L’avventura del romanzo secondo Lukács e Bachtin

di Vittore Branca

«Corriere della sera», 1 luglio 1976


La grande profezia della Estetica hegeliana sulla «morte dell’arte» nell’età moderna fa sentire la sua voce ad ogni crisi delle espressioni letterarie. Ed è stata rievocata continuamente nelle discussioni di ieri e di oggi sulle possibilità e le sorti stesse del romanzo, insidiate anche dalla prepotenza narrativa del cinema e della televisione in questa nostra società eminentemente visiva. Non si è riflettuto che Hegel, invece, proprio nell’epoca da lui giudicata più sfavorevole all’arte, perché «il pensiero e la riflessione hanno sopravanzato la bella arte», privilegiava il romanzo: era l’unica forma letteraria che potesse accogliere quell’irrompere crescente del pensiero e della riflessione.

Continua a leggere

Lukács caso patetico

di Sandro De Feo

«Corriere della sera», 28 marzo 1968


Quello di Giorgio Lukács è sicuramente tra i nomi di maggiore autorità e prestigio della critica e, in generale, della cultura marxista; ma la sua è anche la figura forse più patetica della compagnia, perché è la figura di un isolato e in certo senso di un sorpassato. Tout se tient così nelle rivoluzioni come nelle post-rivoluzioni, e la cultura marxista, non diversamente dalla politica marxista della post-rivoluzione, è una cultura di dialoghi, dialoghi con ciò che v’è di nuovo o si ritiene vi sia di nuovo nell’aria o, se si preferisce, con ciò che bolle in pentola, con la filosofia nuova, con la scienza nuova, psicologia, antropologia, persino la linguistica, persino l’avanguardia e i mass media. Che cosa hanno fatto gli uomini più prestigiosi della cultura marxista e para-marxista, gli Adorno, i Caudwell, i Benjamin, i Bloch, se non tentare, anche a costo talvolta di passare per eretici, di conciliare Marx con le nuove idee, discipline e movimenti?

Continua a leggere

L’enigmatica figura del filosofo marxista

di Vittorio Strada

«Corriere della sera», 23 giugno 1989


Una partita a poker nel destino di Lukács

Su György Lukács, il filosofo marxista-leninista che è stato il maggior teorico del «realismo critico» e del «realismo socialista» come tendenze letterarie progressiste in contrapposizione alla reazione «decadente» e «avanguardistica», Michail Lifscits, che gli fu collaboratore e amico durante il lungo periodo che Lukács trascorse a Mosca negli anni Trenta, raccontava un aneddoto impressionante, la cui verità, come si potrà capire, è puramente ipotetica. Bisogna ricordare che nel 1941 Lukács fu arrestato a Mosca e trattenuto in prigione per un brevissimo periodo.

Continua a leggere

L’arte moderna e la grande arte

di György Lukács

«Rinascita-Il Contemporaneo» n. 9, 27 febbraio 1965


Il dialogo con György Lukács che qui riportiamo, si è svolto a Budapest il 7 febbraio 1965. Nel riferire le dichiarazioni rilasciate dalla studioso ungherese, usiamo volutamente una forma discorsiva. Dipende da due motivi. Anzitutto molte risposte hanno, per ammissione dello stesso Lukács, il valore di una prima approssimazione ai problemi che il marxismo si pone oggi in tutti i paesi e in tutti i partiti comunisti. È un contributo, cioè, che lo stesso Lukács considera provvisorio, almeno per quanto riguarda le formulazioni delle proposte da lui fornite. Inoltre dobbiamo avvertire i nostri lettori che alcune affermazioni troppo recise (come i giudizi sulle esperienze letterarie e artistiche contemporanee o la professione di fede «antimodernista») erano pronunciate non senza qualche sfumatura di ironia o di auto-ironia che diventa difficile far balenare in un testo scritto. Per riprodurre almeno in parte il tono di vivacità che il nostro interlocutore ha voluto usare durante il colloquio, abbiamo pensato di riferire le sue dichiarazioni nella forma più diretta.

Continua a leggere

A proposito di letteratura e marxismo creativo

di György Lukács

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.

a cura di A. J. Liehm

Intervista rilasciata al giornalista cecoslovacco A. J. Liehm nel dicembre 1963 e pubblicata nel n. 3 della rivista Literární noviny, Praga, gennaio 1964. Qui ripubblichiamo la traduzione italiana apparsa nel n. 69 de Il contemporaneo, febbraio 1964, Roma. Non ci sono indicazioni del nome del traduttore. Si sono apportate alcune rare correzioni.


Lukács – Ecco, di un libro m’interessa sempre se ciò che in esso è detto, non sarebbe stato possibile raccontarlo nella medesima dimensione, diciamo, del reportage, se vi si pongono questioni oppure si risolvono problemi a un livello realmente artistico e non nelle dimensioni della sociologia. A tal riguardo sono un conservatore ed esigo che per tutto quanto vi è di importante nell’arte, si trovi una forma corrispondente. Questo vale da Omero sino a Kafka. Allo stesso modo, sono contro la forma senza contenuto e senza un problema poeticamente concreto, all’interno e viceversa. Per il resto vi sono altri mezzi e strumenti, per esempio la stampa. Credo che un buon lavoro sociologico sia più importante e, dal punto di vista della conoscenza, più redditizio, forse, dell’Homo Faber di Frisch. Affinché un ingegnere si renda conto della propria alienazione nella società capitalistica, non deve necessariamente avere un rapporto con la propria figlia. Questa è un’aggiunta poeticamente inorganica per il lettore modernista. Il problema della alienazione ci viene rappresentato in modo molto più suggestivo da ogni buon sociologo. Compito dell’artista è scoprire il problema mediante la forma artistica. Continua a leggere

Il problema della prospettiva

I testi> Il marxismo e la critica letteraria>

di György Lukács

da Il marxismo e la critica letteraria, Einaudi, Torino 1969.

Intervento al IV Congresso degli scrittori tedeschi, Berlino, 11 gennaio 1956

Le difficoltà della nostra letteratura – Becher e Anna Seghers vi hanno già accennato nelle loro relazioni – derivano proprio dalla sua grandezza, dalla sua superiorità sociale e ideologica. Questa problematica diventa particolarmente acuta nella questione della prospettiva. Poiché oggi suona quasi banale affermare che la grande differenza tra realismo critico e realismo socialista sta giustappunto nella questione della prospettiva, e che in essa emerge nel modo più chiaro la superiorità della nostra letteratura.

Quando però consideriamo la faccenda concretamente, leggendo le varie opere — la maggior parte delle nostre opere —, ci accorgiamo che nella configurazione della prospettiva si celano moltissimi problemi. E oserei dire che una delle fonti dello schematismo che si riscontra nella nostra letteratura sta proprio nella configurazione erronea, nella configurazione meccanica o nella meccanica deformazione della prospettiva.

La prospettiva di cui parlo la posso in breve definire come segue. Continua a leggere

Prefazione a Arte e società

di György Lukács

Arte e società, Editori Riuniti, Roma 1968

I saggi qui raccolti comprendono cinquant’anni del mio sviluppo. I primi scritti risalgono agli anni intorno al 1910; il manoscritto dell’Estetica è stato consegnato in tipografia nel 1960. Lo sviluppo semisecolare che si riflette in questo volume non riguarda, però, soltanto la persona dell’autore, – anche se qui abbiamo a che fare prima di tutto con l’esposizione diretta del suo pensiero, – ma riguarda anche l’ambiente in cui esso si è prodotto. Questo sviluppo individuale può essere realmente compreso solo ove si spieghi in che modo le singole idee sono sorte, attraverso quali lotte contro determinate correnti, mediante la prosecuzione o la negazione di quali correnti. Continua a leggere

Georg Lukács e a literatura do século XX

di Carlos Nelson Coutinho

da Lukács, Proust, Kafka, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, 2005.

[Questo testo rappresenta il capitolo 1 del libro, la cui Appendice contiene uno scambio di lettere tra l’autore e L., e una rassegna dei passi di testi lukacsiani in cui l’ultimo L. parla di Kafka. Come si capirà leggendo il capitolo qui proposto, il libro nel suo complesso vuole condurre un’analisi dell’opera dei due autori citati nel titolo, partendo da tarde categorie lukacsiane criticando quelle espresse da L. medesimo in L’attualità del realismo critico, in particolare l’opposizione realismo/avanguardia – specie per i due autori in oggetto – e la posizione di fronte al socialismo quale criterio di valore per giudicare un’opera del XX secolo. L’importanza di questo scritto ci sembra risiedere non solo nella serietà dell’argomentazione – la cui validità è oggetto del giudizio del lettore – ma anche nell’aver affrontato testi lukacsiani non tradotti in italiano e – per quel che ne sappiamo – per niente letti dai critici italiani].


1.

Uma análise das obras de Marcel Proust e de Franz Kafka — ainda que sumária e parcial, como a que pretendo esboçar nos capítulos seguintes deste livro — requer sempre uma justificativa prévia. Poucos autores, contemporâneos ou não, mereceram uma similar atenção por parte da crítica. Quase todos os pensadores importantes do século XX sentiram a necessidade de acertar contas com a obra destes dois autores, sobretudo com aquela de Kafka. Cabe assim uma pergunta: restará algo a dizer sobre Proust e Kafka? Não terá essa vasta literatura crítica, ou pelo menos sua parte mais significativa, indicado e explicitado a totalidade dos possíveis ângulos de abordagem e, sem naturalmente esgotar o conteúdo da produção destes dois autores (que, como o de toda grande obra de arte, é sempre em certo sentido inesgotável), fornecido o máximo de conhecimento possível — na etapa histórica em que vivemos — sobre o seu significado essencial?

Não se trata, evidentemente, de propor uma resposta radicalmente negativa. Nessa massa de análises críticas de variada orientação, podem-se indicar alguns pontos firmes essenciais, ou seja, conquistas que se incorporaram definitivamente à compreensão do significado do mundo estético de Proust e de Kafka. Mas, ao mesmo tempo, também é possível observar que a descoberta de tais pontos e a fixação dessas conquistas ocorreram freqüentemente no interior de visões de conjunto problemáticas, que, em muitos casos, lançaram um denso véu de equívocos sobre a verdadeira natureza estético-ideológica dos relatos destes dois notáveis escritores.

No caso de Proust, tais equívocos dizem respeito, essencialmente, ao lugar ocupado por sua obra na evolução da literatura e, em particular, do romance. Embora À la recherche du temps perdu tenha, na época do seu aparecimento, despertado forte oposição nos meios “vanguardistas”, tornou-se depois moeda corrente na crítica mais recente a inclusão de Proust, juntamente com Joyce e Kafka, entre os iniciadores da “revolução formal” que caracterizarla a chamada “literatura de vanguarda”. Apontada como exemplo de superação da “anacrônica” estrutura romanesca tradicional, a obra proustiana aparece assim desligada da herança realista que, no plano da arte narrativa, alcançou sua máxima expressão no romance do século XIX.

Ainda que dominante, esta leitura “vanguardista” de Proust está longe de ser unânime. Thomas Mann, por exemplo — que jamais se limitou, em suas análises literárias, a uma abordagem puramente estilística dos autores e das obras —, incluiu Proust entre os romancistas do século XIX, colocando-o expressamente ao lado de Balzac, Stendhal, Flaubert, Tolstoi e Dostoievski. Além disso, desde o aparecimento dos primeiros tomos da Recherche, houve críticos franceses que, como Jacques Rivière — cuja análise, de resto, mereceu a aprovação do próprio Proust —, insistiram sobre o caráter antimodernista de sua obra, ou seja, sobre a estreita ligação déla com a “tradição clássica”.1 Estamos diante de duas avaliações radicalmente contrapostas, as quais, precisamente por sua unilateralidade, levam a equívocos. Mas me parece também que, malgrado esta unilateralidade, ambas colocam problemas reais: com efeito, como tentarei demonstrar no capítulo sobre Proust, a melhor chave para entender a obra do romancista francês é mostrar que, embora se situé na tradição do romance do século XIX, ela já antecipa algumas características da literatura própria do século XX, com todas as implicações conteudísticas e formais que disso decorrem.

Já no caso de Kafka, a polêmica não girou sobre a natureza inovadora ou não da forma estética por ele criada: ao que eu saiba, ninguém pos em discussão o caráter vanguardista e inovador de seus relatos. O que aqui esteve em discussão foi, quase sempre, a natureza da visão do mundo que Kafka expressou em sua obra, discussão que deu lugar à criação de inúmeros equívocos. Com seu costumeiro radicalismo, Theodor W. Adorno observou em 1953: “Do que se tem escrito sobre ele [Kafka], pouca coisa conta; a maior parte é existencialismo.”2 E já bem antes, em 1934, Walter Benjamin dissera: “Há dois mal-entendidos possíveis com relação a Kafka: recorrer a uma interpretação natural e a uma interpretação sobrenatural. As duas, a psicanalítica e a teológica, perdem de vista o essencial.”3

No núcleo dessas interpretações equivocadas, parece-me residir, antes de mais nada, um falso conceito de arte, que se expressa, no caso concreto de Kafka, na tentativa de transformar sua obra em “expressão” ou “ilustração” de uma visão do mundo preexistente à construção dos seus relatos. Mais precisamente: o erro fundamental dessas interpretações (existencialistas, psicanalíticas, religiosas, sociológicas) não depende tanto do conteúdo da visão do mundo que em cada oportunidade se atribui a Kafka, conteúdo que — conforme a ideologia do intérprete ou o ambiente cultural do momento — pôde ser indicado como “ilustração” da mística judaica, do complexo de Édipo, da “derrelição” ontológica do homem num mundo absurdo e irracional, das contradiçoes paralisadoras da ideologia pequeno-burguesa de nosso tempo, etc., etc. O problema é que desse modo, implícita ou explicitamente, nega-se o fato de que a obra kafkiana — como toda obra de arte significativa — é representação mimética da realidade social objetiva e não expressão direta de uma subjetividade individual (consciente ou “profunda”) ou pseudo-universal (religiosa ou classista).

Minha convicção — que tentarei expor nos capítulos seguintes deste livro — é que o significado das obras de Proust e de Kafka não reside na “expressão” de uma idéia abstrata qualquer, nem tampouco tem sua gênese na biografia do autor ou na “psicologia social” de uma classe ou de uma nação. Se quisermos alcançãr esse significado em sua riqueza concreta, deveremos analisar estes dois excepcionais escritores à luz de uma poética do realismo, ou seja, de uma teoria da arte como representação (ou figuração mimética) da essência de uma realidade social e humana históricamente determinada. Nos capítulos seguintes, portanto, tentarei definir, por um lado, o conteúdo histórico-humano-social que serve de pressuposto às objetivaçõs estéticas de Proust e de Kafka; e, por outro, o modo pelo qual esse pressuposto é reposto artisticamente na estrutura de seus relatos. Somente a partir desse critério histórico-materialista será possível definir a visão do mundo imanente à obra dos dois autores (única que interessa numa análise estética materialista), bem como os peculiares problemas formais e técnicos que o modo de reposição estética por eles adotado indiscutivelmente coloca.

2.

O leitor informado terá percebido que o método de abordagem acima proposto é aquele formulado e quase sempre aplicado ñas obras da maturidade de Georg Lukács. E aqui se coloca uma questão: esse mesmo leitor saberá também que o juízo de Lukács sobre Proust e, em particular, sobre Kafka, embora tenha sofrido alterações nos últimos anos da sua longa vida, pôde ser considerado — ao contrário daquele que resulta de minhas análises — como essencialmente negativo.

Sobre Proust, Lukács falou muito pouco em sua vasta obra. Ao longo das quase duas mil páginas de sua Estética, por exemplo, o criador da Recherche é mencionado apenas três vezes, e nunca em função de sua obra narrativa, mas de uma incidental observação que ele fez acerca da presença do reflexo da realidade na obra de Mallarmé.4 É também apenas de passagem que Lukács se refere a Proust em duas outras obras, em ambos os casos para indicar que a visão do mundo do narrador francês inspira-se na concepção do tempo de Bergson, que Lukács considera expressão de um intenso subjetivismo irracionalista.5 Já no fim da vida, contudo, num momento em que se dispunha a algumas revisões de seus juízos críticos anteriores sobre a literatura contemporânea (como veremos mais amplamente no caso de Kafka), Lukács afirma, numa entrevista ao poeta inglês Stephen Spender: “O caso de Proust é muito diferente do de Joyce. Em Á la recherche du temps perdu existe um retrato real do mundo, não uma fotomontagem naturalista (pretensiosa e grotesca) de associações [como em Joyce]. O mundo de Proust pôde parecer fragmentário e problemático. De muitas maneiras, ele preenche a situação do último capítulo de L’éducation sentimentale [de Flaubert], em que Frédéric Moreau volta para casa depois do esmagamento da revolução de 1848; ele já não tem nenhuma experiência da realidade, apenas a nostalgia de seu passado perdido. O fato de que esta situação constitua, com exclusividade, o conteúdo da obra de Proust é a razão de seu caráter fragmentario e problemático. Não obstante, estamos diante da figuração de uma situação verdadeira, produzida com arte.”6 Trata-se, a meu ver, de uma fecunda indicação, que — como o leitor poderá comprovar — tento desenvolver no capítulo sobre Proust.

Ao contrário, pelo menos a partir de 1957, foram inúmeras as vezes em que Lukács se referiu a Kafka. Não é difícil perceber que a obra kafkiana provocou no filósofo húngaro uma sincera admiração, ainda que ele a visse como expressão do vanguardismo que tão duramente combatia. Com efeito, Kafka ocupa um posto decisivo na estrutura da obra que, em 1957, Lukács dedicou aos problemas da literatura contemporânea. Contrapondo Thomas Mann e Kafka como a alternativa típica no seio da literatura “burguesa” do século XX, Lukács afirmava nesta obra que, enquanto Mann construíra “um realismo crítico verdadeiro como a vida”, Kafka seria nada mais do que a expressão de “uma decadência artisticamente interessante”.7 A obra kafkiana aparece como a manifestação mais típica da tendência vanguardista, que Lukács rejeitava pelo menos desde os anos 1930. Embora insistisse sobre o talento realista revelado por Kafka na seleção e composição dos detalhes, Lukács afirmava que esse realismo parcial estaria a serviço de uma construção essencialmente alegórica e, como tal, anti-realista: o objetivo final de Kafka seria indicar o “nada” (o absurdo do mundo) como a essência da realidade. Lukács sintetiza de modo bastante claro sua visão da obra kafkiana: “Uma imagem da sociedade capitalista com um pouco de cor local austríaca. O alegórico consiste no fato de que toda a existência dessa camada e de seus dependentes, bem como de suas indefesas vítimas, não é representada como uma realidade concreta, mas como reflexo atemporal daquele nada, daquela transcendência que — não existindo — deve determinar toda a existência.”8

O aparente brilho da análise lukacsiana — que retomava as idéias sobre a alegoria desenvolvidas por Benjamin nos anos 1920 e, desse modo, emprestava um caráter mais sofisticado à sua já antiga condenação sumaria da arte de vanguarda —9 não deve ocultar sua essencial inadequação. Embora com sinal avaliativo invertido, o que Lukács escrevia em 1957 sobre Kafka era também “existencialismo”. Decerto, a interpretação “existencialista”, como veremos no capítulo III, dá conta de parte das produções kafkianas, em particular do romance inacabado O desaparecido (ou América) e de muitos relatos curtos construídos explicitamente como parábolas alegóricas. Mas tal interpretação deixa de lado, por insuficiência ou mesmo por deformação, aquilo que de mais significativo e duradouro foi criado pelo autor de O processo. Em minha opinião, a linha de demarcação entre alegoria e símbolo — tão bem traçada por Lukács em nivel teórico — passa no interior da obra de Kafka e, de modo mais geral, no interior daquilo que o filósofo húngaro chama de “modernismo” ou (como nas línguas neolatinas) “vanguardismo”. Deve-se observar que Lukács, em algumas passagens de escritos posteriores a Realismo crítico hoje, formulou juízos sobre Kafka (assim como o já mencionado sobre Proust) que alteravam objetivamente os formulados em 1957. Todavia, na medida em que ele jamais voltou a tratar sistemáticamente (como fizera em 1957) da obra do autor tcheco, esses juízos fragmentários — ainda que por vezes iluminadores — não podem, por seu caráter tópico, elevar-se a uma nova avaliação global que funcione efetivamente como uma autocrítica.10

3.

Durante algum tempo, estive convencido de que Lukács cometera certamente um “erro de avaliação”, que envolvia Proust e Kafka, mas que tal erro não alterava a justeza essencial de sua teoria sobre a arte e a literatura do século XX.11 Não concordo mais com essa visão simplista, embora recuse igualmente o simplismo oposto, que consistiría em manter a alternativa formulada por Lukács mas com sinal trocado, ou seja, optando por Kafka (pela vanguarda) contra Thomas Mann (contra o realismo).12 São precisamente estas alternativas radicáis que devem ser postas em questão, como tentarei demonstrar em seguida.

O que eu considerava “erros de avaliação” localizados me parecem hoje o índice de certas conexões problemáticas na própria teoria lukacsiana da literatura do século XX, que decorrem em última instancia da concepção geral de Lukács acerca da evolução histórica posterior à Revolução de Outubro de 1917. Desde sua adesão ao marxismo (ocorrida em 1918) até pelo menos meados dos anos 1920, Lukács — como tantos outros comunistas — esteve firmemente convencido de que a época histórica inaugurada pela revolução bolchevique se caracterizava pelo que ele chamou de “atualidade da revolução”, ou seja, pelo fato de que estaría em curso uma rápida expansão aos países ocidentais da revolução socialista concebida segundo o modelo bolchevique. Como se sabe, foi sob a égide desta convicção que Lukács escreveu seus primeiros escritos marxistas.13 Contudo, já no final dos anos 1920, quando havia se tornado evidente o refluxo da onda revolucionária iniciada em 1917, Lukács elaborou uma nova avaliação do presente, cuja primeira expressão aparece em suas Teses de Blum.14 Esta avaliação — que se apoiava essencialmente, como veremos, em dois pressupostos, um bastante problemático e outro inteiramente falso — se manteria pelo menos até meados dos anos 1960, quando o pensador húngaro esboça algumas tardias e quase sempre tímidas tentativas de revisão de suas antigas posições.

O primeiro dos pressupostos a que aludi era a idéia de que uma aliança entre o socialismo e a democracia radical — a grande herança do “período heroico” da burguesia — seria o melhor antídoto contra as tendências reacionárias e fascistas que o capitalismo vinha gestando como resposta à revolução russa. Tal aliança se expressaria, no terreno da ideologia e da arte, por meio de uma aproximação entre os intelectuais burgueses progressistas e os intelectuais socialistas, com base, respectivamente, na defesa da razão e da arte realista. A aliança militar entre as “democracias” ocidentais e a “pátria do socialismo”, ocorrida na luta comum contra o nazifascismo durante a Segunda Guerra Mundial, parecia confirmar plenamente essa idéia, que Lukács partilhou então com a maioria do movimento comunista. Não me parece casual que tenha sido no período das frentes populares — que buscaram e muitas vezes conseguiram criar esta aliança já antes da guerra — que Lukács redigiu algumas de suas principáis obras, não só os belíssimos ensaios sobre o realismo do século XIX (Balzac, Stendhal, Dostoievski, Tolstoi, etc.), mas também as excepcionais monografias sobre O romance histórico e sobre O jovem Hegel, nas quais ele busca precisamente valorizar o legado humanista da burguesia, respectivamente nos terrenos da arte e da filosofia.15

De resto, a enfática defesa desta aliança entre democracia e socialismo permitiu a Lukács evitar o dogmatismo sectario que colocava uma muralha chinesa entre a herança da cultura burguesa (considerada em bloco como reacionária) e uma pretensa cultura socialista “radicalmente nova”. Com isso, ele pôde elaborar uma política cultural relativamente aberta, centrada na valorização da herança democrática que se expressaria no realismo crítico e na defesa da razão, política que se distinguia radicalmente do sectarismo dominante na época de Stalin e mesmo depois dela.16

Não se trata de contestar a validade deste projeto estratégico. É indubitável que Lukács percebeu a problemática essencial do período que se inicia com o refluxo da onda revolucionária iniciada em 1917, ou seja, a necessidade de encontrar um novo modo de articulação entre democracia e socialismo.17 No terreno dos princípios, este projeto era válido não apenas nos anos 1930 e no segundo após-guerra, mas continua a sê-lo — mutatis mutandis — ainda hoje. O que o tornou problemático foram as novas condições geradas precisamente neste segundo após-guerra, quando se tornou evidente que ele não mais poderia ser realizado nos termos em que fora formulado na época das frentes populares. Lukács, contudo, continuou a insistir em sua exeqüibilidade, o que o fez assumir um ponto de vista fortemente “otimista”, cada vez mais negado pelos fatos.

Este “otimismo” transparece em vários escritos lukacsianos imediatamente sucessivos ao fim da guerra. Assim, por exemplo, numa conferência pronunciada em 1946, em um encontro do qual participaram importantes intelectuais da Europa Ocidental, Lukács afirmou com ênfase que estava ocorrendo naquele momento “o começo de um restabelecimento da aliança entre a democracia e o socialismo”.18 Ora, na verdade, o que estava então para se iniciar não era tal aliança, mas sim a “guerra fria”, que consolidaria nos dois lados do mundo um poderoso déficit tanto de democracia quanto de socialismo. O segundo após-guerra, portanto, impôs cada vez mais a necessidade de rever alguns dos conceitos implícitos na estratégia das frentes populares, o que Lukács não quis ou não pôde fazer. Com efeito, tornou-se então evidente que a contradição no seio do mundo burguês não se dava apenas entre a herança da democracia radical e a aberta reação fascista ou belicista, mas também — e agora talvez sobretudo — entre esta herança democrática (cada vez mais fragilizada) e a irrupção de novas formas de dominação e de alienação que já se apresentavam (e iriam se apresentar cada vez mais) sob a cobertura de regimes formalmente democráticos.19

4.

Se esse primeiro pressuposto da visão lukacsiana do presente tornou-se problemático pelas razões apontadas, o segundo revelou-se inteiramente falso: Lukács estava firmemente convencido de que a União Soviética dos anos 1930 e seguintes na qual ele julgava já se ter realizado a transição para o socialismo, ou seja, para uma etapa superior da humanidade continuava a ser um farol seguro e não problemático a indicar o caminho do futuro aos pensadores e artistas que se mantivessem fiéis à herança democrática. Ora, ao contrário do que Lukács supunha, a URSS — que, já em 1932, Gramsci dizia estar dominada pela “estatolatria” — estava longe de se apresentar como expressão de uma humanidade emancipada: a regressão stalinista (iniciada no final dos anos 1920) minimizou, terminando mesmo por extinguir, o fascínio que a Revolução de Outubro certamente exerceu por algum tempo sobre os intelectuais e artistas ocidentais, inclusive sobre muitos daqueles que Lukács considerava “vanguardistas”. De ambos os lados do mundo, portanto, cresceram novas formas — mais sofisticadas porém não menos inumanas — de alienação e de manipulação burocrática da vida. A aliança entre democracia e socialismo, nos moldes em que Lukács a imaginava, não se cumpriu, por escassez tanto de democracia como de socialismo.

Cabe ainda lembrar que somente depois de 1956, ou seja, depois das denúncias dos crimes de Stalin no XX Congresso do PCUS, é que Lukács começou a tomar publicamente distância — e, mesmo assim, quase sempre timidamente — em face das formas sociais e políticas dominantes não só na ex-União Soviética, mas também nos demais países do chamado “socialismo real”, surgidos no segundo após-guerra. Em ambos os casos, a projetada aliança de democracia e socialismo era patentemente desmentida pelos fatos. Esta tomada de distância assume talvez seu ponto mais alto num pequeño livro escrito em 1968, no qual, apesar de indiscutíveis avanços, as formulações do pensador húngaro me parecem ainda insuficientes.20 Neste livro, com efeito, Lukács considera que as deformações do “socialismo real” — que são agora claramente identificadas na ausência de democracia, em particular do que ele chama de “democracia da vida cotidiana” — poderiam ser resolvidas com um simplista e utópico “retorno a Lenin”, a cujo pensamento, diga-se de passagem, Lukács se manteve fanaticamente fiel até o fim da vida. Além disso, as duras críticas contidas neste livro não anulam o fato de que Lukács, malgrado tudo, continuou a se identificar até o fim com o “socialismo real”, como se pôde constatar numa enfática afirmação que ele repetiu reiteradamente em muitas de suas últimas entrevistas: “Do meu ponto de vista, mesmo o pior socialismo é preferível ao melhor capitalismo. Estou profundamente convencido disso e vivi todo este tempo com tal convicção”.21

Por tudo isso, parece-me assim no mínimo problemática a afirmação do pensador húngaro, feita em 1957, de que um dos pontos de discriminação entre o realismo crítico e a “vanguarda” seria a diversa atitude destas duas correntes artísticas em face de uma perspectiva socialista. Para Lukács, o realista crítico “não precisa situar-se no terreno do socialismo, mas basta que o socialismo não seja eliminado a priori dos seus interesses de homem e de artista, que o socialismo não se choque com uma previa recusa do escritor; caso contrário, este escritor privar-se-ia de toda visão orientada para o futuro”.22 Quando se refere à vanguarda, ao contrário, Lukács sente-se “no direito de denunciar, como traço real por trás do cinismo e do niilismo, por trás do desespero e da angústia mais mistificados, a recusa do socialismo”.23 Antes de mais nada, caberia perguntar: mas de que socialismo se trata? Se lembrarmos os traços concretos assumidos pelo chamado “socialismo real”, o único efetivamente existente — que se caracterizava, mesmo depois de Stalin, pela presença de novas formas de alienação e de manipulação burocrática, quando não mesmo pela permanência do uso aberto do terrorismo de Estado —, poderíamos objetar a Lukács que a “recusa do socialismo” nem sempre foi injustificada, nem sempre foi expressão de “cinismo” e de “mistificação”.

Certamente, Lukács tem razão quando afirma que uma perspectiva artística realista deve tomar distância em relação ao presente, ou seja, deve considerar que a realidade da alienação e da manipulação não constitui a condição eterna da vida humana. Mas essa distância pôde não apenas assumir a forma de uma recusa do “socialismo realmente existente” (como ocorre, por exemplo, nos primeiros escritos de Soljenitsin), mas também se fundar numa perspectiva crítica não necessariamente baseada numa abertura para o socialismo em geral (como é o caso, entre outras, da notável obra, de William Styron). A contraposição ao mundo alienado do capitalismo atual de certos valores gerados na época revolucionária da burguesia, como é o caso da luta pela realização da autonomia do indivíduo, pôde funcionar como meio de crítica historicista à aniquilação do indivíduo no presente burocratizado e reificado. Caberia mesmo examinar até que ponto uma perspectiva anticapitalista romântica — que Lukács define univocamente como reacionária — pôde servir de base a construçõs artísticas realistas.

Este novo “estado geral do mundo”, para usarmos uma expressão hegeliana, fez com que um certo pessimismo em face do futuro da humanidade não só encontrasse ampia difusão, mas também se tornasse relativamente justificado. Essa nova modalidade de “consciência infeliz”, para continuarmos com a terminologia de Hegel, era uma “figura do espírito” cuja validade relativa não podia ser prevista no itinerário otimista da “fenomenologia” lukacsiana do presente.24 Uma tal consciência pessimista não era apenas, como parecía supor Lukács, expressão da “decadência”, ou seja, mera resposta reacionária ou desesperada em face das tendências históricas predominantes, as quais, na opinião do filósofo húngaro, apontavam necessariamente para o socialismo — e um socialismo que ele identificava com sua caricatura vigente na União Soviética e nos demais países de modelo soviético. Este pessimismo assinalava também, pelo menos em seus melhores representantes, um justo sentimento de indignação em face do endurecimento burocrático promovido pelo novo capitalismo monopolista, inclusive em suas formas pseudodemocráticas, endurecimento diante do qual o “socialismo realmente existente” estava longe de aparecer como uma alternativa válida. Não foram assim poucos os pensadores e artistas progressistas — alguns abertamente de esquerda — que, com justificadas razões, negaram-se a aceitar a idéia de que “o pior socialismo é preferível ao melhor capitalismo”.

Decerto, a relativa justificação desse pessimismo não anula o fato de que ele frequëntemente expressa uma forma de “falsa consciência”, precisamente na medida em que muitas vezes se coagula na aparente insolubilidade das contradições do período e não é capaz de adotar diante délas um distanciamento crítico. Como Lukács viu corretamente, ainda que com alguns excessos, esta “falsa consciência” pessimista é deletéria no caso da reflexão filosófica, cujo objetivo é precisamente a descoberta das mediações e sua conceituação universalizadora.25 Na arte e na literatura, contudo, as coisas podem se dar diversamente, já que estas últimas têm como meta a figuração de uma particularidade concreta.26

É certo que, em muitas criações artísticas do período — como Lukács apontou corretamente —, as contradições sociais foram transpostas numa abstração falsamente “ontológica”, ou seja, em exemplos de uma pretensa insensatez da realidade enquanto tal, recebendo assim uma configuração formal alegórica e, como tal, anti-realista. Contudo, houve também artistas e escritores de vanguarda — o que Lukács freqüentemente ignorou — que, mesmo sem superarem sua “consciência infeliz” e seu pessimismo, foram capazes de plasmar tais contradições em sua figura social-concreta, apresentando a sua aparente insolubilidade como condição contraria à essência do homem e criando assim autênticos símbolos realistas que expressavam os impasses concretos do homem contemporâneo. Com isso, foram capazes de denunciar esteticamente em suas obras os mitos ideológicos (a “segurança”, o “bem-estar”, o “fim dos conflitos”, etc.) através dos quais se tentou e ainda se tenta legitimar as manifestações aparentemente “democráticas” do capitalismo tardio. Este modo simbólico-realista de expressar artísticamente a “consciência infeliz” contemporânea deu lugar a obras particularmente bem realizadas no terreno da lírica, onde a subjetividade como fator estruturante dispensa claramente a figuração da totalidade. Este me parece ser o caso, por exemplo, de poetas como T. S. Eliot e Rilke (que Lukács avaliava de modo negativo), mas também de outros que ele não conheceu, como Fernando Pessoa e Carlos Drummond de Andrade. E essa possibilidade se apresenta também no caso da arte narrativa, particularmente da novela, como veremos ao examinar mais de perto a obra de Franz Kafka.

5.

Durante os anos 1930 e 1940, como vimos, foi possível a Lukács defender, com relativo apoio nos fatos, sua perspectiva “otimista” de uma aliança estratégica entre a democracia (que ele sempre teve a lucidez de distinguir do liberalismo) e o socialismo realmente existente. Contudo, com a derrota militar do nazifascismo e a imediata eclosão da guerra fria (que pôs por térra as ilusões de uma convergência duradoura entre as “democracias” ocidentais e o “socialismo” de tipo soviético), esta perspectiva “otimista” perdeu seus vínculos com os fatos, convertendo-se em nada mais do que generosa utopia.

Malgrado isso, nos anos 1950 e no inicio dos 1960 — e, em particular, em Realismo crítico hoje —, Lukács continuou a insistir na necessidade desta aliança, que se expressaria artísticamente na convergência entre realismo crítico e “realismo socialista”, isto é, na comum oposição de ambos ao vanguardismo.27 Mas, enquanto ñas décadas de 1930 e 1940 a base política e ideológica de tal aliança era a concreta frente antifascista, que crescera a partir da própria realidade, esta base é agora apontada por Lukács no chamado “Movimento dos Partidarios da Paz”, uma iniciativa soviética de pouquíssimo impacto entre os intelectuais e artistas ocidentais.28 Se a proposta de articular a polaridade entre fascismo e antifascismo com aquela entre irracionalismo e defesa da razão, ou até mesmo entre vanguarda e realismo, podia aparecer (ainda que muitas vezes forgadamente, sobretudo no segundo caso) como parcialmente justificada no período situado entre os anos 1920 e 1940,29 tornava-se agora impossível — sem cometer uma clara violência contra os fatos — colocar a vanguarda ao lado dos que defendiam a guerra ou a julgavam inevitável e o realismo ao lado dos defensores da paz. Mas é precisamente isso o que faz Lukács em 1957: “O nosso fenômeno de base, portanto, é essa convergência de dois pares de elementos contrastantes: por um lado, realismo ou anti-realismo (vanguardismo, decadência); por outro, luta pela paz ou guerra.”30 Basta, entre muitos outros, o expressivo exemplo de Picasso — o criador de Guernica — para demonstrar a falsidade desta correlação.

A angústia dissolutora que Lukács percebe corretamente em autores como Beckett não se liga somente ao temor de uma hecatombe bélica considerada como inevitável, mas reflete também o horror e a desorientação de “consciências infelizes” (coaguladas fetichisticamente nesta infelicidade) diante das formas vitáis assumidas tanto pelo capitalismo monopolista como pelo “socialismo” burocrático. Lukács está certo ao indicar que Beckett e muitos outros escritores e artistas do século XX constroem suas obras numa forma alegórica, ou seja, transformando experiências vitais históricamente concretas da alienação capitalista ou “socialista” em “condição eterna do homem”. Mas, quando ele afirma que “o nada de Beckett é um mero jogo com abismos ficticios, aos quais não mais corresponde algo de essencial na realidade histórica […]”,31 provavelmente porque o perigo da guerra teria sido superado gragas à ação dos “partidarios da paz”, certamente não faz jus nem à sua aguda inteligência nem ao seu espírito crítico.

Por outro lado, não deverá ter escapado ao leitor de Realismo crítico hoje a dificuldade em que se encontrava Lukács para apontar exemplos contemporâneos de um grande realismo crítico nos moldes em que ele o concebía na época. Thomas Mann, morto em 1955, aparece como um gigante isolado (incidentalmente são citados como realistas Federico García Lorca, Sinclair Lewis, Alberto Moravia e pouquíssimos outros), enquanto na outra margem “vanguardista” do rio se situava, junto com Kafka, a grande maioria dos escritores realmente significativos do século XX. Subsumindo ao conceito de alegoría a totalidade da chamada “vanguarda”, Lukács impedia-se de realizar a única operação capaz não só de salvar a justeza essencial de sua teoria estética e de sua poética realista, mas também, como conseqüência, de lhe permitir uma compreensão mais adequada da arte e da literatura do século XX. Esta necessária operação, a meu ver, consistiría num reexame da produção da vanguarda à luz das novas experiencias históricas acima aludidas e, desse modo, numa distinção — no seio desta produção — entre os autores que, por um lado, apontavam no sentido de uma nova floração do realismo crítico (evidentemente transformado em suas estruturas formais por causa do novo “estado geral do mundo”) e, por outro, aqueles que, “ontologizando” os impasses da época, adotavam efetivamente a alegoría como base formal e ideológica da configuração estética do real.

6.

Contudo, seria um equívoco reduzir apenas a essa avaliação problemática do presente as razões dos limites contidos em Realismo crítico hoje, limites que o próprio Lukács reconheceu no fim da vida.32 Essa avaliação problemática se traduz também numa questão de método, cuja elucidação poderá ajudar o leitor a avaliar melhor o objetivo prioritário deste livro, que consiste precisamente em analisar Proust e Kafka à luz das teorías estético-filosóficas de Lukács, mas em contradição com muitas de suas observações concretas sobre estes dois autores e em parcial discordancia com sua análise das alternativas da literatura no mundo contemporâneo.

Uma leitura atenta de Realismo crítico hoje revela que nele Lukács se afasta, em aspectos essenciais, do método estético-crítico que ele mesmo formulou em suas obras teóricas da maturidade e que aplicou com sucesso na maioria de suas análises concretas de períodos e autores singulares, em particular dos romancistas do século XIX. Façamos um rápido paralelo entre Realismo crítico hoje e O romance histórico. Nessa última obra, escrita em 1936-37 — ou seja, em plena época das frentes populares e da luta antifascista —, a preocupação essencial de Lukács consiste em mostrar como uma determinada constelação histórica objetiva, gerada pela Revolução Francesa e pelas guerras napoleónicas, obrigou o romance a renovar sua forma, no sentido de introduzir a historicidade concreta como elemento determinante na caracterização literária dos personagens e das situações. Esse movimento de renovação formal, que tem seu inicio em Walter Scott e se explícita no grande realismo do século XIX (que, como diz Lukács, aprendeu a “tratar o presente como história”33), é apresentado como a reposição estética de concretos pressupostos histórico-sociais, um processo que o pensador húngaro analisa tanto pelo ângulo da gênese quanto por aquele do resultado artístico-formal. O romance histórico, sobretudo em seus tres primeiros capítulos — entre os quais se destaca a belíssima digressão sobre o romance e o drama enquanto estruturas formais que refletem constelações histórico-universais da vida humana, digressão que é certamente a maior contribuição de Lukács a uma teoría marxista dos gêneros literários34 —, aparece assim como um paradigma, talvez o mais alto na obra lukacsiana, de aplicação criadora do método histórico-sistemático no terreno da literatura. Trata-se precisamente de um método que articula orgánicamente as determinações histórico-sociais com as determinações estruturais imanentes (no caso, as determinações estéticas) das objetivações humanas. Faz parte deste método a utilização por Lukács, não só em O romance histórico
mas também na maior parte de sua obra, da fecunda categoría engelsiana da “vitória do realismo”:35 essa renovação formal do romance, essa capacidade de narrar o presente como história, entra freqüentemente em contradição com a concepção do mundo explicitamente professada pelos romancistas da época, como ocorre sobretudo no caso dos conservadores Walter Scott e Balzac.

Realismo crítico hoje funda-se numa diferente abordagem metodológica. Em vez de partir de uma análise da sociedade contemporânea — ou seja, das transformações sofridas pelo capitalismo em sua etapa monopolista e da involução “estatolátrica” da União Soviética stalinista e pós-stalinista —, Lukács toma como pressuposto de sua investigação o que ele chama de “concepção do mundo subjacente à vanguarda”.36 Tal concepção, que se identificaria essencialmente com aquela formulada em nível teórico pelas várias filosofias irracionalistas, teria seu núcleo central na afirmação de que o homem é um ser ontologicamente solitário, afirmação que se choca frontalmente com a velha noção aristotélica de que o homem, ao contrário, é um “animal social”. Além disso, esta concepção vanguardista se caracterizaria por asseverar que o mundo real não tem um sentido imanente, que tal sentido só poderia provir de uma transcendência que na verdade não existe e que, portanto, se identificaria com o nada. Num processo abstrativo pouco dialético, já que não se apresenta como etapa inicial de uma elevação ao concreto, Lukács subsume sob essa concepção do mundo a totalidade dos autores de vanguarda, em particular Proust e Kafka, afirmando que suas obras não passariam de ilustrações alegóricas deste “nada”.

Em Realismo crítico hoje, portanto, não se trata de deduzir dialeticamente as características formais das obras analisadas a partir das determinações histórico-sociais do seu hic et nunc, como ocorre em O romance histórico, mas de demonstrar que tais obras são ilustração alegórica de uma visão do mundo anterior e transcendente ao produto artístico. Mais grave ainda: para tal demonstração, Lukács não recorre a uma análise imanente, estético-formal, dos autores de vanguarda, através da qual se evidenciasse que a concepção do mundo imanente às suas obras é efetivamente similar áquela visão irracionalista que eles ilustrariam alegóricamente.37 O que ele chama de “concepção subjacente à vanguarda” é definida em termos filosóficos gerais, de modo apriorístico em relação à obra concreta dos escritores; e, quando a produção de tais autores é chamada a corroborar a suposta adesão deles a tal concepção, Lukács freqüentemente se vale de suas declarações conceituais, expostas em ensaios teóricos, cartas, diarios, etc., ou mesmo, como no caso de T. S. Eliot, a fragmentos de poemas que, enquanto fragmentos, tornam-se puramente descritivos e não são capazes de evidenciar com que pathos emocional o ego lírico do poeta norte-americano vivencia na criação poética os eventos que descreve. Portanto, Lukács não parte dos autores para determinar a concepção do mundo que eles expressam em suas obras específicamente estéticas, mas comega por expor os traços gerais abstratos desta suposta concepção “vanguardista”, e só num segundo momento busca subsumir a eia os autores de que trata, em particular Kafka. É evidente que este procedimento lhe facilita defender sua tese, afirmada repetidas vezes ao longo do livro, segundo a qual os autores de vanguarda apenas ilustrariam alegóricamente esta abstrata concepção irracionalista do mundo.

Procedendo desse modo, Lukács abandona o emprego de seu próprio método histórico-sistemático, ou genético-estético, impedindo-se ao mesmo tempo de utilizar a fecunda categoria da “vitória do realismo”, que seria particularmente operatoria — como veremos — nos casos de Proust e, sobretudo, de Kafka. Se, como Lukács diz em Realismo crítico hoje, é “a imagem do mundo que deve ser representada na obra”, ou se o esforço do artista passa a ser o de “reproduzir adecuadamente, com meios poéticos, essa visão do mundo”,38 então desaparece o conceito básico da poética lukacsiana, ou seja, o de que a arte é representação mimética da realidade histórico-social objetiva e não expressão direta da visão do mundo do artista. Em conseqüência, desaparece a possibilidade do cotejo entre a objetivação estética e o mundo histórico-social que lhe serve de pressuposto, cotejo que está na base do mencionado conceito de “vitória do realismo”.

O exemplo maior deste equívoco metodológico transparece precisamente na análise de Kafka. Se, em vez de subsumir o autor tcheco a uma concepção do mundo irracionalista, Lukács tivesse buscado efetuar uma análise imanente de sua obra, certamente veria que a “imagem da sociedade capitalista com cor local austríaca”, que para ele é apenas o substrato inessencial de uma fuga na transcendência alegórica, contém na verdade uma reposição estética das conseqüências humanas mais profundas das novas modalidades de alienação geradas pelo capitalismo em sua fase monopolista.39 O método que o filósofo húngaro utiliza em Realismo crítico hoje está mais próximo do método de Lucien Goldmann (que vê a obra de arte como expressão direta de uma “visão do mundo”)40 do que do método teorizado e aplicado em outros inúmeros casos pelo próprio Lukács (o que concebe a arte como representação mimético-evocativa da realidade). A adoção deste “novo” método prejudica boa parte das análises contidas em Realismo crítico hoje, impedindo Lukács até mesmo de utilizar com maior profundidade (como viria a fazê-lo na Estética de 1963) o conceito benjaminiano de alegoria.

7.

O emprego deste “novo” método — ou, se preferirmos, o temporário abandono do autêntico método histórico-sistemático por ele mesmo elaborado — não permitiu que Lukács aplicasse adequadamente à literatura contemporânea uma de suas mais brilhantes teses, ou seja, a de que “a obra de arte autêntica (e somente essa pôde se tornar a base de uma fecunda universalização histórica ou estética) satisfaz as leis estéticas apenas na medida em que, ao mesmo tempo, as amplia e aprofunda”.41 De que modo, na verdade, se daria essa ampliação e esse aprofundamento na literatura do século XX? Durante os anos 1930 e 1940, Lukács subestimou esse problema, parecendo supor que o realismo de nosso tempo — pelo menos o realismo crítico ocidental — seria uma simples continuação formal do realismo do século XIX. Uma primeira tentativa de resposta, todavia, aparece já nos anos 1960, quando o pensador húngaro formula a idéia de que o realismo crítico é compatível com o uso de técnicas criadas pela vanguarda. Referindo-se a seus ensaios da década de 1930, num prefacio escrito em 1965 para uma reedição dos mesmos, Lukács comentou: “Naquele tempo, quando do primeiro choque (de certo modo) com o modernismo, a prioridade da inovação técnica foi radicalmente negada. Todavia, depois se tornou cada vez mais claro para mim, ao analisar artistas e obras particulares, que — embora essa inovação técnica enquanto principio de julgamento estético merecesse certamente uma total repulsa — certas inovações técnicas podiam se converter, enquanto reflexos de relações humanas realmente novas e independentemente das teorias e intenções de seus inventores e propagandistas, em elementos de figurações verdadeiramente realistas.”42

Graças a essa nova formulação, Lukács pôde não apenas avaliar melhor as produções da maturidade de Thomas Mann, mas também apresentar depois de 1957, ou seja, depois da redação de Realismo crítico hoje, sobretudo em muitas das numerosas entrevistas que concedeu no final de sua vida, uma aitude bem mais aberta diante da produção literária de autores mais recentes, como Jorge Semprun, Heinrich Böll, William Styron, Rolf Hochhutt, etc. Além disso, em algumas páginas acrescentadas em 1963 à edição em inglês de Realismo crítico hoje, Lukács apresenta também como autores realistas não só os norte-americanos Thomas Wolfe e Eugene O’Neill, mas também Elsa Morante e Bertolt Brecht.43 Sobre este último, aliás, cabe lembrar que, em 1945, Lukács ainda o considerava como um autor que “reduz a desejada renovação social da literatura a um experimento formal, certamente interessante e inteligente”; já em 1963, depois de conhecer as obras brechtianas mais tardias, em particular Os fuzis da Senhora Carrar e A vida de Galileu, ele afirma enfaticamente que “o Brecht da maturidade, superando suas anteriores teorias unilaterais [o ’efeito de distanciamento’], tornou-se o maior dramaturgo realista de sua época”.44

Mas esta idéia de que técnicas de vanguarda podem servir ao realismo era insuficiente, precisamente na medida em que não passava de uma solução de compromisso. Um esboço de resposta orgánica viria à luz somente em 1969, no belo ensaio que Lukács, dois anos antes da sua morte, dedicou aos primeiros romances de Alexander Soljenitsin, O primeiro círculo e O pavilhão dos cancerosos.45 Com um esforço teórico digno do maior respeito (Lukács atingira os 84 anos e estava empenhado, ao mesmo tempo, em resolver os complexos problemas teóricos surgidos quando da redação de sua grande obra da velhice, a Ontologia do ser social),46 o filósofo húngaro esboça, na primeira parte desse ensaio, as bases para uma reformulação de sua teoria da literatura contemporânea.

Esse ensaio de 1969 assinala, antes de mais nada, um retorno ao método histórico-sistemático que, como vimos, está na base da poética do realismo elaborada pelo Lukács da maturidade. Em vez de ver na narrativa realista de nosso tempo uma simples continuação formal das velhas tradições do século XIX (ainda que “atualizadas” pelo emprego de técnicas de vanguarda), Lukács indica o modo pelo qual os novos pressupostos sociais e ideológicos do capitalismo tardio conduziram a uma modificação formal da estrutura romanesca, cujo centro não mais seria, como no romance tradicional, a figuração de uma “totalidade de objetos” — segundo a formulação hegeliana recolhida por Lukács —,47 mas a de uma “totalidade de reações”. Lukács observa que “a inovação reside no fato de que a unidade de lugar torna-se o fundamento imediato da composição”, graças à criação de uma especie de “teatro social” que agrupa homens diversos e os obriga a definições que eles não tomariam normalmente em sua vida cotidiana. E o filósofo húngaro continua: “Esse ’teatro’ aparece, portanto, como o desencadeador efetivo e imediato de problemas ideológicos existentes por toda parte em estado latente, mas dos quais só se toma consciência, em sua totalidade contraditória, precisamente neste lugar. […] Desapareceu a necessidade de uma fábula épica homogénea. […] Porém, malgrado a ausência de fábula homogénea, e mesmo em conseqüência dessa ausência, reina uma excepcional intensidade de emoção épica, uma dramática interna. […] Relações épicas coerentes podem nascer de cenas particulares de natureza dramática, mas desprovidas aparentemente de laços internos entre si. E essas relações podem igualmente se ordenar numa totalidade de reações a um vasto complexo de problemas de natureza épica”.48

Lukács não viveu o suficiente para extrair todas as conseqüências desta sua nova formulação, o que teria implicado certamente a reavaliação de boa parte dos seus juízos sobre a literatura do século XX. De qualquer modo, tal reavaliação ocorreu efetivamente em alguns casos concretos, mesmo diante de autores que Lukács já avaliara anteriormente de modo positivo. Neste sentido, dois exemplos são particularmente significativos. Um autor como Thomas Mann, por exemplo, não mais lhe aparece — pelo menos a partir de A montanha mágica — como um continuador da narrativa tradicional, mas, ao contrário, como iniciador da nova forma do romance centrada na “totalidade de reações”; Lukács não hesita mesmo em chamá-lo de “inovador formal”.49 Também o Poema pedagógico do soviético Antón Makarenko deixa de ser visto como precursor da “epopéia socialista” (numa época em que Lukács ainda enxergava “elementos de comunismo” na URSS dos anos 1920)50 e passa a ser tratado como um romance, mas também construido tendo como eixo a “totalidade de reações”. Por outro lado, muitas productes literárias até então condenadas como vanguardistas aparecem agora como exemplos realistas da nova forma romanesca (o caso mais vistoso, mencionado pelo proprio Lukács, é o do romance O homem sem qualidades de Robert Musil)51. E, além disso, a descoberta desse novo tipo de figuração romanesca permite a Lukács explicar de modo mais adequado alguns autores que ele antes considerava como híbridos (ou seja, como realistas clássicos que empregavam técnicas de vanguarda); é o caso, sobretudo, de Heinrich Böll. Esse texto tardío de Lukács, apesar de seu caráter mais indicativo do que sistemático, abre um vasto campo para novas pesquisas e, antes de mais nada, para uma reavaliação das próprias posições lukacsianas diante da literatura de nosso tempo. Não posso fazer aqui mais do que chamar a atenção para a sua importância.

As análises de Proust e de Kafka que empreenderei em seguida orientam-se em duas direções convergentes: por um lado, visam a avaliar estes autores à luz do método histórico-sistemático elaborado por Lukács, mas abandonado por ele em Realismo crítico hoje; e, por outro, como conseqüência, tentam dar uma forma relativamente sistemática às indicações fornecidas pelo filósofo em seus últimos anos de vida, não só em referência direta a produção destes dois autores, mas também no que diz respeito aos problemas histórico-sistemáticos da literatura do século XX como um todo. Muitas de minhas formulações — e, em particular, a que considera Kafka um precursor novelístico da nova forma de romance centrada na “totalidade de reações” e não mais na “totalidade dos objetos” — não se encontram nos textos de Lukács, nem mesmo depois do que eu considero como suas últimas “autocríticas” no campo literário.52 Mas estou convencido de que, em última instância, minha pesquisa pode ser considerada “ortodoxamente” lukacsiana, se considerarmos o conceito de “ortodoxia” precisamente no sentido que o próprio Lukács lhe atribuiu, ou seja, no sentido da fidelidade ao método e não necessariamente às afirmações particulares concretas de um autor.53 Creio que esse fato — o desafio de tentar compreender à luz de Lukács dois autores que o próprio Lukács não compreendeu adequadamente — justifica, pelo menos subjetivamente, que eu acrescente um novo título à já ciclópica bibliografia sobre Proust e Kafka.

1 J. Rivière, “Marcel Proust et la tradition classique” [1920], in Vários autores, Les critiques de notre temps et Proust, Paris, Garnier, 1971, p. 25-31.

2Theodor W. Adorno, “Anotações sobre Kafka”, in Id., Prismas. Crítica cultural e sociedade, São Paulo, Ática, 2001, p. 239.

3W. Benjamin, “Franz Kafka. A propósito do décimo aniversario de sua morte”, in Id., Obras escolhidas, São Paulo, Brasiliense, vol. 1, 1985, p. 152.

4G. Lukács, Estetica, Turim, Einaudi, 1970, 2 vols., p. 745-747 e 749. A edição alemã original é de 1963.

5G. Lukács, La distruzione della ragione, Turim, Einaudi, 1959 (ed. alemã original, 1953), p. 24; Id., Realismo crítico hoje, Brasília, Coordenada, 1969, p. 63. Neste segundo livro, partindo de uma citação de Benjamin, Lukács chega mesmo a dizer que Proust radicalizou ainda mais o subjetivismo irracionalista de Bergson: “Mas, enquanto em Bergson, sob a abstração filosófica, existe a aparência — enganadora — de uma totalidade cósmica, em Proust, ao contrário […], esta concepção do tempo é levada às suas extremas conseqüências, de modo que não resta nenhum vestígio de objetividade”.

6Stephen Spender, “Lukács: o homem sem idade”, in Cadernos brasileiros, ano VII, n° 1, 1965, p. 77-78. Trata-se da tradução para o português de “With Lukács in Budapest”, publicada em Encounter, dezembro de 1964.

7G. Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 133. No prefácio a este livro, datado de abril de 1957, Lukács diz que comegou a redigilo no “outono de 1955”. Cabe lembrar que também Bertolt Brecht expressou um juízo negativo sobre Kafka. Embora tenha apontado corretamente a figuração antecipadora do “Estado-formigueiro” na obra kafkiana, Brecht afirma — em conversa com Walter Benjamin, em 1934 — que “ele [Kafka] não encontrou solução e não despertou do seu pesadelo”, que era “um espírito impreciso, quimérico” e que, portanto, devia “ser deixado de lado” (cf. W Benjamin, “Entretiens avec Brecht”, in Id., Essais sur Bertolt Brecht, Paris, Maspero, 1969, p. 132 e 135).

8G. Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 73.

9Lukács voltaria a utilizar amplamente as teses de Benjamin, formuladas em Origem do drama barroco alemão (São Paulo, Brasiliense, 1984 [ed. original, 1928], p. 181 e ss.), no belo capítulo sobre “Alegoria e símbolo” da sua Estetica, cit., vol. 2, p. 1473-1516. Cabe observar, porém, que Kafka não é jamais citado nesse capítulo seminal, embora boa parte do mesmo trate da arte contemporânea. Pode-se ainda lembrar que Kafka tampouco aparece na obra que Lukács dedicou à história da literatura alemã (Breve storia della letteratura tedesca, Turim, Einaudi, 1956 [ed. original, 1945]), uma ausência que não pôde ser explicada pelo fato de Kafka não ser alemão, já que Lukács trata amplamente neste livro de um conterráneo de Kafka, o poeta tcheco — mas, como Kafka, de expressão alemã — Rainer Maria Rilke. Isso parece indicar que Lukács ainda não havia tomado conhecimento da obra de Kafka em 1945. Ao que eu saiba, a primeira menção do filósofo húngaro ao narrador tcheco aparece em La distruzione della ragione (cit., p. 792), no “epílogo” datado de Janeiro de 1953; neste epílogo — ainda que afirme não estar tratando do “valor estético” das obras, mas analisando-as apenas como “índice das correntes sociais” —, Lukács se permite o seguinte despropósito: “Hoje, as manifestações literárias paralelas à economia da apologética direta [do capitalismo] e à filosofia semântica são os representantes do desespero niilista, os Kafka ou os Camus”.

10Para tais juízos, cf. “Kafka na obra do último Lukács”, infra, Apêndices, 2, p. 215-219.

11 Cf., por exemplo, a “Introdução” que escrevi para a edição brasileira de Realismo crítico hoje, cit., p. 7-20.

12Também não concordo com a posição dos que subestimam a importância da categoria do realismo na análise das obras de arte, em particular daquela de Kafka. Uma posição deste tipo aparece em Michael Löwy, Franz Kafka: rêveur insoumis, Paris, Stock, 2004, onde há um capítulo intitulado ironicamente “Digression anecdotique: Kafka était-il réaliste?” (p. 149-159). Trata-se certamente de uma anedota (que Löwy repete) a atribuição a Lukács, quando esteve preso num castelo romeno após o esmagamento da rebelião húngara de 1956, da afirmação de que ele agora estaria convencido de que “Kafka era um realista”. É evidente que a questão do realismo em Kafka (e na arte em geral) não se esgota em anedotas deste tipo.

13Cf., em particular, G. Lukács, Scritti politici giovanili 1919-1928, Bari, Laterza, 1972, p. 3-174; là.,”Kommunismus1920-1921, Pádua, Marsilio, 1972; Id., História e consciência de classe [1923], São Paulo, Martins Fontes, 2004; Id., Lenin. Unità e coerenza del suo pensiero [1924], Turim, Einaudi, 1970. Para um balanço autocrítico deste período, cf. Id., “Prefácio” [1967] a História e consciência de classe, cit., p. 1-50.

14Trata-se do informe que Lukács apresentou, em 1928, a um congresso do clandestino PC húngaro, no quai antecipava idéias que, embora condenadas na época por seu partido e pela Internacional Comunista, seriam mais tarde retomadas por esta última na estratégia da “frente popular” (cf. G. Lukács, “Teses de Blum”, in Temas de ciências humanas, São Paulo, n° 7, 1980, p. 19-30).

15G. Lukács, Le roman historique [1936-1937], Paris, Payot, 1965; e Id., Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica [1938], Turim, Einaudi, 1960. Os principais ensaios de Lukács sobre o realismo do século XIX estão reunidos em Saggi sul realismo [1934-1943], Turim, Einaudi, 1950, mas também em Goethe et son époque [1934-1940], Paris, Nagel, 1949, e em Realisti tedeschi del XIX secolo [1935-1940], Milão, Feltrinelli, 1963.

16Entre os muitos textos que buscam mostrar as divergências entre a obra lukacsiana e o stalinismo, cf. sobretudo Nicolas Tertulian, “G. Lukács e o stalinismo”, in Praxis, Belo Horizonte, n° 2, setembro de 1994, p. 71-108.

17Não é aqui o local para tratar do assunto, mas me parece indiscutível que Gramsci foi além de Lukács na compreensão das novas tarefas teórico-políticas que se colocavam ao marxismo em conseqüência deste refluxo da onda revolucionária no Ocidente e da involução “estatolátrica” que o pensador italiano apontou na URSS staliniana. É nesse contexto que se inscreve a renovaçâo gramsciana da teoria marxista de Estado e revolução, uma renovação que inutilmente procuraríamos na obra de Lukács. Sobre isso, cf., entre outros, C. N. Coutinho, Gramsci. Um estudo sobre seu pensamento político, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, 2003, sobretudo p. 119-164.

18Cf. G. Lukács, in O espírito europeu, Encontros Internacionais de Genebra [1946], Lisboa, Europa-América, 1962, p. 178. O texto desta conferência foi depois publicado com o título “A visão do mundo aristocrática e democrática” (cf., por exemplo, Lukács Gyòrgy, “Arisztrokratikus es Demokratikus Világnezet”, in Id., A polgári filozófia válsága, Budapeste, Hungária, s.d. [mas 1947], p. 107-128). Nesse Encontró, Lukács discute, entre outros, com Julien Benda, Georges Bernanos, Stephen Spender, Karl Jaspers e Maurice Merleau-Ponty.

19Também aqui Gramsci viu mais longe do que Lukács: em seus apontamentos carcerários, o revolucionario italiano previu — já no inicio dos anos 1930 — que o “americanismo” seria um novo modo de ser do capitalismo, dotado de uma expansividade e de uma capacidade de universalização bem maiores do que aquelas do fascismo (cf. A. Gramsci, Cadernos do carcere, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, vol. 4, 2001, p. 217-321). Trata-se de uma previsão que o mundo resultante da Segunda Guerra só fez confirmar.

20G. Lukács, L’uomo e la democrazia, Roma, Lucarini, 1987. Embora escrito em 1968, este pequeño livro — por imposição do PC húngaro, ao qual Lukács (depois de ter sido dele expulso logo após os eventos húngaros de 1956) retornara um ano antes — só foi publicado cerca de quinze anos depois da morte do filósofo, com o título Demokratisierung heute und morgen [Democratização hoje e amanhã], Budapeste, 1985.

21Cf., por exemplo, “En casa con György Lukács” [1968], in Id., Testamento político y otros escritos sobre politica y filosofia, Buenos Aires, Herramienta, 2003, p. 121. Os impasses e aporias que esta identificação entre socialismo e “socialismo realmente existente” (ainda que considerado “o pior socialismo”) provocou no pensamento político e mesmo teórico de Lukács, inclusive em seus escritos posteriores a 1956, foram quase sempre convincentemente analisados pelo seu ex-discípulo István Mészáros, Para além do capital, São Paulo-Campinas, Boitempo-Editora da Unicamp, 2002, sobretudo p. 469-514.

22G. Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 97.

23Ibid., p. 102-103.

24Ainda que com unilateralismo oposto, este caráter relativamente justificado do pessimismo foi visto e analisado pelos integrantes da Escola de Frankfurt em sua fase “clássica” (Horkheimer, Adorno, Benjamin, Marcuse, etc.). O problema é que alguns deles, sobretudo os dois primeiros, terminaram por transformar este pessimismo relativamente justificado num imobilismo resignado diante do que chamavam de “mundo administrado”. Em outras palavras: não souberam seguir a recomendação de Gramsci no sentido de articular “pessimismo da inteligência” com “otimismo da vontade”.

25Cf. G. Lukács, La distruzione della ragione, cit., mas também Id., Existencialismo ou marxismo? [1948], São Paulo, Ciências Humanas, 1979.

26É esta, precisamente, a lição lukacsiana. Cf., por exemplo, G. Lukács, Introdução a uma estética marxista. Sobre a categoria da particularidade, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, 1970 [ed. italiana original, 1957]; e Id., Estetica, cit., vol. 2, sobretudo p. 984-1052.

27Embora criticasse duramente o esquematismo vigente em boa parte da literatura soviética, Lukács continuou a crer até o fim na possibilidade de um “realismo socialista”, cujas maiores expressões seriam, segundo ele, Gorki, Cholokhov e Makarenko (cf. Realismo critíco hoje, cit., p. 135-200).

28Sobre a importância atribuida pelo filósofo húngaro ao “Movimento dos Partidarios da Paz”, cf. G. Lukács, La distruzione della ragione, cit., p. 772 e ss.; e Id., Realismo crítico hoje, cit., p. 27-31. Para a permanência de ilusões sobre uma aliança entre “democracias” ocidentais e socialismo soviético, cf. — entre muitos outros textos e entrevistas do inicio dos anos 1960 — G. Lukács, “Problemi della coesistenza culturale” [1964], in Id., Marxismo e politica culturale, Turim, Einaudi, 1968, p. 163-186.

29Não se deve esquecer, por exemplo, a clara adesão dos principais futuristas italianos ao fascismo, as simpatias de alguns expressionistas alemães e de Ezra Pound pelo nazismo ou os vínculos entre o surrealista Salvador Dalí e o franquismo. No Brasil, os modernistas Menotti del Picchia e Plinio Salgado estiveram entre os criadores do integralismo, a versão tupiniquim do fascismo. Mas são pelo menos tão expressivos quanto estes os casos em que vanguardistas no terreno da arte aderiram a posições progressistas e mesmo revolucionárias no terreno da política: basta evocar aqui os casos de Maiakovski, dos surrealistas franceses, do primeiro Brecht ou de Pablo Picasso. E, também neste caso, cabe lembrar os brasileiros Mário e Oswald de Andrade.

30G. Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 30.

31Cf. G. Lukács, Solschenitzyn, Neuwied e Berlim, Luchterhand, 1970, p. 27. Este pequeño livro conheceu uma imediata edição francesa (Soljénitsine, París, Gallimard, 1970).

32Cf. “Lukács a Coutinho”, 26 de fevereiro de 1968, infra, p. 211.

33G. Lukács, Le román historique, cit., p. 106.

34Ibid., p. 96-189.

35“Quanto mais as opiniões do autor permanecerem ocultas, tanto melhor para a obra de arte. O realismo a que me refiro deve se manifestar a despeito das opiniões dos autores. Permita-me dar um exemplo, o de Balzac, que eu considero um grande mestre do realismo, maior do que todos os Zolas passados, presentes e futuros […]. Balzac era politicamente legitimista; suas simpatias estão com a classe [a aristocracia] destinada à extinção […]. Que Balzac tenha sido obrigado a ir de encontró às suas próprias simpatias de classe e a seus preconceitos políticos; que ele tenha visto e necessidade do colapso dos aristocratas com os quais simpatizava e os tenha descrito como gente que não merecia um destino melhor; que ele tenha visto os verdadeiros homens do futuro no único lugar em que, naquela época, eles podiam ser vistos — eis o que considero uma das maiores vitórias do realismo e uma das maiores realizações do velho Balzac” (Engels a M. Harkness, abril de 1888, in K. Marx e F. Engels, Sobre el arte, Buenos Aires, Estudio, 1967, p. 41-42).

36G. Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 33-75.

37Uma análise desse tipo, a meu ver, poderia confirmar a natureza alegórica e, como tal, anti-realista de alguns significativos autores de vanguarda, como, por exemplo, Beckett, Camus e o Joyce do Ulisses e do Finnegans Wake. No caso de Joyce, valeria um outro discurso para seu primeiro período, em particular para Dublinenses e O retrato do artista quando jovem.

38Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 36. É certo que Lukács insiste em que seu interesse volta-se para a visão imanente à obra; mas o desdobramento da sua argumentação, como se pode facilmente comprovar (cf. p. 37, 44, 45, etc.), não confirma essa cautela metodológica.

39Lukács parece ter percebido isso em 1963, quando faz um paralelo entre Kafka e Swift. Cf. “Kafka na obra do último Lukács”, infra, Apêndices, 2, p. 218.

40Cf., em particular, L. Goldmann, Sociologia do romance, Rio de Janeiro, Paz e Terra, 1967, p. 7-28.

41Lukács, Estetica, cit., vol. 1, p. 579. O grifo é meu.

42G. Lukács, Marxismo e teoria da literatura, Rio de Janeiro, Civilizacao Brasileira, 1968, p. 5.

43Cf. G. Lukács, Realism in Our Time, Nova York, Harper Torshbook, 1971, p. 83-89, que reproduz Id., The Meaning of Contemporary Realism, Londres, Merlin, 1963. Estas páginas estão ausentes ñas edições italiana (Il significato attuale del realismo critico, Turim, Einaudi, 1957) e alemã (Wider den missverstandenen Realismuis [Contra o realismo mal compreendido], Hamburgo, Claassen, 1958), bem como na edição francesa (La signification présente du réalisme critique, Paris, Gallimard, 1960) que serviu de base para a edição brasileira que venho citando.

44Cf., respectivamente, G. Lukács, Breve storia della letteratura tedesca, cit., p. 212; e Id., Realism in Our Time, cit., p. 89.

45Cf. G. Lukács, “Solshenitzyns Romane”, in Id., Solschenitzyn, cit., p. 31-85.

46Alguns desses problemas — que levaram Lukács, em 1969, a abandonar o manuscrito já concluido e a empreender a redação de um novo texto — são historiados por Alberto Scarponi e Nicolas Tertulian em seus prefácios às edições italianas do primeiro e do segundo manuscritos (cf., respectivamente, G. Lukács, Per l’ontologia dell’essere sociale, Roma, Riuniti, 1976, vol. 1, p. VII-XV; e Id., Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, Milão, Guerrini, 1990, p. IX-XXVII). É particularmente interessante o fato de que Lukács tenha chegado a pensar em escrever “O Capital do presente”, projeto que abandonou por causa da idade. Mas foi precisamente a descoberta, ainda que parcial e fragmentaria, das formas tardías do capitalismo monopolista (que, a partir da segunda metade dos anos 1960, ele designa repetidas vezes com o termo “capitalismo manipulatório”) que permitiu a Lukács empreender as “revisões” de sua concepção geral do marxismo (com a compreensão da necessidade de fundá-lo numa ontologia do ser social, em contraste com o irracionalismo e o epistemologismo neopositivista) e — o que aqui nos interessa mais de perto — de sua visão da literatura do século XX. Contudo, mesmo neste periodo derradeiro, permanecem limites na concepção lukacsiana do marxismo, como tentei mostrar sumariamente em C. N. Coutinho, “Lukács, a ontologia e a política”, in Id., Marxismo e política, São Paulo, Cortez, 1996, p. 143-160; e em L. Konder e C. N. Coutinho, “Presença de Lukács no Brasil”, in M. O. Pinassi e S. Lessa (orgs.), Lukács e a atualidade do marxismo, São Paulo, Boitempo, 2002, p. 157-183.

47G. W. F. Hegel, Estética, Lisboa, Guimarães, vol. VII: Poesia, 1964, p. 182 e ss. Quanto à apropriação crítica deste conceito hegeliano por parte de Lukács, cf. não só a segunda parte de Le roman historique, cit., mas também os ensaios “Rapport sur le roman” e “Le roman”, escritos também nos anos 1930, recolhidos em G. Lukács, Écrits de Moscou, Paris, Editions Sociales, 1974, p. 63-78 e 79-140.

48 G. Lukács, Solschenitzyn, cit., p. 34-35.

49Ibid.

50G. Lukács, “Makarenko, Il poema pedagogico” [1951], in Id., La letteratura sovietica, Roma, Riuniti, 1955, p. 169-233.

51G. Lukács, Solschenitzyn, cit., p. 36.

52Lukács, por exemplo, ainda que concorde com a importância do elemento novelístico na obra de Kafka, mencionando explícitamente A metamorfose, é contrário à avaliação positiva de O processo, que ele não considera uma novela. Cf. “Lukács a Coutinho”, 26 de fevereiro de 1968, infra, p. 211-212.

53G. Lukács, História e consciência de classe, cit., p. 64.

Lukács e i decadenti

di Nicola Chiaromonte

«Tempo Presente»  II, n. 8 – agosto 1957

Dopo l’onorevole parte da lui presa alla rivolta ungherese, il 25 novembre scorso Georg Lukács  era stato onorato d’arresto insieme con Imre Nagy, con la vedova Raik e con gli altri che si erano rifugiati presso l’ambasciata iugo­slava, e deportato con loro in Romania. Il 10 aprile, per grazia speciale, egli ha fatto ritorno a Budapest. Senza onore. Evidentemente, il teorico del realismo socialista ha giudicato più realistico continuare a proprio agio le speculazioni di filosofia letteraria che rimanere solidale con gli sconfitti.

Il numero di luglio-agosto di Nuovi argo­menti ci offre la primizia dei pensieri cui si è affaticato Lukács in questi mesi. Si tratta delle «Basi ideologiche dell’avanguardia». Il tratto più notevole dello scritto è che in esso, ormai, il realismo socialista non ha più che una parte di comparsa: esce di scena appena en­trato (alla prima pagina) e, per il resto, la questione è di difendere il realismo borghese contro l’avanguardia decadente. Il realismo bor­ghese è epico e dinamico mentre l’avanguardia è statica: il realismo borghese radica i perso­naggi «nei ranporti concretamente storici, uma­ni, sociali della loro esistenza», mentre l’avan­guardia rappresenta «l’individuo eternamente, essenzialmente solitario, svincolato da tutti i rapporti umani e a maggior ragione da tutti i rapporti sociali»: il realismo borghese rappresenta la possibilità concreta, l’avanguardia la possibilità astratta; il realismo borghese attinge al tipico, l’avanguardia cerca rifugio nell’allegoria. Il realismo borghese infine, secondo Lukács, s’incarna ai tempi nostri (come si sape­va) principalmente in Thomas Mann e subor­dinatamente anche in Sciolokhov e in Moravia; l’avanguardia invece in Beckett, in Joyce, in Kafka, in Musil, in Gottfried Benn, in Hei­degger e, risalendo per li rami, in Hofmannsthal.

Nel seguire il laborioso, e non poco ambiguo, discorso di Lukács, non si può non cominciare coll’osservare che, per legittima che possa esse­re in astratto, o da un diverso punto di vista, nell’argomento del marxista ungherese la di­stinzione fra realismo e avanguardia regge assai male, sia in diritto che in fatto. In diritto, per­ché la latitanza dell’imperativo realista-socialista («non immediatamente applicabile», dice Lukács con cauto eufemismo) priva non solo il censore di ogni base per insegnare all’artista il vero senso della «realtà», ma anche l’artista della bussola che dovrebbe guidarlo a fare arte «dinamica», «sociale» e progressiva. In fatto, perché gli esempi addotti da Lukács sono spes­so altrettanto rozzi che discutibili, e il suo ra­gionare grossolano e tentennante.

Per opporre il «dinamico» Mann allo «sta­tico» Joyce, Lukács non trova di meglio che contrastare i celebri monologhi interiori dell’Ulysses con quello del risveglio di Goethe in Lotte a Weimar: in Joyce, il monologo inte­riore sarebbe fine a se stesso e rivelerebbe «una dinamica permanente ma senza mèta», ossia una concezione dell’uomo come essere informe; in Mann, per contro, il libero gioco delle asso­ciazioni è veramente solo pura tecnica, che vie­ne utilizzata per scoprire e mettere in luce qualcosa che va molto al di là dell’immedia­tezza di quello» e «rappresenta i trapassi di­namici».

A parte ogni giudizio sul valore rispettivo delle due opere, qui Lukács dimentica semplicemente che Lotte a Weimar è di una ventina d’anni posteriore a Ulysses. Il che rende poco mirabile il fatto che l’invenzione di Joyce sia usata da Mann come «pura tecnica». E se non ci fosse questo, rimarrebbe pur sempre che Leopold Bloom è un personaggio plasmato dalla fantasia di Joyce mentre il Goethe di Mann si appoggia alla struttura del Goethe storico, le cui componenti intellettuali e morali l’artista poteva interpretare, ma non aveva da crearle, e nelle quali non è davvero meraviglia che si ritrovassero, già date, una gerarchia di valori e una «storia». Dire che il Bloom di Joyce è avulso dalla storia mentre il Goethe di Mann rivela «le tendenze più profonde di sviluppo della sua personalità… in vista del passato, del presente e dell’avvenire» è una scoperta da rinviare per competenza ai medici di Molière. Se invece di Goethe, Lukács avesse preso ad esempio, fra i personaggi di Mann, Tonio Krö­ger, vi avrebbe trovato non poca staticità, non poco egocentrismo, e anche non poca indiffe­renza ai «trapassi dinamici».

Naturalmente, il problema di quella che Ortega y Gasset chiamò la «disumanizzazione dell’arte» esiste, ed è serio; è anche vero che l’arte di Joyce ne è un esempio eminente. Ma il problema è intellettuale: di accordo col mon­do nella verità. Non si riduce certo al contra­sto fra Joyce e Mann, e nemmeno a quello fra «realismo» e «avanguardia». Anzi, messo in questi termini, esso scompare, perché è molto (troppo) facile scoprire in questi due scrittori il fondo «decadente» che, se non li accomuna, certo non permette di opporli l’uno all’altro con tanta assolutezza; ed è egualmente facile vede­re quel che c’è di rigorosamente «realistico» nell’avanguardia (?) di un Kafka o di un Musil e, per converso, di «avanguardistico» in un Moravia, scrittore il cui mondo è molto dub­bio che sia «dinamico» ed esprima una gerar­chia di valori. Molto facile è, ad esempio, a proposito della frase di Kafka a Max Brod: «Oh, molla speranza, infinita speranza – ma non per noi», citata da Lukács come prova della disperazione «statica» dell’autore del Processo, ritorcere che, anzi, essa è squisita­mente realistica e «concreta». L’artista moder­no è assai più filosofo, e assai più cosciente dei limiti «storici» della sua condizione, che non voglia concedergli il professor Lukács.

Ancora più facile sarebbe mostrare (nel suo linguaggio) quanto di «decadente», di «avanguardistico», di «astorico» si riveli dal modo di argomentare del professor Lukács medesimo. Se Joyce appiattisce la coscienza dell’indi­viduo e ne fa un continuum amorfo, non meno amorfo (quanto ai valori della cultura) è il risultato degli «amalgami» di scrittori, epo­che e tendenze diversissime di cui si compiace il celebre marxista. Mettere nello stesso sacco dell’elemento «storico-sociale» Achille e Wer­ther, Edipo e Tom Jones, Antigone e Anna Karenina, Don Chisciotte e Vautrin, come perso­naggi «realistici», significa obliterare tutto quello che hanno di specifico, e specificamente umano, queste creazioni culturali: non tener al­cun conto di quel che ciascuno di essi signifi­ca, onde farli servire da materiale cementizio a sostegno di una tesi astratta e astorica. Per scrivere una frase come: «Dall’Achille di Ome­ro all’Adrian Leverkühn del Doktor Faustus di Mann, fino a Grigorij Melvekon del Placido Don di Sciolokhov, il gioco vivente delle con­traddizioni di volta in volta centrali è il prin­cipio in ultima istanza determinante dell’essenza…» eccetera, non ci vuole soltanto un’insigne pedanteria: bisogna anche essere infetti da quella particolare specie di «avanguardismo» che non teme gli accostamenti cervellotici e le formule arbitrarie. E che dire della speciosis­sima sforzatura per cui Lukács pretende di da­re come esempio della preferenza borghese (e avanguardistica) per la «pura possibilità» con­tro la «possibilità concreta» un passo in cui Faulkner descrive individui che, nel calore dì una disputa, «facevano di un’irrealtà una pos­sibilità, poi una probabilità, poi un fatto irre­futabile, come fanno appunto gli uomini quan­do lasciano che i loro desideri diventino pa­role»?

In sostanza, per quanto cerchi di evitare quel che v’è di più grossolano nella formula del realismo socialista, l’argomento di Lukács si ridu­ce pur sempre a predicare all’artista l’obbligo «morale» di adottare l’estetica «realista» e di mantenersi nella tradizione, ossia di esprimere sentimenti «positivi» e di reprimere i senti­menti «negativi»: l’obbligo, insomma, di esse­re insincero, giacche altrimenti la predica non avrebbe senso. Ma a noi la verità, comunque detta, importa più del realismo.

L’uso che, da buon marxista, Lukács ha fatto in passato e continua a fare in quest’articolo dell’argomento ad hominem, ci suggerisce di terminare queste note con un’immagine ad hominem: l’immagine di Georg Lukács, tornato a Budapest per grazia speciale, e lì occupato a considerare il pericolo grave d’informità e d’indifferentismo morale che si nasconde nell’arte d’avanguardia. Ebbene, se si dovesse immaginare il «flusso di coscienza» del professor Lukács a Budapest mentre scriveva il suo saggio, si dovrebbe necessariamente immaginare una coscienza nella quale Thomas Mann e Kadar, le sottigliezze su Kafka e le ombre di centinaia di impiccati, il ricordo di un momento di rivolta e l’acquiescenza muta di oggi, le preoccupazioni accademiche e l’immagine dei colleghi imprigionati, si susseguono in una giustapposizione statica «senza mèta né direzione». Qualcosa di molto simile al monologo di Leopold Bloom. Ma molto meno animato ed animoso.

Problemi della coesistenza culturale

di György Lukács

[Probleme der Kulturellen Koexistenz (1964),  tra. it. di Giuseppina Panzieri Saija, in «Nuovi Argomenti», nn. 69-71, 1964, ora in G. L., Marxismo e politica culturale, Einaudi, Torino 1968].


Qualunque possa essere l’esito immediato degli attuali colloqui per la pace, è certo che nei prossimi decenni la coesistenza pacifica tra il mondo borghese e quello socialista acquisterà importanza sempre crescente. E poiché le discussioni attuali intorno a questo tema mostrano per lo più una notevole confusione sia nella determinazione dei fondamenti sia in quella delle prospettive, ci sembra opportuno esaminare brevemente i problemi teorici più generali che stanno alla base di questo complesso.

I

Soprattutto da parte dell’Occidente, si sottolinea di continuo che fino a quando l’Unione Sovietica non avrà rinunziato al suo obbiettivo, comunismo mondiale, non si potrà mai parlare di vera coesistenza. Sul piano teorico, questo ci sembra un discorso vuoto, mentre sul piano pratico esso significherebbe – per lo meno – il perpetuarsi della guerra fredda. Infatti, chiunque abbia una conoscenza anche approssimativa dell’essenza economica del capitalismo e del socialismo, dovrebbe sapere che entrambi i sistemi, a differenza di precedenti strutture economiche, hanno, in base ai loro stessi fondamenti, un carattere di universalità. Entrambi poterono sorgere soltanto sul fondamento per cui il mondo intero è diventato sul piano economico, e per ciò stesso anche politico, una struttura intrinsecamente interdipendente. In entrambi vi è la tendenza a modellare il mondo secondo la propria forma specifica, né possono rinunziare a questo tentativo obbiettivamente necessario senza contemporaneamente rinunziare a se stessi. Di conseguenza, il problema reale può essere posto soltanto così: dal momento che la guerra atomica, e con essa ogni guerra capace di sovvertire il mondo, esce dall’ambito delle possibilità reali, con quali mezzi queste tendenze di sviluppo totalmente universalistiche possono operare per realizzarsi? Pertanto, un modo pratico e razionale di rapporto tra questi due grandi sistemi può essere cercato soltanto sulla base del presupposto di queste attività necessariamente universali.

Ciò significa che la coesistenza dei due sistemi – dopo aver eliminato dapprima di fatto e poi su un piano sempre più decisamente istituzionale la possibilità di soluzioni belliche – può essere soltanto una forma nuova della lotta di classe internazionale. In una conferenza da me tenuta nell’estate del 1956, indicavo già che la domanda di Lenin «chi a chi?» è il fondamento dinamico di ogni coesistenza, di ogni dialogo all’interno della coesistenza. Da parte marxista, ciò è stato sempre affermato. Ora ciò che importa è che i politici e gli ideologi occidentali pervengano alla convinzione che anche la loro posizione, sia che venga esaminata nel campo della politica e dell’economia, della filosofia o dell’estetica, è una posizione di classe e non già la «rivelazione» di una ragione posta al difuori della società. Da tale convinzione non scaturisce affatto che i dialoganti debbano intendere il proprio punto di vista in modo relativo. Possono benissimo continuare a considerarlo l’unico giusto, così come facciamo noi marxisti; il riconoscimento teorico dell’inevitabilità del fondamento di classe nella pretesa di universalità sociale da parte dell’avversario, non deve portare ad un relativismo autocritico, giacché tale pretesa, pur essendo riconosciuta inevitabile sul piano sociale ed economico, può essere criticata su quello teorico come contraddittoria e insostenibile, così come avviene per l’ideologia capitalistica del punto di vista del marxismo. Di conseguenza, non si tratta di compiere ritirate né concessioni, ma soltanto di comprendere storicamente la posizione reale dell’avversario, di polemizzare contro ciò che egli realmente intende e deve necessariamente intendere, partendo dal suo punto di vista.

Il principio realmente attivo che determina la tendenza all’universalità di una formazione sociale, risiede naturalmente nella struttura e nella dinamica della sua economia. Pertanto, una analisi veramente ampia ed esauriente della coesistenza dovrebbe prendere le mosse di qui. Ma poiché il nostro obbiettivo non è così ampio, dobbiamo limitarci su questo problema ad alcune osservazioni, per poter giungere al più presto al nostro tema specifico. Innanzi tutto, una eliminazione istituzionale della guerra prima o poi dovrà portare all’abbandono di qualsiasi discriminazione nelle relazioni economiche. Tali discriminazioni, infatti, sono sostanzialmente una preparazione economica della guerra, e il fatto che potenti organizzazioni monopolistiche possano sfruttare una situazione di questo tipo per propri interessi più ristretti, non muta sostanzialmente il quadro complessivo, anche perché tutte le misure discriminatrici dal punto di vista economico sono strumenti della guerra fredda, e questa, una volta eliminata stabilmente la guerra vera e propria, dovrà scomparire prima o poi, più facilmente poi che prima.

È chiaro che soltanto la competizione economica tra i sistemi, che da ciò scaturisce, la forma reale della coesistenza economica, forniscono il motivo – in ultima analisi – decisivo per cui gli uomini di un sistema sceglieranno in favore del proprio o di quello avversario, ciò che costituisce appunto il contenuto decisivo della lotta di classe che sta alla base della coesistenza. Ho già illustrato in altre occasioni come lo stesso sviluppo economico fornisca la propaganda più efficace in questa competizione. Ma, ovviamente, ciò vale per lo sviluppo reale, non per uno sviluppo proclamato propagandisticamente. Ho già richiamato l’attenzione sul fatto che questa preponderanza della sfera economica non è un motivo operante in assoluto. Anzi – e ancora una volta in ultima analisi – si tratta di vedere quale sistema economico sia in grado di garantire agli uomini una vita più ricca di contenuto e di significato.

In precedenti articoli ho parimenti sottolineato questa limitazione ultima nell’efficacia ideologica dei fatti economici, soprattutto riferendomi alla grande forza spirituale di attrazione della Rivoluzione socialista negli anni venti, in un’epoca nella quale dal punto di vista economico non erano stati neppure riparati i danni prodotti dalla guerra. Per il presente, questo problema viene posto in primo piano anche soltanto perché l’ultima fase dello sviluppo capitalistico ha conferito al tempo libero, all’ozio un’importanza mai verificatasi prima in una misura socialmente così ampia. E ciò in due direzioni. Da un lato, il costante aumento quantitativo del tempo libero è insito nella tendenza di sviluppo dell’economia, dall’altro, la sua utilizzazione da parte dell’uomo non avviene con la naturalezza e la semplicità (non problematicità) in cui avveniva nella vita delle precedenti classi dominanti. Questi due aspetti, l’enorme aumento del numero di coloro che partecipano del tempo libero, e la crescente incapacità di utilizzarlo in modo umano, creano uno dei problemi culturali di fondo del nostro tempo, del quale i teorici del mondo borghese cominciano ad occuparsi sempre più intensamente. In tali circostanze, appare ovvio che i problemi culturali acquistino, per la decisione fra le alternative sociali, un’importanza che alcuni decenni fa sembrava inconcepibile. Anche Marx, che circa cento anni fa esaminava questo problema, e che nella «riduzione del lavoro necessario della società ad un minimo» scorgeva uno stato al quale «corrisponde la formazione artistica, scientifica ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero per tutti e grazie ai mezzi a disposizione di tutti», giudicava che tale stato potesse essere realizzato soltanto nel socialismo. Invece – e questo Marx nel 1857-58 non poteva in alcun modo prevedere – già nel capitalismo si è realizzato un tempo libero socialmente considerevole. Evidentemente, esso viene manipolato in modo conforme ai propri interessi dal capitalismo, che nel frattempo ha sottomesso al proprio dominio l’intera fabbricazione dei mezzi di consumo fino alla organizzazione della vita culturale. Questa contraddizione tra la crescente rilevanza sociale del tempo libero ed il suo vuoto interno parimenti crescente, la sua incapacità di soddisfare realmente gli uomini e tanto meno di conferire alla loro vita un più alto contenuto, costituisce oggi uno dei problemi culturali centrali nei paesi capitalistici ad alto livello di sviluppo.

Marx credeva ancora che tale livello delle forze produttive avrebbe potuto essere raggiunto soltanto nel socialismo. Dato il suo metodo schiettamente scientifico di analizzare soltanto le forze motrici che introducono il futuro e fare anche intorno a queste soltanto accenni generali che possano chiarirle come prospettive, egli non ha affrontato i problemi concreti del «regno della libertà», secondo la sua definizione posteriore. Le tendenze generali deformanti, sia teoriche sia pratiche, del marxismo-leninismo nel periodo staliniano hanno come conseguenza che agli uomini che soffrono per il vuoto capitalisticamente deformato del loro ozio, alla base divenuta astratta del loro sviluppo umano, non si profila alcun modello socialista, non viene prospettata una via d’uscita socialista. Inoltre – e ancora una volta si tratta di un fatto di somma importanza – non esiste alcun sostituto immanente al capitalismo per la mancanza di una prospettiva socialista come modello e via d’uscita.

Ai nostri fini, è sufficiente aver indicato i contorni più generali di questo nodo di problemi. Abbiamo inteso così soffermare l’attenzione sul fatto che, nell’evoluzione prevedibile dell’immediato futuro i problemi della cultura saranno chiamati a svolgere un ruolo qualitativamente più rilevante che in epoche precedenti, cioè in uno stadio inferiore di sviluppo del capitalismo.

II.

Abbiamo definito la coesistenza culturale una forma della lotta di classe. Naturalmente, in tal modo non si è detto nulla di nuovo. Fin da quando sono esistite le classi, la classe dominante ha sempre cercato di imporre agli sfruttati una concezione del mondo ad essa conveniente. Questa funzione della religione, della scuola ecc. è antichissima. Fin dal Medioevo, la pittura in quanto sostituto ed esplicazione della Bibbia fu uno strumento per esercitare in questo senso un’influenza sugli analfabeti. E non c’è dubbio che anche nel campo ideologico in senso più stretto tale lotta si verifichi da secoli, cioè fin da quando l’analfabetismo delle classi oppresse tende sempre più rapidamente a scomparire.

Naturalmente, in Occidente molti considerano queste affermazioni una volgarizzazione della cultura. E tale sarebbe se si assumesse che ogni filosofia, ogni opera poetica ecc. sia sorta soltanto allo scopo di adempiere a tale funzione nella lotta di classe. Ma il vero marxismo è ben lontano da tale concezione. Esso sa benissimo che, da un lato, ciascun ideologo è nato e cresciuto in un determinato paese, in una determinata epoca, in una determinata classe. Le impressioni ed influenze che formano la sua personalità si rivelano, di necessità, in tutto il suo modo di pensare e di sentire e quindi anche nella sua produzione. Questo effetto dell’ambiente sociale può naturalmente essere anche di tipo repulsivo; così, ad esempio, Friedrich Engels, figlio di un industriale, divenne comunista.

Ciò modifica in modo sostanziale il contenuto di classe nel singolo, ma non può sopprimere il carattere di classe dell’intero complesso. Ma la genesi sociale delle opere di cultura è soltanto una componente – e neppure decisiva – della loro essenza sociale. Indipendentemente dalle intenzioni del suo creatore, la creazione esercita una determinata influenza sulla vita sociale del suo tempo e eventualmente anche in quella posteriore. A prescindere dall’atteggiamento personale di Copernico, Keplero e Galilei verso i problemi religiosi del loro tempo, le loro opere hanno distrutto una ontologia religiosa che durava da più di un millennio, dando così una nuova fisionomia a tutte le lotte sociali sul terreno della concezione del mondo.

Se si vuole addivenire ad una valutazione realistica di tali lotte nel presente, bisogna intendere il concetto di concezione del mondo in senso assai vasto, ben oltre l’ambito della filosofia in senso stretto. Questa tendenza è sempre stata presente in modo assai accentuato nel marxismo, ma non certo esclusivamente in esso. Ad esempio, William James iniziò le sue lezioni sul pragmatismo con una citazione di Chesterton, il cui contenuto approvava senza riserve. Chesterton inizia i suoi saggi con le parole: «Vi sono individui – ed io tra questi – che ritengono che per un uomo la cosa praticamente più importante sia la sua concezione del mondo. Per un affittacamere che esamina il suo inquilino è certo molto importante conoscere le entrate di costui, ma ancor più importante è conoscere la sua filosofia». Se si sviluppa fino in fondo questo pensiero, si giunge a scoprire nelle azioni di ciascun uomo un particolare nesso sistematico che, da un lato, è determinato dal suo essere sociale – come abbiamo visto, l’atteggiamento di opposizione non sopprime questo universale essere determinati – dall’altro, conferisce a tutte le sue azioni immediate una unità di cui spesso egli stesso non è consapevole, o ne ha una consapevolezza fallace. Pertanto, non è affatto inesatto definire in generale concezione del mondo questo campo di forza psichico tra la riproduzione della realtà e la reazione ad essa. Non è questa la sede in cui analizzare i gradi molto diversi di consapevolezza di queste concezioni del mondo. Qui ci interessa mostrare la funzione di queste concezioni del mondo nel decidere sulle alternative della vita, in particolare su quelle che riguardano l’accettazione o il rifiuto del mondo sociale nel quale l’uomo vive, ed eventualmente – ciò che nella pratica è assai frequente – l’astensione dal giudizio su questo problema, astensione che può essere rassegnata, cinica ecc.

Per influenza del neopositivismo, in Occidente è assai diffusa l’opinione che soltanto i cosiddetti sistemi totalitari diano importanza alla concezione del mondo, mentre il «mondo libero» per principio sarebbe privo di concezione del mondo, e in ciò consisterebbe appunto la sua forza. Naturalmente, contro questa definizione forse un po’ troppo rozzamente sintetica alcuni avanzeranno obbiezioni. Ma dovrebbero tener presente che i maggiori neopositivisti per principio eliminano dal campo di ciò che può essere colto scientificamente o anche soltanto razionalmente tutto ciò che sfugge ad una manipolazione matematica dei fenomeni. Così, in un’opera celebre come il Trattato di Wittgenstein si legge: «La maggior parte delle affermazioni e delle domande che sono state scritte su oggetti filosofici non sono false ma prive di senso. Perciò a domande di questo genere non possiamo affatto rispondere ma soltanto accertare la loro mancanza di senso… E non c’è da stupirsi del fatto che i problemi più profondi in sostanza non siano veri problemi». Ed egli ne trae, con coraggio e coerenza, tutte le conseguenze. Così dice: «Per questo motivo, non vi possono essere proposizioni etiche», e più oltre, «Noi sentiamo che anche se vi fosse una risposta per tutte le possibili domande scientifiche, i problemi della nostra vita non ne sarebbero affatto toccati». A questo modo, Wittgenstein ha relegato tutti i problemi essenziali per l’uomo nel campo del non razionalizzabile, nell’irrazionale, e appunto con questo rifiuto radicale di tutti i problemi relativi alla concezione del mondo ne indica l’inevitabilità pratico-reale: gettandoli fuori della porta della filosofia, essi rientrano dalla finestra. Perciò non è un caso che l’esistenzialismo – e le concezioni del mondo, religiose o irreligiose, ad esso legate – abbia occupato questo spazio in nome di un irrazionalismo conforme al nostro tempo. E la polare complementarità di queste posizioni immediatamente antitetiche definisce sostanzialmente l’ambito delle concezioni del mondo dominanti in Occidente. Va a onore di Sartre di non potersi accontentare filosoficamente di questa polarità e di sforzarsi di continuo di superarla.

È possibile contrapporre con successo il marxismo a questa problematicità di principio di tutte le concezioni del mondo, è possibile, cioè, tra di essi un dialogo fecondo? Certamente, non con gli eredi del periodo staliniano. Costoro alla raffinata manipolazione della conoscenza contrappongono soltanto una grossolana rigidezza, alla irrazionalità della prassi umana, delle questioni importanti dell’esistenza umana, soltanto una rigidezza dogmatica. E quando, nel periodo successivo al XXII Congresso, alcuni marxisti cercano di correggere la manipolazione dogmaticamente grossolana accettando qualcosa dalle filosofie occidentali – la semantica ecc. nel campo del materialismo dialettico, la microsociologia ecc. in quello del materialismo storico – si trovano in errore. La «esigenza del giorno» per la teoria e la prassi dei comunisti è la conoscenza marxista di ciò che di nuovo si è avuto, dopo la morte di Lenin, nei mutamenti strutturali, nelle tendenze di sviluppo ecc. della vita sociale. Vi sono nuovi fenomeni di massa che non possono essere risolti appellandosi a Marx e a Lenin. Già nel 1922, introducendo la NEP nel capitalismo di Stato, Lenin diceva: «Neppure a Marx venne in mente di scrivere anche soltanto una parola in proposito, ed egli è morto senza aver lasciato neppure una citazione esatta o indicazioni inconfutabili. Perciò ora dobbiamo cercare di aiutarci da soli». Chruščëv nel suo discorso a Bucarest ha applicato questo metodo di Lenin in modo coraggioso ed esatto alla nuova situazione, alle affermazioni, esatte a suo tempo, di Lenin sul rapporto tra l’imperialismo e l’inevitabilità della guerra. Ciò significa, da un lato, che esiste tutta una serie di fatti nuovi, soprattutto economici, sia nel campo capitalista sia in quello marxista, che i classici del marxismo non poterono esaminare perché ai loro tempi non esistevano, e dall’altro, che Stalin ed i suoi seguaci hanno deformato su questioni importanti il metodo marxista, trasformandone la vitalità e l’apertura in irrigidimento. I nuovi fatti della vita possono essere decifrati unicamente mediante una rinascita del metodo marxista, un riesame spregiudicato su questa base, non incorporando acriticamente riflessi borghesi altrettanto acritici del nuovo sviluppo nel metodo staliniano rimasto – nell’essenza – immutato.

III.

Potrebbe sembrare che con tale analisi della situazione ideologica del capitalismo e del socialismo si venga a sottrarre alla coesistenza culturale ogni terreno intellettuale. In realtà, avviene esattamente il contrario: soltanto attraverso questo bilancio critico del presente è possibile spianare la via del futuro, la via verso la coesistenza culturale, che si avrà inevitabilmente. A tal fine, la premessa evidente è la resa dei conti con l’eredità staliniana quanto alla concezione socialista del mondo. Ciò, naturalmente, vale soltanto per coloro che sono in grado di comprendere il carattere di concezione generale del mondo proprio del marxismo. Da Max Weber a Wright Mills, non sono pochi coloro che – in misura maggiore o minore – l’hanno compreso. È difficile, invece, stabilire un dialogo su questo argomento con coloro che, come Madariaga, ritengono che la concezione del mondo di Lenin fosse: «O mi dai ragione o ti sparo». Per questo, Madariaga è rimasto sorpreso e urtato perché in un mio precedente l’ho nominato insieme a Enver Hodja; per questo non ha compreso come il tertium comparationis sia stato semplicemente l’adesione (presa di posizione affermativa) di entrambi alla guerra fredda e addirittura alla guerra calda. L’Occidente – nel suo stesso interesse – dovrà comprendere che l’alternativa attuale della visione del mondo e del metodo socialista è la scelta tra il ristabilimento del vero marxismo e la sua applicazione ai nuovi fenomeni del presente e l’irrigidirsi sui metodi deformati di Stalin, non già – come spesso si ritiene – tra Molotov e Köstler.

Se qui la lotta per trovare una via è evidente almeno ai pensatori più avanzati, la grande maggioranza concepisce la situazione ideologica dell’Occidente in modo indubbiamente troppo statico; né, sostanzialmente, ciò muta per il fatto che la valutazione pratica dello stato attuale assuma talvolta la forma di una «critica della cultura». Dietro questa staticità o questo sviluppo immutabilmente uniforme alla superficie, la realtà opera però un mutamento significativo, che, in verità, oggi si esprime soltanto in singoli tentativi politici su base pragmatistica, anche se – in sé significa per mutamento importante e di principio per tutto il mondo capitalistico. Per eliminare a priori ogni malinteso, si tratta di un mutamento all’interno del sistema capitalistico; non sto parlando ora delle possibilità di una rivoluzione socialista. Dopo la grande crisi del 1929, Franklin D. Roosevelt aveva compreso che, data la grande labilità di tutto il mondo attuale, data l’esistenza di un potente Stato socialista, il ripetersi di simili crisi avrebbe potuto recare con sé gravi pericoli anche per gli Usa. Di conseguenza, elaborò una politica economica la cui linea fondamentale mirava a evitare le crisi, a creare misure profilattiche per evitare il loro scoppio, ecc. Prescindendo dal fatto se questa posizione sia stata assunta con una giusta o falsa coscienza della sua base economica, il suo significato oggettivo risiede nella difesa degli interessi generali del capitalismo nel suo complesso, se necessario anche contro gli interessi di singoli gruppi capitalistici, per quanto potenti ed influenti. Infatti, non c’è alcun dubbio che alcuni di essi, in determinate circostanze, possano essere interessati allo scoppio di una crisi, anzi, addirittura a provocarla, per raggiungere una più ampia concentrazione delle posizioni di monopolio e distruggere dei concorrenti molesti. Ma la scossa mondiale che si è avuta nel 1929 e dopo ha dimostrato che in tali casi può essere messo in pericolo il sussistere del sistema capitalistico. Per contro, Roosevelt riuscì a realizzare in Usa questa linea di politica economica, anzi, a trasformarla nel filo conduttore della prassi capitalistica nei paesi capitalistici più sviluppati.

Il secondo caso in cui si presentò questa nuova politica fu la guerra contro la Germania di Hitler. Anche qui, interessi parziali di potenti gruppi capitalistici portarono a Monaco e alle sue conseguenze. A quel tempo, Roosevelt e Churchill avevano compreso che gli interessi collettivi del mondo borghese esigevano una guerra contro il sistema hitleriano – sia pure alleandosi con l’Unione Sovietica – e che qualora gli interessi parziali di singoli gruppi fossero prevalsi più a lungo, avrebbero condotto alla rovina del sistema nel suo complesso. Da quel momento, la questione non è mai più stata cancellata dall’ordine del giorno. Il sorgere di una potente coalizione di Stati socialisti, l’irresistibile movimento di liberazione dei popoli coloniali, la tendenza altrettanto irresistibile di paesi economicamente arretrati a superare la propria arretratezza, la trasformazione generale della strategia a causa delle armi nucleari, ecc., hanno reso ormai obiettivamente sempre più impossibile ignorare tale problema. Tuttavia, dalla morte di Roosevelt in poi, Kennedy è stato il primo, e finora l’unico, uomo politico del mondo capitalistico a riprendere questo programma, in condizioni differenti e assai più sviluppate. E che anche qui si tratti del contrasto di interessi tra il capitalismo nel suo complesso e le singole organizzazioni monopolistiche, è dimostrato con la massima chiarezza dal rapporto tra gli Usa e gli Stati dell’America centrale e meridionale: l’attuazione pratica di una stretta collaborazione economica politica, in cui uno sviluppo maggiore, una modernizzazione degli Stati del Centro e del Sud-America sarebbero di interesse vitale per il capitalismo statunitense nel suo complesso, naufraga sempre per il fatto che potenti gruppi capitalistici sono interessati a determinate situazioni di arretratezza di questi Stati – monoculture, grande proprietà terriera feudale, ecc.

Abbiamo indicato soltanto il problema di fondo, giacché la sua realizzazione in tutti i campi della vita internazionale non può essere assolutamente il fine di questo saggio. Basti accennare soltanto alla questione negra, come problema di politica interna, e all’infausto appoggio dato, in politica estera, alle tendenze e ai governi più reazionari del Centro e Sud-America, per rendere evidenti l’universalità di tale problema. Né questo saggio può porsi come obiettivo l’analisi delle possibilità e prospettive di tale sviluppo. Per noi, questo fatto storico ha soprattutto una importanza ideologica. Infatti, una sua conseguente attuazione richiede un ripensamento ideologico quanto lo richiede nel mondo socialista il superamento dei metodi staliniani. Osserviamo, incidentalmente che la parola «quanto» dovrebbe essere messa tra virgolette, giacché il ripensamento ideologico del mondo borghese ha una struttura, una dinamica ecc. differenti da quello marxista. Ma, per limitarci soltanto all’essenziale, quanto più coerentemente questo nuovo orientamento viene attuato sul piano pratico, tanto più viene a trovarsi in aspro contrasto con la generica manipolazione oggi imperante e basata sul neopositivismo. Infatti, essa considera lo stato odierno già, ed erroneamente, come un dominio degli interessi collettivi della società. Alcuni ideologi vanno tanto oltre da negare addirittura il carattere capitalistico dell’economia. Ma per quanto abilmente si possano manipolare i problemi che qui emergono – ad esempio, usare soltanto tra virgolette parole come imperialismo, colonialismo, ecc. – i fatti rimangono tali, e i reali mutamenti di struttura della realtà finiscono sempre per imporsi, prima o poi, direttamente o indirettamente, in modo adeguato o deformato. I contrasti che determinano in modo decisivo l’azione pratica non possono essere eliminati totalmente neppure dal pensiero. Questa potenza dell’essere sociale è tale che le conseguenze concettuali e sentimentali dei suoi mutamenti qualitativi possono essere avvertite assai prima della sua comparsa decisiva, anche se ciò avviene soltanto da parte degli ideologi nei quali la routine non ha soffocato la comprensione delle trasformazioni capillari, e il timore di un non-conformismo sostanziale – e perciò impopolare – non è diventato il motivo conduttore del pensiero. Numerose sono oggi queste affermazioni isolate, e senza dubbio aumenteranno in numero e in intensità acquistando sempre maggiore influenza, anche se ci vorrà molto tempo prima che possano diventare la voce dominante. Naturalmente, questo sviluppo sul piano economico-politico e ideologico non è limitato agli Usa, dove però assume, oggettivamente e soggettivamente, un’espressione fenomenica di particolare rilievo.

IV.

Queste due grandi tendenze del nostro tempo conferiscono alla coesistenza culturale il suo significato peculiare. Sono ben lontano dal sottovalutare le forme iniziali già esistenti, dalle manifestazioni sportive e gare di scacchi alle rappresentazioni di balletti e ai concerti di virtuosi. Data la manipolazione generale dell’opinione pubblica, che può avere per conseguenza che ampie masse di un sistema giudichino gli appartenenti all’altro sistema dei barbari della cultura, esse possono essere utili e istruttive, spianando la via a contatti più profondi, ma in esse manca assolutamente il motivo, da noi indicato come motivo centrale, del «Chi a chi?» Allo stesso modo, anche l’internazionalizzazione, sempre più necessaria, della scienza, soprattutto di quella applicata, non può costituire una svolta decisiva in questo problema. Quanto più essa si verifica, tanto maggiore diviene di necessità l’abitudine straordinariamente importante all’internazionalità di tutti i campi di attività dell’uomo, teorici e pratici; tuttavia nessuno per ciò stesso vede minato il sentimento di appartenere al proprio sistema o viene attratto dall’altro perché magari in esso è stato inventato un medicinale migliore o uno strumento più efficace. Tutto ciò costituisce la base insostituibile della coesistenza tra sistemi culturali che vicendevolmente si negano, ma non può essere la cosa essenziale.

Quando parliamo di questa, dobbiamo innanzi tutto rammentare ciò che abbiamo indicato in precedenza come la funzione della concezione del mondo nella vita umana, e anche all’interno di questo complesso innanzi tutto quei momenti che portano all’accettazione o al rifiuto dell’ambiente sociale di volta in volta dato. Vi è un nesso intimo tra la validità storica di una concezione del mondo e l’intensità con cui essa serve alla conservazione della sua formazione sociale. Abbiamo detto: validità storica, perché in determinate situazioni storico-sociali, ad esempio, certe teorie ontologiche possono conferire una grande solidità alla concezione del mondo, del tutto indipendentemente dal fatto che in seguito la scienza ne dimostri l’insostenibilità. Ciò deriva dal fatto che in questo contesto l’elemento fondamentale è il legame ideologico dell’individuo col suo sistema sociale, e l’ontologia ha la funzione di rafforzare questo legame. Naturalmente, lo stimolo a dissolvere la vecchia concezione del mondo può anche venire dal lato ontologico; in tali casi, si tratta sempre dell’incontro tra trasformazioni sociali e scoperte teoriche, come, ad esempio, nel caso di Galilei.

Così la lotta di classe è anche sempre una lotta tra diverse concezioni del mondo. Ma sarebbe una volgarizzazione troppo semplicistica ritenere che esse rivestano qui il ruolo di un epifenomeno. In pratica, non lo crede nessuno. Appunto per questo, l’epoca staliniana mirò a mantenere tutta la sua intelligentsia – intesa nel senso più ampio – lontana dalla conoscenza di altre concezioni del mondo. Formalmente, un atteggiamento simile è estraneo alla cultura occidentale, tuttavia non si dimentichi che proprio su questo terreno è possibile una manipolazione quanto mai raffinata, che spesso è più efficace di una manipolazione brutale. Infatti, mentre nel mondo socialista, dopo la crisi della teoria staliniana, concezioni del mondo fino allora tenute lontane stanno vivendo un periodo di prestigio acritico, la raffinata manipolazione che predomina a Occidente è ampiamente riuscita a diffondere nell’opinione pubblica la credenza che il marxismo sia una dottrina e un metodo totalmente superati, di cui non è affatto il caso di occuparsi seriamente; abbiamo già accennato, peraltro, alle eccezioni costituite dai migliori.

Io credo dunque che le due grandi trasformazioni, provocate dallo sviluppo economico, di cui abbiamo parlato sopra, porteranno a conoscere la concezione del mondo – le concezioni del mondo – dell’avversario, per poter realmente confutare il reale avversario di classe. La gran maggioranza delle lotte fra concezioni del mondo nel nostro tempo avviene ancora in modo tale che – nel migliore dei casi – viene «persuaso» soltanto chi è già persuaso. E perfino un obiettivo tanto modesto come quello di rafforzare in una certa misura i seguaci della propria concezione del mondo, viene raggiunto in modo assai problematico. Quando si verifica una perturbazione sociale, queste difese artificiali si dimostrano quanto mai incapaci di opporre una resistenza.

Per giustificare la necessità dell’esigenza da noi formulata sopra, basti accennare al fatto che un discorso impostato meramente sull’entusiasmo e la fede potrebbe essere forse in grado di infiammare gli ascoltatori per un breve scontro, ma anche se fosse ripetuto più volte non riuscirebbe a suscitare la forza di resistenza spirituale e morale necessarie per una vera guerra. Applicando questo paragone alle lotte tra concezioni del mondo, si vedrà che la differenza tra una singola battaglia e una guerra prolungata non è che quest’ultima sia una sintesi meramente quantitativa di molteplici ripetizioni di quelle, bensì qualcosa di differente qualitativamente e strutturalmente. Per passare dall’immagine alla cosa: quando due ampi sistemi sociali sono reciprocamente in lotta sulla concezione del mondo, i singoli dibattiti, che per lo più hanno come oggetto immediato campi differenti, erigono «fronti» assai differenti l’uno dall’altro; colui che è alleato su un campo può facilmente essere un avversario su un altro campo e viceversa, anzi, è possibile che la stessa teoria, applicata o interpretata in modi diversi, serva di sostegno ora all’uno o all’altro partner della discussione. Si pensi, ad esempio, alla seconda metà del secolo scorso, quando il darwinismo nelle sue linee principali appoggiava gli ideologi progressisti, ma contemporaneamente – ad esempio, nel cosiddetto darwinismo sociale – poteva costituire un ausilio per la reazione ideologica, e così via.

Date le circostanze, obbiettivamente non è contraddittorio che noi da un lato partiamo dal fatto che tutta la coesistenza culturale sia una grande lotta tra la concezione del mondo socialista e quella borghese, ma dall’altro, e contemporaneamente, nei singoli dibattiti che costituiscono gli elementi concreti di questa totalità, ammettiamo che la funzione volta per volta attuale di singole dottrine, teorie, metodi ecc. sia del tutto diversa, anzi possa operare in senso opposto. Una concezione monolitico-univoca della lotta di classe tra concezioni del mondo di sistemi sociali in concorrenza conduce ad una incomprensione totale della sua essenza. Questo non è meramente il risultato di singole innovazioni scientifiche ecc., estremamente complesse, ma scaturisce piuttosto dall’essenza di ciascuna trasformazione sociale. Già nel 1916, Lenin si faceva beffe dei seguaci di una teoria così monolitica. «Le cose starebbero così – scriveva: – da una parte si raduna un esercito e dichiara: “Noi siamo per il socialismo”, e da un’altra parte si raduna un altro esercito e dichiara: “Noi siamo per l’imperialismo”, e questa è poi la rivoluzione sociale!» Giustamente egli definiva questo «un punto di vista ridicolo e pedante». È evidente che quanto più un fenomeno ideologico è lontano dalla lotta di classe immediata, tanto maggiormente conferma con i suoi effetti l’esattezza di queste parole di Lenin.

Ma ciò ha conseguenze di grande importanza per la lotta ideologica all’interno della coesistenza culturale. Per poterle anche soltanto scorgere, è necessario che in entrambi i sistemi vengano superati vecchi e stantii pregiudizi la cui essenza consiste nel fatto che le manifestazioni culturali dell’altro campo vengono monoliticamente considerate come ostili. Ciò è senz’altro evidente per le tradizioni staliniste. Qui – come assai spesso – snaturando un’affermazione di Lenin è stato messo in circolazione un termine peculiare, «oggettivismo», per bollare coloro che osano criticare i fenomeni ideologici del mondo borghese in modo reale, giusto e non unilaterale. In proposito, posso forse richiamarmi ad esperienze personali. Quando, alla fine degli anni quaranta, pubblicai un’aspra critica dell’esistenzialismo francese, cercai di dimostrare come alcuni aspetti, non certo trascurabili, di questa filosofia derivassero dalla situazione ideologica della «résistance». Ciò parve a Fadeev una manifestazione di «oggettivismo», giacché equivaleva a trovare delle scusanti per pensatori idealisti, per agenti della borghesia. Naturalmente, vi fu anche un’eccezione a questa regola critica: alcuni ideologi che avevano firmato determinati manifesti politici furono dichiarati tabù per qualsiasi critica. Anche qui, mi permetto di rifarmi alla mia esperienza personale. Prima del viaggio di André Gide nell’Unione Sovietica, scrissi un saggio teorico-letterario, nel quale criticavo in modo rispettoso ma nella sostanza aspro alcune sue concezioni. La redazione della rivista pretese che questa parte del mio saggio fosse eliminata. Il lavoro uscì soltanto dopo il ritorno di Gide a Parigi e dopo la pubblicazione del suo libro contro l’Unione Sovietica. Il direttore mi chiese, disperato: «Perché mai abbiamo soppresso dal suo articolo quel passo su Gide?»

Ma sarebbe una pericolosa illusione credere che una simile prassi sia estranea al «mondo libero». Il fatto che – spesso – essa si presenti in modo non centralizzato ma spontaneo, non muta proprio nulla alla sostanza del fatto. Al rifiuto monolitico, alle conseguenze che se ne traggono – spesso tacitamente ma spesso addirittura in modo aperto – importa soprattutto che l’ideologia del socialismo possa essere «spiritualmente» distrutta anche senza studiarne le fonti più importanti, che contro di essa non si osservino le regole della correttezza scientifica e letteraria, che si possa polemizzare con essa falsificandone le citazioni, deformandone i concetti, tacendo o inventando fatti. Per rifarmi ancora una volta a esperienze personali, Adorno mi rimproverò di aver trattato semplicisticamente Freud da fascista nel mio libro La distruzione della ragione, sebbene, conforme agli obiettivi di quell’opera, io non avessi in essa esaminato né criticato le teorie di Freud. Se qui respingiamo questi metodi di lotta letteraria, in primo luogo lo facciamo non per motivi di correttezza letteraria – per quanto anche questa sia importante – ma perché una vera lotta tra concezioni del mondo, che scaturisce di necessità dalla coesistenza culturale, viene resa obbiettivamente impossibile da questo metodo di concepire l’avversario in modo volgarmente monolitico.

La concezione monolitica è cieca tanto di fronte allo sviluppo ineguale dei differenti campi di cultura quanto alle controversie reali all’interno di un sistema particolare. Soltanto respingendola si può arrivare a comprendere come le posizioni da noi sostenute possano sempre trovare alleati totali o parziali, anzi, che può accadere addirittura di assimilare criticamente la dottrina o il metodo di un ideologo dell’altro sistema. Così, ad esempio, Marx ha incorporato Darwin o L. H. Morgan nella sua concezione del mondo, che ne è risultata arricchita e concretizzata. Ovviamente, oggi non si riesce a scorgere un’analogia con questo esempio, ma ciò non significa affatto che un marxista possa ignorare i contrasti ideologici esistenti in Occidente, per esempio le posizioni assai controverse sul problema dell’alienazione, la coraggiosa posizione di Sartre in tutte le questioni coloniali, i suoi tentativi di assimilare il materialismo storico, l’onesto comportamento di N. Hartmann verso le questioni ontologiche della filosofia della natura, verso i problemi della teleologia, le ricerche di Werner Jaeger sulla vita spirituale greca, le concezioni archeologiche di Gordon Childe, ecc., che rivelano in modo assai chiaro alcuni di questi contrasti. Ma non si deve dimenticare che antitesi di questo genere non di rado possono essere presenti anche all’interno di una stessa opera: così, in A. Gehlen troviamo, da un lato, preziose e feconde osservazioni antropologico-sociologiche e dall’altro, miti del tutto correnti e alla moda. Paragonando ad esempio N. Hartmann con Heidegger o con i neopositivisti, Werner Jaeger o Gordon Childe con gli sproloqui mistificatori di Jung o di Kerényi, appare chiaro da quale parte stiano gli avversari reali e da quale altra i possibili alleati su problemi particolari.

Per l’ideologia occidentale, il superamento del giudizio culturale monolitico si concentra intorno alla comprensione della vera essenza della dottrina e del metodo marxisti. Indubbiamente, anche su questo terreno sono in atto tentativi che dimostrano una onesta volontà di comprendere, anche se ancor oggi sono, com’è naturale, sporadici e per lo più assenti negli ideologi più influenti. Tuttavia è sintomatico e significativo che mentre alcuni decenni or sono i freudiani «di sinistra» cercavano di correggere Marx, con iniezioni di teorie del loro maestro, oggi invece assistiamo al tentativo di rendere attuale Freud integrandolo con Marx. Fenomeni analoghi sono visibili anche in altri campi anche se, senza dubbio, attualmente sono assai scarsi; infatti, domina ancora quella compiaciuta ignoranza alla quale abbiamo già accennato. Ma non si deve dedurne che l’impostazione dei problemi sia sempre ed esclusivamente monolitica, giacché contrasti esistono ovunque in tutti i problemi; ad alcuni abbiamo accennato nell’ultima parte.

Se la coesistenza economica e politica continuerà a progredire, questo processo di differenziazione, e con esso la presa di posizione differenziata, dall’assimilazione di certe teorie all’alleanza su singoli problemi fino a un rifiuto radicale basato però sulla conoscenza, acquisteranno ampiezza e profondità. Allora soltanto la vera coesistenza potrà verificarsi come lotta reale tra concezioni del mondo. Per comprenderla rettamente, dobbiamo sapere soprattutto che ogni concezione del mondo corre dei rischi sia che soddisfatta di sé rimanga chiusa in se stessa, sia che sia pronta ad accogliere quanto viene dall’esterno. Che il primo di questi comportamenti conduca all’inaridimento e quindi – in situazioni di crisi – all’incapacità a resistere, può essere facilmente confermato in base alle esperienze storiche. Del resto, oggi lo possiamo riscontrare come fenomeno largamente diffuso sia nel capitalismo sia nel socialismo. Nell’altro caso, si dimostra che ogni concezione del mondo, proprio perché scaturisce sempre da un determinato essere sociale, è internamente assai sensibile. Per rifarci ad un esempio meno recente: l’assimilazione di L. Morgan da parte di Marx ed Engels rafforzò grandemente il materialismo storico, mentre l’assimilazione di Kant da parte di Bernstein e Max Adler ha largamente e lungamente paralizzato il materialismo dialettico. Ma poiché questo rischio si basa su un’alternativa reale, è impossibile sfuggire ad esso. Ogni fatto importante scoperto, ogni apertura di un nuovo terreno metodologico, perfino ogni «scoperta» sensazionale, anche se inesatta, pone ciascuna concezione del mondo di fronte a una tale alternativa, e spesso le decisioni apparentemente ovvie, comode o radicali sono proprio le più pericolose. Così, molti socialisti, nei quali l’irrigidimento contro l’Occidente ha indebolito la capacità critica di autodifesa del marxismo, negli ultimi tempi assai spesso hanno accettato acriticamente tutto ciò che viene dall’Occidente, come se il marxismo avesse perduto tutti i suoi poteri di immunizzazione.

Questo saggio non intende pronunciare dei giudizi sui problemi ideologici, anche se l’autore non ha mai nascosto di essere un deciso seguace del marxismo. Ciò che qui si è voluto tentare è piuttosto di indicare la funzione sociale e la sorte sociale delle concezioni del mondo nel campo delle formazioni sociali. Tale funzione consiste nella valutazione orientativa all’interno di un mondo sociale dato; la conoscenza della realtà concreta attuale e della prospettiva del suo sviluppo in questo caso non è per l’individuo fine a se stesso ma uno strumento per una vita vissuta pienamente. La verità dell’immagine del mondo, la giustezza della prospettiva, la forza liberatrice di contenuto dell’orientamento etico decidono della capacità di resistenza o della fragilità di una concezione del mondo. Perciò le crisi nella vita personale o nel sistema sociale sono i criteri ultimi di ciò che una concezione del mondo è in grado di fare. La coesistenza culturale preme in direzione di queste prove, in particolare quando entrambi i sistemi sono in procinto di superare le loro odierne inadeguatezze interne sul piano economico, sociale e ideologico, quando l’aumento universale del tempo libero rivela il vuoto della sua realtà attuale sempre più chiaramente e ad un numero sempre maggiore di uomini e li spinge a cercare da sé un senso da dare alla propria vita.

Nessuno può oggi prevedere quali forme concrete assumeranno le lotte ideologiche nella coesistenza culturale. Ci troviamo oggi agli inizi di un processo lungo e complesso. Ma ci sembra certo che la loro importanza sarà maggiore che nei precedenti passaggi da una forma sociale all’altra. Vi contribuisce, innanzi tutto, la scomparsa della guerra, e il fatto che con ciò non siano ancora eliminate in linea di principio le guerre civili non muta nulla questa crescente importanza sociale delle questioni che concernono la concezione del mondo, anzi può ulteriormente rafforzare tali tendenze. Le forme concrete di questi passaggi sono oggi ancora così imprevedibili che non è il caso di parlarne. Infatti proprio l’acuirsi dei contrasti interni di classe è un fatto che fa emergere alla superficie della vita umana la capacità di resistenza o la fragilità, l’elasticità e la rigidezza delle concezioni del mondo. Naturalmente, l’agire reale degli uomini – in ultima analisi – viene determinato dal loro essere sociale. Ma il passaggio dall’essere alla coscienza è non soltanto inevitabile e significativo ma anche assai complesso, dialetticamente contraddittorio, ineguale. E in questo passaggio, a nostro giudizio, il ruolo delle concezioni del mondo nella futura coesistenza sarà maggiore che mai prima nella storia.

V.

Infine, alcune osservazioni sul ruolo dell’arte, soprattutto della letteratura in questo complesso di problemi della coesistenza culturale. Se vogliamo ottenere un quadro fedele della realtà dobbiamo guardarci, e con maggiore attenzione che mai, dalle generalizzazioni monolitiche. Ancor oggi esse sono dominanti in entrambi i sistemi, soprattutto per il fatto che si tende a ignorare le lotte interne di tendenza nel campo dell’avversario. Non si poté evitare che ciò avvenisse nell’epoca di Stalin, ed ho già accennato altrove ad alcune conseguenze, ancora oggi operanti. La più importante, e la più pericolosa per lo sviluppo della letteratura socialista, è che non si tiene conto della lotta mai interrotta, anzi sempre più intensa, che si svolge in Occidente tra realismo e antirealismo. In Occidente, tali pregiudizi riguardo al realismo socialista sono del resto dominanti. Si dimentica che il periodo prestaliniano della Rivoluzione, i cui effetti perdurarono nella letteratura fino alla metà degli anni trenta, hanno prodotto non soltanto films ma anche scrittori come Šolochov e Makarenko, opere come gli ultimi drammi di Gor’kij, ad esempio Klim Samgin. E non si dimentichi che l’opposizione contro i metodi stalinisti, anche se fino a ora è soltanto agli inizi, ha rivelato scrittori come Solženitsyn o Nekrasov, le cui opere non significano affatto una rottura con il realismo socialista bensì il suo interno rinnovamento adeguato alle esigenze attuali. Questa è la via per la quale la letteratura socialista potrà riconquistare la sua importanza.

Non trattiamo tutti i problemi che scaturiscono da questa situazione, e dal suo futuro superamento da un osservatorio meramente estetico, ma soltanto come parti di quel complesso che abbiamo cercato in precedenza di intendere come lotta tra concezioni del mondo. Non per questo viene escluso il fattore estetico, al contrario. Esso sostiene un ruolo decisivo, giacché un’influenza generale, profonda e durevole sul piano della concezione del mondo scaturisce assai di rado da opere artisticamente minori. Proprio dove, come qui, si considerano gli effetti dell’arte come una parte – assai importante – delle lotte fra concezioni spirituali del mondo analizzate in precedenza, la loro capacità di penetrazione spirituale-sensibile è della massima importanza, ed in essa sono contenuti momenti decisivi dell’estetica. Ciò che, da questo punto di vista, distingue gli effetti artistici da quelli scientifici e ideologici è soprattutto il fatto che i limiti di classe nell’assimilazione vengono superati assai più di frequente e con maggiore intensità di quanto non avvenga di solito. Allorché un confronto intellettuale comincia ad influenzare il comportamento ideologico degli uomini, è quasi inevitabile che sorga nell’uomo una controversia interna, anche socialmente consapevole. Se invece l’influenza nasce attraverso la rappresentazione artistica di uomini e destini umani, la sua immediatezza può spezzare con maggiore facilità i limiti o gli ostacoli di classe. Dal Figaro di Beaumarchais al film La corazzata Potëmkin, la storia presenta numerosissimi esempi di questo tipo di influenza, che la riserva, tuttavia – dal punto di vista della lotta tra concezioni del mondo – che tali impressioni vengono nuovamente incorporate nel vecchio sistema di persuasione – e per ciò stesso rese socialmente «innocue» – assai più facilmente che non le influenze direttamente intellettuali e ideologiche.

In ogni caso, non si debbono sottovalutare gli effetti dell’arte, sia che sconvolgano o plachino, producano rivolta o apatia, entusiasmo o cinismo, sul piano della concezione del mondo. Noi crediamo anzi che le grandi e decisive emozioni che da essa scaturiscono abbiano le più profonde radici proprio nel terreno del contenuto umano della concezione del mondo. Quando l’aspetto puramente formale dell’arte viene posto in modo quasi esclusivo al centro dell’interesse, questo è generalmente il segno di un sostanziale affievolimento del rapporto tra arte e pubblico, ovvero il convergere dei suoi effetti in un accomodamento cinico-apatico dalle forme di vita volta per volta date, mentre il vero realismo – in modi sempre differenti – suole esercitare un’influenza stimolante, liberatrice per la conservazione dell’integrità morale dell’uomo. In tutto ciò, bisogna naturalmente considerare che qui si parla soltanto degli effetti dell’opera stessa, non delle intenzioni dell’autore. Ovviamente, anche nel campo della teoria esiste un legame diseguale e contraddittorio tra l’intenzione soggettiva e la tendenza e il peso oggettivi riguardo all’influenza sugli uomini. Tuttavia, questa contraddittorietà nel campo dell’arte si accresce qualitativamente. Ed è per essa una tendenza negativa il fatto che oggi si trascuri questo momento della dialettica di intenzione e realizzazione. Soprattutto il periodo staliniano negò la possibilità di raffigurazioni artistiche che fossero in contraddizione con le loro intenzioni consapevoli. Perciò, una direzione intellettuale che parta da tali premesse eserciterà per forza un’influenza paralizzante. Quando poi tale direzione arriva fino a imporre divieti, assai facilmente porterà a conferire a tendenze in sé superficiali e passeggere un’eccessiva forza di attrazione, a rendere la loro influenza più profonda e durevole di quel che non sarebbe stata nella sua spontaneità. In ultima analisi, anche i tentativi che compiono in Occidente per diffamare il realismo da un punto di vista estetico opereranno allo stesso modo.

Queste brevi osservazioni non hanno certo la pretesa di prendere posizione esteticamente sull’arte del nostro tempo e sulle prospettive del suo sviluppo nello svolgimento della coesistenza culturale. Si è inteso soltanto accennare ad alcuni tratti essenziali che precisano il peculiare ruolo dell’arte entro le lotte ideologiche della coesistenza culturale.

In generale, abbiamo cercato, al di là delle difficoltà attuali, specifiche e prevedibilmente condannate ad essere superate dallo sviluppo futuro, di accennare alle sue prospettive, che – eliminate le meschine polemiche attuali – annunciano, a quel che è dato di vedere, una sostanziale e aspra lotta ideologica tra i due sistemi. L’autore di questo saggio non vuole nascondere la sua persuasione che in questa gara tra concezioni del mondo nella coesistenza culturale il marxismo, che avrà ritrovato se stesso e sarà ridiventato autentico, risulterà vittorioso.