di George Steiner
[Georg Lukacs and His Devil’s Pact, «The Kenyon Review» Vol. 22, No. 1 (Winter, 1960), pp. 1-18, trad. it. Ruggero Bianchi, in G. Steiner, Linguaggio e Silenzio, Rizzoli, Milano 1972, pp. 327-342]
Nel ventesimo secolo non è facile per un uomo onesto fare il critico letterario. Vi sono tante cose più urgenti da fare. La critica è un’aggiunta. Giacché l’arte del critico consiste nel sottoporre le opere di letteratura proprio all’attenzione di quei lettori che forse hanno meno bisogno di un tale aiuto: forse che un uomo legge critiche di poesia o teatro o narrativa se non possiede già per conto suo una cultura letteraria di notevole livello? Su l’un lato e l’altro, per giunta, vi sono due tentatori. A destra, la Storia Letteraria, con la sua aria solida e le sue credenziali accademiche. Alla sinistra, la Recensione, non proprio un’arte, ma piuttosto una tecnica devota alla teoria poco plausibile che ogni giorno dell’anno viene pubblicato qualcosa che vale la pena di leggere. Anche la critica migliore può soccombere all’una o all’altra di queste tentazioni. Ansioso di raggiungere la rispettabilità intellettuale, la posizione salda dello studioso, il critico può diventare, come Sainte-Beuve, quasi uno storico della letteratura. O può cedere alle pretese del nuovo e dell’immediato: una parte significativa delle dichiarazioni critiche di Henry James non è sopravvissuta ai luoghi comuni di cui esse erano molto prodighe. Le buone recensioni sono ancor più effimere dei brutti libri.
Ma vi è ancora un’altra ragione importante per cui è difficile a una mente seria, nata in questo secolo tormentato e periglioso, dedicare il grosso delle proprie energie alla critica letteraria. La nostra è, in maniera preminente, l’epoca delle scienze naturali. Il novanta per cento di tutti gli scienziati vive oggi. Il ritmo delle conquiste in campo scientifico, il ritrarsi dell’orizzonte davanti allo spirito che indaga, non è più assolutamente confrontabile con quello del passato. Ogni giorno si scoprono nuove Americhe, sicché la tempra della nostra epoca è permeata di valori scientifici. Questi estendono la propria influenza e il proprio fascino molto al di là dei confini della scienza intesa in senso classico. La storia e l’economia sostengono di essere, in qualche misura fondamentale, delle scienze; e così pure la logica e la sociologia. Lo storico dell’arte affina strumenti e tecniche che considera scientifici. Il compositore di musica dodecafonica collega i suoi esercizi austeri a quelli della matematica. Durrell ha scritto nella prefazione all’Alexandria Quartet che il suo tentativo è quello di tradurre nel linguaggio e nello stile della sua narrativa la prospettiva della relatività. Vede la città di Alessandria in quattro dimensioni.
Tale ubiquità della scienza ha recato con sé nuove modestie e ambizioni nuove. Diffidando del semplice istinto, la scienza esige una mitologia di rigore e di prova. Come splendido compenso, offre il miraggio della certezza, della conoscenza sicura, del possesso intellettuale salvaguardato dal dubbio. Lo scienziato grandissimo rifiuterà tale prospettiva; persevererà nel dubbio anche nel cuore della scoperta. Ma la speranza della verità oggettiva e dimostrabile è sempre presente e ha attirato a sé le menti più vigorose dei nostri tempi.
Nella critica letteraria non vi sono terre promesse di fatti stabiliti, né utopie di certezza. Per la sua stessa natura, la critica è personale. Non è suscettibile di dimostrazione né di prova coerente. Non dispone di strumenti più esatti della barba di Housman che si rizzava quando la grande linea di poesia gli saettava nella mente. In tutta la storia, i critici hanno cercato di dimostrare che il loro métier era una scienza in fin dei conti, che aveva canoni oggettivi e strumenti per pervenire alle verità assolute. Coleridge imbrigliò il proprio genio intensamente personale e spesso instabile al giogo di un sistema metafisico. In un celebre manifesto, Taine proclamò che lo studio della letteratura non era meno esatto di quello delle scienze naturali. I. A. Richards ha sottoscritto la speranza che vi sia un’oggettiva base psicologica all’atto del giudizio estetico. Il suo discepolo più eminente, W. Empson, ha applicato alle arti della critica letteraria le modalità e i gesti della matematica.
Resta però il fatto: il critico letterario è un uomo singolo che giudica un dato testo secondo l’attuale disposizione del proprio spirito, secondo il proprio umore o l’edificio delle proprie convinzioni. Può darsi che il suo giudizio abbia un valore maggiore del vostro o del mio soltanto perché si basa su una gamma più vasta di conoscenze o perché è presentato con chiarezza più convincente. Non lo si può dimostrare in maniera scientifica, né può pretendere di essere durevole. I venti del gusto e della moda sono incostanti e ogni generazione di critici ricomincia da capo a giudicare. Le opinioni sui meriti di un’opera d’arte sono, per giunta, inconfutabili. Balzac riteneva che la Radcliffe fosse grande come Stendhal. Nietzsche, una delle menti più acute che mai si siano occupate di musica, finì per sostenere che Bizet era un compositore più genuino di Wagner. Possiamo essere profondamente convinti che tali opinioni sono ingiuste ed erronee. Ma non possiamo rifiutarle come uno scienziato può rifiutare una teoria falsa. E chissà che una qualche epoca futura non concordi con giudizi che oggi sembrano insostenibili? La storia del gusto è un po’ come una spirale. Le idee che in un primo momento vengono considerate oltraggiose o di avanguardia diventano le credenze reazionarie e consacrate della generazione successiva.
Il critico moderno si trova dunque doppiamente in pericolo. La critica ha intorno a sé qualcosa di un’epoca più agiata. È difficile, su basi morali, resistere alle fiere sollecitazioni dei problemi economici, sociali e politici. Se vi è la minaccia di una qualche forma di barbarie e di autodistruzione politica, lo scrivere saggi sulle belles-lettres pare un’occupazione piuttosto marginale. Il secondo dilemma è di natura intellettuale. Per eminente che sia, il critico non può partecipare all’avventura principale della mente contemporanea: l’acquisizione della conoscenza positiva, il dominio del fatto scientifico o l’esplorazione della verità dimostrabile. E se è onesto con se stesso, il critico letterario sa che i suoi giudizi non hanno una validità duratura, che domani possono essere capovolti. Una cosa soltanto può conferire alla sua opera un po’ di durevolezza: il vigore o la bellezza del suo stile. Grazie allo stile, la critica può a sua volta diventare letteratura.
I maestri della critica contemporanea hanno cercato di risolvere questi dilemmi in modi differenti. T. S. Eliot, Ezra Pound e Thomas Mann, per esempio, hanno fatto della critica un’appendice alla creazione. I loro scritti critici sono commentari alle proprie opere poetiche; specchi che l’intelletto presenta alla fantasia creativa. In D. H. Lawrence, la critica è autodifesa: pur discutendo apparentemente di altri scrittori, di fatto Lawrence stava difendendo il proprio concetto dell’arte del romanzo. Leavis ha accettato la sfida a testa bassa. Ha posto le sue energie critiche al servizio di un’appassionata visione morale. È tutto intento a stabilire standard di maturità e di ordine in letteratura perché la società nel suo complesso possa procedere in una maniera più matura e ordinata.
Ma nessuno ha offerto ai dilemmi morali e intellettuali che assediano la critica letteraria una soluzione più radicale di quella di Georg Lukács. Nelle sue opere si concretizzano due convinzioni. La prima, che la critica letteraria non è un lusso, che non è quello che il più sottile critico americano ha definito «un discorso per dilettanti». Ma che, al contrario, è una forza militante e fondamentale per la formazione della vita degli uomini. In secondo luogo, Lukács afferma che l’opera del critico non è né soggettiva né incerta. La critica è una scienza con un proprio rigore e una propria precisione. La verità del giudizio si può verificare. Georg Lukács è, naturalmente, marxista. Anzi, è l’unico grande talento critico che sia emerso dal grigio servaggio del mondo marxista.
II
In un saggio che risale al 1948, Lukács tracciò un’analogia significativa. Disse che la fisica newtoniana aveva dato alla coscienza settecentesca il suo principale impulso liberatore, insegnando alla mente a vivere la grande avventura della ragione. Secondo Lukács, tale ruolo dovrebbe essere svolto ai giorni nostri dall’economia politica. È attorno all’economia politica, in senso marxista, che dovremmo ordinare la nostra comprensione delle vicende umane. Lukács stesso giunse alla letteratura attraverso l’economia, così come si può dire che Aristotile si accostò al dramma tramite un’indagine sistematica in campo morale.
Il materialismo dialettico sostiene che la letteratura, come tutte le altre forme d’arte, è una «sovrastruttura ideologica», un edificio dello spirito costruito sulle fondamenta del fatto economico, sociale e politico. Nello stile e nel contenuto l’opera d’arte riflette esattamente la sua base storica e materiale. L’Iliade non era meno condizionata dall’ambiente sociale (un’aristocrazia feudale frantumata in piccoli regni rivali) di quanto non lo fossero i romanzi di Dickens, che riflettono con tale vigore l’economia della produzione in serie e la crescita di un nuovo pubblico di massa. Pertanto, sostiene il marxista, il progresso dell’arte è sottoposto alle leggi della necessità storica. Non possiamo concepire Robinson Crusoe prima della nascita dell’ideale mercantile. Nel declino del romanzo francese dopo Stendhal osserviamo l’immagine di un più vasto declino della borghesia francese.
Ma dove c’è legge c’è scienza. E quindi il critico marxista nutre la convinzione di essere impegnato non in cose opinabili ma in determinazioni di realtà oggettiva. Senza tale convinzione, Lukács non avrebbe potuto dedicarsi alla letteratura. Raggiunse la maturità intellettuale in mezzo alla ferocia caotica della guerra e della rivoluzione nell’Europa centrale. Giunse al marxismo per la strada tortuosa della metafisica hegeliana. Nei suoi primi scritti vi sono due note dominanti: la ricerca di una chiave per comprendere l’apparente tumulto della storia e il tentativo dell’intellettuale di giustificare la propria scelta della vita contemplativa. Come Simone Weil, cui egli spesso mi fa pensare, Lukács ha l’anima di un calvinista. Si può immaginare come abbia dovuto lottare per disciplinare in se stesso l’inclinazione naturale alla letteratura e all’aspetto estetico delle cose. Il marxismo gli offrì la possibilità fondamentale di restare critico letterario senza aver l’impressione di aver dedicato le proprie energie a uno scopo piuttosto frivolo e impreciso. Nel 1918 Lukács aderì al partito comunista ungherese. Durante il primo breve periodo di governo comunista a Budapest, prestò servizio come commissario politico e culturale con la quinta Armata Rossa. Dopo la caduta di Béla Kun, Lukács andò in esilio. Rimase a Berlino fino al 1933 e quindi si rifugiò a Mosca. Là rimase e lavorò per dodici anni, facendo ritorno in Ungheria soltanto nel 1945.
È questo un fatto di ovvia importanza. Il tedesco è la lingua principale di Lukács, ma l’uso che ne fa è diventato fragile e sgradevole. Il suo è lo stile dell’esilio; ha perso i caratteri della parlata viva. Più essenzialmente: tutto il tono di Lukács, il tenore fervido e a volte angusto della sua visione, riflette il fatto dell’esilio. Da Mosca, circondato da una piccola cerchia di compagni d’esilio, Lukács osservò l’estendersi della crisi sull’Europa occidentale. I suoi scritti sulla letteratura francese e tedesca divennero una difesa appassionata contro le menzogne e la barbarie del periodo nazista. E ciò spiega un grosso paradosso nella produzione di Lukács. Pur essendo comunista per convinzione, materialista dialettico in virtù del suo metodo critico, egli ha tenuto lo sguardo decisamente fisso al passato. Thomas Mann vide nelle opere di Lukács un senso eminente della tradizione. Nonostante le pressioni dei suoi ospiti russi, Lukács prestava soltanto un’attenzione distratta alle conquiste celebrate del «realismo sovietico». Insisteva invece sulla grande tradizione della poesia e della narrativa europea del Settecento e dell’Ottocento, su Goethe e su Balzac, su Walter Scott e Flaubert, su Stendhal e Heine. Quando scrive di letteratura russa, Lukács tratta di Puškin o di Tolstoj, non dei poetastri dell’epoca staliniana. La prospettiva critica è rigorosamente marxista, ma la scelta dei temi è «centroeuropea» e conservatrice.
In mezzo all’apparente trionfo del fascismo, Lukács mantenne una serenità appassionata. Si sforzò di scoprire la tragica pecca, il seme di caos, da cui era scaturita la follia di Hitler. Una delle sue opere, un libro in se stesso stridulo e spesso mendace, s’intitola La distruzione della ragione (1955). È il tentativo filosofico di risolvere il mistero drammatizzato da Thomas Mann nel Dottor Faustus. Come si scatenò l’ondata di tenebre sull’anima tedesca? Lukács fa risalire le origini del disastro all’irrazionalismo di Schelling. Ma al tempo stesso insisteva sull’integrità e la forza vitale dei valori umani. Essendo comunista, Lukács non dubitava che il socialismo avrebbe finito per prevalere. Considerava suo compito particolare quello di organizzare in vista del momento della liberazione le risorse spirituali presenti nella letteratura e nella filosofia europee. Quando le poesie di Heine tornarono a essere lette in Germania, era disponibile un saggio di Lukács che tracciava un ponte tra il futuro e il mondo semidimenticato del liberalismo cui Heine era appartenuto.
Lukács dunque ha offerto una soluzione al duplice dilemma del critico moderno. In quanto marxista, scorge nella letteratura l’azione delle forze economiche, sociali e politiche. Tale azione si basa su certe leggi di necessità storica. Per Lukács la critica è una scienza ancor prima di essere un’arte. La sua preferenza per Balzac su Flaubert non dipende dal consenso o dal gusto personale. È una determinazione oggettiva cui si è pervenuti tramite un’analisi del fatto materiale. In secondo luogo, Lukács ha conferito al suo stile un’intensa immediatezza. Affonda le proprie radici nelle battaglie e nelle circostanze sociali del tempo. I suoi scritti sulla letteratura, come quelli su Tolstoj, sono strumenti di combattimento. Comprendendo la dialettica del Faust di Goethe, dice Lukács, si è meglio attrezzati a leggere gli enigmi sanguinosi del presente. La caduta della Francia nel 1940 è scritta a grossi caratteri nella Comédie humaine. Gli argomenti di Lukács hanno a che fare con problemi fondamentali della nostra vita. Le sue critiche non sono una semplice eco alla letteratura. Anche quando è settario e polemico, un libro di Lukács ha sempre una curiosa nobiltà. Possiede quella che Matthew Arnold chiamò «alta serietà».
III
Ma, in pratica, quali sono i grossi risultati di Lukács come critico e storico delle idee?
Ironicamente, una delle sue opere più influenti risale a un periodo in cui il suo comunismo era venato di eresia. Storia e coscienza di classe (1923) è un caso quasi leggendario. È un livre maudit, un libro dato alle fiamme, di cui sono rimaste relativamente poche copie. Si trova in esso un’analisi fondamentale della «reificazione» dell’uomo (Verdinglichung), della degradazione della persona umana a oggetto statistico tramite i processi industriali e politici. L’opera fu condannata dal partito e ritirata dall’autore. Ma ha portato a una tenace vita sotterranea e taluni scrittori, come Sartre e Thomas Mann, l’hanno sempre considerata il capolavoro di Lukács.
A mio parere, tuttavia, la sua preminenza si trova altrove: nei saggi e nelle monografie da lui scritte durante gli anni Trenta e Quaranta, che cominciarono a uscire in una sfilza di volumi imponenti dopo la fine della guerra. L’essenza di Lukács si trova nello studio di Goethe e i suoi tempi (1947), nei saggi sul Realismo russo nella letteratura mondiale (1949), nel volume intitolato Realisti tedeschi dell’Ottocento (1951), nel libro su Balzac, Stendhal e Zola (1952) e nella grande opera su Il romanzo storico (1955). A ciò bisognerebbe aggiungere alcuni volumi massicci di carattere più squisitamente filosofico, quali Contributi a una storia dell’estetica (1954), e quello che è forse il magnum opus di Lukács, lo studio di Hegel (di cui apparve il primo volume nel 1948).
È impossibile dare una descrizione breve e tuttavia accurata di una gamma così vasta di materiale. Ma vi sono alcuni motivi che emergono come classici arricchimenti della comprensione che noi abbiamo della letteratura.
Vi è l’analisi lukacsiana del declino del romanzo francese. Lukács è il più grande studioso vivente di Balzac e vede nella Comédie humaine il massimo monumento del realismo. La sua interpretazione di Les illusions perdues è un esempio perfetto del modo in cui la visione dello storico vien fatta pesare sulla struttura di un’opera d’arte. È questa visione a indurre direttamente Lukács a una condanna di Flaubert. Tra Balzac e Flaubert vi è la sconfitta del 1848. Lo splendore delle speranze liberali era sbiadito e la Francia si stava dirigendo verso la tragedia della Comune. Balzac guarda il mondo con l’ardore primitivo della conquista. Flaubert guarda il mondo come attraverso una lente, con disprezzo. In Madame Bovary il bagliore e l’artificio delle parole sono diventati fini a se stessi. Quando Balzac descrive un cappello, lo fa perché un uomo lo porta. La descrizione del berretto di Charles Bovary, dal canto opposto, è un pezzo di virtuosismo tecnico; sfoggia la padronanza che Flaubert ha del vocabolario dei sarti francesi. Ma la cosa è morta. E dietro questo contrasto nell’arte del romanzo, Lukács scorge la trasformazione della società attraverso il capitalismo maturo. In una società preindustriale, o in una società in cui l’industrialismo rimane su piccola scala, il rapporto dell’uomo con gli oggetti fisici che lo circondano ha un’immediatezza naturale. Questa viene distrutta dalla produzione in massa. L’arredamento della nostra vita è il frutto di processi troppo complessi e impersonali perché qualcuno li possa dominare. Isolato dalla realtà fisica, respinto dalla trasandatezza disumana del mondo delle fabbriche, lo scrittore cerca rifugio nella satira o nelle visioni romantiche del passato. Tutte e due le ritirate sono esemplificate in Flaubert: Bouvard et Pécuchet è un’enciclopedia del disprezzo, mentre Salammbô può essere considerato il sogno a occhi aperti di un antiquario un po’ sadico.
Da tale dilemma scaturì quella che Lukács definisce l’illusione del naturalismo, la convinzione che l’artista possa ricatturare un senso di realtà con la semplice forza dell’accumulazione. Mentre il realista seleziona, il naturalista enumera. Come l’insegnante di Hard Times di Dickens, esige fatti e ancora fatti. Zola aveva una fame inesauribile di particolari circostanziati, una passione per gli orari e gli inventari (viene in mente il catalogo dei formaggi in Le ventre de Paris). Provava piacere a infondere la vita in una citazione della Borsa valori. Ma la sua teoria del romanzo, sostiene Lukács, era radicalmente falsa. Porta alla morte della fantasia e al reportage.
Lukács non scende a compromessi con la propria visione critica. Esalta Balzac, realista e animato da princìpi clericali; e condanna Zola, progressista in senso politico e precursore del «realismo socialista».
Ancor più autoritario e originale è il trattamento che Lukács fa del romanzo storico. È questo un genere letterario la cui critica occidentale ha dedicato soltanto un’attenzione superficiale. È difficile focalizzare bene la sfera del romanzo storico. A volte, la sua testa è nelle stelle mitologiche, ma più sovente il grosso si può trovare nella buona terra della letteratura commerciale. Il concetto stesso evoca alla mente improbabili amorosi che inseguono giovinette terrificate eppure vestite vaporosamente attraverso copertine di libri riccamente decorate. Solo rarissimamente, quando interviene uno scrittore come Robert Graves, comprendiamo che il romanzo storico ha virtù ben precise e una nobile tradizione. È a queste che Lukács si rivolge in uno studio importante, Il romanzo storico.
Tale forma nacque da una crisi della sensibilità europea. La rivoluzione francese e l’epoca napoleonica avevano diffuso nella coscienza della gente comune un senso dello storico. Mentre Federico il Grande aveva chiesto che le guerre fossero condotte in maniera tale da non disturbare il corso normale degli eventi, le armate di Napoleone marciarono su e giù per l’Europa riplasmando il mondo lungo la strada. La storia non era più qualcosa che riguardava archivi e principi; era diventata la struttura della vita quotidiana. A tale mutamento i romanzi di Waverley reagirono in maniera profetica e diretta. Anche qui, Lukács si muove su un terreno fresco. Noi non prendiamo Walter Scott con assoluta serietà. Con ogni probabilità, commettiamo un’ingiustizia. Se ci teniamo a sapere che artista attento fosse Scott e quale penetrante senso storico sia all’opera in Quentin Durward o The Heart of Midlothian, la cosa migliore è leggere un libro scritto a Mosca da un critico ungherese.
Lukács prosegue esplorando l’evoluzione della narrativa storica nell’arte di Manzoni, Puškin e Victor Hugo. La sua lettura di Thackeray è particolarmente suggestiva. Egli sostiene che gli elementi archeologici in Henry Esmond e The Virginians esprimono la critica di Thackeray alle condizioni sociali e politiche dei suoi tempi. Togliendo la parrucca al Settecento, il romanziere satireggia la falsità delle convenzioni vittoriane (ciò che i marxisti chiamano zeitgenössische Apologetik). Personalmente ritengo che Lukács interpreti male Thackeray. Ma si tratta di un errore fruttuoso, come lo sono spesso gli errori della buona critica, e conduce a un’idea originalissima. Lukács nota che il discorso arcaico, per abilmente maneggiato che sia, di fatto non avvicina il passato alla nostra fantasia. I maestri classici del romanzo storico scrivono narrativa e dialogo nel linguaggio dei propri tempi. Creano l’illusione del presente storico tramite la forza della fantasia realizzata e perché essi stessi sperimentano il rapporto tra la storia passata e il proprio tempo come un rapporto di continuità viva. Il romanzo storico vacilla quando questo senso di continuità non è più prevalente, quando lo scrittore sente che le forze della storia trascendono la sua comprensione razionale. Egli allora si rivolge a un passato sempre più remoto o esotico per protestare contro la vita contemporanea. Invece del romanzo storico, troviamo laboriosa archeologia. Si confronti la poetica della storia implicita in La certosa di Parma con l’artificio erudito di Salammbô. Tra artefici meno abili di Flaubert questo senso dell’artificio è rafforzato dall’uso arcaico del linguaggio. Il romanziere si sforza di rendere autentica la propria visione del passato scrivendo i dialoghi in quella che suppone sia stata la sintassi e lo stile del periodo in questione. È, questo, un debole artificio. Forse che Shakespeare avrebbe fatto meglio a far parlare Riccardo II in inglese chauceriano?
Ora, come osserva Lukács, questo declino del concetto classico del romanzo storico coincide esattamente con il passaggio dal realismo al naturalismo. In entrambi i casi, la visione dell’artista perde la propria spontaneità: in un certo modo, egli è estraneo al proprio materiale. Ne consegue che i problemi di tecnica diventano predominanti a spese della sostanza. L’immagine di Glasgow in Rob Roy è storicamente percettiva, ma scaturisce in maniera più significativa dai conflitti sociali e personali della narrazione. Non è un pezzo di restauro antiquario. Ma questo è proprio ciò che è l’immagine di Cartagine in Salammbô. Flaubert ha costruito un sontuoso guscio vuoto attorno a un’azione autonoma. Come osservò Sainte-Beuve, è difficile conciliare le motivazioni psicologiche dei personaggi con l’ambiente storico presentato. Walter Scott credeva nello spiegarsi razionale e progressivo della storia inglese. Vedeva negli avvenimenti dei propri tempi una conseguenza naturale di energie liberate nel corso del Seicento e del Settecento. Flaubert, al contrario, si volse all’antica Cartagine o ad Alessandria perché trovava insopportabile la propria epoca. Non essendo in sintonia con il presente – vide nella Comune un tardo spasimo del Medioevo – non riuscì a raggiungere una comprensione fantastica del passato.
Si concordi o no con questa analisi, la sua originalità e la sua ampiezza di riferimenti sono evidenti. Essa illustra l’esercizio essenziale di Lukács: lo studio attento del testo letterario alla luce di problemi politici o filosofici di vasta portata. Lo scrittore o l’opera singola sono il punto di partenza. Di qui la discussione di Lukács si muove all’esterno attraverso un terreno complesso. Ma il tema o l’idea centrale sono tenuti continuamente di vista. Infine, la dialettica si fa serrata, ordinandone gli esempi e le convinzioni.
Analogamente, il saggio sulla corrispondenza tra Goethe e Schiller verte soprattutto sulla discussa questione della natura delle forme letterarie. La discussione dell’Hyperion di Hölderlin dà il via a uno studio del ruolo cruciale e tuttavia ambiguo svolto dall’ideale ellenico nella storia dello spirito tedesco. Nelle sue numerose considerazioni su Thomas Mann, Lukács s’interessa di quello che considera il paradosso dell’artista borghese in un secolo marxista. Lukács sostiene che Mann decise di star fuori dalla corrente della storia, pur rendendosi conto del carattere tragico della propria scelta. Il saggio su Gottfried Keller è un tentativo di chiarire il difficilissimo problema dell’arresto dello sviluppo della letteratura tedesca dopo la morte di Goethe. In tutti questi esempi, non è possibile separare il singolo giudizio critico dal più ampio contesto filosofico e sociale.
Essendo la sua discussione così serrata e fitta, è difficile offrire citazioni significative dalle opere di Lukács. Forse un breve passo tratto da un saggio su Kleist può comunicarne il tono dominante:
Il concetto di passione di Kleist porta il dramma vicino all’arte del racconto. Una singolarità intensificata è presentata in una maniera che ne sottolinea la unicità accidentale. Nel racconto ciò è assolutamente legittimo. Questo è infatti un genere letterario concepito appositamente per rendere reale il ruolo immenso della coincidenza e della contingenza nella vita umana. Ma se l’azione rappresentata resta al livello di coincidenza… e se riceve la dignità di dramma tragico senza prova alcuna della sua obiettiva necessità, si avrà inevitabilmente un effetto di contraddizione e di dissonanza. I drammi di Kleist, di conseguenza, non indicano la strada maestra del dramma moderno. Tale strada va da Shakespeare, attraverso gli esperimenti di Goethe e di Schiller, al Boris Godunov di Puškin. A causa del declino ideologico della borghesia, essa non ebbe un seguito adeguato. I drammi di Kleist rappresentano una strada laterale irrazionale. La passione individuale isolata distrugge il rapporto organico tra il fato della persona individuale e la necessità sociale e storica. Con la dissoluzione di tale rapporto, le basi poetiche e filosofiche del genuino conflitto drammatico sono a loro volta distrutte. La base del dramma si fa esile e angusta, esclusivamente privata e personale… Le passioni kleistiane rappresentano senza dubbio una società borghese. La loro dialettica interna riflette conflitti tipici di individui che sono diventati «monadi senza finestre» in un ambiente borghese.
Il riferimento a Leibniz è tipico. La qualità della mente di Lukács è filosofica, nel senso tecnico della parola. La letteratura concentra e concretizza quei misteri di significato che costituiscono l’interesse principale del filosofo. Sotto questo aspetto, Lukács appartiene a una tradizione notevole. La Poetica è critica filosofica (il dramma visto come il modello teorico dell’azione spirituale); come lo sono gli scritti critici di Coleridge, Schiller e Croce. Se l’andatura è pesante, è perché la materia in discussione è insistentemente completa. Come altri critici filosofi, Lukács affronta problemi che hanno tormentato l’indagine dai tempi di Platone. Quali sono le distinzioni fondamentali tra epica e dramma? Che cos’è la «realtà» in un’opera d’arte, l’antico enigma dell’ombra che pesa di più della sostanza? Qual è il rapporto tra la fantasia poetica e la percezione comune? Lukács solleva il problema del personaggio «tipico». Perché certi personaggi letterari – Falstaff, Faust, Emma Bovary – possiedono una carica di vita maggiore di quella di una moltitudine di altre creature fantastiche e anzi della maggior parte degli esseri viventi? È perché sono archetipi in cui i caratteri universali convergono e ricevono una forma memorabile?
Le indagini di Lukács attingono a un campo straordinario di documentazione. Egli dà l’impressione di possedere tutta la letteratura europea moderna e tutta la letteratura russa. Questo consente una rara combinazione di robusta esattezza filosofica e di ampiezza di visione. Per contrasto, Leavis, che non è meno moralista né lettore meno attento di Lukács, è cautamente provinciale. In fatto di universalità, l’equivalente di Lukács sarebbe Edmund Wilson.
Ma la medaglia ha un suo rovescio. La critica di Lukács ha la sua parte di cecità e di ingiustizia. A volte scrive con oscurità astiosa quasi ad affermare che lo studio della letteratura non dovrebbe essere un piacere ma una disciplina e una scienza, difficile da accostare come le altre scienze. Questo l’ha reso insensibile ai grandi musicisti del linguaggio. Lukács manca di orecchio; non possiede quel diapason interiore che consente a Ezra Pound di scegliere senza sbagliare l’istante di gloria di un lungo poema o di un romanzo dimenticato. Nell’omissione di Rilke da parte di Lukács vi è un’oscura protesta contro la meraviglia del linguaggio del poeta. In un certo senso, scrive troppo mirabilmente. Anche se lo negherebbe, inoltre, Lukács tende davvero all’errore fondamentale della critica vittoriana: il contenuto narrativo, la qualità della favola, influenza la sua valutazione. La sua incapacità di includere Proust, ad esempio, getta il dubbio su tutta la visione che Lukács ha del romanzo francese. Ma la trama della Recherche du temps perdu, il fasto e le perversità che Proust descrive, offendono ovviamente il moralismo austero di Lukács. Il marxismo ha un credo puritano.
Come tutti i critici, anch’egli ha le sue avversioni particolari. Lukács detesta Nietzsche ed è insensibile al genio di Dostoevskij. Ma essendo un marxista coerente, fa della cecità una virtù e attribuisce alle sue condanne un valore oggettivo e sistematico. Leavis si trova evidentemente a disagio con le opere di Melville. T. S. Eliot ha condotto una lunga e sottile polemica con la poetica di Milton. Ma in essa le cortesie fondamentali vengono rispettate. Le argomentazioni di Lukács sono ad hominem. Infuriato dalla visione del mondo di Nietzsche e Kierkegaard, egli ne consegna le persone e le fatiche all’inferno spirituale del prefascismo. Questa, naturalmente, è un’interpretazione erronea e grottesca dei fatti.
Di recente, questi difetti di visione si sono fatti più drastici. La distruzione della ragione e i saggi di estetica apparsi da allora, ne sono guastati. Senza dubbio, vi è un problema di età. Lukács aveva settant’anni nel 1955 e i suoi odii si sono irrigiditi. Vi è in parte il fatto che Lukács è ossessionato dalla rovina della civiltà della Germania e dell’Europa occidentale. Va a caccia dei colpevoli da consegnare al Giudizio Finale della storia. Ma vi è soprattutto, a parer mio, un intenso dramma personale. All’inizio della sua brillante carriera, Lukács strinse un patto con il demone della necessità storica. Il diavolo gli promise il segreto della verità oggettiva. Gli diede il potere di impartire benedizioni o pronunciare condanne in nome della rivoluzione e delle «leggi della storia». Ma dal ritorno di Lukács dall’esilio, il diavolo è rimasto in agguato nei dintorni, chiedendo il proprio onorario. Nell’ottobre del 1956, ha picchiato con forza alla porta.
IV
Accenniamo qui a fatti di natura personale. La parte svolta da Lukács nell’insurrezione ungherese e il monachismo successivo della sua vita personale hanno un ovvio interesse storico. Ma contengono un elemento di agonia privata cui un estraneo difficilmente può accedere. Un uomo che perde la propria religione perde le proprie convinzioni. Un comunista per cui la storia si mette a fare salti mortali corre il rischio di perdere la ragione. Forse, è peggio così. Quanti non l’hanno provato, tuttavia, difficilmente possono capire che cosa significhi un simile crollo di valori. Inoltre, nel caso di Lukács, i moventi dell’azione sono oscuri.
Accettò il posto di ministro della Cultura nel governo di Nagy. Non, ritengo, per essere tra le guide di un movimento antisovietico, bensì piuttosto per conservare il carattere marxista della vita intellettuale ungherese e proteggerne l’eredità fondamentale contro le forze rinascenti della destra agrario-cattolica. Più essenzialmente, forse, perché un Lukács non può aderire a un solo lato della storia anche quando questa assume forme assurde. Non può essere uno spettatore. Ma il 3 novembre, un giorno prima che l’Armata Rossa riconquistasse Budapest, Lukács si dimise. Perché? Aveva deciso che un marxista non deve opporsi alla volontà dell’Unione Sovietica in cui s’incarna, nel meglio e nel peggio, il futuro del materialismo dialettico? Fu convinto a ritirarsi da una causa persa da amici che temevano per la sua vita? Non sappiamo.
Dopo un periodo di esilio in Romania, Lukács ottenne il permesso di tornare in patria. Ma non gli fu più consentito di insegnare e la sua opera passata divenne oggetto di attacchi e di scherni sempre più feroci. Tali attacchi in realtà sono anteriori all’insurrezione di ottobre. L’Ungheria aveva la sua versione in miniatura di Ždanov, un omuncolo feroce di nome Joseph Revai. Dapprima allievo di Lukács, ma poi geloso della celebrità del maestro, Revai pubblicò un opuscolo sulla Letteratura e democrazia popolare nel 1954. In esso redasse un atto d’accusa stalinista di tutto il lavoro di Lukács. Accusò Lukács di aver costantemente trascurato la letteratura sovietica contemporanea. Lo accusò di essere pericolosamente antiquato nella sua concentrazione su Goethe e Balzac. Persino un romanzo mediocre di un comunista, sostiene Revai, è infinitamente preferibile a un grande romanzo di un reazionario o di un premarxista. Lukács pone gli ideali letterari «formalistici» al di sopra degli interessi di classe e di partito. Il suo stile è inaccessibile al lettore proletario.
Dopo ottobre, tali accuse si fecero meno stridule. I pubblicisti ungheresi e tedesco orientali tirarono fuori di nuovo le vecchie accuse di eresia rivolte ai primi scritti di Lukács. Rievocarono la sua ammirazione giovanile per Stefan George e scorsero tracce di «idealismo borghese» nelle sue opere mature. Il vecchio tuttavia non fu toccato e per uno di quei giudizi strani, kafkiani, ammessi a volte dai regimi comunisti, gli fu persino consentito di pubblicare un volumetto di saggi presso una casa editrice della Germania Occidentale (Wider den missverstandenen Realismus, Amburgo, 1958).
Può darsi che la relativa immunità di Lukács sia dovuta all’interesse che gli intellettuali socialisti al di fuori della cortina di ferro hanno avuto per il suo caso. Ma certamente il problema più importante è questo: come considerò Lukács stesso le sue convinzioni e i suoi risultati alla luce della tragedia di ottobre? Fu attirato dal grande limbo della delusione? I suoi dei finirono per abbandonarlo?
Questioni del genere non possono essere spinte molto lontano senza cadere nella futilità: esse coinvolgono quel luogo intimo di illusione vitale che conserva la coscienza religiosa o rivoluzionaria. Il giudizio espresso da Lukács sulla rivoluzione ungherese si trova in una prefazione da lui scritta nell’aprile del 1957: «Avvenimenti importanti si sono verificati in Ungheria e altrove, costringendoci a rimeditare molti problemi connessi con l’opera di tutta la vita di Stalin. La reazione a quest’ultimo, sia nel mondo borghese che nei paesi socialisti, sta assumendo la veste di una revisione degli insegnamenti di Marx e di Lenin. E ciò costituisce certamente la minaccia principale al marxismo-leninismo». Queste parole sembrano eludere disperatamente il punto. Ma teniamo bene in mente una cosa soltanto: per uomini come Koestler o Malraux, il comunismo fu un espediente temporaneo di passione. Il comunismo di Lukács è la fibra stessa della sua intelligenza. La sua interpretazione della crisi dell’ottobre 1956, qualunque possa essere, sarà stata ottenuta entro la cornice di una visione dialettica della storia. L’uomo che ha perso la vista continua a vedere quanto gli sta intorno in forma di immagini ricordate. Per sopravvivere intellettualmente, Lukács deve aver elaborato un compromesso interiore di qualche genere: simili spedizioni punitive nella propria coscienza sono tipiche della condizione marxista. Il suo commento sulla minaccia del revisionismo ci indica la strada. Se lo interpreto in maniera corretta, Lukács sta dicendo che l’episodio ungherese è un’estensione finale, una reductio ad absurdum della politica stalinista. Ma tale politica era una falsa partenza dalla dottrina marxista-leninista e la violenza con cui venne attuata ne prova soltanto il fallimento. La giusta reazione al disastro ungherese non implica pertanto un abbandono dei princìpi primi marxisti. Al contrario, bisogna tornare a tali princìpi nella loro formulazione genuina. O, come si esprimerebbe uno dei capi dell’insurrezione: «Opponiamoci all’Armata Rossa in nome del Soviet dei lavoratori di Leningrado del 1917». Vi è forse, in questa idea, l’antico, ingannevole sogno del comunismo separato dall’oscurantismo e dalle ambizioni particolari della dominazione russa.
Lukács si è sempre ritenuto responsabile verso la storia. Ciò gli ha consentito di produrre un corpo di opere critiche e filosofiche che esprimono intensamente lo spirito crudele e serio dell’epoca. Che noi ne condividiamo o no le convinzioni, non c’è dubbio che egli ha conferito alla Musa minore della critica una notevole dignità. Gli ultimi anni di solitudine e di pericolo ricorrente non fanno che sottolineare quanto ho osservato all’inizio: nel Novecento non è facile per una persona onesta fare il critico letterario. Ma, del resto, non lo è stato mai.