo, contro il pentimento, contro l’incatenamento ai peccati passati, contro le frustrazioni psichiche di ogni sorta.

Questi esempi vogliono essere solo esempi. Essi dimostrano che la letteratura autentica generata dall’Ottobre, e che attingeva allo smisurato groviglio di problemi che esso aveva scagliato nella vita degli uomini, si sforzava onestamente e con successo di elevare a forma poetica valida ciascuno degli aspetti umani della sua totalità. E anche se non ne uscì un quadro dell’epoca grandioso e universale come in Dante o Shakespeare, nella Commedia umana o nei grandi romanzi di Tolstoj, pure questa letteratura costituisce una degna eco all’appello fatto risuonare dall’Ottobre e dalle sue conseguenze.

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Fabbriche per i lavoratori – 1918 di Nathan Altman (1889-1970, UKRAINE)

3. Negli anni trenta questa alta marea di valore universale nella letteratura russa decresce. Naturalmente di quando in quando — soprattutto nel difficile primo periodo della seconda guerra mondiale — nascono anche opere di livello notevole, ma il carattere fondamentale di quello che si è soliti chiamare realismo socialista in realtà rappresenta, come una volta mi è accaduto di chiamarlo, solo un certo «naturalismo erariale», guarnito di romanticismo cosiddetto rivoluzionario, ed è servito in generale a tappare le discrepanze fra i desideri, le fissazioni, i rapporti ufficiali, e la realtà, o a dare mano libera alla manipolazione burocratica.

Questa repentina caduta, vista da una certa distanza storica, è senza dubbio un frutto necessario dell’epoca staliniana. Ma per comprendere bene quest’epoca bisogna riandare alle sue basi essenziali, alla sua prassi sociale ed alla sua teoria. Il che purtroppo finora è accaduto molto di rado. Naturalmente vi ebbero notevole importanza i grandi processi e le successive massicce deportazioni nei campi di concentramento. Tutte queste però erano solo manifestazioni estreme da un sistema, non il sistema stesso. E quindi è stato possibile liquidare in larghissima misura questi eccessi della prassi, senza eliminare davvero il sistema.

Abbiamo visto: Lenin non si faceva la minima illusione sul carattere non classico, in senso marxiano, della Rivoluzione russa. Egli puntava perciò in Russia, come mostra la politica della NEP, a commutazioni sociali che superassero gradualmente questa arretratezza o almeno ne moderassero le conseguenze. Ma nei suoi ultimi anni, quando ormai la malattia gli rendeva difficile il lavoro, non riuscì a progettare un piano totale di riforme. E tuttavia la sua costante paura di una burocratizzazione del sistema sovietico dimostra che egli voleva attuare queste riforme conservando la democrazia proletaria.

Sarebbe inutile oggi stare a meditare su come queste riforme sarebbero state, se Lenin sarebbe stato capace di realizzarle… Davanti ai suoi successori — il testamento di Lenin mostra che egli era scettico su tutti, non solo su Stalin — stava dunque il problema di superare il più rapidamente possibile l’arretratezza economica della Russia. A questo problema si aggiunse, agli inizi degli anni trenta, un motivo fortemente acceleratore: l’ascensione del movimento di Hitler, la prospettiva di una nuova guerra mondiale, la necessità per il giovane Stato sovietico di essere in grado di difendersi dal militarismo tedesco, il che presupponeva naturalmente lo sviluppo dell’industria pesante. Non è certo questo il luogo anche solo per accennare un’analisi economico-sociale, storica di questo sviluppo. A noi interessa invece indicare qui come i metodi con i quali Stalin effettuò la trasformazione dell’economia sovietica, come tale corso ideologico del paese agì soprattutto sul corso della letteratura.

Dato che ripetutamente mi sono pronunciato in pubblico su questi metodi, ora posso essere relativamente breve. Prima di tutto il contrasto con Lenin si rivela in ciò, che non appena la fase acuta della guerra civile fu grosso modo passata, Lenin cercò di eliminarne i metodi specifici e di tornare ai normali sistemi di governo. Al contrario Stalin, non appena la situazione interna del partito si fu acutizzata anche solo di poco, e in una situazione sociale completamente tranquilla, ricorse di nuovo ai metodi della guerra civile e li trasformò in base «normale» d’amministrazione anche in condizioni del tutto consolidate. In questo modo, i mali inevitabili nella guerra civile, il dominio soverchiante del potere centrale e la sospensione di ogni autonomia e democrazia, si mutarono in una forma permanente di vita.

Per attuare conseguentemente tutto ciò in un paese dove il marxismo era divenuto la filosofia dominante, Stalin, pur mantenendo la terminologia marxista-leninista, dovette rovesciarne radicalmente i concetti, la loro connessione, gerarchia, ecc. Per Marx ed Engels i princìpi dello sviluppo sociale erano fissati scientificamente e teoricamente. Con il loro aiuto il partito era in grado di stabilire le grandi tendenze dominanti, permanenti, di un’epoca e così poi poteva essere scientificamente determinata la strategia del partito comunista e dello Stato socialista. Tale strategia, poi, permetteva di giungere a giuste risoluzioni tattiche nel mezzo degli avvenimenti quotidiani rapidamente mutevoli. La gerarchia principio-strategia-tattica risulta evidente in modo naturale nel passaggio dal grado più elevato al grado più vicino alla vita, che però non può mai percorrere la via deduttiva, ma al contrario è stato sempre pensato come analisi concreta di ogni concreta tendenza che opera realmente. Ora Stalin rovesciò questa gerarchia. Per lui la pietra di paragone era sempre il provvedimento tattico necessario al momento. Su questo poi veniva costruita «logicamente» in ogni caso una corrispondente pseudo-strategia e un altrettale sistema di princìpi, che poi naturalmente mutavano a ogni mutamento di tattica.

Questo assorbimento nella tattica di princìpi, prospettive e strategia, serve prima di tutto a rendere assoluta ogni definizione o decisione nata in questo modo. L’importantissima questione teorica e pratica del marxismo, di come debba essere giudicata sulla base dei princìpi e della strategia una azione tattica eventualmente inevitabile, in questo modo viene completamente messa da parte e con essa anche qualsiasi autentica autocritica del movimento rivoluzionario, che Marx riteneva sua differentia specifica di contro al movimento borghese. Marx ha detto che le rivoluzioni proletarie «criticano costantemente se stesse», ma Lenin è stato il primo e l’ultimo, come abbiamo visto, nel suo comunismo di guerra a praticare apertamente questo principio. Sotto Stalin esiste solo una forma di autocritica, vale a dire l’autocritica — spesso estorta dalla pressione dell’organizzazione — dei singoli che si erano permessi di manifestare dubbi sulle infallibili decisioni. In tal modo il metodo di Marx fu sfigurato e degradato a metodo di brutali manipolazioni.

Il che fu — a dirla francamente — una rottura totale con il metodo di Marx. De facto tale rottura Stalin la realizzò anche nella pratica. Lo fece però con l’aria di voler conservare il marxismo-leninismo ortodosso. Le affermazioni dei classici conservavano la loro validità, che anzi venne accresciuta, dogmatizzata dalla canonizzazione ufficiale. Ma come metodo definitorio e ordinatore vigeva il predominio della tattica, di cui appunto abbiamo parlato. Questo naturalmente non avvenne tutto in una volta. Dapprima Marx venne gradualmente spinto indietro da Lenin (l’edizione completa critica delle opere di Marx iniziata da Rjazanov, non fu né continuata né tanto meno portata a termine). Più tardi però anche Lenin cominciò a retrocedere di fronte a Stalin. Naturalmente continuava a esistere, era abbondantemente citato, ma solo fino a quel punto in cui le sue affermazioni sembravano confermare le momentanee indicazioni tattiche di Stalin. Si veniva così realizzando una grave deformazione del metodo di Marx e Lenin mentre si conservava la loro terminologia, dove naturalmente la deformazione metodologica mutava anche il contenuto di tutte le categorie, dava loro per la maggior parte un senso fisso, astratto, adatto alla manipolazione, burocratico.

Per la letteratura questa trasformazione del marxismo significò la sua sottomissione assoluta alle risoluzioni del partito (cioè di Stalin). «Scrivete la verità» consigliò una volta Stalin agli scrittori. Ma verità significava in pratica: accordo con le ultime risoluzioni del Comitato centrale. Abbiamo già accennato al fatto che questa completa deformazione metodologica non si verificò d’un colpo ma gradatamente, cosicché, in verità solo di tanto in tanto, solo episodicamente si ebbero anche voci di opposizione. Così, ad esempio, la coraggiosa e intelligente saggista Elena Usievic protestò contro l’idea che la verità di ogni scrittore dovesse essere scritta nelle risoluzioni del partito. Un’altra volta indicò l’inferiorità umana della poesia politica ufficiale degli anni trenta. Il suo appello allora a Majakovskij è un appello — in realtà, non pronunciato — alla ricchezza umana e sociale dei grandi anni iniziali della rivoluzione, in contrapposizione alla schematica degradazione dell’uomo del tempo di Stalin. Anch’io, sia pure meno direttamente, ho preso parte a questi tentativi di protesta. La prassi staliniana fece sì che fra la teorizzazione del partito e il contenuto d’idee dell’opera d’arte si stabilì un sistema meccanico di coincidenza necessaria, un rapporto di determinazione diretta. Quando io, commentando l’interpretazione engelsiana di Balzac e la critica di Lenin a Tolstoj, parlai di complicatezza, contraddittorietà tra la cosciente concezione del mondo di uno scrittore e il contenuto di idee della sua opera, anche questo era una protesta — altrettanto inespressa. Naturalmente tutti questi tentativi — che non furono i soli — vennero bruscamente respinti dalla stragrande maggioranza dei critici staliniani.

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Rostrums around the Alexander Column -di Nathan Altman (1889-1970, UKRAINE)

4. Il 1946 dette il via alla resa dei conti con la dottrina di Stalin. Anche qui bisogna rilevare che, come il dominio di Stalin aveva avuto in fin dei conti delle ragioni economico-sociali, anche la lotta iniziata contro quel metodo ebbe le sue. Quali che fossero i mezzi usati, Stalin riuscì a costruire nell’Unione Sovietica una forte industria. Guerra e dopoguerra ne sono dimostrazioni pratiche incontestabili. Ma come conseguenza di questo fatto si è avuto anche un cambiamento interno nella stratificazione sociale. Nell’Unione Sovietica esisteva ora una vasta e qualificata classe operaia. Al contrario degli anni trenta, quando gli specialisti economici e tecnici provenivano per la maggior parte dalla vecchia borghesia ed erano sovente avversari coscienti del sistema sovietico, lo sviluppo economico ha creato adesso un vasto strato di specialisti d’impronta nettamente sovietica. Comunque si vogliano valutare i metodi staliniani dei «commissari politici», degli universali controlli sull’intero andamento della società tramite la polizia politica, ecc., all’epoca della morte di Stalin questi metodi erano già storicamente superati dallo sviluppo sociale; erano divenuti solo freni dello sviluppo economico; e si dovette eliminarli.

Questa è la vera base sociale che ha portato Krusciov alla ribalta del XX Congresso e alla conseguente politica di riforme. Ancora una volta non è questo il luogo per descrivere gli alti e bassi di questo movimento. Sintetizzando si può e si deve dire però che proprio Krusciov ha criticato e corretto Stalin in gran parte alla maniera staliniana, con metodi staliniani, che anche successivamente il suo atteggiamento verso Stalin ha preso come modello metodologico un po’ la critica a Trotskij del periodo di Stalin. Non era e ancora oggi non è il caso di parlare di un tentativo davvero storico, davvero marxista, di critica all’opera staliniana. Per questo nel campo dei sostenitori delle riforme nasce sempre un certo nervosismo quando da qualche parte vengono sottolineati alcuni momenti positivi dell’attività di Stalin; si teme — e, aggiungiamo noi, non sempre senza ragione — che si tratti di sondaggi per riaccostarsi alla prassi staliniana.

Sul piano ideologico l’aspetto più importante è che la deformazione staliniana della metodica di Marx e Lenin e con essa la compressione, il freno dello sviluppo progressivo del marxismo continua a perdurare in nome della «partitiche» (di nuovo nel senso di Stalin e non di Lenin). Non potendo qui approfondire veramente l’argomento, non possiamo fare a meno di notare che in questo modo, se da un lato si è impedita con successo, un’analisi autenticamente marxista delle trasformazioni avvenute nella economia mondiale dalla morte dei classici in poi, si è impedita la scoperta dei suoi nuovi tratti economici, dall’altro lato però sono stati resi possibili l’affluire e la ricezione acritica delle «conquiste» occidentali nel marxismo. Al posto della autocritica e di una vera riforma basata sui princìpi, si è avuta spesso un’alleanza tra il burocratismo dogmatico-conservatore e certe nuovissime parole d’ordine occidentali. Si pensi alle proposte non di riformare le basi irrazionali, puramente burocratiche dell’economia di piano, con un ritorno ad un marxismo purificato, sdogmatizzato, fondato sulla realtà dei fatti, ma di superarla armando il burocratismo, immutato e conservato, di macchine cibernetiche, ecc. Dietro tali tendenze si nasconde il desiderio di accomunare le brutali manipolazioni del periodo staliniano e quelle «sottili» del capitalismo attuale. E a guardare la cosa da questo angolo di visuale, è solo coerenza quando accadono casi in cui il persistente burocratismo staliniano dà mano libera a qualsiasi avanguardismo, mentre mantiene una censura di buona rigorosità staliniana nei confronti della rinascita del marxismo.

Naturalmente alla lunga non è possibile frenare in questo modo lo sviluppo economico. Appare sempre più evidente che non basta la semplice distruzione del dominio assoluto della polizia politica e l’eliminazione dei vecchi stalinisti più responsabili e più incorreggibili, per mettere in moto una economia socialista funzionante e all’altezza dei tempi. Per questo in vari luoghi la forza imperativa della realtà economica provoca reali movimenti di riforma che — non importa per il momento sulla base di quale teoria — si sforzano di liberare le forze reali del rinnovamento economico e che, se davvero vorranno realizzare quanto è divenuto storicamente necessario, se davvero combatteranno fino in fondo, col passare del tempo saranno anche costretti a dar vita a una loro fondazione teorica, marxista.

Questa sconcertante pienezza di acuti problemi dell’esistenza determina anche le tendenze attuali della letteratura. Per questo la critica distruttivamente appropriata nei confronti del periodo staliniano è una questione vitale tanto quanto per la economia. Se davvero si vuole superare il naturalismo erariale, è necessario intraprendere un esame universale, approfondito, schietto sul piano sociale e umano, del periodo staliniano. Ci si può facilmente rendere conto dell’inevitabilità di una tale tematica. Se uno scrittore vuole parlare in modo autentico dei problemi del presente, dell’uomo di oggi, non può non prendere posizione come scrittore sul come essi sono diventati ciò che attualmente sono. Ma appunto il periodo del loro divenire, del loro maturare è il periodo staliniano; i conflitti nei quali gli uomini che oggi sono vivi si sono irrobustiti o sono stati spinti al dissidio interiore, all’abbrutimento, alla cristallizzazione, ecc., ecc., sono appunto i problemi del periodo staliniano, certamente non in senso astrattamente sociologico, ma proprio come concrete tendenze dell’epoca che agiscono positivamente o negativamente sulla storia di ogni individuo. Se non si dice spietatamente la verità su queste questioni, non è possibile distruggere veramente il naturalismo erariale. Quali strade, sul piano formale, la letteratura imboccherà, potrà dirlo solo la prassi degli scrittori onesti e di talento. Solo una cosa bisogna capire, che qui si tratta di prendere posizione su alternative di vita e non semplicemente di scegliere tra forme espressive efficaci. In sé è del tutto possibile con i monologhi interiori, i diaframmi temporali, il culto dell’assurdo, scrivere un’apologia del periodo staliniano, così come negli anni trenta ci furono opere che misero al servizio della letteratura allora ufficiale la «nuova oggettività», il montaggio ed altre correnti di moda.

Indubbiamente c’è qualche disposizione a una autentica nuova ondata. In talune poesie uscite recentemente nei paesi socialisti, e anche nella prosa, soprattutto nella novella. Alcuni anni fa io rilevai la grande importanza di Solzhenitsyn, proprio perché egli aveva affrontato con coraggio e talento il problema centrale di quel periodo: come gli uomini, nella lotta con la realtà quotidiana dello stalinismo, — e i campi di concentramento ne fanno parte, pur senza essere l’unico campo di battaglia — sapevano mettere a prova la sostanza della loro umanità, e conservarla, come in questa lotta venivano maturati o distrutti e corrotti. Da parte di burocrati, contro un tale giudizio sulla situazione, si obietta che non bisogna «rimestare» nel passato, che bisogna invece applicarsi alle questioni del presente. Ma prima di tutto c’è da dire che proprio qui stanno i problemi del presente.

Naturalmente, in una autobiografia ufficiale, scritta per la direzione del personale di un qualche ufficio, uno può anche manipolare il proprio passato in modo che esso vada a genio all’autorità competente; nella realtà però l’oggi di ciascuno di noi è grandissimamente determinato dall’atteggiamento che abbiamo assunto di fronte agli avvenimenti del periodo di Stalin. Non si può descrivere l’uno in modo autentico e valido letterariamente senza descrivere l’altro. Che cosa sarebbero diventati i drammi di Shakespeare se egli non avesse «rimestato» nel passato della Guerra delle due rose? Solzhenitsyh e i suoi commilitoni sono in tal modo precursori esemplari (e forse un giorno anche realizzatori) della nuova ondata del realismo socialista.

Nel giudizio sulle nuove tendenze bisogna essere molto cauti. Anche qui per ora possiamo stabilire solo la faccia negativa: le promesse che nascono adesso hanno ancor meno in comune con le correnti letterarie che dominano in Occidente. Ciò dimostra che sta nascendo davvero qualcosa di essenzialmente nuovo. Sono gli inizi di un’arte nuova, che sorge per soddisfare nuovi bisogni popolari; le sue forme vengono organicamente ricavate dal contenuto di quella richiesta sociale, alla quale essa deve la propria esistenza di fenomeno originalmente nuovo. Ma si potrà parlare a fondo di questi problemi estetici solo quando questa arte nuova si sarà dispiegata in una certa misura. Solo dopo — post festum — sarà chiaro se esistono fili che la collegano al primo periodo e come sono fatti questi legami. Per ora possiamo solo prender atto, con gioia e speranza, della sua esistenza e darle il benvenuto.

5. Crisi e ricerca di una via d’uscita oggi non si limitano affatto alla zona del socialismo. In Occidente adesso assistiamo di frequente al crollo di false immagini del mondo che erano state covate a lungo come salda verità. Oggi si dice spesso che la guerra fredda sta avvicinandosi alla fine. E in realtà quel che c’è dietro è molto di più di un semplice mutamento tattico di politica estera. Per gli Stati Uniti è crollato il sogno della validità universale dell’american way of life; per l’Inghilterra il sogno del Commonwealth come surrogato della condizione di potenza mondiale; per la Repubblica federale tedesca il sogno del roll back come base per un rinnovato predominio militare in Europa, ecc., ecc. Se poi si aggiunge che in questo periodo sono crollati tutti i vecchi imperi coloniali, che i «miracoli economici», ritenuti modi d’essere permanenti della economia, si sono rivelati semplici periodi di ricostruzione già terminati (per quest’ultima questione mi baso sulle indagini di F. Janossy), se si riflette infine che nella società dei consumi, apparentemente così perfetta, risulta sempre più chiaramente che è l’uomo ad essere messo in forse, ci si accorgerà che sono presenti, più che a sufficienza, motivi economici, sociali e politici per una crisi ideologica generale.

Anche occorre parlare soprattutto della letteratura. W. Jens, che già abbiamo citato a testimoniare sugli effetti della rivoluzione d’Ottobre, a proposito della delusione degli intellettuali tedeschi (e non solo tedeschi) provocata dagli avvenimenti degli anni trenta dice: «Gli intellettuali divennero una volta per tutte apolidi». Che questa apolidìa nel periodo delle illusioni capitalistico-imperialiste, nonostante tutto l’ostentato scetticismo e pessimismo, si sia dimostrata in sostanza solo autocompiacimento, adesso importa poco. I vuoti ideali del 1945, le utopie reazionarie del periodo della guerra fredda, sono ormai in via di disfacimento. Vorrei sottolineare adesso un solo sintomo, in verità importante, di questa crisi. Per interi decenni, tra gli intellettuali progressisti dell’Occidente è stato di gran moda disprezzare profondamente il marxismo come una ideologia troppo a lungo sopravvissuta al XIX secolo, messo ormai da parte per altri aspetti. Ora però la crisi ideologica spinge un numero sempre maggiore di intellettuali a vedere proprio nel marxismo la chiave per risolvere quei problemi ai quali neppure il pensiero borghese «più o meno progressista» è capace di dare una risposta.

Si intende da sé che questo fatto non può non mutare a poco a poco anche l’atteggiamento nei confronti della prospettiva socialista. E appunto qui, lo sviluppo concreto dei paesi socialisti si lega strettamente alla forza d’attrazione della prospettiva socialista nei confronti degli intellettuali dell’Occidente capitalista. Il fascino dell’Ottobre e delle sue immediate conseguenze consisteva nel fatto che in esso risultava evidente tutto un nodo di risposte che, per ragioni sociali, questi intellettuali non riuscivano a chiarire con i propri strumenti di pensiero quasi nemmeno nella forma di domande. L’angustia dogmatica, la rigidezza, il carattere grossolanamente volgarizzatore di quello che nel periodo staliniano si usava chiamare marxismo, non poteva per sua natura né esercitare tale influenza, né trattenere l’ondata antimarxista nel pensiero occidentale. Per il nascente interesse, per la crescente simpatia verso il marxismo che comincia a manifestarsi ora in Occidente, è quindi d’importanza determinante il modo in cui i comunisti parteciperanno alla rinascita del marxismo. Per ora la situazione è estremamente confusa. A un polo ci sono le tradizioni del periodo staliniano ancora fortemente radicate, all’altro polo non di rado si è avuta l’inclinazione ad andare incontro — anche troppo — ai pregiudizi ed alle confusioni di tutti i partecipanti alla discussione, fino ad abbandonare i principi fondamentali del marxismo. In ultima analisi però determinante è qualcosa che ovviamente non si realizzerà mai del tutto senza una autentica rinascita del marxismo: la veemenza della vita stessa nel socialismo sarà questa a dare la risposta. Per quanto all’interno del mondo socialista, la riforma dell’economia sia molto importante, il semplice aumento della produzione e del livello di vita non sarà mai capace di avere questa forza d’attrazione per l’Occidente (e questa era una delle illusioni di Krusciov). Questo processo, dunque, che suscita le più grandi speranze oggi appare ancora in uno stadio estremamente confuso; da marxisti tuttavia possiamo aspettarci come prospettiva, con buona coscienza teorica, il chiarimento così necessario del pensiero sulla base della riforma della vita sociale e dell’economia del mondo del socialismo.

Per queste ragioni l’insieme dei problemi sociali e umani dell’Ottobre non può oggi avere influenza, né estensiva né intensiva sulla letteratura occidentale. Come sempre, sono i problemi di vita del presente a decidere che cosa scrittori e lettori sono in grado di sentire come un passato vivo ed esemplare. E la letteratura occidentale per giunta ancora non è venuta in chiaro neppure con il proprio recente passato. Tale discrepanza risulta evidente dal fatto che ancora oggi gli immediati documenti umani della Resistenza antifascista — ricordiamo solo le ultime lettere dei condannati a morte, gli schizzi del carcere di Fucik — son d’un livello che la letteratura occidentale ha raggiunto solo in casi rari ed eccezionali. Naturalmente ci si muove, e validamente, in questa direzione, così in alcune novelle di Vercors, o Biliardo alle nove e mezzo di Böll, o Il Vicario di Hochhuth o gli ultimi drammi di Peter Weiss. Ma solo il Grande viaggio di Jorge Semprun si eleva sino quasi a raggiungere il livello del vero modello di vita.

In questa situazione si rispecchia l’avversione dell’Occidente a fare davvero i conti con il passato fascista. Il fatto che l’opinione pubblica della Bundesrepublik tenta di ridurre il problema dell’hitlerismo alla persecuzione contro gli ebrei, rivela nel modo più evidente questo rifiuto: i prestiti di guerra ad Israele forniscono una confortevolissima «catarsi» all’interno, rendono possibile agli ex nazisti di fare i dirigenti politici, e permettono inoltre una sordida concorrenza ideologica — velata naturalmente da riserve verbali — cogli eredi della estrema destra della reazione tedesca. Ma anche in altri paesi non si è giunti ad una definitiva resa dei conti con il fatto che soltanto la loro tolleranza permise ad Hitler di salire in alto fino a diventare una minaccia per tutta la civiltà umana. Ancora una volta, se volessimo approfondire le questioni che vi sono connesse, oltrepasseremmo di molto i limiti di queste riflessioni. Accenniamo solo a questo, che dipende dal presente se le irradiazioni dell’Ottobre non possono agire come vivo passato dell’umanità.

Un tale presente è ancora molto lontano. Non bisogna però sottovalutare il materiale esplosivo che è stato ed è accumulato, latente o eruttivo, in rivolte individuali, solitarie, personali. Naturalmente non parliamo qui di quel conformismo anticonformistico che sublima l’elementare scontentezza dell’uomo in una autocompiaciuta disperazione intimamente passiva, e che fornisce la propria alienazione come consumo di lusso per clienti esclusivi. Il contrario c’è sempre stato, così il tardo O’ Neill, la fine della pista di Thomas Wolf, o Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, o Styron, o molti altri. Queste rivolte hanno una così grande importanza sociale ed artistica perché in esse, pur configurate come azioni individuali di uomini singoli, è sempre implicitamente presente l’in-sé della loro socialità. Sarebbe un compito importante e bello per il marxismo che cresce, trasformare questo in-sé in un per-noi chiaro, universalmente valido ed efficacemente unito. In questo modo sarebbe spianata la strada evolutiva per elevare questo in-sé della rivolta contro la alienazione nel mondo manipolato al suo essere-per-sé.

Le forme della alienazione umana in Occidente sono cosiffatte che proprio la letteratura e l’arte potrebbero dare notevoli impulsi alla volontà degli uomini per sfondare questo cerchio magico. La consapevolezza su se stessi, sulla propria situazione, sulle proprie possibilità, implica l’autocoscienza dell’uomo su se stesso, ma appunto come essere insieme autonomamente attivo e ineliminabilmente sociale. Obiettivamente, l’uomo non è stato «gettato» in un mondo alienato, ma vive in un mondo, per ostile che sia, il cui essere non può mai venir separato dall’essere della sua personale interiorità. Così l’uomo, in un certo senso, ha anche una parte di colpa per la sua alienazione, per cui anche il rifiuto del suo mondo circostante include sempre anche un’autocritica orientata praticamente, cioè una critica della realtà sociale oggettiva. Per questo il rifiuto dell’alienazione che resta semplicemente soggettivo, semplicemente sentimentale, slitta tanto spesso in un adattamento ad essa, pieno di riserve solo formali, perché l’alienazione sfugge a una reale dialettica, di soggetto e oggetto. Solo una dialettica, divenuta coscientemente pratica, di doppie negazioni intrecciate una nell’altra, dà alla sostanza umana la capacità di resistere, la spinge dal semplice immediato in-sé all’autonomo riconoscimento del per-sé.

Questo tipo di problemi scaturisce dalle specifiche determinazioni dell’odierno essere sociale. Il suo collegamento diretto con quel nodo di domande e di risposte che l’Ottobre ha scagliato nel mondo è quindi assai allentato, estremamente lontano e confuso. Purtuttavia è un collegamento che esiste nella realtà. E se la rinascita del marxismo guiderà i creatori dell’arte e i lettori a una tale coscienza e autocoscienza, in tal modo essa obiettivamente getterà un ponte fra l’Ottobre e la migliore letteratura di oggi e di domani.