István Mészáros racconta Lukács

di István Mészáros

Questa intervista è stata pubblicata nel 1983 nella rivista brasiliana Ensaio; è stata ripubblicata nella rivista on-line Verinotio, n. 10, a. V, ottobre 2009. Traduzione dal portoghese e note di Antonino Infranca.


A diciotto anni entrai all’università. In quell’epoca la vita divenne più facile: non dovevo lavorare, mentre studiavo. Potevo così dedicarmi interamente agli studi. Allora conobbi Lukács in circostanze molto interessanti. Egli era stato attaccato da Révai1 e da altri elementi del Partito.

In che anno?

Nel 1949, io avevo diciotto anni e mezzo.

Lukács fu attaccato per il suo libro “La responsabilità degli intellettuali”?2

Sì, sulla democrazia popolare e altre cose di questo tipo. Due o tre mesi dopo che ero entrato all’università, tentarono di espellermi a causa del mio legame con Lukács. Tuttavia ciò non accadde, studiai con lui e due anni dopo divenni suo assistente. Lavorammo sempre in mutua collaborazione e divenimmo grandi amici, anche con sua moglie, Gertrud, che era una persona meravigliosa.

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Solženitsyn: Una giornata di Ivan Denisovič

di György Lukács

[Solschenizyn «Ein Tug in Leben des Iwan Denissowitsch» (1964), trad. it. di Fausto Codino, in «Belfagor», n. 3, 1964, ora in G. L., Marxismo e politica culturale, Einadui, Torino 1968].


1. Il rapporto estetico della novella col romanzo è già stato studiato più volte, anche dall’autore di queste pagine. Molto meno si è parlato del suo rapporto storico, dei suoi effetti alterni nel corso dello sviluppo letterario. Eppure questo è un problema quanto mai interessante e istruttivo, che illumina e caratterizza particolarmente proprio la situazione attuale. Intendiamo accennare al fatto, spesso ricorrente, che la novella appare o come anticipatrice di una conquista della realtà da parte delle grandi forme epiche e drammatiche, o alla fine di un periodo, come retro-guardia, come un’ultima eco. Cioè: o nella fase del non-ancora, nel dominio poetico universale sul mondo sociale di una data epoca, o in quella del non-più.

Sotto questo aspetto il Boccaccio e la novella italiana appaiono come i precursori del moderno romanzo inglese. Essa rappresenta il mondo in un’epoca in cui le forme di vita borghesi avanzano vittoriose, in cui esse cominciano a distruggere sempre più, nei campi più diversi, le forme di vita medievali e a prenderne il posto, mentre tuttavia non può esistere ancora una totalità degli oggetti, una totalità delle relazioni umane e dei comportamenti nel senso della società borghese. Dall’altra parte, la novella di Maupassant appare come un’eco affievolita del mondo di cui Balzac e Stendhal avevano descritto la nascita, Flaubert e Zola il molto problematico compimento.

Questo rapporto storico può sorgere solo in virtù di peculiarità del genere. Si è già detto della totalità degli oggetti come tratto caratteristico dell’universalità estensiva del romanzo; la totalità drammatica ha un altro contenuto e un’altra struttura, ma entrambe sono rivolte all’integrità comprensiva della vita rappresentata, in entrambe il pro e contra universalmente umano di fronte alle questioni centrali del tempo produce una totalità di tipi che contrastandosi e integrandosi a vicenda occupano i posti giusti negli avvenimenti del tempo. La novella muove invece dal caso singolo e, nell’estensione immanente della raffigurazione, resta ferma ad esso. La novella non pretende di raffigurare completa la realtà sociale, neppure in quanto questa totalità risulta dall’aspetto di un problema fondamentale e attuale. La sua verità deriva dal fatto che un caso singolo – per lo più estremo – è possibile in una società determinata, e nella sua mera possibilità è caratteristico di essa. Perciò essa può tralasciare la genesi sociale degli uomini, delle loro relazioni, delle situazioni in cui agiscono. Perciò non ha bisogno di mediazioni, per avviare i fatti, e può rinunciare a prospettive concrete. Questa particolarità della novella, che tuttavia dal Boccaccio a Čechov ammette variazioni interne all’infinito, consente che storicamente essa appaia tanto come anticipatrice quanto come retroguardia delle forme grandi, come espressione artistica del non-ancora o del non-più della totalità rappresentabile.

Qui naturalmente non cercheremo di discutere, neppure per accenni, questa dialettica storica. Ma dobbiamo dire, per evitare malintesi, che l’accennata alternativa di non-ancora e non-più, importantissima per le considerazioni che faremo più avanti, non esaurisce affatto i rapporti storici di romanzo e novella. Ne esistono numerosi altri che questa volta dobbiamo tralasciare. Per accennare alla molteplicità dei nessi possibili, basterà ricordare Gottfried Keller. Enrico il Verde, per potersi sviluppare come totalità di romanzo, dovette abbandonare la Svizzera del giovane Keller. La gente di Seldwyla presenta come ciclo, nel contrasto e nell’integrazione reciproci, il quadro di quella totalità non rappresentabile in forma di romanzo. E la patria diventata capitalistica non può offrire, corrispondentemente alla visione kelleriana dell’uomo, alcuna totalità ricca e non artificiosamente articolata; invece le novelle tra loro polemiche dell’Epigramma, considerate come cornice narrativa, sanno mostrare gli alti e bassi, i pro e contra della maturazione di una coppia che si sviluppa verso il vero amore, mentre la vita immediata del mondo accessibile a Keller non avrebbe permesso di riuscirvi in forma di romanzo. Qui dunque si ha uno specialissimo intreccio di non-ancora e di non-più, che non sopprime radicalmente i nessi storici sopra accennati fra romanzo e novella, ma non può affatto trovare immediatamente il suo posto in essi. E la storia letteraria presenta altre alternative, affatto diverse, sulle quali non ci possiamo soffermare.

Con questa riserva, si può dire che l’epica contemporanea e recente, nei suoi tentativi di rappresentare affermazioni umane autentiche, spesso recede dal romanzo alla novella. Penso a capolavori come Tifone e La linea d’ombra di Conrad, al Vecchio e il mare di Hemingway. La recessione appare già nel fatto che la base sociale, l’ambiente sociale del romanzo scompare, e le figure centrali devono fare i conti con un mero fenomeno naturale. Questo duello dell’eroe isolato, affidato a se stesso, con la natura, per esempio con la tempesta o la bonaccia, può anche finire con la vittoria dell’uomo, come in Conrad, ma anche se la fine è una sconfitta, come in Hemingway, l’affermarsi degli uomini è il contenuto centrale della novella. Con queste novelle, i romanzi degli stessi scrittori (e anche di altri) stanno in netto contrasto: i rapporti sociali divorano, schiacciano, distruggono, falsificano ecc. l’uomo. Su questo terreno non sembra che si possa trovare una forza di resistenza efficace, sia pure condannata a una tragica rovina. E siccome scrittori di talento non possono rinunciare a qualsiasi integrità umana, a qualsiasi grandezza interiore, essi ricorrono a questo tipo di novella, combattimento di retroguardia nella lotta per la salvezza dell’uomo.

Anche nella letteratura sovietica oggi le forze del progresso si concentrano sulla novella, oltre che sulla lirica. Solženitsyn non è certo l’unico, ma è quello che, per quanto sappiamo, è riuscito ad aprire una vera breccia nel baluardo ideologico della tradizione stalinista. Nelle considerazioni seguenti vogliamo mostrare che nel suo caso – e nel caso di chi si muove nella stessa direzione – si tratta di un inizio, di un primo sondaggio della realtà, e non della conclusione di un periodo, come nel caso dei notevoli narratori borghesi sopra ricordati.

2. Oggi il problema centrale del realismo socialista è l’elaborazione critica dell’età staliniana. Questo naturalmente è il compito principale di tutta l’ideologia socialista, ma qui mi limiterò al campo della letteratura. Se il realismo socialista, che a causa del periodo staliniano è diventato talvolta un termine offensivo e dispregiativo, anche nei paesi socialisti, vuole risalire all’altezza che aveva raggiunto negli anni venti, esso deve ritrovare la strada della rappresentazione dell’uomo contemporaneo. Ma questa strada deve passare inevitabilmente attraverso una fedele descrizione dei decenni staliniani, con tutti i loro aspetti disumani. I burocrati settari obiettano: non si deve rivangare il passato, ma soltanto rappresentare il presente; il passato è passato, già del tutto superato, scomparso dall’oggi. Tale affermazione non è solo falsa – il solo fatto che venga enunciata dimostra che la burocrazia culturale staliniana è ancora presente con tutta la sua influenza –, ma è anche priva di qualsiasi senso. Quando Balzac o Stendhal descrivevano il periodo della Restaurazione, sapevano di rappresentare uomini che in maggioranza erano stati formati dalla rivoluzione, dal Termidoro e dalle sue conseguenze, dall’Impero. Julien Sorel o Père Goriot sarebbero semplici ombre e schemi se fosse descritta soltanto la loro esistenza presente nella Restaurazione, senza le loro vicende, il loro sviluppo, il loro passato. Tanto vale anche per il periodo di ascesa del realismo socialista in letteratura. Le figure principali di Šolochov, di A. Tolstoj, del giovane Fadeev ecc. provengono dalla Russia zarista; nessuno potrebbe capire il loro comportamento nella guerra civile senza aver visto come essi, attraverso l’anteguerra, le esperienze della guerra imperialista, i mesi della rivoluzione, siano arrivati alla posizione in cui si trovano, e soprattutto al modo in cui vi si trovano.

Nel mondo attuale del socialismo ancora pochi vivono attivamente che non abbiano vissuto in qualche modo il periodo staliniano, pochi che non siano stati formati dalle esperienze di quegli anni nella loro odierna fisionomia spirituale, morale e politica. «Il popolo» che si sarebbe sviluppato socialisticamente e che avrebbe edificato il socialismo restando «immune» dagli eccessi del «culto della persona» non è neppure una falsa utopia; proprio quelli che fanno queste affermazioni e che operano con esse sanno meglio di tutti – per propria esperienza – che il sistema dell’autorità staliniana aveva penetrato tutta la vita quotidiana, che tutt’al più i suoi effetti si sentivano con minor forza in villaggi remoti. Detto così, questo sembra un luogo comune. Ma nelle diverse persone esso è stato sentito in modo diverso, e nelle reazioni degli individui appare una varietà infinita di prese di posizione. Le alternative di tanti ideologi occidentali, come: Molotov o Köstler, solo nelle sfumature sono più irreali e stupide dell’atteggiamento burocratico che abbiamo detto.

Se questo riuscisse a dirigere la letteratura, avremmo una continuazione diretta della «letteratura illustrativa» dell’età staliniana. La quale era una manipolazione grossolana del presente: non nasceva dalla dialettica del passato e degli obiettivi reali, delle azioni di uomini reali, ma era determinata di volta in volta, nel contenuto e nella forma, dalle risoluzioni dell’apparato. Poiché la «letteratura illustrativa» non nasceva dalla vita, ma serviva a commentare le risoluzioni, le marionette costruite per questo scopo non dovevano e non potevano avere un passato, a differenza degli uomini. Esse invece avevano soltanto personality tests che venivano riempiti a seconda che si dovesse considerarle «eroi positivi» o «cattivi».

La manipolazione grossolana del passato è soltanto una parte della generale manipolazione grossolana delle figure, delle situazioni, delle vicende, delle prospettive ecc. nelle opere della «letteratura illustrativa». Perciò l’insensato indirizzo cui sopra abbiamo accennato è soltanto una continuazione coerente, e adeguata ai tempi, della politica letteraria staliniano-ždanoviana, un nuovo impedimento contro la rinascita del realismo socialista, contro la riconquista della sua capacità di rappresentare tipi autentici di un periodo, che prendano posizione di fronte ai problemi grossi e piccoli del loro tempo movendo dalla necessità della propria personalità, dalla necessità della loro esistenza passata. Che in ultima analisi la loro personalità sia socialmente e storicamente condizionata, appare soprattutto chiaro nel rapporto passato-presente-prospettiva del futuro. Proprio se fa sorgere gli uomini di oggi dal loro passato vissuto, la letteratura porta alla superficie sensibile con la massima chiarezza il rapporto fra uomo e società all’interno della sua personalità. Infatti un passato uguale – dal punto di vista storico – assume in ogni vita umana una forma variata: gli stessi avvenimenti sono vissuti in modo diverso da uomini diversi per origine, per cultura, per età ecc. Ma anche lo stesso avvenimento ha sugli uomini effetti straordinariamente differenziati: vicinanza o lontananza, centro o periferia, anche la pura e semplice casualità dei momenti della mediazione personale, creano un più vasto campo di variazioni. E di fronte a questi avvenimenti nessun uomo è proprio spiritualmente passivo; ma si trova sempre di fronte ad alternative, le cui conseguenze possono portare dalla fermezza fino a compromessi astuti o sciocchi, giusti o falsi, e fino alla capitolazione. Ma avvenimenti e reazioni non sono mai fatti isolati: essi sono concatenati, e la reazione passata è sempre un momento non trascurabile di quella successiva. Se non si mette in chiaro il passato, dunque, non si può scoprire il presente. Una giornata di Ivan Denisovič, di Solženitsyn, è un notevole avviamento a questo reperimento letterario di se stessi nel presente socialista.

Non si tratta, almeno principalmente, delle rivelazioni sugli orrori dell’età staliniana, sui campi di concentramento ecc. Queste rivelazioni esistevano già da lungo tempo nella letteratura occidentale, ma hanno perduto l’iniziale capacità di sbalordire, specialmente nei paesi socialisti, dopo che il XX Congresso ha messo all’ordine del giorno la critica del periodo staliniano. Il merito di Solženitsyn è di aver fatto di una giornata priva di avvenimenti, in un campo qualsiasi, il simbolo letterario del passato non ancora superato, non ancora rappresentato nella letteratura. Benché i lager siano un aspetto estremo dell’età staliniana, il settore da lui scelto, e ritratto artisticamente tenendosi al grigio su grigio, diventa un simbolo della vita quotidiana sotto Stalin. Ciò perché egli si è posto da poeta queste domande: quali esigenze ha posto questo periodo agli uomini? Chi ha superato positivamente la prova, da uomo? Chi ha salvato la propria dignità e integrità umana? Chi ha resistito, e come? In chi si è conservata la sostanza umana? E dove, invece, essa è stata deformata, spezzata, distrutta? Limitandosi rigorosamente alla vita immediata del lager, Solženitsyn ha potuto porre la questione in maniera affatto generale e concreta nello stesso tempo. Naturalmente restano escluse le sempre mutevoli alternative politico-sociali di fronte alle quali la vita metteva gli uomini rimasti in libertà, ma la resistenza o il crollo sono così immediatamente concentrati sull’essere o non essere concreto di uomini vivi, da elevare ogni singola decisione al livello di una generalizzazione e di una tipizzazione aderenti alla vita.

L’intera composizione, di cui più avanti vedremo i particolari, serve a questo scopo. La sezione ivi descritta della vita quotidiana del lager rappresenta in essa una «buona» giornata, come dice alla fine il personaggio centrale. E in realtà quel giorno non avvengono fatti eccezionali, non ci sono atrocità particolari. Vediamo soltanto l’ordinamento normale del campo e le reazioni tipiche dei suoi abitanti. Così i problemi tipici possono assumere una figura ben delineata, e si lascia alla fantasia del lettore d’immaginare gli effetti provocati nei personaggi da costrizioni più gravi. A questa semplicità della composizione, a questa concentrazione quasi ascetica sull’essenziale, corrisponde esattamente l’estrema economia dell’esecuzione letteraria. Del mondo esterno è mostrato solo ciò che è indispensabile, per gli effetti che suscita nella vita interna degli uomini; di quest’ultima solo quelle reazioni – e anch’esse in una scelta estremamente sobria – che sono legate direttamente, attraverso mediazioni subito perspicue, al loro nucleo umano. Così quest’opera – non nata da un’impostazione simbolica – può avere forti effetti simbolici; e questa rappresentazione può valere anche per i problemi quotidiani del mondo staliniano, anche per quel che essi non hanno rapporti immediati con la vita dei lager.

Già da questa descrizione sommaria e astratta della composizione di Solženitsyn appare che stilisticamente essa è un racconto, una novella, e non un breve romanzo, benché la narrazione tenda concretamente ad essere il più possibile completa, a giungere all’integrazione reciproca dei tipi e delle vicende. Solženitsyn rinuncia di proposito ad ogni prospettiva. La vita del lager è vista come condizione permanente; i rari cenni alla scadenza del periodo di reclusione per alcuni restano quanto mai indeterminati (l’idea di una soppressione dei lager non affiora neppure nei sogni ad occhi aperti); nella figura centrale si fa vedere solo che intanto il paese è molto cambiato e non può affatto tornare al vecchio stato: e anche per questa via si mette in risalto l’isolamento del lager. Così il futuro resta avvolto, sotto ogni aspetto, da una fitta oscurità. Si possono soltanto prevedere giorni simili, migliori o peggiori ma non radicalmente diversi. Anche il passato affiora raramente. Un paio di cenni sul modo in cui alcuni sono finiti nel lager rivelano, proprio nella loro oggettiva laconicità, l’arbitrio delle autorità giudiziarie, amministrative, militari e civili. Nessuna parola sulle questioni politiche di fondo, per esempio sui grandi processi, che sono scomparsi in un buio passato. E anche l’ingiustizia personale della deportazione, solo sfiorata in momenti isolati, non è criticata direttamente, ma appare come una dura realtà, come un presupposto necessariamente accettato di questa esistenza da lager. Si esclude dunque – con piena consapevolezza artistica – tutto ciò che in futuro potrebbe e dovrebbe essere compito di grandi romanzi o drammi. Si ha qui una somiglianza stilistica formale – ma meramente formale – con le notevoli novelle che sopra abbiamo ricordato. Ma in questo caso non si ha una recessione dalle forme grandi, bensì un primo sondaggio della realtà nella ricerca delle forme grandi ad essa adeguate.

Oggi il mondo socialista è alla vigilia di una rinascita del marxismo, che non solo è chiamata a restaurarne i metodi deformati da Stalin, ma soprattutto tenderà ad afferrare adeguatamente i nuovi fatti della realtà col metodo antico e nuovo del marxismo autentico. Altrettanto avviene, in letteratura, per il realismo socialista. Una continuazione di ciò che nell’età staliniana veniva lodato ed esaltato come realismo socialista sarebbe un’impresa disperata. Ma crediamo che si sbaglino anche quanti vorrebbero seppellire prematuramente il realismo socialista, quanti ribattezzano realismo tutto ciò che è sorto nell’Europa occidentale dopo l’espressionismo e il futurismo, e vogliono anche sopprimere l’attributo «socialista». Se la letteratura socialista riprende coscienza di se stessa, se torna a sentire una responsabilità artistica di fronte ai grandi problemi del suo presente, possono liberarsi grandi forze che spingerebbero verso una letteratura socialista attuale. Sulla via di questo processo di trasformazione e di rinnovamento, che rappresenta una netta svolta di fronte al realismo socialista dell’età staliniana, ci pare che il racconto di Solženitsyn costituisca una pietra miliare.

Queste prime rondini di una primavera letteraria possono certo avere un’importanza storica, per quello che annunciano, senza avere tuttavia un particolare valore artistico. Si possono ricordare Lillo e dopo di lui Diderot, come primi scopritori del dramma borghese. Ma crediamo che la posizione storica di Solženitsyn sia diversa. Ponendo teoricamente al centro dell’interesse drammaturgico le circostanze (conditions) sociali, Diderot conquistò alla tragedia un repertorio importante di temi: la sua parte di scopritore, limitatamente al riconoscimento astratto di una tematica, non appare diminuita se si ammette la mediocrità dei suoi drammi. Ma Solženitsyn non ha conquistato alla letteratura, come repertorio di temi, la vita nei campi di concentramento. Il suo modo di esporre, orientato verso la vita d’ogni giorno nell’età staliniana e le sue alternative umane, indica invece una reale terra vergine nei problemi umani del successo e del fallimento; il campo di concentramento, come simbolo della vita d’ogni giorno nell’età staliniana, permetterà in futuro di ridurre proprio questa vita di lager a un mero episodio nell’universalità della nuova letteratura che ora si annuncia, in una universalità in cui tutto ciò che ha importanza per la prassi individuale e sociale del presente deve prendere forma come sua preistoria individuale.

3. In quest’unica giornata di Ivan Denisovič i lettori hanno visto il simbolo dell’età staliniana. Tuttavia la maniera narrativa di Solženitsyn non contiene traccia di simbolismo. Egli presenta una sezione autentica, reale della vita, in cui nessun elemento cerca di acquistare una speciale evidenza, un’eccessiva evidenza, di assumere un valore simbolico. D’altra parte in questa sezione è conservato e concentrato il destino tipico, il comportamento tipico di milioni di persone. Questa schietta verità naturale di Solženitsyn non ha niente del naturalismo immediato, né del naturalismo mediato da una tecnica raffinata. Le discussioni attuali sul realismo e soprattutto sul realismo socialista tra l’altro ignorano la vera questione centrale perché non tengono conto dell’antagonismo fra realismo e naturalismo. Nella «letteratura illustrativa» dell’età staliniana si sostituiva il realismo con un naturalismo di Stato, combinato con un cosiddetto romanticismo rivoluzionario, statale anch’esso. È vero che in sede di teoria astratta, negli anni trenta, si contrapponeva il naturalismo al realismo; ma solo in astratto, e questa astrazione poteva acquistare vera concretezza solo in un’opposizione alla «letteratura illustrativa», perché nella prassi la manipolazione della letteratura diffamava come naturalismo tutti i fatti non conformi alle prescrizioni, e solo questi; in omaggio a questa prassi, un superamento del naturalismo si poteva avere soltanto se lo scrittore per la sua opera sceglieva esclusivamente fatti che direttamente o indirettamente giustificassero quelle risoluzioni che la sua opera era chiamata a illustrare sul terreno letterario. La tipizzazione diventava così una categoria meramente politica. Indipendentemente dalla dialettica particolare dei personaggi, della loro sostanza umana, nella tipicità s’incarnava un giudizio universale positivo o negativo su atteggiamenti considerati utili o sfavorevoli per l’esecuzione di una data risoluzione. Intrecci e figure erano costruzioni estremamente artificiose, ma dovevano essere naturalistici in quanto questo modo di procedere ha proprio di caratteristico che i particolari non sono collegati, per organica necessità, né tra loro né con i personaggi, con le loro vicende ecc. Essi restano sbiaditi, astratti o eccessivamente concreti, a seconda del carattere dello scrittore, ma non si compongono in unità organica col materiale creativo, poiché per principio vi sono introdotti dall’esterno. Ricordo quando si discuteva scolasticamente fino a che punto un eroe positivo potesse o dovesse avere anche qualità negative. Ciò significa negare che in letteratura l’uomo concreto, particolare, sia l’elemento primario, il punto di partenza e d’arrivo, della creazione. Qui uomini e vicende possono e debbono essere manipolati a piacere.

Se ora, come molti desiderano, modi poetici moderni, occidentali, devono prendere il posto dell’invecchiato realismo socialista, resterà fuori causa in generale, nell’uno e nell’altro campo, il fondamentale carattere naturalistico delle correnti dominanti nella letteratura moderna. Io ho fatto osservare più volte, in vari contesti, che i diversi ismi che a suo tempo hanno preso il posto del naturalismo vero e proprio hanno lasciato immutata proprio questa interna mancanza di nessi, questa incoerenza compositiva del naturalismo, la rottura dell’unità immediata di essenza e fenomeno. Se si supera l’aderenza naturalistica alle osservazioni immediate, se la si sostituisce con proiezioni unilateralmente oggettive o unilateralmente soggettive, non si tocca, in linea di principio, questo problema fondamentale del naturalismo. (Parliamo della generale prassi letteraria, non dei notevoli casi eccezionali). Nei Tessitori o in Pelle di castoro Gerhart Hauptmann non è naturalista, in senso estetico, mentre la gran massa degli espressionisti, dei surrealisti ecc. non ha mai superato il naturalismo. Pertanto è facile capire, da questo punto di vista, perché gran parte dell’opposizione al realismo socialista dell’età staliniana cerchi e creda di trovare un rifugio nella letteratura moderna. Si può infatti compiere questo passo sul piano di una spontaneità meramente soggettivistica, senza rovesciare il rapporto degli scrittori verso la realtà sociale, senza uscire dalla fondamentale attitudine naturalistica, senza vivere e meditare a fondo i grandi problemi dell’epoca. Non è neppure necessario romperla con la «letteratura illustrativa»; già negli anni trenta c’erano romanzi dell’industrializzazione «fedeli alla linea», che usavano tutti i ritrovati dell’espressionismo, della neue Sachlichkeit, del montaggio alla moda, ma si distinguevano dalla media della produzione ufficiale di allora solo per questa tecnica esteriore. Da certi indizi appare che il fatto si può ripetere anche oggi, per quanto si debba dire che un puro rifiuto di tipo meramente soggettivo è ben lungi dal significare un superamento ideale e artistico dell’accettazione delle linee ufficiali.

Il racconto di Solženitsyn sta in netto contrasto con tutte le tendenze interne del naturalismo. Abbiamo già parlato dell’estrema parsimonia del suo stile. In virtù di essa, tutti i particolari sono in lui altamente significativi. Come in ogni opera d’arte autentica, la particolare sfumatura di questo significato scaturisce dalla peculiarità della materia. Ci troviamo in un campo di concentramento: ogni pezzo di pane, ogni straccio, ogni frammento di pietra o di metallo che possa servire da utensile serve a prolungare la vita; il raccoglierlo mentre si va al lavoro, il nasconderlo da qualche parte comporta il rischio di essere scoperti, di subire la confisca o anche la cella di rigore; ogni espressione, o gesto di un superiore esige una reazione specifica immediata, che se è sbagliata può provocare anch’essa i più gravi pericoli; d’altra parte ci sono situazioni, per esempio nelle ore dei pasti, in cui con un atteggiamento opportunamente risoluto si può ottenere una porzione doppia, ecc. Hegel osserva che la grandezza epica dei poemi omerici deriva anche dall’importanza che ha in essi la vistosa e giusta descrizione del mangiare, del bere, del dormire, del lavoro materiale ecc. Nella vita borghese ordinaria queste funzioni perdono per lo più questo peso specifico e solo i grandissimi, come Tolstoj, sono capaci di restaurare queste mediazioni complicate. (Naturalmente questi confronti servono solo a chiarire il problema letterario che c’interessa e non devono essere presi come giudizi di valore).

In Solženitsyn il particolare significativo ha una specialissima funzione, derivante dal carattere speciale della materia: esso rende concreta l’angustia soffocante di questa giornata nel lager, la sua monotonia sempre avvolta da pericoli, gl’incessanti movimenti capillari che tendono a salvare la pura sopravvivenza. Qui ogni particolare è un’alternativa fra salvezza o rovina; ogni oggetto un suscitatore di fatti salutari o funesti. Così la natura peculiare dei singoli oggetti, in sé sempre casuale, è visibilmente e inseparabilmente legata alle singole curve dei destini umani. Da mezzi maneggiati con parsimonia sorge così la totalità concentrata della vita nel lager: la somma e il sistema di questi dati di fatto semplici e miseri costituisce una totalità simbolica, umanamente significativa, che illumina una tappa importante della vita umana.

Su questa base di vita sorge qui una forma speciale di novella; se la mettiamo a confronto e in contrasto con le grandi novelle del mondo borghese che abbiamo citato, riusciamo a chiarire la situazione storica dell’una e delle altre. Nell’uno e nell’altro gruppo si lotta con un ambiente sopraffattore e nemico di una crudeltà e disumanità che ne rivelano il carattere «naturale». In Conrad o Hemingway questo ambiente ostile è realmente la natura. (In Conrad la tempesta o la bonaccia, ma, quando operano destini puramente umani, come nella Fine del canto, anche la cecità, la crudeltà della propria natura biologica, con cui il vecchio capitano deve lottare). La socialità delle relazioni umane si ritira sullo sfondo, spesso sbiadisce fino a scomparire. L’uomo è contrapposto alla stessa natura, di fronte alla quale egli deve salvarsi con le proprie forze o perire. Perciò in questo duello ogni particolare è importante: oggettivamente incarna il destino, soggettivamente pone un’alternativa di salvezza o di rovina. Ma siccome qui l’uomo e la natura sono direttamente contrapposti, le immagini naturali possono conservare un’ampiezza omerica senza che si attenui la loro intensità fatale, perché proprio in questo modo il rapporto fatale col personaggio torna sempre a condensarsi in decisioni importanti. Ma proprio per questo le relazioni eminentemente sociali tra gli uomini sbiadiscono, e queste novelle diventano fenomeni conclusivi di uno sviluppo letterario.

Anche in Solženitsyn la totalità rappresentata ha caratteri «naturali». Essa semplicemente esiste, come factum brutum, senza genesi apparente dai moti della vita umana, senza ulteriore sviluppo in un’altra forma dell’essere sociale. Tuttavia essa è sempre e dovunque una «seconda natura», un complesso sociale. Per quanto i suoi effetti possano apparire affatto «naturali», spietati, crudeli, insensati, disumani, essi derivano pur sempre da azioni umane, e l’uomo che si difende deve atteggiarsi di fronte ad essi in modo affatto diverso che di fronte alla natura. Il vecchio pescatore di Hemingway può provare addirittura simpatia e ammirazione per il grosso pesce che con la sua tenace resistenza gli fa correre gravi rischi. Di fronte ai rappresentanti della «seconda natura» ciò non sarebbe possibile. Solženitsyn evita ogni espressione troppo aperta di rivolta interiore; ma essa è contenuta implicitamente e compostamente in tutte le parole e in tutti i gesti. Infatti le manifestazioni naturali della vita fisica, come il freddo, la fame ecc., in ultima analisi procedono attraverso relazioni fra uomini. Anche il riuscito o mancato superamento della prova è sempre immediatamente sociale: anche se non è mai detto apertamente, esso si riferisce sempre alla futura vita reale, alla vita nella libertà fra altri uomini liberi. Qui naturalmente è presente anche l’elemento «naturale» della salvezza o della rovina fisica immediata, ma il motivo dominante è, oggettivamente, quello sociale. La natura, infatti, è realmente indipendente da noi uomini: può essere sottoposta alla conoscenza umana, trasformatasi in pratica, ma per necessità la sua essenza non è modificabile. La «seconda natura», per quanto «naturale» possa apparire a prima vista, è però formata da relazioni umane, è opera nostra. Perciò verso di essa appare sensato, in ultima istanza, l’atteggiamento di chi la vuole mutare, migliorare, rendere umana. Anche la verità dei particolari, la loro sostanza, il loro manifestarsi, i loro influssi reciproci, i loro nessi ecc. sono sempre di carattere sociale, anche se la loro genesi non sembra avere direttamente questo carattere. Anche qui Solženitsyn, nella sua riservatezza ascetica, si astiene da qualsiasi presa di posizione. Ma proprio l’oggettività del suo stile, la crudeltà e disumanità «naturali» di un’istituzione umano-sociale, rappresentano un giudizio più distruttivo di quello che potrebbe enunciare qualsiasi declamazione patetica. E, del pari, nel silenzio ascetico in fatto di prospettiva è tuttavia contenuta una prospettiva latente. Tutte le prove superate e non superate additano tacitamente i modi futuri e normali delle relazioni umane; esse sono anticipazioni silenziose di una futura vita reale fra uomini. Perciò questa sezione della vita rappresenta non una fine, ma il prologo di un avvenire sociale. (In un ambito puramente individuale anche la lotta con la natura reale può essere in qualche modo umanamente formativa, come nella Linea d’ombra di Conrad, ma solo limitatamente a un individuo. Il comportamento positivo del capitano in Tifone resta un episodio interessante senza conseguenze, e come tale lo stesso Conrad lo mette in evidenza).

Si torna così all’effetto simbolico del racconto di Solženitsyn: esso ci offre, tacitamente, un’anticipazione concentrata della futura resa dei conti poetica con l’età staliniana, in cui queste sezioni rappresentavano realmente un simbolo della vita quotidiana. Esso anticipa la rappresentazione poetica del presente, del mondo degli uomini che sono passati per questa «scuola» – direttamente o indirettamente, attivamente o passivamente, uscendone rafforzati o spezzati –, che in essa sono stati preparati alla vita odierna, all’attività. Questa è la sostanza paradossale della posizione letteraria di Solženitsyn. La sua espressione laconica, il suo astenersi da ogni allusione che esca dalla vita immediata dei lager, delineano però i contorni dei fondamentali problemi umano-morali senza i quali gli uomini del presente sarebbero oggettivamente impossibili, soggettivamente incomprensibili. Proprio per il suo riserbo parco e concentrato questa sezione limitatissima della vita anticipa la grande letteratura del futuro.

Le altre novelle a noi note di Solženitsyn non sono di un’apertura così compenetrata dal simbolo. Ma proprio per questo forse, il sondaggio del passato, alla ricerca della strada che guidi alla comprensione del presente, vi appare con chiarezza non minore e infine, come vedremo, anche maggiore. Nella bella novella La casa di Matrjona questo orientamento verso il presente è meno sensibile che altrove. Qui Solženitsyn, come alcuni contemporanei, descrive un remoto mondo rurale, le cui genti e le cui forme di vita sono state scarsamente influenzate dal socialismo e dalla sua forma staliniana. (Per il quadro complessivo del presente l’esistenza di simili possibilità ha qualche importanza, ma non centrale). È il ritratto di una vecchia che ha molto vissuto e sofferto, è stata spesso ingannata, sempre sfruttata, ma nulla ha potuto scuotere la sua profonda bontà e serenità interiore. È il modello di una persona di cui nulla poteva spezzare o deformare l’umanità; un ritratto nello stile della grande tradizione realistica russa: ma in Solženitsyn si sente soltanto la tradizione in generale, non l’influsso stilistico di un determinato maestro. Questo legame con le migliori tradizioni russe è sensibile anche in altre novelle. Per esempio la composizione di Una giornata di Ivan Denisovič poggia sulle somiglianze e gli antagonismi morali di più figure centrali. La principale figura di contadino, saggio, tatticamente abile, contrasta da un lato col passionale capitano di fregata che rischia tutta la sua esistenza perché non vuole lasciar passare senza protesta un’indegnità, dall’altro con l’astuto capo della brigata che di fronte ai superiori rappresenta abilmente gli interessi dei suoi collaboratori, ma si serve anche di loro per consolidare la propria posizione relativamente privilegiata.

Più dinamica e molto più legata alla problematica dell’età staliniana è la novella Alla stazione di Krecetovka, al centro della quale sta l’aspetto etico-sociale del periodo di crisi, la «vigilanza». Essa mostra da due lati, dialetticamente, come la trasformazione in routine delle parole d’ordine staliniane distorca tutti i veri problemi della vita. Anche qui – secondo il principio autentico della novella – c’è soltanto un conflitto unicamente individuale e la sua soluzione immediata, senza che si accenni ai successivi effetti che la decisione qui presa avrà avuto nella vita, nello sviluppo ulteriore degli interessati, fino ad oggi. Ma qui la collisione è tale che la tensione da essa provocata solleva onde più ampie, oltre l’ambiente vero e proprio della novella. L’alternativa della «vigilanza», la spinta alla «vigilanza», non fu soltanto un problema scottante di quei giorni scomparsi: le sue ripercussioni agiscono anche oggi, come forze che hanno formato la personalità morale di tante persone. Il racconto del lager, nella sua coraggiosa rassegnazione, poteva rinunciare non solo a fare qualsiasi riferimento esplicito al presente, ma anche a ispirare di questi riferimenti nella fantasia integratrice del lettore; qui invece ci è posta alla fine, con una chiarezza volutamente dolorosa, la domanda: come verrà a capo di questa esperienza il giovane ufficiale entusiasta? Che uomo diventerà – e tanti altri come lui – dopo aver commesso quest’azione?

Questo tipo di novella, che è di una forma artistica riuscita come l’altro tipo, appare anche più nettamente delineato nell’ultimo scritto di Solženitsyn, Per la causa, che nella stampa sovietica è stato accolto con grande entusiasmo e violenta disapprovazione. Qui egli raccoglie coraggiosamente il guanto gettato dai settari agli amici della letteratura progressista: cioè l’invito a rappresentare anche per il periodo del «culto della persona», «indipendentemente» da esso, l’entusiasmo con cui le larghe masse costruivano. Si tratta della costruzione di una nuova scuola tecnica in una città di provincia; i vecchi locali sono del tutto insufficienti, gli scolari non vi possono trovar posto, e le autorità ritardano burocraticamente i lavori necessari per la nuova scuola. Ma c’è un autentico collettivo d’insegnanti e scolari, legati da fiducia e amore reciproco: durante le ferie essi compiono volontariamente la maggior parte dei lavori e li completano all’inizio del nuovo anno scolastico. L’inizio della novella descrive con vivacità la conclusione dei lavori, i rapporti di schietta fiducia, le discussioni leali fra insegnanti e scolari, la lieta attesa di una vita migliore nell’ambiente creato con le proprie mani. All’improvviso compare una commissione statale che, dopo un’ispezione più che superficiale dei vecchi locali, trova tutto «in perfetto ordine» e assegna il nuovo edificio a un altro istituto. I tentativi disperati del direttore, che persino un funzionario benevolo dell’apparato del partito cerca di aiutare, sono naturalmente inutili: contro l’arbitrio burocratico dell’apparato dell’età staliniana è inutile lottare anche per la causa più giusta.

Questo è tutto. Anche così è confutata, in maniera definitivamente giusta, la leggenda settario-burocratica dell’entusiasmo autentico e attivo nell’età staliniana. Nessuna persona ragionevole ha mai contestato che esso ci fosse sempre. La leggenda comincia quando si vuole che questo entusiasmo socialista possa svilupparsi produttivamente «accanto» al «culto della persona», non ostacolato (ma anzi stimolato) da esso. In Solženitsyn vediamo divampare una di queste fiammate di entusiasmo, ma seguita dalla sorte tipica che l’apparato staliniano le riserva. Come gli altri scritti di Solženitsyn, la novella si conclude al punto in cui il problema sta di fronte a noi con tutto il suo rilievo, ma anche qui senza che siano indicate, neppure per accenni, le fila del destino umano che porta all’uomo di oggi. Anche i limiti esterni sono molto stretti, sempre secondo il principio della novella autentica: né il sabotaggio precedente delle autorità, né l’atto arbitrario finale dell’apparato superiore si concretizzano in una descrizione che non sia strettamente oggettiva, seppure quanto mai convincente. Anche qui Solženitsyn, con i mezzi della sua narrazione scarna e oggettiva, senza commenti, riesce a mettere in luce il tipico in una descrizione di puri fatti. Non è una questione meramente tecnica, senza dubbio: questo risultato importante può essere raggiunto solo in quanto Solženitsyn è capace di conferire per mezzo di accenni una vitalità tipica a tutti i suoi personaggi e alle loro situazioni. La genesi e l’articolazione interna della burocrazia, gl’interessi personali di carriera che operano dietro la «sublime» oggettività della «causa», restano al difuori della cornice narrativa; nella novella essi compaiono soltanto come un presupposto evidente ma generico. I burocrati ci sono si presentati con la massima evidenza – nella loro disumanità mascherata dall’oggettività – ma non sono illuminati dall’interno, né dal punto di vista sociale né da quello umano. Più individualizzato, sempre però nei limiti di questo laconismo novellistico, appare l’entusiasmo iniziale degli insegnanti e degli scolari: al punto che l’occasionale ricordo dei «sabati comunisti» del periodo della guerra civile non suona affatto retorico. Ancora una volta la conclusione è improvvisa, come è giustificata dalla forma della novella: il sipario cade dopo che i puri fatti si sono svolti, e non c’è risposta per i problemi attuali e urgenti: che influsso hanno avuto queste e simili esperienze su maestri e scolari? In che senso esse hanno formato la loro esistenza successiva? Che uomini sono diventati nella vita di oggi? La conclusione si concretizza solo fino al momento che queste domande si pongono nei lettori accorti, nei quali esse riecheggeranno e resteranno vive per lungo tempo. Ancora una volta, dunque, dal passato staliniano si leva un accenno imperativo ai problemi centrali di oggi; ma questa volta esso appare molto più concreto, più forte, più autoritario, più inequivocabile che in tutti i racconti precedenti. Perciò questa novella non può essere intimamente conclusa e perfetta come Una giornata di Ivan Denisovič, e dal punto di vista puramente artistico non sta allo stesso livello. Ma come anticipazione di sviluppi futuri questa novella costituisce un grande passo avanti rispetto alle precedenti.

4. Oggi nessuno può dire quando si compirà un altro passo avanti, e se lo farà lo stesso Solženitsyn, o altri, o un altro. Solženitsyn non è l’unico che saggia questi nessi fra l’ieri e l’oggi. (Basta pensare forse a Nekrasov). Oggi nessuno può ancora sapere come riuscirà questo deciso avvio alla decifrazione del presente attraverso la chiarificazione dell’età staliniana, di quella che è la preistoria etico-umana di quasi tutte le persone che oggi agiscono nella realtà. Sarà decisivo il corso dell’esistenza sociale, dell’auto-rinnovamento e del rafforzamento della coscienza sociale nei paesi socialisti, soprattutto nell’Unione Sovietica, ma ogni marxista dovrà tener conto dello sviluppo ineguale dell’ideologia, in particolare della letteratura e dell’arte.

Nelle nostre considerazioni dobbiamo dunque fermarci a constatare che per la nostra questione è inevitabile il «che cosa», e lasciare completamente da parte le questioni del «come» e del «chi». Certo è che questo nuovo sviluppo del realismo socialista incontra forti ostacoli e impedimenti, soprattutto la resistenza di quanti sono rimasti fedeli alle dottrine e ai metodi di Stalin o almeno agiscono così. Intanto la loro opposizione aperta contro ogni rinnovamento è stata bensì attenuata da molti fatti, ma alla scuola staliniana essi hanno imparato l’abilità tattica, e in certe circostanze gli ostacoli creati per via indiretta possono arrecare al nuovo che deve ancora venire, e che spesso è intimamente malsicuro, più danni dei provvedimenti amministrativi vecchio stile (sebbene anche questi non manchino e possano fare i loro danni).

D’altra parte questo movimento verso qualche cosa di veramente nuovo può essere ostacolato e sviato dalle contese intellettualmente provinciali, oggi prevalenti, sulla modernità in senso tecnico-espositivo. Abbiamo già accennato che per questa via non si può ottenere alcunché di essenziale, giacché sul piano artistico ciò che interessa è di superare – nel senso più largo – quella visione della vita donde sono scaturiti in maggior parte gli stili di base naturalistica. Finché tanti scrittori restano fermi a queste soluzioni tecniche, se i seguaci settari di Stalin adottano una tattica un poco più elastica può ripetersi molto facilmente l’accennata situazione degli anni trenta, cioè si può utilizzare lo «stile» durrelliano, per esempio, per eludere i problemi reali del tempo. Anche in questo campo, naturalmente, ci sono fenomeni da prendere sul serio. In tante persone il periodo staliniano ha scosso la fede nel socialismo. I dubbi e le delusioni che così sono sorti possono essere affatto onesti, soggettivamente, ma quando cercano di esprimersi possono portare assai facilmente a una semplice imitazione di tendenze occidentali. E anche quando queste opere sono interessanti, come prodotti artistici, per lo più non riescono a superare il livello di un certo epigonismo. La visione di Kafka era rivolta in realtà al tenebroso nihil dell’età hitleriana, a qualche cosa di fatalmente reale; il nulla di Beckett invece è un mero gioco con abissi fittizi, ai quali nella realtà storica non corrisponde più nulla di essenziale. So che da oltre un secolo in certi ambienti intellettuali lo scetticismo e il pessimismo sono considerati molto più rispettabili della fede in una grande causa dello sviluppo del genere umano, la quale per suo conto, in certe fasi di transizione, può certo avere assunto aspetti problematici. Tuttavia le parole di Goethe a Valmy indicano il futuro più chiaramente di una trasformazione di donne in iene e anche nell’opera di Goethe esse rinviano all’ultimo monologo del Faust. Shelley è più originale e durerà più a lungo di Chateaubriand; Keller ha tratto dal 1848 insegnamenti maggiori e più fecondi di Stifter. Allo stesso modo oggi interessano soprattutto – in senso storico e letterario universale – coloro che dall’età staliniana sono stati stimolati ad approfondire e attualizzare la loro convinzione socialista. Anche i più onesti e i più dotati fra quelli che hanno perso questa convinzione e che producono cose «interessanti» sulla scia di tendenze occidentali, sembreranno semplici epigoni quando si spiegheranno le forze oggi nascoste, che ancora si devono rivelare.

Ripetiamo che qui non è nostro compito di porre il problema dell’avanguardismo. Sappiamo che scrittori come Brecht, l’ultimo Thomas Wolfe, Elsa Morante, Heinrich Böll e altri hanno creato opere importanti, originali e destinate probabilmente a durare. Ma qui vogliamo soltanto dire che quando una convinzione socialista delusa s’incontra con forme stilistiche dello scetticismo estraniato occidentale, alla fine ne risulta di solito un epigonismo. Non sarà necessario dire che solo nella vita stessa, nella propria vita, nel confronto con la realtà storico-sociale, le persone oneste possono superare le delusioni provocate in loro da fenomeni della vita. Qui le argomentazioni letterarie devono restare impotenti e le misure amministrative servono soltanto a rafforzare la moda come esoterismo aristocratico e ad allontanare ancor più dal socialismo chi si dedica a oneste ricerche.

Ci pare che Solženitsyn e quanti nutrono le stesse aspirazioni siano lontani da tutti gli esperimenti formali che abbiamo detto. Essi cercano di aprirsi la strada, sul piano umano e intellettuale, sociale e artistico, verso quelle realtà che nell’arte hanno sempre costituito il punto di partenza per rinnovamenti formali autentici. Ciò appare finora nella produzione di Solženitsyn, i cui nessi con i problemi di un rinnovamento attuale del marxismo potrebbero del pari essere illustrati senza difficoltà. Ma ogni ulteriore giudizio che volesse anticipare il futuro, prevedere lo stile del prossimo periodo, sarebbe teoricamente pura scolastica, artisticamente meschina pedanteria degna di un Beckmesser. A tutt’oggi si può constatare quanto segue: in avvenire la grande letteratura del socialismo oggi rinnovantesi non può essere – proprio nei suoi ultimi e decisivi aspetti formali – una continuazione diretta del primo slancio degli anni venti, un ritorno ad esso: infatti la struttura delle collisioni, la sostanza qualitativa degli uomini e le loro relazioni sono radicalmente mutate da allora. E ogni stile autentico sorge in quanto gli scrittori colgono nella vita del loro presente quelle specifiche forme dinamiche e strutturali che la caratterizzano più profondamente, in quanto essi sono capaci – qui si rivela l’originalità autentica – di trovare per esse una forma equivalente di rispecchiamento, in cui abbia espressione adeguata la loro peculiarità più profonda e più tipica. Gli scrittori degli anni venti rappresentavano il passaggio tempestoso dalla società borghese a quella socialista. Dalla sicurezza del tempo di pace, sia pure oggettivamente malsicura, a quell’epoca si andava attraverso la guerra e la guerra civile verso il socialismo. Gli uomini si trovavano in una situazione manifestamente drammatica, dovendo decidere per proprio conto da che parte stare; spesso dovevano passare – e anche in modo assai drammatico – da un’esistenza di classe in un’altra. Questi e simili fatti della vita determinavano lo stile del realismo socialista degli anni venti.

Oggi struttura e dinamismo delle alternative hanno una natura affatto diversa. Le collisioni esteriormente drammatiche sono rare eccezioni. La superficie della vita sociale sembra mutare di poco anche in periodi lunghi, e anche i mutamenti visibili procedono lentamente, per gradi. Da decenni invece, nella vita interiore degli uomini avviene un rivolgimento radicale che naturalmente influenza già ora anche la superficie della società e che in seguito plasmerà in misura sempre crescente le forme di vita. Ma nel passato, come oggi, l’accento cade sulla vita interiore, etica, degli uomini, sulle loro decisioni morali, che però possono non manifestarsi all’esterno. Ma si sbaglierebbe a vedere in questa predominanza artistica dell’interiorità un fatto analogo a certe tendenze occidentali, nelle quali l’assoluto dominio dell’estraniazione genera una vita interiore apparentemente illimitata, in realtà impotente. Qui noi pensiamo a una catena di decisioni interiori che – per il momento – non può scaricarsi, se non in casi eccezionali, in azioni visibili. Ma il suo aspetto caratteristico è una drammaticità che spesso può elevarsi a tragedia. Ciò che interessa è di vedere con quale rapidità e fino a che profondità questi uomini riconoscono il pericolo del periodo staliniano, come reagiscono ad esso e in che modo le esperienze così accumulate, le prove superate con successo o con la sconfitta, la loro fermezza, il loro crollo o il loro adattamento, la loro capitolazione, influiscano sul loro modo di agire attuale. Ed è chiaro che la soluzione più giusta consiste nel rifiutare le deformazioni staliniane per consolidare la certezza realmente marxista, realmente socialista, approfondirla e in pari tempo aprirla a nuovi problemi.

Non occorre proseguire, perché qui non possiamo pretendere di delineare neppure sommariamente tutta la situazione attuale, la sua genesi storica, le variazioni tipiche dei comportamenti umani. La nostra intenzione era di mostrare che oggi la base di esistenza impone assolutamente al realismo socialista uno stile diverso da quello che la realtà degli anni venti prescriveva alla letteratura di allora; e ci sembra che ciò risulti chiaro anche da questi scarsi cenni. E questo risultato deve bastare. Possiamo solo aggiungere che la forma novellistica di Solženitsyn nasce realmente da questo terreno. La scelta dei prossimi spunti è cosa che riguarda gli scrittori. «Je prends mon bien où je le trouve» è sempre stato il motto degli scrittori importanti e originali, che hanno sempre accettato volentieri e con responsabilità il rischio celato in ogni scelta: se cioè il «mon bien» sia realmente un bene; per i minori questo rischio può essere anche inconsistente e superficiale. Per quanto la teoria sia in grado di tracciare in anticipo i più generali lineamenti sociali di un simile mutamento, essa tuttavia è costretta a parlare solo post festum di tutti i fatti artistici concreti.

Il dibattito intorno a Lukács e le sue conseguenze

di István Mészáros

da La rivolta degli intellettuali in Ungheria, Einaudi, Torino 1958.

(Cap. 1)

Il 1948 in Ungheria fu chiamato, per iniziativa di Rákosi, “l’anno del cambiamento”, perché in quel tempo si era riusciti a eliminare dalla vita politica i vari partiti, e con essi l’opposizione al di fuori del partito comunista ungherese. Da quel momento i dirigenti stalinisti del partito iniziarono una lotta senza pietà contro l’opposizione interna, inferendole gravi colpi in tutti i campi. La prima mossa di questa lotta sul piano politico fu, nell’estate e nell’autunno del ’49, il processo Rajk, preceduto e anche seguito (data la sua lunghezza) dal dibattito su Lukács, che ne era il corrispondente ideologico-culturale. Fin dall’autunno cominciarono gli attacchi dei settari contro l’indirizzo di Lukács; poi, nel luglio del 1949 (quasi contemporaneamente alle accuse contro Rajk), con uno scritto di László Rudas rimaneggiato per ben quattro volte da Rákosi e da Révai e pubblicato nella “Rivista Sociale” – l’organo ideologico del partito –, questo attacco diveniva la linea ufficiale del partito, e si poneva al centro della vita culturale.

Naturalmente non era la prima volta che il settarismo staliniano ingaggiava una dura lotta contro i principi culturali di Lukács. Già negli anni dell’emigrazione nell’Unione Sovietica i vari Fadeev avevano ripetutamente preso di mira la rivista “Literaturnyj Kritik”, redatta sotto la sua direzione spirituale, che combatteva per il principio del realismo contro le idilliche menzogne chiamate “romanticismo rivoluzionario”, e nel 1941 avevano messo Lukács nella prigione della polizia politica russa, l’NKVD (GPU). Lo salvò solo il fatto che gli intellettuali tedeschi e austriaci – è molto significativo che non siano stati i settari emigrati ungheresi – intervennero in suo favore presso il coltissimo Dimitrov, che riusci, dopo aver penato alcuni mesi, a farlo scarcerare.

Nel 1949 parve che gli avvenimenti di Russia si ripetessero: Lukács fu bollato come “cosmopolita” – anzi da alcuni perfino come “servitore dell’imperialismo” – e gli alti funzionari del partito proibirono la pubblicazione delle sue opere sia in Ungheria che all’estero. Due suoi libri aspettavano di esser pubblicati in Polonia, in Cecoslovacchia e in Francia, ma l’intervento del partito comunista ungherese riuscì a interrompere le trattative editoriali, per cui nessuno dei libri fu stampato; e se questo non ci stupisce in una Cecoslovacchia e in una Polonia rette da stalinisti, ci meraviglia in Francia, dove Aragon avrebbe potuto facilmente mantenere la promessa fatta a Lukács nel 1948 circa la pubblicazione delle sue opere. Al contrario, egli diede severe disposizioni in materia, che non furono cambiate nemmeno durante il periodo di distensione seguito alla morte di Stalin. Solo nella Germania Orientale non si obbedì agli ordini del partito ungherese, e fu per non rinunciare al grande successo che otteneva anche nella Germania di Bonn il loro più popolare scrittore dopo Bertolt Brecht, per cui anche successivamente si pubblicarono tutti i suoi libri.

Oltre alla proibizione della pubblicazione delle sue opere, si ebbero altri elementi che dimostrarono come Lukács si trovasse in una situazione quanto mai pericolosa: furono organizzati contro di lui “grandi raduni”, nei quali si esigeva che egli “tirasse le somme”, e gli furono indirizzati ammonimenti personali. Ma il peggio non accadde. L’eco del dibattito su Lukács fu così grande in Occidente – e non soltanto tra gli intellettuali borghesi, ma anche tra quelli comunisti, molti dei quali si erano anche dimessi – che i capi ungheresi pensarono fosse meglio non mettere in prigione un filosofo di fama internazionale, benché fosse stato pubblicato nell’Unione Sovietica un articolo di Fadeev pieno di minacce.

Ai dirigenti del partito, assai occupati col processo Rajk che aveva un’importanza politica molto maggiore, parve inopportuno suscitare la reazione degli intellettuali con l’arresto di Lukács, dato che era facile comunque radiarlo dalla vita culturale ungherese. Così non si ebbe fortunatamente a ripetere la condanna che Lukács aveva avuto in Russia nel 1941; con un’autocritica formale – che anche Révai più tardi definì tale – e con l’appoggio di tutti gli strati dell’intellighenzia occidentale, egli riuscì a salvarsi dall’arresto.

È facile capire perché lo stalinismo si accanisse in tal modo contro l’opposizione in seno al partito, per la difesa di una sua supposta “unità”: detenendo essi già i pieni poteri, per i dirigenti del partito l’opposizione interna significava – e significa – il pericolo più grande, perché si ispirava ai principi veri del socialismo contro dei dirigenti inumani che li avevano accettati solo a parole ma li rinnegavano nella pratica.

Perché lo stalinismo ungherese doveva combattere la politica letteraria di Lukács? Révai si espresse in questo modo a tale proposito: «In Occidente si è cercato di immischiarsi in questo dibattito letterario e ideologico, e si va dicendo che l’“esecuzione” del compagno Lukács avviene per rompere completamente le relazioni tra la letteratura ungherese e quella occidentale, che la “liquidazione” del compagno Lukács serve a far tacere l’ultimo rappresentante dell’“alto livello” letterario ecc. ecc. Non vale la pena di discutere con la stupidità grossolana dei portavoce degli imperialisti». Ma la vera ragione, sempre secondo Révai, era invece questa: «ed in ultima istanza l’inasprimento della lotta delle classi nella nostra patria e nell’arena internazionale, e in relazione con questo l’aumento della vigilanza politica e ideologica – questi i motivi che suscitarono il dibattito contro certe opinioni del compagno Lukács che obiettivamente giovavano non a noi, alla classe operaia, al partito, ma ai vacillanti, a quelli che la politica del partito accettano di malavoglia, insomma al nemico». «La sua attività letteraria esprimeva una corrente determinata che non può essere considerata altro, dal punto di vista politico e ideologico, che una corrente di destra».

Non stupisce che Révai dovesse lottare contro una “corrente di destra”, perché tutto è a destra dell’estrema sinistra del settarismo. Ma guardiamo più da vicino le citazioni riportate: è chiaro che l’«intrusione occidentale” non ha nulla a che vedere con la “vera spiegazione”, dato che è ormai noto a tutti che gli stalinisti proprio con la parola d’ordine dell’“inasprimento della lotta di classe” ruppero ovunque i ponti con la cultura occidentale, definendola un “cosmopolitismo pericoloso”. Rileggendo con obiettività il dibattito Lukács si vede che non si trattava solamente della “ricerca dei nascondigli culturali del nemico” e di un “aumento della vigilanza”, ma della rottura delle relazioni culturali con l’Occidente – dove il nemico si celava – e dell’annullamento dell’“alto livello” perché quest’ultimo avrebbe significato una “inavvicinabilità aristocratica” e un “ostacolo allo sviluppo della giovane arte socialista”. «Quando il partito intensificava sempre più la lotta contro i capitalisti – scrisse Révai – quando l’anno del cambiamento era già da tempo trascorso, allora, nella primavera del 1949, Lukács si volse verso destra e cominciò a lottare non per il realismo socialista, ma in sostanza contro di esso, contro indirizzi letterari di tal genere e contro i loro portavoce, i quali – bene o male – rappresentavano lo sviluppo verso il “realismo socialista”». Era vero infatti che Lukács, onde salvare un realismo ad alto livello letterario, combatteva contro le cosiddette “direzioni in sviluppo verso il realismo socialista”. Era per questo che Révai doveva opporsi all’esigenza del “livello”, messo da lui tra virgolette ironiche, e al problema, in stretta interdipendenza con esso, delle relazioni con la cultura occidentale. Perché quando non si potevano assolutamente pubblicare Hemingway e Sinclair Lewis, Faulkner ecc., e quando la lettura di Kafka in una qualsiasi lingua contava come una colpa grave, si voleva far credere al pubblico ungherese che la “vera cultura occidentale di oggi” era rappresentata dalla collezione di frasi vuote e irreali di André Stil e, per la pittura, dal Fougeron, invece che da Picasso. Non era ben chiaro che con questo sistema si volevano rompere le relazioni con la cultura occidentale? Non fu certo per merito dei dirigenti del partito se questo non riuscì.

Caratterizzando scherzosamente il dibattito, Lukács raccontò l’aneddoto dei lampioni a gas di Bonn. A Bonn dunque, un tempo, gli studenti avvinazzati avevano l’abitudine di rompere a colpi di ciottoli le lampade dei lampioni a gas, dandosela poi a gambe. Ma lo studente, colpevole o no, che venisse trovato dai carabinieri, doveva pagare tutte le lampadine. Quindi – diceva Lukács – io mi devo pagare tutti i lampioni di Bonn. Il partito, dal 1945 al ’49, era concorde con la valutazione del problema della democrazia popolare data da Lukács nel 1947: «Il principio della democrazia popolare – soprattutto da noi ma anche in altri paesi – si trova all’inizio della sua realizzazione e anche se tradurrà in atto i suoi scopi non ha intenzione di liquidare il sistema di produzione capitalistico e non può quindi pensare alla creazione di una società senza classi». Ma col dibattito Lukács i dirigenti del partito pensavano di fare del filosofo il loro capro espiatorio, facendogli pagare tutte le lampade a gas che erano state rotte in prevalenza da loro.

Nel suo giudizio sulla democrazia popolare, quindi, Lukács non rappresentava una posizione particolarmente di “destra”, poiché tale giudizio era accettato da tutti nel periodo che precedette l’“anno del cambiamento”. La questione della democrazia popolare non fu dunque altro che un pretesto per portare la discussione estetica davanti al tribunale del partito, impedendole di diventare una “faccenda per specialisti”. Ma nello stesso tempo se ne profittò per dimostrare a Stalin che era compiuta quell’autocritica del concetto di democrazia popolare che egli esigeva a quel tempo. Il fine ultimo però restava sempre quello d’eliminare in modo totale i principi di politica culturale rappresentati da Lukács per poter far trionfare l’“estetica” dello ždanovismo.

Fino al 1948 i dirigenti del partito usarono la tattica di evitare i problemi delicati e tacere le loro intenzioni per attirare certi gruppi, o almeno per tentare di neutralizzarli. Questa linea tattico-politica permise che l’attività di Lukács in quel periodo assumesse un carattere quasi ufficiale, identificandosi con la politica culturale del partito. Si aveva bisogno dell’attività di György Lukács, in quel momento, per poter attirare quella parte dell’intellighenzia ungherese che simpatizzava col comunismo. Perciò gli permisero una libertà di azione di cui non si poteva prevedere la durata, e Lukács, non conoscendo i veri piani dei dirigenti del partito, sacrificò la possibilità di lunghi anni di lavoro scientifico per partecipare intensamente alle discussioni di politica letteraria del giorno.

In nessuna lingua straniera sono stati ancora pubblicati i libri tanto discussi e criticati nel corso del dibattito: Letteratura e democrazia e Per una nuova cultura ungherese, contenenti saggi e articoli, scritti, per la maggior parte, in quel periodo, e nei quali vengono espressi nel modo più chiaro i principi di politica della cultura dell’autore, principi in stridente contrasto con lo ždanovismo. In Ungheria, fino al 1948, l’anno della fine della coalizione, diverse tendenze letterarie, artistiche e filosofiche potevano ancora esprimere liberamente le loro opinioni, per cui era possibile guadagnare nuovi elementi al marxismo soltanto attraverso discussioni e analisi. Lo ždanovismo ne sarebbe stato incapace a priori, e infatti quando si è installato al potere non riesce che ad alienare tutti gli uomini ragionevoli a un “marxismo” di tal genere. Lo ždanovismo misura le sue “argomentazioni” sul metro degli ortodossi, che, essendo tali, non hanno bisogno d’esser convinti; per quel che riguarda invece le opinioni di qualsiasi altro indirizzo, non vale la pena di occuparsene, perché – come si espresse Révai – sono «stupidità grossolane dei portavoce degli imperialisti». È facile quindi immaginare che risultati possa avere l’“opera di convinzione” dello ždanovismo, quando si pensi che esso tende più a soggiogare che non a persuadere con argomentazioni convincenti, e che per esso contano più dei ciechi fedeli che non degli uomini dalle solide opinioni. E questa caratteristica dello ždanovismo non risulta da una qualsiasi debolezza personale, che potrebbe esser facilmente corretta dai suoi rappresentanti più colti e di maggior talento, bensì dall’apologetica che gli è propria e che è essenzialmente falsa. Ne è un esempio chiarissimo Révai stesso: egli è incomparabilmente più colto di tutti i creatori e gli apostoli russi dello ždanovismo messi insieme; non per nulla si nutrì della logica hegeliana, più tardi così radicalmente rinnegata. (A Lukács, per esempio, dopo la pubblicazione di Geschichte und Klassenbewusstsein non rimproverava altro che il non saper risolvere i problemi in modo abbastanza hegeliano). Quando però si trattò di divulgare il “realismo socialista”, dimenticò per il primo il gusto artistico che gli derivava dall’esser cresciuto alla scuola delle grandi opere della cultura europea, e, a un cenno del maresciallo Vorošilov dichiarò grande artista nazionale il preferito di quest’ultimo, il mediocrissimo Zsigmond Kisfaludy Stróbl, mentre nelle conversazioni private ne parlava con il massimo disprezzo. Non è quindi accaduto che il talento di Révai correggesse questa tendenza di “cultura” anticulturale; anzi è stato lo ždanovismo a modificare a suo piacimento l’indubbio talento di Révai, che oltre ad essere un settario aveva anche la smania del potere e che, con un cinismo che non conosce limiti, fece tacere ogni rimorso. Ed è proprio questo cinismo sconfinato che costituisce la base dello ždanovismo; esso vuol far credere che ciò che è bianco è nero, ciò che è cattivo è buono, che l’inumanità sia la forma più alta – purché socialista – dell’umanesimo, e che la crisi più profonda sia invece un momento di fioritura mai vista. Questo ždanovismo, nella cultura, non era che il corrispondente dello stalinismo in politica. Oggi, per esempio, in Ungheria i maggiori dirigenti fanno discorsi di questo genere: «Bisogna respingere la calunnia secondo la quale tutto il popolo avrebbe partecipato alla controrivoluzione. Con i delitti commessi in ottobre da briganti, assassini e ladri, la classe operaia ungherese non ha nulla a che fare. I traditori infiltratisi nell’esercito e nella polizia, i Maléter, i Király, i Kopácsi, si preoccuparono perché le armi non cadessero nelle mani degli operai dell’industria. La classe operaia voleva sì combattere, ma non contro il potere popolare, bensì contro le forze della controrivoluzione. La stragrande maggioranza del popolo lavoratore si mantenne salda e incrollabile a fianco del potere popolare». Bisogna riuscire a ipnotizzare la gente per poter dire che la rivoluzione di ottobre è stata fatta da banditi, assassini, ladri o traditori e che la «stragrande maggioranza del popolo lavoratore si mantenne salda e incrollabile» a fianco del sedicente “potere popolare” di Kádár (ovviamente fu per questo che si misero in movimento migliaia di carri armati russi nelle strade di Budapest il 15 marzo, giorno della festa nazionale ungherese), ma non si può pretendere di essere creduti. È comunque chiaro che lo ždanovismo è oggi più vivo che mai, con qualunque nome sia stato ribattezzato. Non è quindi inutile dilungarsi su questo fenomeno.

Al tempo del dibattito Lukács, si rimproverava tra l’altro all’accusato di aver “calunniato Lenin”, confondendo il suo principio della letteratura di partito con la dottrina di Engels sulla “poesia a tesi” (secondo la quale tutte le correnti e le opere hanno una tendenza politica). Lenin dunque così si espresse sul principio della partiticità: «Il lavoro letterario deve diventar parte del lavoro universale del proletariato, “ruota e vite” dell’unica grande macchina socialdemocratica che è mossa dall’avanguardia consapevole di tutta la classe operaia. Il lavoro letterario deve diventare parte creativa del grande lavoro organizzato, pianificato e unitario del partito socialdemocratico». Lukács invece paragonava l’attività degli scrittori nel partito all’attività del partigiano, facendone risaltare il contrasto con la disciplina diretta, per tutti obbligatoria, incondizionata, quasi meccanica, dell’armata, e con i suoi movimenti controllati. Questo paragone tendeva a sottolineare l’indipendenza relativa dello scrittore nei riguardi della rigidità, o almeno dell’interpretazione rigida della formula di Lenin. Lo ždanovismo esige al contrario che lo scrittore abbandoni incondizionatamente tutti i suoi diritti, la sua indipendenza di giudizio, i suoi pensieri e le sue convinzioni per accettare e glorificare qualsiasi forma di menzogna. Ma il principio estremamente idealista-soggettivo del Fichte che dice «se i fatti vanno contro le mie opinioni, tanto peggio per i fatti», principio rinnovato nel supposto materialismo dello stalinismo, per il quale se la realtà è piena di gravi contraddizioni e non corrisponde alle rosee direttive del partito, “tanto peggio per la realtà”, non può essere accettato dagli scrittori che in nome di una disciplina di partito. Sarebbe minacciata d’annientamento l’arte stessa, dato che essa non dovrebbe solo staccarsi dalla realtà, sua indispensabile matrice, ma dovrebbe addirittura “riflettere” nelle sue opere il contrario della realtà, finendo così in un vicolo cieco sia dal punto di vista artistico che morale. Il fatto che questo processo non sia affatto riuscito a imporsi sulla parte migliore dell’arte ungherese, e che anche la media vi si sia sottomessa solo transitoriamente, fu dovuto all’impossibilità di far presa sugli scrittori e sugli artisti con il principio della cieca disciplina di partito. Nel periodo in cui si svolse il dibattito Lukács, tuttavia, lo ždanovismo provò – con successo temporaneo e limitato – a farsi strada in questa direzione.

Lo stalinismo culturale dice ipocritamente: “riflettete la realtà”, ma nello stesso tempo pensa, ed esprime anche, col massimo cinismo: “ma riflettetela in modo che possa piacere anche a me”, quindi proprio tutto il contrario di ciò che vedete. Racconta una fiaba orientale di un tiranno, che, cieco e zoppo dalla parte destra, ordina un ritratto “bello e reale” con la minaccia della pena capitale qualora non riuscisse come egli lo intende. Dopo che alcuni pittori sono già stati uccisi, uno finalmente, più furbo degli altri, esegue il ritratto del tiranno, rappresentandolo a cavallo, visto di profilo da sinistra. L’insegnamento della fiaba è trasparente. Lo ždanovismo, in più, dà anche la ricetta per la rappresentazione di profilo, cercando di dare una forma piacevole a questo suo immorale insegnamento, e chiama la menzogna consapevole “romanticismo rivoluzionario” e quest’ultimo “essenza del realismo socialista”. Ricordo con che giusto orgoglio Lukács diceva, nel corso di conversazioni private, che non si riuscì nemmeno a fargli scrivere l’espressione “romanticismo rivoluzionario”, che egli riteneva assolutamente ascientifica, e tanto meno a fargliela accettare come concetto valido. Fin dall’inizio egli era profondamente ostile a questa parola d’ordine, ma soltanto nell’ultimo periodo poté opporsi ad essa pubblicamente. Il romanticismo rivoluzionario serviva e serve al “realismo socialista” per eliminare dall’arte proprio il realismo, in quanto “obiettivismo borghese e tendenza a veder nero”. Il “realismo socialista” improntato al romanticismo rivoluzionario è quindi una forma particolare di realismo che con questo nulla ha in comune. La vasta propaganda per questo “romanticismo rivoluzionario” e per il “realismo socialista” cominciò in Ungheria proprio col dibattito Lukács.

Un altro problema fondamentale del dibattito fu quello della “superiorità assoluta” dell’arte socialista, mille volte ribadita dal catechismo dello ždanovismo. Quando sorse il dubbio se fosse possibile chiamare arte il tentativo di inculcare la menzogna, di nascondere le contraddizioni della realtà, di sostituire ad essa le immagini irreali di uno “splendido futuro”, lo ždanovismo risolse il problema dichiarando: questo realismo socialista non soltanto è arte, ma l’arte più grande di tutti i tempi, dato che è l’arte della società superiore. Non è nemmeno paragonabile all’arte del capitalismo, e non lo si può mettere sullo stesso piano di questa, proprio perché gode delle conquiste del romanticismo rivoluzionario.

Lukács rispose a simili “argomenti” col paragone del coniglio e dell’elefante: il coniglio che salta in cima alla montagna può illudersi nella sua vanità di esser più grande dell’elefante che sta in pianura, ma naturalmente in realtà non lo è. Per appoggiare teoricamente questo paragone Lukács si riferiva al principio della “ineguaglianza di sviluppo” di Marx, secondo il quale «… non è affatto necessario che tutte le fioriture economiche e sociali determinino una fioritura letteraria, artistica, filosofica ecc.; non è affatto necessario che una società economicamente superiore ad un’altra abbia necessariamente una letteratura, un’arte, una filosofia superiori». Si può facilmente immaginare come in Ungheria il richiamo al principio deill’ineguaglianza di sviluppo dovesse essere considerato un’eresia, in un tempo in cui tutti i prodotti dell’arte sovietica, anche i più scadenti, dovevano essere esaltati, e servire da modello alle opere d’arte ungheresi, poiché, secondo la linea ufficiale del partito, la misura del vero patriottismo era il grado di amore verso l’Unione Sovietica. È ovvio che in tali circostanze il paragone del coniglio proposto da Lukács era uno dei più grandi ostacoli a quella “politica culturale” che si era prefissa lo scopo di far trionfare ovunque il servilismo.

Si rimproverò a Lukács di non essersi occupato della letteratura sovietica, superiore a tutte; e l’autocritica che egli fece in merito fu definita insufficiente, perché «… essa non giunge in profondità, non è abbastanza conseguente». E questo naturalmente era vero. Lukács cercò di parare i colpi dell’accusa dicendo che le sue conoscenze in materia di letteratura sovietica erano troppo limitate. Révai però rifiutò queste spiegazioni «perché Lukács, vivendo nell’Unione Sovietica negli anni ’30, partecipò alle discussioni che si svolsero laggiù ed espresse le sue opinioni su importanti problemi della letteratura sovietica. Non si tratta piuttosto del fatto che il suo silenzio in Ungheria negli anni seguiti al ’40 è in stretta relazione col suo intervento nei problemi della letteratura sovietica a Mosca negli anni seguiti al ’30? Noi pensiamo che si tratti di questo, e non dei difetti nella preparazione scientifica di Lukács. Il dibattito che si svolge oggi intorno alla teoria letteraria del compagno Lukács è in sostanza la continuazione dello stesso dibattito che fu diretto contro di lui negli anni ’30 nell’Unione Sovietica». Révai aveva completamente ragione per quel che riguardava quest’ultimo fatto, come del resto quando esprimeva il suo dubbio a proposito della “profondità dell’autocritica”. Il problema è solo quello di come si debba giudicare questo dibattito, iniziato da tanto tempo, e di come si debba interpretare il rifiuto dell’“autocritica conseguente”. Ma il dirigente settario e infallibile non pensa neanche per un momento di poter sbagliare, e che in una discussione anche l’altra parte in causa possa aver ragione. Egli non ricerca dietro a un atteggiamento le cause che lo hanno determinato, di qualsiasi persona si tratti: egli detta sentenze non sopportando nessun genere di contraddizione e non riflette affatto se incontra una imposizione. Goethe disse una volta con molta saggezza: «se ti batti un libro in testa e senti suonar vuoto, non è detto che sia il libro», ma i settari non sono disposti a imparar nulla da questa metafora. Non ascoltano nemmeno Lukács, chiedendogli le ragioni per cui non si occupa intensamente della letteratura e dell’arte sovietiche, ma semplicemente lo forzano a farlo. E quando egli sceglie per analizzarle le opere di valore del primo periodo della letteratura sovietica, ignorando quasi del tutto i prodotti nati ai tempi e nello spirito dello ždanovismo, non riflettono su ciò, e non cercano le ragioni di questa scelta, perché potrebbero trovarvi insegnamenti loro sgradevoli: si accontentano di condannarla.

Lukács condusse una lotta veramente serrata – purtroppo senza risultato – nell’Unione Sovietica, negli anni seguiti al ’30, contro la pratica letteraria dello ždanovismo e contro la politica culturale dei vari Fadeev, e il dibattito del ’49 non ne era che la continuazione, e vi era sempre implicato Fadeev. Un giorno costui, in stato di ubriachezza “confessò” a Michail Lifšic, amico di Lukács, di saper benissimo quanto fosse immorale la strada che stava seguendo, ma che non era capace di cambiare, perché si sentiva debole ed era quello l’unico modo di farsi valere. (Il giorno seguente, naturalmente, per riparare alla confessione, e per mettersi la coscienza in pace, scrisse un duro attacco contro la tendenza di Lukács, tanto lodata la sera prima). Tuttavia, questo “farsi valere”, se lo fece diventare, come premio per la denuncia e l’arresto di tanti suoi compagni di professione, la figura più in vista della politica culturale, e gli fruttò tutti i riconoscimenti ufficiali possibili, nello stesso tempo trasformò il buon scrittore de La disfatta nel cattivo pubblicista del romanzo giornalistico e superficiale La giovane guardia, scritto con un vuoto pathos retorico che è l’equivalente artistico della degradazione umana. Non è impossibile che anche Révai la pensasse come Fadeev ubriaco, nei momenti di sincerità – se pure aveva tali momenti e se non posava anche con se stesso –: comunque dal periodo del suo eccellente saggio su Kölcsey fino al dibattito Déry, anzi, fino al suo articolo del 7 marzo 1957 scritto in difesa di Rákosi, la via del suo “sviluppo” è molto affine a quella di Fadeev. Ma quale che fosse la sua opinione personale, in pubblico incensava sempre la letteratura e l’arte sovietiche. E Lukács doveva tacere le sue opinioni a questo riguardo. L’indubbia crisi in tutti i campi dell’arte sovietica rifletteva a suo modo, in forma molto indiretta, e cioè nell’enorme abbassamento del livello artistico, la crisi economica e politica della società. Ma i dirigenti politici staliniani non erano disposti ad aprire gli occhi di fronte a questi indizi, come non lo saranno più tardi anche in Ungheria nei confronti degli scrittori ungheresi. Nel dibattito Lukács la parola dell’opposizione fu soffocata senza alcuna pietà e si cercò di costringere i rappresentanti di tutti i campi dell’arte ungherese a fabbricare le loro opere secondo le ricette sovietiche, preparate dai dirigenti del partito, staccandosi completamente dalla realtà magiara. Senza liquidare la tesi sulla ineguaglianza di sviluppo e “il paragone del coniglio e dell’elefante”, propri di quella politica culturale di Lukács, considerata fino al ’48 quasi ufficiale, ovviamente non avrebbero mai raggiunto il loro scopo.

Se ci chiediamo perché il partito ungherese sia divenuto un adepto così entusiasta e zelante dello ždanovismo, la risposta ci è data dal dibattito Lukács: per il suo inguaribile settarismo. E Lukács dovette esser messo in disparte anche perché, fin dal primo momento, combatté contro di esso. Così scrisse Révai contro Lukács – difendendo il settarismo del partito ungherese: «Al compagno Lukács ciò pare “settario” perché egli ritiene settaria la politica comunista di prima del fronte popolare, che aveva come scopo strategico la dittatura del proletariato, ed egli considera giusta la politica dal momento della lotta contro il fascismo, della politica di fronte popolare, dal tempo in cui ci si prefisse come scopo quello della democrazia popolare, dimenticando che non si trattava d’altro che di una deviazione storica alla quale siamo stati forzati dal fascismo; non si trattava del cambiamento di una linea politica interamente ingiusta, settaria, con una giusta politica popolare». Queste righe non sono state scritte da una persona qualunque, ma dal teorico ufficiale del partito comunista ungherese, e quel che è più degno di attenzione è che con esse si voleva contestare l’esistenza del settarismo di partito. E qui non si tratta in primo luogo del problema della parte che ebbe il settarismo del partito comunista tedesco nella vittoria del nazifascismo bensì di qualche cosa di molto più vasto: del concetto cioè che considera il fronte popolare come un transitorio cambiamento tattico causato dalla deviazione storica e non come assoluta necessità dello sviluppo interno storico e sociale. E che cos’è questo se non settarismo allo stato puro? E se così è la “difesa”, si può immaginare che cosa dovesse essere la parte della politica del partito che Révai stesso doveva riconoscere settaria. Révai potè diventare il teorico ufficiale del partito proprio perché aveva principi in perfetta armonia con la prassi settaria del partito. Questa linea politica e questo sfondo ideologico, ambedue fatalmente settari, determinarono l’attività del partito ungherese fin dall’inizio e naturalmente anche negli anni seguiti alla rivoluzione. I suoi dirigenti aspettavano solo il momento in cui l’armata sovietica avrebbe creato una situazione favorevole all’abbandono della “deviazione storica” delle concessioni tattiche di carattere popolare e al ritorno alla via del settarismo, così cara ai loro cuori. E qui appare tutta la profonda differenza che separava Lukács dai rákosisti quando si pronunciavano in modo apparentemente analogo sulla democrazia popolare: Lukács pensava seriamente ciò che diceva, mentre gli altri consideravano le loro promesse, infiorate di detti e proverbi populisti, soltanto come una spiacevole necessità tattica. La stessa cosa avveniva naturalmente anche nel campo della politica culturale: Révai ne parlava assai chiaramente nel 1950, quando non era già più necessario far uso della tattica. Perché, secondo lui, «…proprio la divulgazione e l’analisi seria della letteratura sovietica avrebbe potuto dare, allo sviluppo letterario della nostra democrazia popolare, la prospettiva socialista, in un tempo in cui per ragioni politico-tattiche, non potevamo ancora usare la parola d’ordine del realismo socialista». Non è difficile immaginare, dopo queste parole – quando le ragioni politico-tattiche erano cadute e tutto il potere era nelle loro mani – che genere di politica culturale praticassero i dirigenti del partito in Ungheria, dove l’unica via giusta sarebbe stata quella della democrazia popolare, sia nella vita politico-sociale che in quella artistica.

Il dibattito Lukács ebbe inizio un quarto di secolo fa non soltanto sul piano estetico, ma anche su quello politico, anzi incominciò prima del tempo della lotta contro i Fadeev. Lukács, nel partito ungherese apparteneva all’ala Landler, e fin dal principio fu l’oppositore pili accanito del leader del settarismo, Béla Kún; e già nel 1929, nelle Tesi di Blum (pseudonimo di Lukács) egli proclamava la necessità di una politica di fronte popolare, benché in quel tempo il nazifascismo non rendesse ancora necessaria la “deviazione storica”. Le Tesi di Blum furono naturalmente respinte e condannate dal Komintern dominato dal settarismo, e quando, molto dopo la vittoria del nazifascismo, la politica del fronte popolare divenne la linea ufficiale, a Lukács – sospeso, in seguito alle sue Tesi di Blum, da tutte le attività nella direzione del partito – non fu resa giustizia, ma si nascosero invece le “tesi” per poter mantenere, anche in futuro, le accuse contro di lui. Così, nel corso del dibattito Lukács del 1949, Révai potè molto tranquillamente falsificare il senso delle Tesi di Blum, poiché all’autore era impossibile rispondere con una documentazione. Le tesi furono presentate soltanto nel 1956, a un pubblico ristretto, quando, in seguito alla pressione del movimento intellettuale, furono all’improvviso “ritrovate” nell’Istituto del Movimento Operaio a Budapest. (Il pubblico più vasto non le conosce tuttora).

I rákosisti quindi, nel ’49, con il dibattito Lukács, non vollero ottenere soltanto dei risultati culturali, ma cercarono anche di dar una certa legalità alla loro linea politica interamente settaria, e dissero che le soluzioni nello spirito della democrazia popolare erano un anacronismo, che avevano il significato tattico di una deviazione storica, per poter poi rivestire la loro fatale politica col “pathos eroico” della giustificazione storica, appoggiandosi su questa base teorico-ideologica. Incoraggiamenti in questo senso erano giunti naturalmente, come risulta chiaramente dalla storia delle Tesi di Blum, dall’Unione Sovietica, ma questo non toglie che essi fossero in armonia con lo spirito settario della direzione del partito ungherese. L’intervento di Révai nel dibattito Lukács, scritto nel 1950, servì nello stesso tempo a tesser le lodi degli assassini di Rajk e dei suoi compagni, di quei dirigenti del partito ungherese, che, guidati dal loro settarismo, non indietreggiavano neppure di fronte alla più grande inumanità: ed effettivamente i rajkisti rappresentavano una linea politica molto simile a quella teorica di Lukács.

Lo ždanovismo, con l’aiuto di questo retroscena politico e della violenza, potè così trionfare in Ungheria per un determinato periodo, almeno apparentemente. Esso introduceva nel campo della cultura la disciplina cieca di partito, nella stampa la lode incondizionata e permanente dell’Unione Sovietica, nell’arte il rifiuto di scorgere le contraddizioni della realtà e l’abbellimento di una situazione che andava tempre peggiorando; o almeno pretendeva di ottenere tutto questo. Ma non riuscì a far altro che distruggere i non pochi risultati positivi che la politica culturale di Lukács aveva potuto realizzare negli anni precedenti.

Lukács non aveva mai voluto far credere ciecamente, ma convincere artisti e scrittori, e aveva così spinto i rappresentanti degli indirizzi più diversi a esaminare problemi d’attualità della vita culturale. Zoltán Kodály, per esempio, durante un discorso accademico rivolse un giorno questa domanda a Lukács: «Ma me lo dica sinceramente, qual è poi il marxismo? Quello proclamato da lei o quello che vanno predicando nel partito? Perché se è quest’ultimo io non ne voglio nemmeno sentir parlare». Nel corso del dibattito e anche in seguito pareva che non vi fossero dubbi in proposito: Lukács non avrebbe avuto nulla a che fare con il marxismo, dato che egli sarebbe stato un «cosmopolita», un «revisionista di destra». Lo ždanovismo più settario e limitato usurpò il titolo di «vero marxismo», mentre l’ordine soppiantò la convinzione. Non deve quindi stupire che in Ungheria uomini di grandissimo valore voltassero le spalle, con il massimo disprezzo, a questo tipo di marxismo.

Anche la soluzione settaria del problema delle relazioni con la cultura occidentale produsse enormi danni allo sviluppo culturale ungherese. Perché – anche nel caso che la cultura sovietica fosse stata superiore a ogni altra, come si assicurava – ci voleva un’estrema cecità politica per permettere disposizioni che rompessero radicalmente le relazioni dell’Ungheria con quella cultura cui era legata da tradizioni millenarie, mentre le relazioni con l’arte russa erano sempre state transitorie e casuali. Ma quando il potere supremo dava ordini, «fattori sentimentali così risibili» non contavano più nulla.

I dirigenti del partito risolsero il problema della relazione con la situazione culturale di prima e durante la seconda guerra mondiale con lo stesso “radicalismo” con il quale avevano tagliato i ponti con la cultura occidentale, dimenticando di proposito che nella maggior parte dei casi si trattava di due tappe diverse dello sviluppo delle medesime persone. Ed anche a questo proposito la soluzione di Lukács e quella di Révai stavano in netto contrasto l’una con l’altra. Così Lukács s’accostava a questo serio problema, la cui soluzione era ancora lontana: «… l’inestirpabilità della concezione del mondo della torre d’avorio ha profonde e serie radici sociali. Essa è una protesta contro la fondamentale tendenza antiartistica del capitalismo. Ma questa protesta dell’“arte pura” contro la bruttezza e la mancanza di spiritualità del capitalismo, può volgersi avanti o indietro, può esser progressiva o retrograda secondo quando, contro chi e con quale accento si manifesta. È comprensibile che una parte notevole della letteratura ungherese si sia difesa anche in questo modo nel quarto di secolo della controrivoluzione, e specialmente negli ultimi, terribili anni». Révai, invece, durante il dibattito, così fece tacere Lukács: «Questa “comprensione” verso “l’arte pura” è una deviazione dalla via dell’estetica marxista e rende quasi completamente vani anche gli altri interventi di Lukács contro l’illusione degli scrittori “di essere al di sopra della società”. No, la concezione del mondo della torre d’avorio non è mai stata e non potrà mai essere progressiva! Non bisogna “comprendere” e scusare questa concezione del mondo, ma combatterla!» È noto che la maggior parte dei critici di Lukács gli rimprovera a questo proposito di risolvere troppo categoricamente in alcuni punti il problema della decadenza moderna; ebbene, la posizione di Révai è totalmente opposta, poiché egli definisce la relazione di Lukács come una intollerabile “comprensione” e “giustificazione”. Non v’è alcun dubbio sull’accoglienza che questa “teoria militante” dovette trovare presso gli interessati, cioè presso la parte migliore del mondo della cultura ungherese. Anche se non fu possibile, per lungo tempo, cambiare la situazione, neppure questa “teoria militante” riuscì, nonostante tutti i suoi sforzi, a evitare la possibilità della “resistenza passiva”.

Il dibattito Lukács potè quindi ridurre al silenzio, in questa atmosfera politica, l’opposizione, il che non significava però abolire le contraddizioni, ma inasprirle senza lasciarle sfogare. Qualche anno più tardi, rotto il ghiaccio del silenzio, una volta Rákosi disse a Lukács a proposito degli atteggiamenti critici dell’intellighenzia ungherese (Lukács riferì questa frase davanti al pubblico del Circolo Petöfi): «Che parlino pure, poi romperemo loro la testa». Ai tempi del dibattito Lukács però i dirigenti del partito non conoscevano ancora il significato di questa tattica più astuta, non ne avevano neppure bisogno, ma nella consapevolezza di detenere i pieni poteri usavano invece quest’altra parola d’ordine: «Che osino parlare, romperemo loro la testa!» E naturalmente non poteva andar diversamente all’epoca del processo Rajk.

Il dibattito Lukács aprì la strada allo ždanovismo. Révai da questo momento divenne il padrone assoluto del campo culturale, e va da sé che fece uso del suo potere fino all’estremo limite. Nessuno mai era riuscito, in Ungheria, a nuocere tanto allo sviluppo della cultura quanto Révai per mezzo della sua politica settaria. Egli spazzò via dal suo cammino tutti coloro che osavano manifestare un’opinione contraria alla sua, anche se a bassa voce, fin che fu al potere. Si deve soprattutto a Révai se il periodo che va dal dibattito Lukács al giugno 1953 (data in cui salì al potere Imre Nagy) fu l’epoca più oscura della cultura ungherese.

La polemica sull’opera di Giorgio Lukacs

di Massimo Caprara

«Società», 2, giugno 1950

Un pubblico dibattito su questioni culturali come quello recente d’Ungheria, condotto per vari mesi con vari interventi e giudicato come fatto per se stesso importante ed utilissimo per lo sviluppo della società e dello Stato, è cosa che stupisce ed irrita ancora i tutori della cultura tradizionale, che da cattolica e perciò universale s’è ridotta da qualche tempo a chiamarsi e ad essere in pratica soltanto occidentale ed europea. Ma tant’è: a parte il fatto che da noi gli interventi dello Stato in questioni di tal genere si riducono all’affannata ingiunzione di rifar brachettoni alle statue, gli zelanti paladini della libertà delle idee hanno in fondo di che meravigliarsi: prima di tutto per il metodo col quale queste discussioni vengon condotte, eppoi, naturalmente, per il loro contenuto, in verità, affatto nuovi per le cronache di questi anni tutte zeppe e gonfie e osannanti all’ultima creazione di questa o quella conventicola, di questa o quella privatissima tendenza di scrivere o dipingere, da pochi conosciuta, irrisa dai più. Certo, il tono usato e gli argomenti dei contraddittori ci pare differiscano assai dalle velenose improperie che caratterizzano gli scritti polemici degli intellettuali «occidentali». Guardate quel Koestler, ad esempio, che al recente congresso di un gruppo di «uomini di cultura» (e non sapremmo tipizzarli meglio se non dicendo che la loro caratteristica è quella d’esser sempre, assolutamente, ovunque favorevoli all’uso dell’atomica) aggrediva definendo, tout court, imbecilli o «demi-vierges»della democrazia quegli intellettuali che non si schierano subito e senza troppe riserve o pedanti distinzioni per il blocco di guerra anticomunista.

Un metodo nuovo dunque, in queste discussioni d’Ungheria, un tono di pacato e chiaro commercio di idee su argomenti bene individuati. E subito gli interessati scrittori occidentali si son preoccupati della salute personale di Lukács (perché appunto alcuni aspetti della sua opera sono stati sottoposti da più parti ad una critica), dei pericoli che egli corre, della tradita e manomessa sua libertà di pensare e di scrivere. Per lui è già pronto il vagone cellulare, o i ceppi insopportabili delle prigioni di Stato o l’inoltro in regioni durissime ed asperrime dove la vita è impossibile: si tratterà evidentemente di quell’angolo di spietata Siberia che, secondo il costume oleografico dei propagandisti marshallizzati, ogni paese dell’est ha bell’e pronto e organizzato per gli intellettuali recalcitranti. Esprit tenta addirittura una commemorazione di Lukács a mo’ di necrologio come se si trattasse ormai nient’altro che di registrare una dipartita dolorosa. E Les temps modernes come una cassandra spaventata piange sulla triste sorte che sembra toccare, secondo il maldestro redattore dell’articolo, a chi s’allontana dalla via salutare e maestra dell’idealismo. In verità non sapremmo scegliere reazioni più sconnesse e meno «culturali» a un fatto di cultura come sono le recenti discussioni avvenute in Ungheria: è il solito armamentario della polemica culturale borghese che per metodo trascura l’esame obiettivo dei fatti e parte costatando che quanto dice e sostiene l’avversario altro non è, né potrebbe essere, se non una congerie «di ossessioni deliranti» e così crede d’aver esorcizzato e incenerito la tesi dell’avversario.

Lukács dunque sembra godere buona salute e nessuno gli ha rivolto gli insulti e le apostrofi sbracate che abbiamo sentito in bocca di altri. Se la cosa si limitasse solo a questo dovremmo cominciare a registrare in un tal modo di condurre le discussioni almeno un elemento di novità nell’estrema pacatezza e chiarezza con cui ciascuno espone il suo pensiero: un fatto, a ben pensare, al quale siamo ormai disabituati dacché persino un venerando profeta dell’idealismo ha cominciato a voler annichilire gli avversari tirandogli addosso l’accusa di anticristo o avvertendo o dichiarando odor di zolfo luciferino dietro le tesi di chi non è d’accordo con lui. È vero che laggiù, essi dicono, l’oppressione tolse da tempo di mezzo l’amata libertà: ma che razza d’oppressione o dittatura ideologica è mai questa, se «l’accusato» trova posto per i suoi articoli nelle riviste ufficiali del partito e dello Stato, e qui risponde a chi lo critica, e confuta o accetta in parte e respinge e argomenta liberamente come si fa tra persone veramente interessate alle cose che si discutono e non soltanto agli aspetti personali ch’esse possono rappresentare?

Abbiamo detto dunque del metodo e del tono nei loro aspetti che ci sembrano assai in disuso in queste coltissime e raffinate regioni occidentali. Quanto all’intervento di uomini di Stato e membri del governo nella discussione la cosa merita ancora un istante di riflessione, e pensiamo che le conclusioni vadano a tutto vantaggio della nostra tesi: che il progresso autentico delle scienze e delle arti viene assicurato permettendone, anzi promuovendone l’inserimento nella vita e nella realtà sociale e non lasciandole ai margini come uno svagato e delicatissimo giuoco di invenzione di miti. La società socialista ed il marxismo-leninismo concorrono a creare un tipo nuovo non solo di uomo politico ma anche di scienziato ed artista, libero dalle fumose astrazioni del «genio e sgretolatezza» o dall’aperto disprezzo per le cose d’ogni giorno. In Ungheria, per esempio, il compositore Zoltan Kodaly, noto anche all’estero, siede al Parlamento fra i legislatori del suo paese e nessuno potrebbe dire che egli non vi metta lo stesso accorto impegno che nel suo mestiere di musicista. E come non ricordare i recenti interventi di Stalin nelle questioni della linguistica o i rapporti di Zdanov o i discorsi politici di Fadeev, romanziere ma anche acuto militante politico, uomo nuovo nel senso antico e umanistico del termine? Qui davvero i fatti di cultura diventano patrimonio di masse e così traggono un continuo alimento per vivere e prosperare. Sarebbe assai strano se in un paese che ricostruisce dalle fondamenta il suo futuro le questioni della cultura e dell’arte venissero lasciate alla spontaneità più caotica o alle sole diatribe dei clubs e delle società di lettere. Sarebbe come se, in un paese la cui ricostruzione è regolata con un piano, la costruzione di quel ponte o di quella centrale venisse lasciata al libero arbitrio di un gruppetto di pur valentissimi tecnici e non se ne fissassero invece o se ne discutessero prima i principi direttivi, e poi i particolari e le funzioni, eccetera1. Gli unici a dolersi di questo nuovo corso nelle cose della scienza e delle arti non sono gli scienziati e gli artisti ma semmai proprio i loro nemici camuffati, quelli che d’un romanziere o d’un critico vorrebbero fare una specie del falcone accecato che s’usa nelle cacce, che non può più vedere il sole o la pioggia o l’aria che gli sta intorno ma serve soltanto alla ricerca della preda, legato per sempre a quella sua schiavistica funzione.

Indicati così gli aspetti preliminari e non per questo secondari del nostro tema, ci rimane il nocciolo della questione: e cioè la sostanza delle critiche rivolte al filosofo ungherese Giorgio Lukács. La discussione fu aperta dal noto teorico marxista testé scomparso Ladislao Rudas con un articolo apparso sulla Rivista sociale nel giugno ’49. In esso venivano mosse le prime fondamentali obiezioni alle posizioni di Lukács a proposito della letteratura sovietica, ma da questo la discussione s’allargò immediatamente sino alle origini ideologiche, alla base politica sulla quale quelle tesi poggiavano. In effetti fu acutamente osservato che Lukács portava nel suo lavoro le conseguenze negative di una stortura di carattere politico. Nel 1946 egli infatti scriveva: «La nouvelle démocratie n’a pas supprimé et n’a pas non plus l’intention de supprimer le caractère capitaliste du système de production…».2 E ancora dopo la liquidazione della cricca antinazionale di Ferenc Nagy chiariva così il suo punto di vista riguardo le differenze di sviluppo tra l’Unione Sovietica e le democrazie popolari: «La grande revolution de 1917 a anéanti en Russie l’ordre social capitaliste et a créé, en l’espace d’une generation, une société sans classes. Le principe de la démocratie populaire – surtout chez nous, mais aussi dans maint autre pays – se trouve au début de son entrée en pratique et, même si elle ne réalise pas ses buts, ce n’est pas son intention de supprimer le système capitaliste de production…». È pur vero che a quell’epoca il contenuto ideologico delle democrazie nuove dell’Europa Orientale poteva non essere del tutto chiaro com’è oggi, ma è altrettanto vero che quella posizione che sopra abbiamo chiarita celava un inesatto giudizio sulle linee di sviluppo politico e sulle prospettive economiche dell’Ungheria. Già allora l’ordine nuovo conquistato dalla classe operaia ungherese con l’aiuto risolutivo dell’esercito rosso aveva rotto gli schemi del capitalismo e oltre quelli progrediva inaugurando una civiltà e rapporti autentici di vita. Il capitalismo tirava ormai le sue cuoia e già si apprestavano le difese per impedirne la resurrezione sotto spoglie surrettizie. Non si trattava pertanto di una assurda convivenza politica, ma di una egemonia conquistata col sangue – e già palese e determinante – della classe operaia. Così stando le cose non era possibile assegnare alla cultura e alle lettere un compito di margine, né agli uomini di cultura e ai letterati un posto di svagati spettatori dinnanzi alla grande lotta ingaggiata dal popolo: non era più possibile per nessuno limitarsi alla critica del vecchio mondo che scompariva: si trattava per ognuno di dare un contributo efficiente alla creazione del nuovo. Ecco perché è inesatta l’affermazione di Lukács secondo la quale: «La littérature propre à la démocratie nouvelle est le réalisme. Naturellement, dans le sens large et profond où Shakespeare et Goethe, Balzac et Stendhal, Dickens et Tolstoi sont les vrais réalistes» (e da un’impostazione come questa discendono certe sue abnormi deformazioni: Goethe divenuto niente meno che un ardente giacobino).

Marx ed Engels riconobbero per primi la grande funzione d’avanguardia che è propria del realismo critico borghese. Engels in particolare ricorda che un gran merito del realismo risiede nel fatto che esso «dissipando con il disegno fedele della realtà i sogni convenzionali che sono usi a dominarla, scuote l’ottimismo del mondo borghese anche quando non è poi in grado di dare esso stesso una soluzione immediata o anche quando, in alcuni casi, non prende neppure una posizione». Ma può bastare tutto questo al letterato, romanziere o poeta o critico d’arte, a un uomo nuovo delle democrazie popolari e del socialismo? Engels stesso, pur dichiarando la sua simpatia motivata per i grandi creatori e realisti del XIX secolo, pensava «a una forma superiore di realismo». Nella prefazione alla traduzione italiana del Manifesto (Londra 1893) egli dice: «Il Manifesto del Partito comunista rende piena giustizia all’azione rivoluzionaria del capitalismo nel passato. La prima nazione capitalista fu l’Italia. Il chiudersi del medioevo feudale, l’aprirsi dell’era capitalista moderna sono contrassegnati da una figura gigantesca: quella di un italiano, Dante, al tempo stesso l’ultimo poeta del medioevo e il primo poeta moderno. Oggi, come nel 1300, una nuova era storica si affaccia. L’Italia ci darà essa il nuovo Dante, che segni l’ora della nascita di questa era proletaria?» Dunque non si trattava soltanto, nell’Ungheria del 1948, di rifar Dante o Balzac o tali e quali Dickens e Molière ma semmai di saper dare al loro realismo senza principi il contenuto nuovo delle democrazie popolari, non solo la critica di ciò che andava morendo ma l’esaltazione e l’invenzione del protagonista nuovo della storia: del lavoratore rivoluzionario, del difensore della pace, del costruttore del socialismo. Se Dante si fosse solamente limitato alla devota agiografia dei suoi contemporanei, alla poesia didascalica dei suoi maestri, di ben poco la Commedia s’innalzerebbe sul paesaggio ancor chiuso della cultura medioevale: è l’uomo nuovo che apprezziamo in lui, l’uomo già rinascimentale e libero da soggezioni innumerevoli e innumerevoli pregiudizi. Guai per il progresso della cultura se bastasse rifare i gesti o echeggiar la voce dei grandi maestri del realismo; quel che conta è saper fare di un tale realismo un’arme rivoluzionaria diretta allora, come per Balzac, contro la borghesia già vittima della propria letale involuzione, oggi contro il capitalismo morente per l’affermazione di un mondo nuovo, per la difesa dell’aspirazione di milioni di uomini alla libertà e alla giustizia. Alla libertà e alla giustizia non dell’epoca, poniamo, degli illuministi o di Voltaire (assurdità inconsapevole di certi meri richiami all’ordine razionalista!), ma alle esigenze di libertà e di giustizia come concretamente esse si pongono nell’epoca dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria3.

In tal senso va interpretata la critica rivolta da Martin Horvath, membro dell’ufficio politico del Partito Ungherese dei Lavoratori alle posizioni di Lukacs4 «Il realismo borghese – egli dice – nonostante la sua innegata grandezza, ha i suoi limiti, non nel senso artistico del termine, ma in senso sociale». L’autocritica alla quale Lukács aveva sottoposto le sue posizioni dopo l’articolo di Rudas non era pertanto riuscita a toccare il fondo dell’errore5. Partendo dalle sue stesse posizioni d’attacco contro la letteratura semplicemente descrittiva e verista della decadenza borghese e difendendo contro di essa i grandi classici realisti, Lukács sottovalutava, e in maniera pericolosa e ingiustificata, le conquiste della letteratura sovietica. In un vecchio libro pubblicato nel 1936 egli sosteneva infatti che: «Nous pouvons à juste titre poser la question de savoir si la critique que nous avons formulée à propos des méthodes essentiellement observatives et en majeure partie descriptives de la littérature bourgeoise d’après 1848, est valable aussi pour la littérature soviétique. Malheureusement il nous faut répondre à cette question par l’affirmative». Più tardi egli sostiene posizioni di tal genere con una goffa applicazione allo stadio raggiunto dalla letteratura sovietica della legge dell’ineguale sviluppo: «Il n’est absolument pas indispensable qu’un essor économique et social entraine un essor littéraire, artistique, philosophique, etc. Il n’est absolument pas indispensable qu’un société économiquement supérieure à une autre possède de ce fait une littérature, un art et une philosophie supérieurs à ceux de l’autre».

Appunto partendo da queste affermazioni, in un successivo contributo alla discussione, Joseph Revai, segretario generale aggiunto del Partito Ungherese dei Lavoratori, chiarisce i difetti di questa impostazione in un articolo pubblicato recentemente sulla Rivista sociale6. In che senso vanno intese le dichiarazioni di Zdanov («Le deficienze della nostra letteratura riflettono il ritardo della coscienza sull’economia, ritardo che d’altra parte i nostri uomini di cultura non sono i soli a presentarci») e quelle di Stalin al XVII congresso del Partito bolscevico («Possiamo noi affermare già di avere eliminato dalla nostra letteratura tutte le sopravvivenze del capitalismo? No, una tale affermazione sarebbe impossibile. E ancor meno potremmo dire di aver fatto scomparire le sopravvivenze del capitalismo dalla coscienza degli uomini. E questo, non soltanto perché l’evoluzione della coscienza degli uomini è in ritardo su quella della situazione economica, ma anche in ragione della esistenza dell’ambiente capitalistico che si sforza di suscitare e di sostenere le sopravvivenze del capitalismo in Unione Sovietica»)? Nel senso evidentemente che una ineguaglianza di sviluppo esiste pure nel regime socialista, ma che questa ineguaglianza è del tutto diversa e non produce effetti come quelli lamentati da Lukács: al contrario, l’essenziale non sono il ritardo, le diseguaglianze, ma l’armonia sempre crescente e progressiva tra sviluppo economico e conquiste ideologiche. Per questo Zdanov poteva affermare che nonostante i difetti criticati, «I successi della letteratura sovietica traducono i risultati e i successi del nostro regime socialista. La nostra letteratura è la più giovane delle letterature di tutti i popoli e di tutti i paesi. Ed è anche la letteratura più avanzata, più rivoluzionaria e più ferrata ideologicamente. La letteratura sovietica è riuscita, essa sola, a diventare una letteratura rivoluzionaria di pionieri poiché essa è carne e sangue della nostra costruzione socialista». Tutto questo vuol dire che al fondo di ogni eventuale confronto sta la certezza della superiorità innegabile della cultura socialista e sovietica sulla cultura imperialista e decadente. La superiorità di cui parliamo sta nel contenuto di classe, e non diciamo soltanto nell’argomento o negli oggetti della sua ispirazione, di cui si vale la letteratura del socialismo. La superiorità di cui parliamo risiede nel fatto che la letteratura sovietica tratta in forma artistica delle aspirazioni e delle lotte non della borghesia decaduta ma del creatore del mondo nuovo, degli stakanovisti e dei vincitori del nazismo e ne tratta e ne parla e ne fa tessuto d’ogni sua creazione sulla base della ideologia più avanzata e moderna che non è né l’illuminismo né il materialismo volgare, ma il marxismo-leninismo. Un contenuto di classe, dunque, della classe proletaria, e la sua dottrina rivoluzionaria costituiscono i certi segni della superiorità della cultura sovietica su tutte le espressioni del passato o del mondo occidentale. A chi volesse riprove e ostentasse incredulità basterebbe indicare la differenza, non soltanto ambientale, tra un personaggio sartriano e un protagonista, poniamo della Giovane guardia:e il senso del confronto sarebbe chiaro d’un subito, senza equivoci, come può esser chiara la differenza che passa tra un «eroe» sensitivo ed estetizzante di Malraux e la Agnese partigiana contadina, semplice e dura che difende la sua casa e la sua valle.

1 In questo senso chiaramente osserva Zdanov nel suo rapporto sulle riviste Zviezda’ e Leningrad:«Ad alcuni sembrerà strano che il Comitato centrale abbia preso delle misure così energiche per una questione letteraria. Ma da noi non la si pensa così. Generalmente si pensa che se vi è stata una deficienza nella produzione o se non è stato assolto il programma di una produzione di beni di largo consumo, o magari il piano per la preparazione del legname, pronunciare una condanna per queste ragioni sia una cosa naturale (risa d’approvazione nella sala),ma se vi è una deficienza nel campo dell’educazione delle anime sovietiche, nel campo dell’educazione della gioventù, in questo caso si possa anche pazientare. Ma non è questa una colpa ancor più grave dell’esser venuti meno al programma della produzione o ad impegni simili? Con la sua decisione, il Comitato centrale intende portare il fronte ideologico alla pari con tutti gli altri settori del nostro lavoro».

2 Le citazioni in lingua francese son dovute al fatto che in questa lingua appunto sono accessibili per noi i testi della discussione (La nouvelle critique, febbraio 1950 e suo supplemento, luglio 1950).

3 Che cosa sia invece il «realismo socialista» Fadeev chiarisce efficacemente nel suo Compiti dello teoria e della critica letteraria: «Proprio perché noi siamo i rappresentanti di una società nella quale i sogni soggettivi dell’artista coincidono con il corso oggettivo dello sviluppo sociale, possiamo trovare nella realtà quegli uomini vivi che sono i portatori di un nuovo principio morale». (Arte e letteratura nell’URSS,Milano, 1950, p. 227).

4 La nouvelle critique, n. 13, febbraio 1950.

5 Sopra queste questioni pensiamo di tornare, recensendo nel prossimo numero il libro di Lukács, Saggi sul realismo testò uscito in edizione italiana.

6 «Les éditions de la nouvelle critique»: La littérature et la démocratie populaire. A propos de G. Lukacs, 1950.

L’Ottobre e la letteratura

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Natan Altman. The Arch of the General Staff. 1918 di Nathan Altman (1889-1970, UKRAINE)

«Rinascita» n. 42, 27 ottobre 1967

Questo articolo è stato scritto dal grande filosofo marxista ungherese per la rivista di cultura cecoslovacca «Plamen», per gentile concessione della quale lo pubblichiamo contemporaneamente alla sua uscita a Praga.

1. La combinazione di questi due concetti molto raramente, in poche persone, suscita una immagine unitaria e conchiusa. Infatti l’incontestabile verità — astratta però rispetto all’esperienza immediata, — che oggi non può esserci uomo le cui fondamenta esistenziali e i cui modi di pensiero non siano determinati in maniera decisiva dall’Ottobre e dalle sue conseguenze, tale verità è difficilmente concretabile per i singoli appunto a causa di questa sua universalità. Inoltre le leggende sorte pro e contro creano oscurità sui fatti, insieme semplici ed estremamente complessi, delle grandi giornate rivoluzionarie ed anche sugli anni, importanti e ricchi di mutamenti, che di necessità ne uscirono. Cosicché, specialmente per chi non abbia vissuto di persona quei tempi, non è affatto facile aver concretamente chiara la connessione, pur razionalmente ammessa, con le questioni della vita d’oggi.

Se ora, io che sono stato contemporaneo — all’inizio osservatore da lontano, più tardi militante, se anche modesto, ma certo attivo — di questa svolta del mondo, cerco oggi di riassumerne nella memoria l’essenza e le conseguenze, e di riferire al presente il risultato così raggiunto, come primo passo verso tale concretizzazione, mi si rileva la figura di Lenin, il motore centrale, il cervello guida, la personificazione visibile della rivoluzione. E la sua figura si cristallizza meravigliosamente da un lato nella unità inscindibile di una potente volontà verso ciò che è radicalmente nuovo, e dall’altro in una matassa di contraddizioni reali dalla cui intima connessione risulta contemporaneamente la monumentalità umana della sua opera e la vastità dei problemi che quell’epoca aprì di necessità per ogni uomo.

Massimo Gorkij ha descritto nel modo più calzante l’effetto affascinante provocato da Lenin, che era, poi, il fascino della grande Rivoluzione, la ragione per la quale questi due momenti suscitavano nelle più diverse persone un odio infinito o l’amore più entusiasta. Secondo Gorkij, Lenin sapeva, «come nessuno prima di lui, impedire alla gente di continuare nel suo abituale modo di vita». Non si dimentichi: tutto ciò avveniva nel 1917, avveniva anche a persone che non vivevano in Russia, nel mezzo di una guerra mondiale che aveva fatto rovinare a tutto il mondo borghese, insieme con i suoi ideali, l’immaginaria sicurezza precedente il 1914, una guerra che costringeva ciascuno a riproporsi il problema della sensatezza o della insensatezza anche della propria vita privata. Ciò che Gorkij esattamente delinea qui come essenza dell’attività di Lenin, come irradiamento delle sue azioni, era l’essenza dell’epoca stessa, la domanda che questa rivolgeva ad ogni singolo individuo.

Nel suo aspetto più esteriore, «tale domanda sembra riguardare la violenza o la non violenza, se cioè approvare o negare un suo diritto universale a determinare, nell’intimo e all’esterno, la vita degli uomini. Per Lenin la risposta positiva era ovvia. Egli sapeva e proclamava, come marxista coerente, che quando l’umanità distrugge le sue vecchie forme di vita e s’accinge a costruire forme sostanzialmente nuove, sempre deve entrare in azione la violenza come inevitabile motore del rinnovamento. Non è questo il luogo per discutere l’aspetto storico-filosofico di tale alternativa. La stessa realtà sociale ha dato la risposta, annullando importanti voci contrarie come quella di Gandhi. Questa questione però, per la maggior parte di coloro che allora erano in vita, non era semplicemente un problema storicamente oggettivo. Per ciascuno di noi, la cui storia giungeva a questo bivio, la domanda si faceva personale, intima: quale posizione assumere, se la mia propria esistenza deve avere un senso, nei confronti di questa alternativa? Anche qui Gorkij ha molto chiaramente rilevato tale contraddittorietà, che risulta evidente da diversi frammenti di colloquio con Lenin. Il poeta si lamentava della crudeltà della vita quotidiana rivoluzionaria e nella replica, afferma il cronista, sorpresa e irata di Lenin vi è questa frase: «Con che metro misura lei, in una zuffa, il numero dei colpi necessari e di quelli superflui?». In un altro colloquio dello stesso periodo Lenin parla del suo amore per l’Appassionata di Beethoven, che egli però non voleva ascoltare troppo spesso. E, secondo l’espressione di Gorkij, «non proprio allegramente» aggiunse: «Si vorrebbero dire amabili sciocchezze e accarezzare il capo a uomini simili che, pur vivendo in un inferno ripugnante, riescono a creare cose tanto belle». Invece si deve, così conclude, «colpire senza pietà, sebbene noi, secondo il nostro, ideale, siamo contro ogni violenza nei confronti dell’uomo».

Naturalmente, in questo groviglio di tendenze e controtendenze, esiste una sicura norma di azione: il marxismo. Ed è superfluo dire quanto sia sempre stata importante per Lenin la sua dottrina integra, schietta. Durante la guerra, dopo lo scoppio della rivoluzione, negli anni del potere sovietico, la sua aspirazione fu costantemente questa: esporre la dottrina nella sua vera struttura, ripulita da tutte, le falsificazioni semplificatrici, applicarla secondo il suo senso vero. Non lo si mette in caricatura, ma si nota uno dei suoi aspetti, e non dei meno importanti, quando si considera Stato e rivoluzione una descrizione filologicamente esatta delle opinioni di Marx su questo insieme di problemi nella loro continuità storica. E nella pratica la repubblica dei Soviet appare di fatto come la chiave di volta, realizzata, di questo sistema di idee. Lo stesso Lenin però, al momento di introdurre la NEP, così descriveva la situazione teorica in relazione ai problemi del capitalismo di Stato nel socialismo: «A Marx non venne neppure l’idea di scrivere anche una sola parola su questa questione, e morì senza lasciare né una citazione né una indicazione incontrovertibile. Dobbiamo quindi cercare di aiutarci da noi stessi». E allo stesso modo il comunismo di guerra, già passato e in via di superamento, non lo considerava affatto una realizzazione della teoria di Marx. Esso «nacque forzatamente per la guerra e le rovine. Non era una politica che corrispondesse ai compiti economici del proletariato e neppure poteva esserlo. Si trattava di un provvedimento provvisorio».

Questo atteggiamento marxista allora — dopo decenni di deformazione e cristallizzazione opportunistico-dogmatica del marxismo — apparve a molti estremamente paradossale. E appare paradossale anche oggi, dopo decenni di deformazione dogmatica sotto Stalin. E questa paradossalità aumenta ancora se ci mettiamo davanti agli occhi il problema fondamentale della rivoluzione russa. Il marxista ortodosso Lenin fece esattamente il contrario di quanto diceva la previsione teorica di Marx — in linea di principio giusta, — secondo la quale la rivoluzione proletaria sarebbe scoppiata e avrebbe vinto dapprima nei paesi capitalistici più evoluti che avessero già liquidato i resti dell’arretratezza feudale. La Russia si trovava nel 1917 in una situazione rivoluzionaria e ciò, come Lenin giustamente vide, in relazione sia ai fattori oggettivi che a quelli soggettivi. La grande alternativa, capitalismo o socialismo, non venne posta da Lenin, e neppure dal suo partito, ma imperativamente dalla realtà sociale stessa. E Lenin si rese sempre conto fino in fondo del carattere alternativo della storia. Non esistono, diceva, situazioni senza uscita, non esiste cioè una «necessità» meccanicisticamente fatale dello sviluppo. Questo è il risultato delle attività umane, certo non solo degli individui, ma delle classi, delle masse. Per questo, secondo Lenin, una situazione rivoluzionaria nasce solo «quando “gli strati inferiori” non vogliono più il vecchio ordine e gli “strati superiori” non possono più vivere alla vecchia maniera». La guerra mondiale imperialista aveva creato in Russia una tale situazione rivoluzionaria e per i marxisti russi si trattava di reagire praticamente all’alternativa che in tal modo era stata loro posta.

Ed essi lo fecero, prima di tutto su appassionata iniziativa di Lenin, in un modo che contraddiceva la previsione teorica di Marx. Così Lenin fu alla testa di una rivoluzione sociale che, secondo un marxismo rigoroso, era irregolare. Ma la storia lo ha giustificato; noi sappiamo infatti che, nel corso di mezzo secolo, essa è diventata una determinazione esistenziale per gli uomini di tutto il mondo. Ma comunque, anche in questo caso Lenin ha forse negato la validità della teoria di Marx? Niente affatto. Egli ha sempre saputo che la Rivoluzione russa era un fatto decisivo nella storia del mondo, che bisognava approvare incondizionatamente; ma al tempo stesso sapeva che, benché questa grande iniziativa avrebbe efficacemente agito da esempio sul piano internazionale, essa non avrebbe potuto fare a meno di incarnare per lungo tempo quell’arretratezza economica che caratterizzava la Russia di allora in contrapposizione ai paesi capitalistici altamente sviluppati. Lenin agì dunque contro i presupposti teorici di Marx — ed agì bene, — ma senza dubitare un solo istante della loro validità sul piano storico universale. Per questo nel 1920 egli può scrivere positivamente sul significato internazionale della Rivoluzione russa. E tuttavia aggiunge: «Sarebbe ugualmente un errore dimenticare che dopo la vittoria della rivoluzione proletaria, anche se in un solo paese progredito… la Russia sarà immediatamente non più un modello, ma di nuovo un paese arretrato (nel senso del socialismo e del sistema sovietico)».

Queste riflessioni non vogliono fornire un quadro completo, e neppure vogliono avvicinarsi a tanto. Perciò interrompiamo qui, accennando soltanto, come conclusione integrativa, che Lenin, notoriamente il teorico di una rigida disciplina di partito, ugualmente nel 1920, a proposito del modo di mantenerla e di controllarla, scrisse che essa «si realizza… con la giustezza della direzione politica; con la giustezza della sua strategia e tattica politica, a condizione che le più larghe masse si convincano della sua giustezza per propria esperienza». Altrimenti la disciplina di partito si muta «inevitabilmente in una finzione, in una frase, in una farsa». La contraddizione, che qualche lettore attuale vi sente, è appunto l’unità leniniana tra disciplina di partito comunista e democrazia proletaria realizzata.

Allo stesso modo, tutto quanto negli esempi precedenti è apparso in superficie contraddittorio, non è nient’altro che un aspetto singolo di questo processo grandiosamente complicato e tuttavia grandiosamente unitario. Proprio perché questa unità costituisce il nucleo, l’essenza di tale processo, proprio perché la contraddittorietà in esso esprime solo la sua onnilateralità, la sua onnicomprensività, la sua intrinsecità rivoluzionatrice di tutto, appunto questo carattere della Rivoluzione del 1917, il carattere del suo centro spirituale, Lenin, non poteva non agire in modo tanto irresistibilmente affascinante (o, a seconda della classe e dell’atteggiamento, veementemente scostante). La crisi latente del vecchio mondo, già da qualcuno avvertita nel periodo della sicurezza come una corrente spirituale sotterranea, entrò come un uragano nella vita quotidiana degli uomini e li mise davanti a una cataratta di alternative le più diverse, mentre il vecchio mondo non era neppure in grado di formulare i propri problemi, balbettava oppure si inventava miti a richiesta. Di contro stava questa unità radiante e luminosa nell’esistenza e negli atti di un paese: la Russia rivoluzionaria. Non c’è da meravigliarsi che ogni opposizione, nella quale fosse viva anche solo una scintilla di autenticità, non potesse fare a meno di guardare in quella direzione. Walter Jens, che nessuno può sospettare di simpatie comuniste, ha scritto una volta: « Nessuno può mettere in dubbio infine che l’arte degli anni venti fu improntata, e non in piccola misura, dallo sguardo rivolto all’Unione Sovietica».

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Proletarians of all countries – Unite!, 1920 di Nathan Altman (1889-1970, UKRAINE)

2. E l’arte nostra? L’inizio sembra semplice. Il gorgo di quella pienezza di problemi cui qui si è accennato, fece diventare Majakovskij il lirico tribuno del primo decennio rivoluzionario. Ma forse il caso del poema I Dodici di Blok, è ancora più caratteristico. Infatti, per tutto il corso della sua vita, questo grande poeta fu estraneo al mondo di idee della Rivoluzione. Ciò che lo colpiva, ciò che dette alla sua poesia grandezza universale, fu il pathos della problematica umana che essa andava scavando, fu la visione di un mondo nuovo capace di chiarire in domande e risposte autentiche ciò che era umanamente irresolubile per il vecchio mondo. Il fatto che Blok dia espressione alla strada e non all’arrivo, all’ansia e non all’adempimento, segna nel modo più chiaro la sua originalità, fa del suo poema l’espressione durevole dello stato d’animo universale di quei giorni.

Naturalmente se parliamo degli effetti dell’Ottobre sulla letteratura, non è possibile limitarci semplicemente ai giorni e alle settimane del rivolgimento immediato. Una letteratura che voglia raggiungere e conservare una validità universale, deve dare immagini valide di tutta la gran strada percorsa dalla Rivoluzione socialista e che ne ha fatto un idolo o uno spauracchio per milioni di uomini. Anche qui ci troviamo di fronte ad una situazione doppiamente contraddittoria ed eppure, alla fine, unitaria. Già al I Congresso dell’Internazionale comunista, Lenin espresse il timore che lo sviluppo della rivoluzione potesse procedere ad un ritmo così rapido che la coscienza degli uomini fosse incapace di seguirlo. Questo avvertimento, se fosse rimasto senza contrasto, avrebbe potuto anche soddisfare coloro che considerano come unico criterio di un’avanguardia artistica e intellettuale la mera capacità di aderire ai mutamenti dei dati di superficie. Ma proprio contro queste semplificazioni avanguardistiche Lenin si richiama di nuovo al marxismo, al suo essere radicato tanto nei mutamenti quanto nella continuità, al marxismo che ha raggiunto il suo significato storico universale, la sua forza rivoluzionatrice appunto perché «si è appropriato ed ha elaborato tutto quanto vi era di prezioso nello sviluppo di oltre duemila anni del pensiero e della cultura umana». Di nuovo una richiesta contraddittoria, vecchia e nuova: tener d’occhio il nuovo nella sua novità sostanziale, non restare indietro rispetto alla sua concretezza, ma in modo da non perdere mai l’altro lato del fenomeno che lo fa essere un momento essenziale nell’evoluzione dell’umanità.

Quella grande epoca ha avuto anche una grande letteratura. (Qui parliamo esclusivamente di letteratura, ma è impossibile non accennare al cinema di quel periodo). È vero: il numero delle opere letterarie importanti non è troppo grande. Se però lo paragoniamo con la più grande delle rivoluzioni precedenti, con la Rivoluzione francese, esso appare abbastanza notevole. In questa non nacque nessun capolavoro letterario che per attualità e universalità sia possibile paragonare a canzoni popolari come la «Carmagnola»; solo alcuni decenni più tardi la grandezza umana di quei grandi anni diviene forma poetica in Balzac e Stendhal. Per contro, il primo periodo della Rivoluzione russa si presenta — cito solo dei grandi esempi, non faccio un catalogo — con lo Jegor Bulyciov e con Klim Samghin di Gorkij, con Il placido Don, col Poema pedagogico di Makarenko. E queste vette si levano su una quantità di ottime opere che, a volte non a un grande livello di ideazione, ma assai spesso con onestà umana e artistica, descrivono quel mondo di alternative sempre acute nel quale nessuno poteva continuare a vivere nel modo abituale. Il che portò talvolta a tragiche catastrofi, talvolta a mutamenti interni che resero possibile vivere in condizioni del tutto mutate; e ciò poteva avvenire tanto negli ambienti intellettuali delle metropoli, quanto nei villaggi sperduti, tanto nel mezzo dei conflitti armati tra la rivoluzione e la controrivoluzione, quanto in solitarie stanze di studio.

Il placido Don spicca in questa serie di opere per il suo scorrere, possente, irresistibile. È una epopea del dibattito che i contadini del Don tengono con il vecchio mondo dello zarismo, con il suo crollo, con la lotta per la vita e la morte fra il vecchio e il nuovo. Esso mostra come le alternative dell’Ottobre valessero per ogni uomo e come quella grande contraddizione sociale penetrasse nella vita intima e trasformasse in un campo di battaglia anche l’anima dell’individuo. È un’epopea di profonda veracità nelle psicologie e nei destini: i singoli individui impersonano i problemi generali di classe e le decisioni di classe divengono destino di individui inflessibili. Il pro e il contro di molti contadini di fronte alla rivoluzione proletaria raggiunge una incarnazione autentica nella figura di Grigorij Malechov, nel cui animo e nel cui destino si concentrano tutte queste tendenze, a battagliare nelle loro contraddizioni, per giungere poi alla conclusione che un cambiamento è inevitabile. Il vecchio non ritornerà mai più, ma il nuovo non è lì già pronto, deve essere creato.

Molto lontano da questo vasto universalismo il giovane Fadeev dà forma in Diciannove al destino degli attivi soldati della rivoluzione, i bolscevichi, convinti. Proprio perché tali personaggi, a causa dell’epoca staliniana, appaiono equivoci, a volte con ragione — e il Fadeev maturo ha contribuito personalmente non poco a che ciò avvenisse —, è necessario mettere qui in evidenza questa rara riuscita. Il giovane Fadeev raffigura il comunista convinto, eroico, come risultato del suo stesso divenire, e ne descrive il comportamento positivo nella lotta fino al sacrificio personale. Cosicché il suo eroismo è profondamente legato all’epoca, ha radici profonde nel proletariato e, nello stesso tempo, ha un incancellabile carattere personale. Il modo con il quale egli cerca, in maniera assolutamente consapevole, una soluzione concreta per la buona causa e al tempo stesso sa solo cadere da eroe per essa, lo fa divenire rappresentante della morale di quel periodo eroico, un «tipo» di quell’epoca che di simili ne produceva anche al di fuori della Russia. La letteratura rivoluzionaria non ha saputo eternare come figure poetiche i vari Lewin di Monaco e Otto Corvin di Budapest. È il Levinson di Fadeev che rappresenta qui l’intera epoca.

Il quadro dell’epoca più imponente, più netto e più maturo resta però il poema eroico di Makarenko sulla nascita pratico-spirituale, sull’educazione al socialismo. Il punto di partenza è dato dalla profondissima desolazione della guerra civile: bambini che la guerra ha trasformato in vagabondi, e per la massima parte, in delinquenti. È impossibile qui anche solo accennare al metodo pedagogico di Makarenko, al massimo possiamo indicarne alcuni momenti di novità umana. Makarenko descrive il vicolo cieco di quell’individualismo anarchico che non può non nascere nell’animo di giovani i quali sono costretti a puntare esclusivamente sulla propria forza, sulla sopravvivenza fisica; descrive però anche come esso possa essere superato, come cioè la cosciente solidarietà con la collettività, nella quale ciascuno deve concretamente vivere e agire e che ciascuno con le proprie azioni contribuisce a plasmare, produca una forma superiore di personalità. E come soltanto questa unione fra socialità ed essere personale, che nasce in modo estremamente complicato e che funziona per conflitti, porti in luce l’individualità e la libertà umane. Nel mondo di Makarenko lo sviluppo umano dei bambini avviene solo in seguito a decisioni alternative che molto spesso terminano con un fallimento, con la catarsi dell’autocritica. Ma proprio in questo, tale mondo si manifesta come un mondo di autentica, di nuova libertà; la catarsi è diretta esclusivamente al mutamento intimo, alla fondazione spirituale dell’azione futura; essa è insieme una dichiarazione di guerra, elevata nella pratica a concezione del mondo, contro il pentimento, contro l’incatenamento ai peccati passati, contro le frustrazioni psichiche di ogni sorta.

Questi esempi vogliono essere solo esempi. Essi dimostrano che la letteratura autentica generata dall’Ottobre, e che attingeva allo smisurato groviglio di problemi che esso aveva scagliato nella vita degli uomini, si sforzava onestamente e con successo di elevare a forma poetica valida ciascuno degli aspetti umani della sua totalità. E anche se non ne uscì un quadro dell’epoca grandioso e universale come in Dante o Shakespeare, nella Commedia umana o nei grandi romanzi di Tolstoj, pure questa letteratura costituisce una degna eco all’appello fatto risuonare dall’Ottobre e dalle sue conseguenze.

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Fabbriche per i lavoratori – 1918 di Nathan Altman (1889-1970, UKRAINE)

3. Negli anni trenta questa alta marea di valore universale nella letteratura russa decresce. Naturalmente di quando in quando — soprattutto nel difficile primo periodo della seconda guerra mondiale — nascono anche opere di livello notevole, ma il carattere fondamentale di quello che si è soliti chiamare realismo socialista in realtà rappresenta, come una volta mi è accaduto di chiamarlo, solo un certo «naturalismo erariale», guarnito di romanticismo cosiddetto rivoluzionario, ed è servito in generale a tappare le discrepanze fra i desideri, le fissazioni, i rapporti ufficiali, e la realtà, o a dare mano libera alla manipolazione burocratica.

Questa repentina caduta, vista da una certa distanza storica, è senza dubbio un frutto necessario dell’epoca staliniana. Ma per comprendere bene quest’epoca bisogna riandare alle sue basi essenziali, alla sua prassi sociale ed alla sua teoria. Il che purtroppo finora è accaduto molto di rado. Naturalmente vi ebbero notevole importanza i grandi processi e le successive massicce deportazioni nei campi di concentramento. Tutte queste però erano solo manifestazioni estreme da un sistema, non il sistema stesso. E quindi è stato possibile liquidare in larghissima misura questi eccessi della prassi, senza eliminare davvero il sistema.

Abbiamo visto: Lenin non si faceva la minima illusione sul carattere non classico, in senso marxiano, della Rivoluzione russa. Egli puntava perciò in Russia, come mostra la politica della NEP, a commutazioni sociali che superassero gradualmente questa arretratezza o almeno ne moderassero le conseguenze. Ma nei suoi ultimi anni, quando ormai la malattia gli rendeva difficile il lavoro, non riuscì a progettare un piano totale di riforme. E tuttavia la sua costante paura di una burocratizzazione del sistema sovietico dimostra che egli voleva attuare queste riforme conservando la democrazia proletaria.

Sarebbe inutile oggi stare a meditare su come queste riforme sarebbero state, se Lenin sarebbe stato capace di realizzarle… Davanti ai suoi successori — il testamento di Lenin mostra che egli era scettico su tutti, non solo su Stalin — stava dunque il problema di superare il più rapidamente possibile l’arretratezza economica della Russia. A questo problema si aggiunse, agli inizi degli anni trenta, un motivo fortemente acceleratore: l’ascensione del movimento di Hitler, la prospettiva di una nuova guerra mondiale, la necessità per il giovane Stato sovietico di essere in grado di difendersi dal militarismo tedesco, il che presupponeva naturalmente lo sviluppo dell’industria pesante. Non è certo questo il luogo anche solo per accennare un’analisi economico-sociale, storica di questo sviluppo. A noi interessa invece indicare qui come i metodi con i quali Stalin effettuò la trasformazione dell’economia sovietica, come tale corso ideologico del paese agì soprattutto sul corso della letteratura.

Dato che ripetutamente mi sono pronunciato in pubblico su questi metodi, ora posso essere relativamente breve. Prima di tutto il contrasto con Lenin si rivela in ciò, che non appena la fase acuta della guerra civile fu grosso modo passata, Lenin cercò di eliminarne i metodi specifici e di tornare ai normali sistemi di governo. Al contrario Stalin, non appena la situazione interna del partito si fu acutizzata anche solo di poco, e in una situazione sociale completamente tranquilla, ricorse di nuovo ai metodi della guerra civile e li trasformò in base «normale» d’amministrazione anche in condizioni del tutto consolidate. In questo modo, i mali inevitabili nella guerra civile, il dominio soverchiante del potere centrale e la sospensione di ogni autonomia e democrazia, si mutarono in una forma permanente di vita.

Per attuare conseguentemente tutto ciò in un paese dove il marxismo era divenuto la filosofia dominante, Stalin, pur mantenendo la terminologia marxista-leninista, dovette rovesciarne radicalmente i concetti, la loro connessione, gerarchia, ecc. Per Marx ed Engels i princìpi dello sviluppo sociale erano fissati scientificamente e teoricamente. Con il loro aiuto il partito era in grado di stabilire le grandi tendenze dominanti, permanenti, di un’epoca e così poi poteva essere scientificamente determinata la strategia del partito comunista e dello Stato socialista. Tale strategia, poi, permetteva di giungere a giuste risoluzioni tattiche nel mezzo degli avvenimenti quotidiani rapidamente mutevoli. La gerarchia principio-strategia-tattica risulta evidente in modo naturale nel passaggio dal grado più elevato al grado più vicino alla vita, che però non può mai percorrere la via deduttiva, ma al contrario è stato sempre pensato come analisi concreta di ogni concreta tendenza che opera realmente. Ora Stalin rovesciò questa gerarchia. Per lui la pietra di paragone era sempre il provvedimento tattico necessario al momento. Su questo poi veniva costruita «logicamente» in ogni caso una corrispondente pseudo-strategia e un altrettale sistema di princìpi, che poi naturalmente mutavano a ogni mutamento di tattica.

Questo assorbimento nella tattica di princìpi, prospettive e strategia, serve prima di tutto a rendere assoluta ogni definizione o decisione nata in questo modo. L’importantissima questione teorica e pratica del marxismo, di come debba essere giudicata sulla base dei princìpi e della strategia una azione tattica eventualmente inevitabile, in questo modo viene completamente messa da parte e con essa anche qualsiasi autentica autocritica del movimento rivoluzionario, che Marx riteneva sua differentia specifica di contro al movimento borghese. Marx ha detto che le rivoluzioni proletarie «criticano costantemente se stesse», ma Lenin è stato il primo e l’ultimo, come abbiamo visto, nel suo comunismo di guerra a praticare apertamente questo principio. Sotto Stalin esiste solo una forma di autocritica, vale a dire l’autocritica — spesso estorta dalla pressione dell’organizzazione — dei singoli che si erano permessi di manifestare dubbi sulle infallibili decisioni. In tal modo il metodo di Marx fu sfigurato e degradato a metodo di brutali manipolazioni.

Il che fu — a dirla francamente — una rottura totale con il metodo di Marx. De facto tale rottura Stalin la realizzò anche nella pratica. Lo fece però con l’aria di voler conservare il marxismo-leninismo ortodosso. Le affermazioni dei classici conservavano la loro validità, che anzi venne accresciuta, dogmatizzata dalla canonizzazione ufficiale. Ma come metodo definitorio e ordinatore vigeva il predominio della tattica, di cui appunto abbiamo parlato. Questo naturalmente non avvenne tutto in una volta. Dapprima Marx venne gradualmente spinto indietro da Lenin (l’edizione completa critica delle opere di Marx iniziata da Rjazanov, non fu né continuata né tanto meno portata a termine). Più tardi però anche Lenin cominciò a retrocedere di fronte a Stalin. Naturalmente continuava a esistere, era abbondantemente citato, ma solo fino a quel punto in cui le sue affermazioni sembravano confermare le momentanee indicazioni tattiche di Stalin. Si veniva così realizzando una grave deformazione del metodo di Marx e Lenin mentre si conservava la loro terminologia, dove naturalmente la deformazione metodologica mutava anche il contenuto di tutte le categorie, dava loro per la maggior parte un senso fisso, astratto, adatto alla manipolazione, burocratico.

Per la letteratura questa trasformazione del marxismo significò la sua sottomissione assoluta alle risoluzioni del partito (cioè di Stalin). «Scrivete la verità» consigliò una volta Stalin agli scrittori. Ma verità significava in pratica: accordo con le ultime risoluzioni del Comitato centrale. Abbiamo già accennato al fatto che questa completa deformazione metodologica non si verificò d’un colpo ma gradatamente, cosicché, in verità solo di tanto in tanto, solo episodicamente si ebbero anche voci di opposizione. Così, ad esempio, la coraggiosa e intelligente saggista Elena Usievic protestò contro l’idea che la verità di ogni scrittore dovesse essere scritta nelle risoluzioni del partito. Un’altra volta indicò l’inferiorità umana della poesia politica ufficiale degli anni trenta. Il suo appello allora a Majakovskij è un appello — in realtà, non pronunciato — alla ricchezza umana e sociale dei grandi anni iniziali della rivoluzione, in contrapposizione alla schematica degradazione dell’uomo del tempo di Stalin. Anch’io, sia pure meno direttamente, ho preso parte a questi tentativi di protesta. La prassi staliniana fece sì che fra la teorizzazione del partito e il contenuto d’idee dell’opera d’arte si stabilì un sistema meccanico di coincidenza necessaria, un rapporto di determinazione diretta. Quando io, commentando l’interpretazione engelsiana di Balzac e la critica di Lenin a Tolstoj, parlai di complicatezza, contraddittorietà tra la cosciente concezione del mondo di uno scrittore e il contenuto di idee della sua opera, anche questo era una protesta — altrettanto inespressa. Naturalmente tutti questi tentativi — che non furono i soli — vennero bruscamente respinti dalla stragrande maggioranza dei critici staliniani.

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Rostrums around the Alexander Column -di Nathan Altman (1889-1970, UKRAINE)

4. Il 1946 dette il via alla resa dei conti con la dottrina di Stalin. Anche qui bisogna rilevare che, come il dominio di Stalin aveva avuto in fin dei conti delle ragioni economico-sociali, anche la lotta iniziata contro quel metodo ebbe le sue. Quali che fossero i mezzi usati, Stalin riuscì a costruire nell’Unione Sovietica una forte industria. Guerra e dopoguerra ne sono dimostrazioni pratiche incontestabili. Ma come conseguenza di questo fatto si è avuto anche un cambiamento interno nella stratificazione sociale. Nell’Unione Sovietica esisteva ora una vasta e qualificata classe operaia. Al contrario degli anni trenta, quando gli specialisti economici e tecnici provenivano per la maggior parte dalla vecchia borghesia ed erano sovente avversari coscienti del sistema sovietico, lo sviluppo economico ha creato adesso un vasto strato di specialisti d’impronta nettamente sovietica. Comunque si vogliano valutare i metodi staliniani dei «commissari politici», degli universali controlli sull’intero andamento della società tramite la polizia politica, ecc., all’epoca della morte di Stalin questi metodi erano già storicamente superati dallo sviluppo sociale; erano divenuti solo freni dello sviluppo economico; e si dovette eliminarli.

Questa è la vera base sociale che ha portato Krusciov alla ribalta del XX Congresso e alla conseguente politica di riforme. Ancora una volta non è questo il luogo per descrivere gli alti e bassi di questo movimento. Sintetizzando si può e si deve dire però che proprio Krusciov ha criticato e corretto Stalin in gran parte alla maniera staliniana, con metodi staliniani, che anche successivamente il suo atteggiamento verso Stalin ha preso come modello metodologico un po’ la critica a Trotskij del periodo di Stalin. Non era e ancora oggi non è il caso di parlare di un tentativo davvero storico, davvero marxista, di critica all’opera staliniana. Per questo nel campo dei sostenitori delle riforme nasce sempre un certo nervosismo quando da qualche parte vengono sottolineati alcuni momenti positivi dell’attività di Stalin; si teme — e, aggiungiamo noi, non sempre senza ragione — che si tratti di sondaggi per riaccostarsi alla prassi staliniana.

Sul piano ideologico l’aspetto più importante è che la deformazione staliniana della metodica di Marx e Lenin e con essa la compressione, il freno dello sviluppo progressivo del marxismo continua a perdurare in nome della «partitiche» (di nuovo nel senso di Stalin e non di Lenin). Non potendo qui approfondire veramente l’argomento, non possiamo fare a meno di notare che in questo modo, se da un lato si è impedita con successo, un’analisi autenticamente marxista delle trasformazioni avvenute nella economia mondiale dalla morte dei classici in poi, si è impedita la scoperta dei suoi nuovi tratti economici, dall’altro lato però sono stati resi possibili l’affluire e la ricezione acritica delle «conquiste» occidentali nel marxismo. Al posto della autocritica e di una vera riforma basata sui princìpi, si è avuta spesso un’alleanza tra il burocratismo dogmatico-conservatore e certe nuovissime parole d’ordine occidentali. Si pensi alle proposte non di riformare le basi irrazionali, puramente burocratiche dell’economia di piano, con un ritorno ad un marxismo purificato, sdogmatizzato, fondato sulla realtà dei fatti, ma di superarla armando il burocratismo, immutato e conservato, di macchine cibernetiche, ecc. Dietro tali tendenze si nasconde il desiderio di accomunare le brutali manipolazioni del periodo staliniano e quelle «sottili» del capitalismo attuale. E a guardare la cosa da questo angolo di visuale, è solo coerenza quando accadono casi in cui il persistente burocratismo staliniano dà mano libera a qualsiasi avanguardismo, mentre mantiene una censura di buona rigorosità staliniana nei confronti della rinascita del marxismo.

Naturalmente alla lunga non è possibile frenare in questo modo lo sviluppo economico. Appare sempre più evidente che non basta la semplice distruzione del dominio assoluto della polizia politica e l’eliminazione dei vecchi stalinisti più responsabili e più incorreggibili, per mettere in moto una economia socialista funzionante e all’altezza dei tempi. Per questo in vari luoghi la forza imperativa della realtà economica provoca reali movimenti di riforma che — non importa per il momento sulla base di quale teoria — si sforzano di liberare le forze reali del rinnovamento economico e che, se davvero vorranno realizzare quanto è divenuto storicamente necessario, se davvero combatteranno fino in fondo, col passare del tempo saranno anche costretti a dar vita a una loro fondazione teorica, marxista.

Questa sconcertante pienezza di acuti problemi dell’esistenza determina anche le tendenze attuali della letteratura. Per questo la critica distruttivamente appropriata nei confronti del periodo staliniano è una questione vitale tanto quanto per la economia. Se davvero si vuole superare il naturalismo erariale, è necessario intraprendere un esame universale, approfondito, schietto sul piano sociale e umano, del periodo staliniano. Ci si può facilmente rendere conto dell’inevitabilità di una tale tematica. Se uno scrittore vuole parlare in modo autentico dei problemi del presente, dell’uomo di oggi, non può non prendere posizione come scrittore sul come essi sono diventati ciò che attualmente sono. Ma appunto il periodo del loro divenire, del loro maturare è il periodo staliniano; i conflitti nei quali gli uomini che oggi sono vivi si sono irrobustiti o sono stati spinti al dissidio interiore, all’abbrutimento, alla cristallizzazione, ecc., ecc., sono appunto i problemi del periodo staliniano, certamente non in senso astrattamente sociologico, ma proprio come concrete tendenze dell’epoca che agiscono positivamente o negativamente sulla storia di ogni individuo. Se non si dice spietatamente la verità su queste questioni, non è possibile distruggere veramente il naturalismo erariale. Quali strade, sul piano formale, la letteratura imboccherà, potrà dirlo solo la prassi degli scrittori onesti e di talento. Solo una cosa bisogna capire, che qui si tratta di prendere posizione su alternative di vita e non semplicemente di scegliere tra forme espressive efficaci. In sé è del tutto possibile con i monologhi interiori, i diaframmi temporali, il culto dell’assurdo, scrivere un’apologia del periodo staliniano, così come negli anni trenta ci furono opere che misero al servizio della letteratura allora ufficiale la «nuova oggettività», il montaggio ed altre correnti di moda.

Indubbiamente c’è qualche disposizione a una autentica nuova ondata. In talune poesie uscite recentemente nei paesi socialisti, e anche nella prosa, soprattutto nella novella. Alcuni anni fa io rilevai la grande importanza di Solzhenitsyn, proprio perché egli aveva affrontato con coraggio e talento il problema centrale di quel periodo: come gli uomini, nella lotta con la realtà quotidiana dello stalinismo, — e i campi di concentramento ne fanno parte, pur senza essere l’unico campo di battaglia — sapevano mettere a prova la sostanza della loro umanità, e conservarla, come in questa lotta venivano maturati o distrutti e corrotti. Da parte di burocrati, contro un tale giudizio sulla situazione, si obietta che non bisogna «rimestare» nel passato, che bisogna invece applicarsi alle questioni del presente. Ma prima di tutto c’è da dire che proprio qui stanno i problemi del presente.

Naturalmente, in una autobiografia ufficiale, scritta per la direzione del personale di un qualche ufficio, uno può anche manipolare il proprio passato in modo che esso vada a genio all’autorità competente; nella realtà però l’oggi di ciascuno di noi è grandissimamente determinato dall’atteggiamento che abbiamo assunto di fronte agli avvenimenti del periodo di Stalin. Non si può descrivere l’uno in modo autentico e valido letterariamente senza descrivere l’altro. Che cosa sarebbero diventati i drammi di Shakespeare se egli non avesse «rimestato» nel passato della Guerra delle due rose? Solzhenitsyh e i suoi commilitoni sono in tal modo precursori esemplari (e forse un giorno anche realizzatori) della nuova ondata del realismo socialista.

Nel giudizio sulle nuove tendenze bisogna essere molto cauti. Anche qui per ora possiamo stabilire solo la faccia negativa: le promesse che nascono adesso hanno ancor meno in comune con le correnti letterarie che dominano in Occidente. Ciò dimostra che sta nascendo davvero qualcosa di essenzialmente nuovo. Sono gli inizi di un’arte nuova, che sorge per soddisfare nuovi bisogni popolari; le sue forme vengono organicamente ricavate dal contenuto di quella richiesta sociale, alla quale essa deve la propria esistenza di fenomeno originalmente nuovo. Ma si potrà parlare a fondo di questi problemi estetici solo quando questa arte nuova si sarà dispiegata in una certa misura. Solo dopo — post festum — sarà chiaro se esistono fili che la collegano al primo periodo e come sono fatti questi legami. Per ora possiamo solo prender atto, con gioia e speranza, della sua esistenza e darle il benvenuto.

5. Crisi e ricerca di una via d’uscita oggi non si limitano affatto alla zona del socialismo. In Occidente adesso assistiamo di frequente al crollo di false immagini del mondo che erano state covate a lungo come salda verità. Oggi si dice spesso che la guerra fredda sta avvicinandosi alla fine. E in realtà quel che c’è dietro è molto di più di un semplice mutamento tattico di politica estera. Per gli Stati Uniti è crollato il sogno della validità universale dell’american way of life; per l’Inghilterra il sogno del Commonwealth come surrogato della condizione di potenza mondiale; per la Repubblica federale tedesca il sogno del roll back come base per un rinnovato predominio militare in Europa, ecc., ecc. Se poi si aggiunge che in questo periodo sono crollati tutti i vecchi imperi coloniali, che i «miracoli economici», ritenuti modi d’essere permanenti della economia, si sono rivelati semplici periodi di ricostruzione già terminati (per quest’ultima questione mi baso sulle indagini di F. Janossy), se si riflette infine che nella società dei consumi, apparentemente così perfetta, risulta sempre più chiaramente che è l’uomo ad essere messo in forse, ci si accorgerà che sono presenti, più che a sufficienza, motivi economici, sociali e politici per una crisi ideologica generale.

Anche occorre parlare soprattutto della letteratura. W. Jens, che già abbiamo citato a testimoniare sugli effetti della rivoluzione d’Ottobre, a proposito della delusione degli intellettuali tedeschi (e non solo tedeschi) provocata dagli avvenimenti degli anni trenta dice: «Gli intellettuali divennero una volta per tutte apolidi». Che questa apolidìa nel periodo delle illusioni capitalistico-imperialiste, nonostante tutto l’ostentato scetticismo e pessimismo, si sia dimostrata in sostanza solo autocompiacimento, adesso importa poco. I vuoti ideali del 1945, le utopie reazionarie del periodo della guerra fredda, sono ormai in via di disfacimento. Vorrei sottolineare adesso un solo sintomo, in verità importante, di questa crisi. Per interi decenni, tra gli intellettuali progressisti dell’Occidente è stato di gran moda disprezzare profondamente il marxismo come una ideologia troppo a lungo sopravvissuta al XIX secolo, messo ormai da parte per altri aspetti. Ora però la crisi ideologica spinge un numero sempre maggiore di intellettuali a vedere proprio nel marxismo la chiave per risolvere quei problemi ai quali neppure il pensiero borghese «più o meno progressista» è capace di dare una risposta.

Si intende da sé che questo fatto non può non mutare a poco a poco anche l’atteggiamento nei confronti della prospettiva socialista. E appunto qui, lo sviluppo concreto dei paesi socialisti si lega strettamente alla forza d’attrazione della prospettiva socialista nei confronti degli intellettuali dell’Occidente capitalista. Il fascino dell’Ottobre e delle sue immediate conseguenze consisteva nel fatto che in esso risultava evidente tutto un nodo di risposte che, per ragioni sociali, questi intellettuali non riuscivano a chiarire con i propri strumenti di pensiero quasi nemmeno nella forma di domande. L’angustia dogmatica, la rigidezza, il carattere grossolanamente volgarizzatore di quello che nel periodo staliniano si usava chiamare marxismo, non poteva per sua natura né esercitare tale influenza, né trattenere l’ondata antimarxista nel pensiero occidentale. Per il nascente interesse, per la crescente simpatia verso il marxismo che comincia a manifestarsi ora in Occidente, è quindi d’importanza determinante il modo in cui i comunisti parteciperanno alla rinascita del marxismo. Per ora la situazione è estremamente confusa. A un polo ci sono le tradizioni del periodo staliniano ancora fortemente radicate, all’altro polo non di rado si è avuta l’inclinazione ad andare incontro — anche troppo — ai pregiudizi ed alle confusioni di tutti i partecipanti alla discussione, fino ad abbandonare i principi fondamentali del marxismo. In ultima analisi però determinante è qualcosa che ovviamente non si realizzerà mai del tutto senza una autentica rinascita del marxismo: la veemenza della vita stessa nel socialismo sarà questa a dare la risposta. Per quanto all’interno del mondo socialista, la riforma dell’economia sia molto importante, il semplice aumento della produzione e del livello di vita non sarà mai capace di avere questa forza d’attrazione per l’Occidente (e questa era una delle illusioni di Krusciov). Questo processo, dunque, che suscita le più grandi speranze oggi appare ancora in uno stadio estremamente confuso; da marxisti tuttavia possiamo aspettarci come prospettiva, con buona coscienza teorica, il chiarimento così necessario del pensiero sulla base della riforma della vita sociale e dell’economia del mondo del socialismo.

Per queste ragioni l’insieme dei problemi sociali e umani dell’Ottobre non può oggi avere influenza, né estensiva né intensiva sulla letteratura occidentale. Come sempre, sono i problemi di vita del presente a decidere che cosa scrittori e lettori sono in grado di sentire come un passato vivo ed esemplare. E la letteratura occidentale per giunta ancora non è venuta in chiaro neppure con il proprio recente passato. Tale discrepanza risulta evidente dal fatto che ancora oggi gli immediati documenti umani della Resistenza antifascista — ricordiamo solo le ultime lettere dei condannati a morte, gli schizzi del carcere di Fucik — son d’un livello che la letteratura occidentale ha raggiunto solo in casi rari ed eccezionali. Naturalmente ci si muove, e validamente, in questa direzione, così in alcune novelle di Vercors, o Biliardo alle nove e mezzo di Böll, o Il Vicario di Hochhuth o gli ultimi drammi di Peter Weiss. Ma solo il Grande viaggio di Jorge Semprun si eleva sino quasi a raggiungere il livello del vero modello di vita.

In questa situazione si rispecchia l’avversione dell’Occidente a fare davvero i conti con il passato fascista. Il fatto che l’opinione pubblica della Bundesrepublik tenta di ridurre il problema dell’hitlerismo alla persecuzione contro gli ebrei, rivela nel modo più evidente questo rifiuto: i prestiti di guerra ad Israele forniscono una confortevolissima «catarsi» all’interno, rendono possibile agli ex nazisti di fare i dirigenti politici, e permettono inoltre una sordida concorrenza ideologica — velata naturalmente da riserve verbali — cogli eredi della estrema destra della reazione tedesca. Ma anche in altri paesi non si è giunti ad una definitiva resa dei conti con il fatto che soltanto la loro tolleranza permise ad Hitler di salire in alto fino a diventare una minaccia per tutta la civiltà umana. Ancora una volta, se volessimo approfondire le questioni che vi sono connesse, oltrepasseremmo di molto i limiti di queste riflessioni. Accenniamo solo a questo, che dipende dal presente se le irradiazioni dell’Ottobre non possono agire come vivo passato dell’umanità.

Un tale presente è ancora molto lontano. Non bisogna però sottovalutare il materiale esplosivo che è stato ed è accumulato, latente o eruttivo, in rivolte individuali, solitarie, personali. Naturalmente non parliamo qui di quel conformismo anticonformistico che sublima l’elementare scontentezza dell’uomo in una autocompiaciuta disperazione intimamente passiva, e che fornisce la propria alienazione come consumo di lusso per clienti esclusivi. Il contrario c’è sempre stato, così il tardo O’ Neill, la fine della pista di Thomas Wolf, o Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, o Styron, o molti altri. Queste rivolte hanno una così grande importanza sociale ed artistica perché in esse, pur configurate come azioni individuali di uomini singoli, è sempre implicitamente presente l’in-sé della loro socialità. Sarebbe un compito importante e bello per il marxismo che cresce, trasformare questo in-sé in un per-noi chiaro, universalmente valido ed efficacemente unito. In questo modo sarebbe spianata la strada evolutiva per elevare questo in-sé della rivolta contro la alienazione nel mondo manipolato al suo essere-per-sé.

Le forme della alienazione umana in Occidente sono cosiffatte che proprio la letteratura e l’arte potrebbero dare notevoli impulsi alla volontà degli uomini per sfondare questo cerchio magico. La consapevolezza su se stessi, sulla propria situazione, sulle proprie possibilità, implica l’autocoscienza dell’uomo su se stesso, ma appunto come essere insieme autonomamente attivo e ineliminabilmente sociale. Obiettivamente, l’uomo non è stato «gettato» in un mondo alienato, ma vive in un mondo, per ostile che sia, il cui essere non può mai venir separato dall’essere della sua personale interiorità. Così l’uomo, in un certo senso, ha anche una parte di colpa per la sua alienazione, per cui anche il rifiuto del suo mondo circostante include sempre anche un’autocritica orientata praticamente, cioè una critica della realtà sociale oggettiva. Per questo il rifiuto dell’alienazione che resta semplicemente soggettivo, semplicemente sentimentale, slitta tanto spesso in un adattamento ad essa, pieno di riserve solo formali, perché l’alienazione sfugge a una reale dialettica, di soggetto e oggetto. Solo una dialettica, divenuta coscientemente pratica, di doppie negazioni intrecciate una nell’altra, dà alla sostanza umana la capacità di resistere, la spinge dal semplice immediato in-sé all’autonomo riconoscimento del per-sé.

Questo tipo di problemi scaturisce dalle specifiche determinazioni dell’odierno essere sociale. Il suo collegamento diretto con quel nodo di domande e di risposte che l’Ottobre ha scagliato nel mondo è quindi assai allentato, estremamente lontano e confuso. Purtuttavia è un collegamento che esiste nella realtà. E se la rinascita del marxismo guiderà i creatori dell’arte e i lettori a una tale coscienza e autocoscienza, in tal modo essa obiettivamente getterà un ponte fra l’Ottobre e la migliore letteratura di oggi e di domani.