Come si diventa materialisti storici?

di Edoardo Sanguineti

1227476042Come si diventa materialisti storici?, Piero Manni, 2006.

Io sono naturalmente molto sensibile all’onore che mi è stato fatto, e al piacere che mi è stato procurato, per essere stato invitato qui a parlare oggi a voi, in occasione di questa festa, che tutti sentiamo, credo, con molta partecipazione: il compleanno del compagno Ingrao. Ho scelto questo titolo con un punto interrogativo, come una questione che si pone, a mio parere, non soltanto quale questione importante di ripensamento storico, ma tale da mantenere, io credo, una profonda attualità. Perché credo che sia possibile, ancora oggi, diventare materialisti storici. Anzi, potrei dire che ho messo, per una sorta di cautela, un punto interrogativo soltanto per rendere evidente che si tratta di un problema complesso, da meditare, e quello che vi offrirò oggi è semplicemente una specie di schema preventivo.

Non ho steso nessun testo: ho una scaletta e un pacchetto di fotocopie per alcune citazioni. Credo che ad un certo momento, ma lo faccio già adesso, citerò una frase che amo molto di Walter Benjamin: “Non ho niente da dire, soltanto da mostrare”. E l’idea che un discorso possa fondarsi su sole citazioni, idea che, come è noto, era una sorta di ideale sublime per Benjamin – se posso modestamente associarmi nell’ammirazione di questo progetto – è valida anche per me. Non mi dispiacerà, poiché è previsto dalla cortesia degli organizzatori, che questo testo venga poi pubblicato, una volta che sia stato scritto. E forse toglierei il punto interrogativo. Sarebbe interessante proporlo come una specie di manualetto, un poco come si potrebbe scrivere un libro che avesse come tema: Come coltivare bene i fiori sopra le terrazze romane. Così, Come si diventa materialisti storici non come un problema, ma piuttosto come una breve guida per incitare a un fai-da-te riguardo all’atteggiamento da assumere, a livello del pensiero e a livello della pratica concreta, nella nostra vita quotidiana.

Perché ho scelto questo tema? Per tante ragioni, ma quello che mi ha sempre interessato è il fatto che, in tutta la tradizione del materialismo storico, si afferma che la classe proletaria riceve la coscienza dall’esterno. L’essere proletari è una condizione di fatto, ma la coscienza dell’essere proletari e dei significati della responsabilità e delle possibilità che il ritrovarsi in tale condizione sociale pone, è altra cosa. È pressoché considerato un principio da non discutere più – e non è stato mai, in fondo, che io sappia, largamente discusso – l’idea che sono gli intellettuali che (viene subito in mente naturalmente l’immagine dell’”intellettuale organico” suggerita da Gramsci) portano la coscienza di classe a un gruppo sociale fondamentale ed essenziale come il proletariato, il quale da solo, per ragioni storiche molto complesse, non aveva, e in un certo senso non ha ancora elaborato – non in quanto proletari in ogni caso – una sua prospettiva culturale autonoma.

Marx e Engels non erano specificamente proletari, anzi erano piuttosto lontani come uomini di classe, e diedero l’esempio di qualcuno che, esterno alla classe, assume come compito preciso (da questo nasce – se da altro non nascesse – il Manifesto del ’48) quello di costituire un partito, e di dare, attraverso la costituzione di questo partito, coscienza di classe a una classe che non ha la coscienza – in questo segnando una differenza nei confronti di un lungo processo storico di una borghesia che, attraverso un lavoro secolare, era riuscita a costituire i propri intellettuali. E – ho già fatto il nome di Gramsci e lo farò ancora – quando Gramsci affronta il problema del ruolo degli intellettuali, della storia degli intellettuali, che è uno dei punti come si sa più significativi delle sue riflessioni, massime nei Quaderni del carcere, offre precisamente questa prospettiva: tocca al proletariato riuscire a costituire dei gruppi intellettuali, che si presentano ormai con una funzione politica diretta, consapevoli del ruolo storico che, allora si diceva, perché allora era storicamente esatto, la classe operaia doveva assumere.

Anche se, tuttavia, gli Arbeiter di cui parla Marx non sono necessariamente la classe operaia. Lo sono in una condizione storica specifica. Tanto che oggi c’è una tendenza molto forte a far coincidere la fine del proletariato con la fine della classe operaia. Ma questa è, a mio parere, una identificazione impropria. Quello che Marx e Engels hanno in mente è la classe degli sfruttati, dei proletari, e tutta la loro visione dipende dall’idea che, col processo storico in atto, e con la previsione che, per quel tanto di cui erano capaci (ed erano capaci piuttosto di forti previsioni, a mio giudizio), riuscirono a formulare, le due classi essenziali avrebbero ridotto a questo contrasto decisivo tra borghesia e proletariato, tra capitalismo e – per il momento – classe operaia, tutto l’insieme dei conflitti di classe, stringendosi in un dialogo evidentemente mortale, in qualche modo, che avrebbe occupato il resto della storia dell’età borghese.

A questo punto allora si potrebbe porre la seguente questione: ma come gli intellettuali acquistano coscienza di classe? Perché, se la coscienza di classe presso i proletari è assunta a partire dai gruppi intellettuali, questi gruppi intellettuali da dove la cavano? Una risposta molto chiara, se volete, viene prima di tutto da Marx ed Engels, i quali hanno molto riccamente, anche se non programmaticamente, nei loro testi, fatto riferimento alla loro storia, alla loro formazione. Ci sono indicazioni che sono diventate in un certo periodo quasi manualisticamente obbligate. Gli utopisti francesi, gli economisti inglesi, la filosofia dialettica hegeliana, come in una sorta di maneggevole catechismo, divenivano gli strumenti da cui era partita una visione dialettica materialistica.

Dunque, in qualche modo, alle origini sta già un paradigma esplicativo, ma naturalmente ha un valore molto particolare perché si tratta di un momento aurorale, iniziatico. Vorrei ricordare, a questo proposito, come tratto molto importante, la sottolineatura costante che viene fatta – da Marx particolarmente, ma anche da Engels—: “Non abbiamo inventato niente”. Perché si sapeva che esistevano le classi, si è sempre saputo che esistevano i conflitti di classe, si è sempre riconosciuto il ruolo (sempre vuol dire nella cultura borghese matura) dell’economia come motore dinamico della storia essenziale, e una qualche idea di dialettica si era sviluppata, almeno nella forma idealistica consolidata nella Germania, che rappresentava il grande laboratorio intellettuale di allora (al di qua e al di là del Reno era distribuita provvidenzialmente una sorta di divisione di compiti storici, per cui in Francia si faceva quello che in Germania si pensava).

Ma una volta pubblicato il Manifesto, una volta che questa coscienza viene elaborata e l’idea originale sostenuta da Marx e Engels è come limitata alla proposizione: “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”, che è, per loro dichiarazione, la sola cosa di cui si rendono responsabili, e cioè al di là di quelle che sono le conoscenze, a integrarle, a svilupparle, e per tanti riguardi a rovesciarle —perché l’essenziale momento è il rovesciamento della dialettica hegeliana – bene, esiste solo quest’idea fondamentalmente: che l’ultima classe che può rivestire un ruolo decisivo nello sviluppo storico è quella che potenzialmente è in grado di porre fine alle lotte di classe. Come classe ultima del processo storico essa non si limita ad un’acquisizione di poteri in modo – come è accaduto molte volte – da sostituirsi alla classe precedentemente dominante, ma punta a porre fine, una volta per tutte, attraverso la mediazione di una “dittatura del proletariato”, con la conclusione quindi della dittatura borghese, alle dittature storiche e aprire, per così dire, il regno della libertà. Io ho sempre guardato con molta meraviglia alla critica conservatrice nei confronti del marxismo, quando viene rimproverato costantemente a Marx e Engels di non aver mai elaborato una “teoria dello Stato”, di non aver mai offerto un programma concreto, di fronte alla categoria “Comunismo” e affini. Ma sarebbe stato assurdo da parte loro fare qualcosa del genere, poiché il principio fondamentale è precisamente la distruzione dello Stato, la quale avviene certamente attraverso l’assunzione di una dittatura proletaria, ma che ha precisamente il ruolo di annullare sé stessa.

Mille volte Marx spiega quello che accadrà dopo, ma proprio spiegando che non lo sa, e non può saperlo. Ma non solo. Penso a Engels, per esempio quando si pone il problema di cosa accadrà della famiglia dopo che si è soppressa la famiglia borghese, dopo che Marx ha spiegato insieme a lui chiaramente fin dal Manifesto: “La distruzione della famiglia non siamo noi a volerla”. Chi la compie? Come accade storicamente? E il capitalismo che distrugge i valori familiari e, anzi, sgombra il campo – è il suo compito storico – da tutte le mitologie affettive psicologiche sacrali che accompagnano la famiglia, mettendo in luce un nudo rapporto economico come costitutivo, e come persone degne di stima avevano, del resto, molto giustamente visto nella loro attività rivoluzionaria. Basti pensare a certe parole famose di Kant sopra il matrimonio, il suo fondamento giuridico, l’uso reciproco degli organi sessuali e cose di questo genere, che come sgombero delle sovrastrutture ideologiche fantasmatiche patetiche mitiche religiose non è niente male.

Il problema però si pone certamente in modo diverso quando, come dicevo, elaborato il Manifesto, costituito un partito, e per giunta accompagnato tutto questo da indizi evidenti di sviluppo di coscienza nel proletariato, bene: che cosa accade agli intellettuali che si trovano di fronte a questo? E una conversione di tipo intellettuale, poniamo, come può accadere ad un filosofo neoplatonico che un bel giorno decide invece di passare ad essere uno strutturalista di ferro. Il mondo è pieno di conversioni di pensiero: si è educati in un certo ambiente, si assume una qualche posizione, poi questa viene approfondita, sviluppata, contraddetta, abbandonata, respinta e via dicendo. E dopo è semplicemente un problema di coscienza intellettuale, oppure ci sono elementi di ordine, come dire, empirico? C’è una storia esistenziale specifica e difficilissima da schematizzare – si potrebbe dire: “le vie dell’inferno sono infinite”; cioè si può giungere alla stessa conclusione per ragioni estremamente differenziate e non schematizzabili in una sorta di percorso ideale e strutturato. Ma è possibile ragionare comunque sopra, non dico delle tipologie, tanto meno delle statistiche, per cui il materialismo storico possa essere assunto, e porre qualche problema di ordine generale? Ecco, da questo deriva la ragione del mio punto interrogativo.

Allora vorrei fare subito riferimento a quello che considero il pensatore più significativo che ha affrontato questo ordine di problemi: egli è naturalmente Lukács, autore di un’opera tanto celebre quanto credo, ormai, pochissimo letta, salvo da specialisti, storici e consimili: Storia e coscienza di classe. Libro contestatissimo, com’è noto, intorno a cui si travagliò enormemente Lukács; il saggio sopra la Coscienza di classe è del ’20, dunque un anno delicatissimo, sia che si pensi a quello che di recente era accaduto nella storia europea, oppure a quello che stava per accadere nella storia europea. Ma la cosa veramente importante è la Prefazione, tanto esecrata quanto discussa, quanto controversa, che egli stenderà nel ’67, facendo quella famosa autocritica per cui, com’è noto, il testo di Storia e coscienza di classe è giudicato da Lukács con molte riserve. Si trattò realmente di una solenne autocritica.

Tra le cose che hanno reso controversa quest’opera, fino a suscitare una certa stanchezza e infine indurre molti lettori a metterla in un deposito storico e ad archiviarla e non riproporla – com’è noto, particolarmente nel Sessantotto tedesco, ci fu un dibattito molto ampio; anche in Italia è apparso un volume che raccoglie tale dibattito intorno a Storia e coscienza di classe – nel complesso, salvo alcuni apporti filologici, perché pura occasione di recuperare alcuni scritti marginali di Lukács del periodo, c’è stato un dibattito che si è rivelato comunque effimero e che ha dato scarsissimi risultati, tanto nell’ordine teorico quanto, ovviamente, nell’ordine pratico.

Qui vorrei ricordare che il saggio Coscienza di classe, che costituisce uno dei capitoli del libro, pone cinque domande che possono essere utilmente ricordate in questa sede e a cui corrispondono i cinque paragrafi con i quali queste sono sviluppate. Anzitutto, che cosa si deve intendere, dal punto di vista teorico, per coscienza di classe? In secondo luogo qual è, dal punto di vista pratico, la funzione della coscienza di classe così intesa nella stessa lotta di classe? A tutto ciò va ricollegato un interrogativo ulteriore a proposito della coscienza di classe: si tratta di una questione sociologica “generale”, oppure essa rappresenta per il proletariato qualcosa di totalmente diverso rispetto ad ogni altra classe finora apparsa nella storia? Ed infine, l’essenza e la funzione della coscienza di classe sono qualcosa di unitario oppure si possono distinguere diversi livelli e strati? Quinta ed ultima questione: in caso di risposta affermativa, qual è il loro significato pratico nella lotta di classe del proletariato?

Sarebbe una vana ambizione quella di riassumere qui i cinque punti; in più lo scritto è di dimensioni sobrie, ma naturalmente, proprio per questo estremamente intenso. Al più citerò una proposizione che è, in qualche modo, conclusiva, tanto per dare un assaggio – e spero che questo assaggio metta appetito a qualche ex lettore, o non lettore eventualmente, di questo testo: “Il proletariato si realizza soltanto in quanto si sopprime, in quanto porta ad effettuazione la società senza classi conducendo fino all’ultimo la propria lotta di classe”. Che è cosa alla quale già accennavo, ma che rende tanto più interessante, allora, la questione della Prefazione con cui questo libro viene sconfessato dall’autore.

Perché questa Prefazione mi pare particolarmente interessante? Perché secondo me è il più grande documento elaborato da qualcuno che racconta, con grande penetrazione, gli anni del suo – sono parole sue – ”apprendistato del marxismo”. In questo scritto l’autore raccoglie e spiega gli scritti fra il ’18 e il ’30 e spiega come egli sia diventato marxista, o se preferite materialista storico (io preferisco sempre dire così). E ci sono due elementi che vorrei sottolineare. Il primo è questa strana sorta di autocritica; perché questa autocritica è insieme un’autoapologia: Lukács spiega come, in fondo, le cose che gli sono accadute nella mente e nell’attività pratica e politica, svolta per esempio negli anni d’Ungheria e poi nell’esilio a Vienna, siano andate così perché non potevano, date le circostanze, che andare così; e che l’itinerario e le contraddizioni, le difficoltà che egli ha incontrato non erano solo dei tratti personali, ma erano indizi di problemi oggettivi che si ponevano in quel momento al proletariato. Non erano esibizione di un documento personale, ma una riflessione che aveva un significato infinitamente più largo che un narcisistico ripensamento – sia pure intenso da parte di un uomo che era partito da posizioni prima di tutto di ordine etico ideale: si trattava di collegare lo sviluppo personale a un cammino più generale, individuando, nei nodi essenziali da lui percorsi, una serie di problemi che trascendevano di molto la sua persona.

La seconda cosa è – come dicevo – il fatto che l’autocritica diventa autoapologia. Perché nel radicare la propria storia personale negli eventi oggettivi, in fondo, egli viene a giustificare, in termini storici concreti, quello che potrebbe essere in astratto un insieme di scelte da rimproverarsi a lui e che gli furono, infatti, largamente rimproverate.

Egli dice: non voglio risalire alle mie “origini” – anche qui sono pagine dense, benché anche queste non lunghissime e difficilissime da riassumere – ma egli muove, in ogni caso, accennando a quella che definisce “la propria preistoria”, cioè il momento in cui ancora non si è posto il problema del marxismo come tale, benché – e comincia così, raccontando – avesse letto qualcosa di Marx già come studente liceale. “Intorno al 1908 presi in considerazione anche Il capitale, per dare un fondamento sociologico alla mia monografia sul dramma moderno”. Cioè, lì parte un momento talmente aurorale, in cui l’interesse verso il materialismo storico è semplicemente interesse di un intellettuale che deve affrontare alcuni problemi di vasta portata – l’ideale tragico, e una certa, come poi sarà battezzata, sociologia della letteratura – e, per poter avere una visione più larga, deve tener conto di tutto quello che, nella visione marxista, è stato suggerito, ma, come egli spiega, guarda a un Marx ’sociologo’ visto attraverso lenti metodologiche ampiamente condizionate da Simmel e da Max Weber. E poi c’è la lettura di Hegel, che diventa decisiva – e che del resto sarà decisiva per tutta la sua vita: e uno dei limiti, forse, proprio della posizione lukacsiana fu quello di aver mantenuto fino in fondo una sorta di subordinazione, che in sostanza si spiega proprio con questi ragionamenti intorno alle proprie vicende, nei confronti di Hegel. Ma egli osserva che aveva addirittura progettato, per esempio, un libro su Kierkegaard, che aveva fatto i conti, evidentemente, con la filosofia di Sorel, che durante la guerra aveva preso conoscenza delle opere di Rosa Luxemburg, ma che in quel tempo, per esempio, ignorava le posizioni di Lenin, e considerava come uno dei deficit strutturali degli anni del suo avvicinamento al marxismo aver conosciuto, male dapprima, tardi e con scarsa comprensione poi, le opere di Lenin.

Il passaggio da una classe alla classe che è ad essa specificamente nemica è un processo molto complicato. Lukács si sente un borghese e passa da una classe all’altra e, ad ogni passaggio che compie, egli mette in rilievo quello che di positivo ha acquistato attraverso i residui di portata culturale e psicologica, esistenziale e teorica, dalla sua visione originaria. Quanto ha ricavato di positivo, facendo un esempio, dall’anticapitalismo romantico, di cui troverà poi, se altro non fosse, traccia nel Manifesto stesso, una volta davvero letto e pensato?

L’autocritica o l’autoapologia di Lukács è tanto più rilevante perché non implica solo questo itinerario teorico ma anche un itinerario – come forse ho accennato – pratico, perché egli si impegna politicamente. Anzi, si può dire che la conclusione dello scritto del ’67 è il definitivo passaggio dall’impegno politico al puro impegno intellettuale. Lukács si considera, in base alle critiche che si è venuto facendo e alla complessità delle questioni che, a partire dal ’67, egli intende affrontare, meno atto di quanto potesse sperare all’attività politica concreta. Il suo ruolo è un ruolo eminentemente intellettuale, teorico, e naturalmente il rapporto teoria – prassi è uno dei temi che dovrà affrontare, come ogni materialista storico; ma, insomma, diventa decisivo tutto questo ripensamento della propria esistenza, anche per una decisione di statuto, oserei dire, professionale molto semplicemente, o di economia generale della propria riflessione e del proprio pensiero.

Io mi permetterò di utilizzare – si parva licet – anche qualche tratto personale mio, e, senza fare per questo nulla di paragonabile a quell’autocritica o a quell’autoapologia, dire qualcosa che forse può avere un interesse più largo di una mia storia personale perché, in qualche modo evidentemente anche io ho sperimentato, essendomi trovato all’interno di una formazione di cultura borghese, un itinerario, che certamente non è mio esclusivo, che moltissimi certo hanno attraversato, e che, senza nessuna pretesa, è inutile dirlo, di ordine paradigmatico particolarmente evidente, forse può aiutare qualcuno a trovare delle differenze o delle analogie, e ripensare a qualche tratto della propria esperienza.

Nella mia vita io ricordo particolarmente due episodi, e credo di non essere il solo che ha vissuto qualcosa del genere. Il primo episodio è legato a un personaggio che si chiarr/ava Fedele. Era un ragazzo che io conobbi quando, negli anni della guerra, la seconda guerra mondiale, andavo a giocare, come accadeva ai ragazzi del quartiere – nel ’40 avevo dieci anni – su un viale: allora abitavo a Torino, in quello che oggi si chiama Corso Matteotti e allora si chiamava Corso Oporto. Alla sera si trovavano i ragazzi miei coetanei, anno più anno meno, e le figlie delle portinaie, che erano le sole fanciulle che avevano l’accesso, in qualche modo, a questo viale, e che quindi rappresentavano, ai miei occhi, un archetipo di femminilità. A queste era facilmente concesso affacciarsi sulla porta degli edifici, e per combinazione nella zona dove abitavo c’erano molte portinerie e molte figlie di portinaie, e così, un passo dopo l’altro, venivano ad aggregarsi, sia pure con cautela e discrezione, e questo le rendeva ancora più rilevanti, alla piccola nostra banda di giovinettini, o maschietti, come si dice oggi. Un giorno comparve un tale che non apparteneva al quartiere; aveva alcuni anni di più, poteva avere quattordici o quindici anni. Era un operaio. Passando di lì, non so per quale occasione, né da dove arrivasse, ad un certo momento si ferma, dà un calcio al pallone col quale giocavamo, e si comincia a giocare insieme, e a chiacchierare con questa piccola banda. Credo che per gli altri ragazzi che erano con me non fu un incontro significativo. Per me lo fu moltissimo. Perché fu la rivelazione che esistevano persone al cui mondo non partecipavo, e che erano, in qualche modo, di un’altra razza. Non era in nessun modo un borghese, era un operaio, e compariva nella veste, però, di un giovane che veniva così, a intrattenersi en passant con altri giovani che erano lì a divertirsi. Fu una rivelazione perché non è che io non avessi mai visto degli operai, dei lavoratori, o dei proletari in vita mia, ma nel momento in cui svolgevano le loro funzioni quotidiane. Sarà pure venuto, certamente – anche se io ne conservo memoria poco significativa – qualcuno ad aggiustare un rubinetto che non funzionava, o altre cose di questo genere, con cui poi si poteva anche scambiare qualche parola all’occasione. Ma naturalmente, da questo a rendersi conto che erano, in qualche modo, d’una razza diversa, correva molto. Invece scoprii che esisteva veramente un altro pianeta, e lo scoprii perché, immediatamente, anche per una certa differenza di anni, età e ideologia si legavano fortemente insieme. Costui non era religioso per niente, ma quando dico “per niente” non dico semplicemente che era indifferente alle pratiche religiose; no, era un miscredente tranquillo. Inoltre aveva un tipo di idea della sessualità, del maschile e femminile, e cose di questo genere, alla quale non partecipavo in nessun modo, non solo perché empiricamente ero al di qua di una quantità di esperienze concrete, ma perché ne avevo un’idea assolutamente favolosa, come si addice a qualcuno che ha dieci anni, ed è investito da un certo tipo di educazione.

Fu la scoperta di un altro mondo. Lui ritornò qualche volta a passare da quelle parti perché gli piaceva, evidentemente, anche questo tipo di colloquio, perché probabilmente anche lui scopriva, attraverso questa conversazione, figure di altra specie di cui poteva, probabilmente, già avere molta conoscenza, ma con cui aveva avuto certamente poco dialogo. Insomma, ci annusavamo a vicenda, come può accadere a due specie di cani che si incontrano così passeggiando, e poi i padroni si intrattengono tra loro con^rsando; si annusano anch’essi e c’è qualche tratto che suscita stupore, perplessità, e in ogni caso interesse. Lui era interessato a capire perché io pensavo le cose che pensavo, perché mi comportavo in certi modi, e io ero ugualmente interessato a capile questo, in lui e in me.

E bene che io racconti la conclusione. L’ho perduto praticamente da allora, ma ci fu un incontro il giorno della liberazione di Torino. Erano scesi i partigiani in città. Io abitavo proprio all’angolo di Corso Oporto, dinanzi al quale c’era il comando militare delle SS e dei fascisti. La città fu abbandonata di notte dalle SS, che tentarono di fuggire e furono poi bloccate, in fuga, fuori da Torino, dai partigiani che stavano arrivando. E lui arrivò col rosso fazzoletto partigiano al collo, con un mitra, e quello integrò definitivamente la mia immagine di lui.

Da questo a capire che esistevano i proletari, non come categoria astratta, che del resto a quell’epoca avrei ignorato comunque, ma come fatto concreto, come fatto umano, e che questo coincideva con una certa idea di rivoluzione proletaria, che nel momento si manifestava attraverso la vittoriosa guerra contro il nazifascismo, il passo fu relativamente breve – tutto ciò naturalmente cominciò a modificare radicalmente la mia visione del mondo. Dopo, le mie posizioni si trasformarono sempre più sulla base di una esperienza culturale molto legata ad un certo irrazionalismo, quello che Lukács condannerà nella Distruzione della ragione. I grandi irrazionalisti furono per molto tempo i miei educatori. Da giovane fui incantato da Nietzsche, poi da Kierkegaard, poi da Schopenhauer, poi da Heidegger. Credo che molti siano passati in questo modo, prima di arrivare, poniamo, a Sartre; e non dico tanto il Sartre de L’Etre et le Néant, ma il Sartre della Critique de la raison dialectique, che avrebbe potuto contribuire naturalmente in modo molto più forte alle mie metamorfosi mentali e pratiche – ma ormai vi giungevo “avvertito”. Ma più tardi, quando io cominciai ad orientarmi verso una possibilità di professione intellettuale, negli anni del liceo, questi irrazionalisti si rivelarono dei maestri. Scoprii sempre di più che quello che mi interessava era la reazione da destra contro il capitalismo. Erano apologeti del capitalismo, beninteso. Heidegger è un filosofo nazista, non si discute. E non per le sue compromissioni politiche, ma perché il suo è un pensiero intrinsecamente nazista. Questo non impediva di scoprire in Heidegger certe critiche sopra la volgarità della chiacchiera borghese, del “sì” – non impediva di scoprire in Heidegger un pensatore che denunciava, per esempio, una manipolazione dell’idea di morte, e il mercato della morte, come veniva sviluppato all’interno della borghesia. Che questo fosse fatto, poi, in vista di un “essere per la morte” in nome del quale si poteva fare una sostanziale apologia delle posizioni naziste, poteva diventare assolutamente secondario di fronte alla quantità di problemi che egli veniva ponendo e che erano, per dirla nella maniera più schematica possibile, perfettamente leggibili da sinistra. Insomma, venivo scoprendo quello che avrei più tardi scoperto quando in Marx e in Engels trovavo l’apologia di Balzac.

Questi fu un grandissimo scrittore reazionario, ma un vero, grande realista, che, da destra, riuscì a capire il carattere catastrofico e rovinoso del dominio borghese in nome di un rimpianto del legittimismo, della monarchia, del cattolicesimo, ecc., ma che valeva infinitamente di più come diagnosi corretta dello stato delle cose, dello stato della questione e di appoggio al “che fare?” di quei maledetti poeti socialisti che Engels scherniva rabbiosamente, e che proponevano mondi ideali, soli dell’avvenire, felicità future,’sorti magnifiche e progressive, e non dicevano niente. Facevano della mera retorica, laddove Balzac insegnava davvero come le cose procedevano, dettando un quadro della borghesia da cui finalmente si poteva imparare qualcosa. Questo servì poi, molto più tardi, a confermare in me quelli che naturalmente erano, prima, dei puri sospetti.

Lì entra un altro amico, un compagno di scuola, Nino, figlio d’operai credo, iscritto al Partito, che mi induce a recarmi in federazione. Io non mi iscrissi al Partito, non mi iscriverò mai a niente per tutta la vita, però, di certo, mi feci un’idea di che cos’era il Partito Comunista Italiano. Conobbi gli operai impegnati, conobbi coloro che erano i dirigenti, i segretari, ecc. Non si facevano, poi, straordinarie conversazioni. Conobbi il cinema sovietico. Ero passato, un poco alla volta, da una posizione che fondamentalmente era di tipo anarchico – e anche qui, non nel senso politico, ma, come mi è accaduto qualche volta di dire, nel senso di un anarchismo ancora più radicale, se possibile, cioè proprio di un rifiuto, etimologicamente, di qualunque αρχή, non volevo avere nessun a priori, insomma; scriverò molto più tardi in una mia poesia un verso, se posso osare anche di citare un verso mio: “Non ho creduto in niente”. Questa proposizione mi suscitò molti contrasti presso alcuni benevoli amici che mi dicevano: «Ma come, ma proprio tu? Uomo dell’ideologia e linguaggio, tu che sei ostinato, tenace, testone, nello sviluppare i tuoi principi dici adesso: Non ho creduto in niente?» Tuttavia è una cosa che io penso a fondo, se per credere si intenda il pensare astrattamente che sia possibile raggiungere una sorta di verità, di certezza sulla quale riposare. A mio parere, il materialismo storico in tanto è importante, in tanto per me è significativo, in quanto costituisce l’abolizione di qualunque tipo di fideismo, di riposo in una verità posseduta, ed esiste proprio e soltanto nell’ordine della critica, della contestazione e dell’analisi —per quel che umanamente è possibile – corretta delle cose.

Dirò subito una cosa che mi sta a cuore: io uso la parola “ideologia” positivamente. Questo può apparire strano in un materialista storico, e la cosa è discussa persino nella Prefazione di Lukács, a cui facevo riferimento. L’uso fondamentale in Marx è naturalmente un uso negativo: l’ideologia è la falsa coscienza. A ciò io tendo a rispondere così: a questo mondo non ci sono che false coscienze. Perché nessuno è in grado di raggiungere una coscienza che non sia in qualche modo fondata sopra delle ipotesi, sopra una certa serie di prospettive, di risultati di esperienze, che non possono che essere parziali se davvero è vero che la coscienza viene dopo la realtà, e che prima esiste la realtà in una complessità tale che nessuno può dire: finalmente ho capito il mondo. No. Tutto quello che si può fare è crearsi una falsa coscienza, se così posso dire, che sia meno falsa di un’altra, ma naturalmente io sono il giudice e il responsabile di questa posizione, mi confronto con un cumulo di altrettanto numerose false coscienze che mi circondano, e qui è il bello, e possiamo discutere, ma possiamo soprattutto confrontarci nella lotta politica. Perché la discussione è un elemento concreto molto particolare, che se ha senso è un fare, e non è un dibattito contemplativo, non è un dibattito teorico; in questo momento medesimo io sto, nella misera dimensione di cui sono capace, comunque tentando, qui, di fare qualcosa. Non parlo perché voglio comunicare delle idee, ma comunicare una proposta pratica, qualcosa di praticabile, qualcosa che io cerco di praticare e che sottopongo ovviamente al vostro giudizio.

Allora il compagno di scuola rappresentò, come dire, una fase più evoluta di chi è impegnato, e mi diede il senso di questo impegno. Era un uomo di grandissima abilità come lo erano spesso i propagandisti dell’idea comunista nel Partito di allora. Pieni di attenzione, di riguardo alla debolezza di coloro che non erano ancora conquistati alla causa. Ne comprendevano le ragioni. Se io facevo obiezioni di fronte al socialismo reale, mi dicevano: «Ma certo, capisco benissimo, anche io ho condiviso molto di quello che tu dici. Tieni conto però che… ecc. ecc.», e questo poteva andare avanti all’infinito. Forse, se mai fossimo rimasti giovani, all’epoca in cui i dialoghi tra due persone spesso hanno grande significato, adesso saremmo ancora lì a discutere.

In ogni caso nel ’62, ormai diventato già, in qualche modo, responsabile, raggiunta ormai abbondantemente l’età della ragione, pubblico un libro su Alberto Moravia. Lo cito, perché questo libro conteneva un capitolo che mi stava molto a cuore, che era il capitolo dedicato ad Agostino. Agostino è un grande libro, è un libro di un grande realista, e tutto il sugo di Agostino, ai miei occhi, stava in una cosa che io forse potevo capire meglio di tanti altri rileggendola. E un libro politico. Agostino è un ragazzo tutto chiuso nell’ideologia borghese, di buona famiglia, un ragazzo per bene che si imbatte in una torma di ragazzacci, una banda, una gang poco raccomandabile. E scopre – esattamente come io avevo scoperto con quel ragazzo, Fedele, che farebbe pensare davvero che nomen est omen – al tempo stesso, in piena coincidenza, la differenza sessuale e la differenza sociale. E le scopre, naturalmente, in maniera spaventevole, perché è una piccola banda di delinquenti di fronte alla quale si trova, che lo schernisce e lo umilia fino in fondo perché è un borghese. Malgrado questo Agostino capisce che sta ricevendo grandi insegnamenti. La visione di Moravia è naturalmente la visione di uno che ha letto male Freud, ha letto male Marx, comunque conosce queste posizioni, pressappoco come le può conoscere chi legge un giornale femminile e osserva le risposte da piccola posta, opinioni sociologiche o interpretazioni di sogni, fatte per una tale clientela. Però Moravia era uomo di intelletto. La visione che egli offre del mondo proletario, che poi non è proletario, ma degli altri, dei diversi, di coloro che non sono borghesi, è una visione catastrofica. Sono delinquenti, in fin dei conti. Agostino è in un’impasse, in qualche modo, insolubile. Se vuole capire il mondo deve capire l’enorme importanza che ha per lui capire che è chiuso in una classe. Ma uscire da questa chiusura vuol dire degradarsi. E il libro si conclude non concludendo. Moravia non poteva pensare naturalmente a una “conversione di classe”; Moravia è un borghese – un borghese intelligente; e aveva quel tanto di realismo che gli permetteva di descrivere la crisi di un ragazzo, nella sua coscienza di classe come nella sua coscienza erotica. La coppia Freud – Marx è una coppia canonica d’epoca, oltre che specificamente chiave di volta, grimaldello per aprire le porte nel pensiero moraviano. La cosa si conclude, com’è noto, col bambino ossessionato ancora dall’immagine materna, che tenta di entrare in un postribolo, viene respinto e comprende che passeranno molti anni, non ricordo ora le parole esatte, prima che egli possa affrontare realmente quello che è il suo problema.

In ogni caso, se posso ancora aggiungere un tratto personale, io sono sempre rimasto molto impressionato da un raccontino de Le storie del signor Keuner di Brecht, dove si racconta che un tale incontra un amico dopo molti anni, e l’amico gli dice: «Non sei mutato per niente», e lui impallidisce. Io mi definisco volentieri “aspirante materialista storico”, credo che sia un lusso dichiararsi materialisti storici e sia una conquista che non si può prendere alla leggera. Gli anni di apprendistato continuano per tutta la vita. Rispondendo ad un piccolo questionario, una volta, alla domanda: “Qual è il suo difetto maggiore?”, dissi: l’ostinazione. “E la sua migliore virtù, a suo parere, qual è?”: l’ostinazione. E, in effetti, sono ostinato. Mi sono domandato appunto, se non fossi un poco in errore come quell’eroe brechtiano di fronte a questo problema, di non esser mutato. Ma poi mi sono accorto che: ero partito come irrazionalista e anarchico; ero diventato uno stalinista molto rigido, cosa che mi pareva allora naturalissima, dovendo scegliere tra capitalismo e socialismo – per dirla molto in breve: tra l’imperialismo americano (e la sua espressione allora involontariamente connessa ma suprema che era il nazismo), da un lato, e lo stalinismo reale, dall’altro; poi sono diventato filocinese, perché mi pareva che ciò potesse rappresentare un superamento delle burocratizzazioni del socialismo reale; non faccio l’elenco delle tappe presso cui sono passato, ma credo che l’ultimo approdo significativo, come precisa posizione, fosse il compromesso storico e l’eurocomunismo di Berlinguer, e questo nell’epoca stessa in cui io mi trovai a far parte del Parlamento (entrai in Parlamento nel ’79 e ne uscii nell’83). Dopo, accadde qualcosa che io giudico terribile, e cioè la fine del Partito Comunista Italiano, evento del quale penso che tutti stiamo ancora pagando il prezzo.

Ma quando mi domandano: “Che cosa pensi di fare come intellettuale? Che cosa pensi, in ogni caso che debbano fare gli intellettuali?”, la mia risposta è: Quello che hanno fatto sempre, se hanno svolto il loro ruolo. E cioè di collaborare a diffondere o consolidare, per quel tanto o pochissimo di cui sono capaci, la coscienza di classe. Non è cambiato niente. Il compito rimane lo stesso. Se il compito oggi è particolarmente difficile è perché il proletariato esce da una sconfitta planetaria, ha perso totalmente la coscienza di sé, e ci troviamo di fronte, nel migliore dei casi, a qualche residuo di ordine socialdemocratico. Ma per chi voglia saperne di più vorrei rinviare alla lettura, e questo è già superfluo per quello che ho detto, di Gramsci. Non soltanto là dove affronta esplicitamente il problema degli intellettuali, dell’intellettuale organico, dell’intellettuale tradizionale, e scopre che ogni classe sociale, che è il punto fondamentale, ha i suoi intellettuali organici; che gli intellettuali organici della borghesia si presentano come intellettuali tradizionali; che si tratta dunque, per un proletariato, di elaborare i propri intellettuali organici, di contrapporli a quelli tradizionali, e di convertire, al possibile, gli intellettuali tradizionali a diventare organici al proletariato – io preferisco dire al proletariato piuttosto che al partito, massime in un momento in cui il Partito non c’è.

Ma il secondo punto che mi sta a cuore sottolineare, e a cui mi permetto di rinviare molto rapidamente, sono le cosiddette Tesi di filosofia della storia di Benjamin, laddove, nel momento terminale della riflessione di Benjamin, cioè di uno dei più grandi pensatori in assoluto del Novecento, si pongono due punti. Uno: non è la deplorazione del nazismo che domina il testo, cosa troppo ovvia per spenderci molte parole – credo che in quelle pagine meravigliose ci sia appena un rapido accenno – ma della socialdemocrazia, con l’accusa che è la socialdemocrazia che ha distrutto la coscienza di classe, lo spirito di classe, la voglia di combattimento alla classe operaia, ed è responsabile della sua rovina. Questo mi pare un tratto da acquisire storicamente una volta per tutte; e non ha niente a che vedere con il compromesso. Il compromesso è una cosa che si può fare soltanto a partire da una posizione netta e forte di classe; soltanto allora ogni compromesso storico è un grande compromesso. Qui hanno ragione i nostri “nemici” – mi permetto di usare questo vocabolo plurale – quando dicono che in fondo la Repubblica italiana – loro dicono la Prima Repubblica, ma siamo ancora nella Prima Repubblica perché, che io sappia, non ne esiste né una seconda né una terza – e la Costituzione italiana sono nate da un grande compromesso storico, tra le due grandi forze popolari del proletariato e del popolo cristiano. Questo compromesso è un capolavoro che ha dato la più importante Costituzione di tutto l’Occidente, una Costituzione che, secondo me, davvero va difesa fino in fondo in un momento in cui invece viene insultata e vilipesa. Se io dovessi oggi dire che cosa dovrebbe fare un politico di sinistra che volesse essere veramente di sinistra, potrei rispondere con un’unica battuta: Vorrei che attuasse la Costituzione; non solo difenderla, ma svilupparla e portarla fino in fondo. Per dirla molto semplicemente: se io fossi Prodi, e mi si domandasse: «Qual è il tuo programma?», io, come programma, minimo ma chiaro, direi: Attuare i principi costituzionali. Garantire che questa sia una Repubblica fondata sul lavoro, cioè fatta da lavoratori, per cui lavoratore e cittadino formano una cosa sola, per cui si ha diritto alla salute in quanto cittadino, si ha diritto alla pensione in questo modo, si ha diritto alla scuola senza spese per lo Stato, in base alla Costituzione. Farei questo elenco. E ogni proposta di un programma dettagliato, di duecento e più pagine, dovrebbe fare riferimento, in ogni istante, al principio costituzionale al quale si vuole ricondurre. Ma io non sono Prodi, naturalmente, e tuttavia mi permetto lo stesso di dire questo.

Il secondo punto importante di Benjamin è il seguente: il proletariato è caduto in un errore spaventoso quando si è proposto di pensare alla felicità dei figli futuri, quando il problema, invece, è la vendetta. Bisogna vendicare le sofferenze dei padri. E questo coincide perfettamente col rifiuto dei padri fondatori quando dicevano: i comunisti, il giorno in cui realizzeranno il comunismo faranno quello che vorranno, noi non abbiamo niente né da dire né da progettare e tanto meno da preoccuparci della loro felicità. Noi siamo nati per vendicare le sofferenze dei padri: non esiste coscienza di classe se non esiste odio di classe.

Questa parola è talmente démodé, talmente desueta, che proprio per questo merita che io vi insista un momento, a questo punto. La borghesia odia il proletariato, perché non è contenta soltanto di sfruttarlo, ma nutre veramente un odio radicale e una piena coscienza del proprio statuto di classe. È deplorevole che il novantotto per cento, ad essere ottimisti, della gente che abita questo pianeta non abbia coscienza di classe, e sia rappresentata da proletari di fatto, o da sottoproletari, che è cosa ancora più terribile e pericolosa. Per questa gente io spero che la felicità dei figli sia diventata un lusso tale ai nostri tempi da togliere un po’ di buone preoccupazioni al riguardo, e riportare l’accento sopra le sofferenze, che non sono solo quelle da vendicare con odio, sofferte dai padri, ma anche quelle che intanto cominciano a soffrire direttamente, essi stessi, nella loro carne. Questo perché la condizione di disperati, che non è la povertà, beninteso – qui si rischia una grande confusione ideologica, di fronte all’unica dicotomia che si apre: quella tra sfruttatori e sfruttati; si può essere sfruttatori ed essere poveri e si può essere sfruttati ed essere ricchi; l’importante è capire come si sta nella società – è una condizione necessaria alla rivoluzione: non ci sono che le catene, da perdere.

Ma c’è una pagina che mi interessa, che è una pagina dei Minima moralia di Adorno, laddove l’autore si pone il problema se è bene o male essere gentili nei confronti degli altri. Adorno consiglia lo sgarbo, perché ogni rapporto di gentilezza con gli altri, viene in qualche modo a rafforzare l’idea che viviamo in un mondo “umano”. E doveroso, quindi, essere sgarbati di fronte agli altri per rendere evidente che i rapporti sono “disumani”.

Adorno tuttavia, in conclusione, dice: è possibile un rapporto solidale nella sofferenza. Dice poco, perché naturalmente Adorno non era un materialista storico, era un individualista sfrenato e irrazionale. Però era uomo di intelletto. Se approfondiamo quest’ultima espressione e la rendiamo politicamente esplicita, io credo che avremmo una buona linea di condotta: occorre essere sgarbati, sgarbati e carichi di odio nei confronti di coloro che non appartengono al proletariato e ne sono nemici; credo però che altrettanto forte possa essere la solidarietà umana con i proletari e, in esclusiva, con coloro che si rendono complici con noi di un progetto eversivo, e questo progetto eversivo conserva il nome di rivoluzione.

Occorreranno cinque anni, cinquanta, cinquecento, non lo so. La borghesia ha impiegato secoli per arrivare al potere. Naturalmente questo riguarda pochissimo il breve tempo della nostra esistenza, ma questo non cambia di un millimetro il “che fare?” di fronte al quale noi possiamo ritrovarci.

Adesso vorrei leggervi, per chiudere, una pagina di Brecht. Avrei voluto citare qualcosa dalle Cinque difficoltà per chi scrive la verità, che è un testo assolutamente straordinario. Avrei voluto citare un passo dei Dialoghi di profughi, dove, con straordinaria perfezione, si spiega quanto costa la conoscenza del materialismo storico, dato che gli studi sono cari, e si può avere una conoscenza un po’ provvisoria, a prezzo scontato, magari con poco Ricardo, con poco Hegel. Se si volesse approfondire però, occorrerebbe avere così tanto tempo e così tanto denaro a disposizione, che implica una posizione lussuosa, insomma. Essere materialisti storici è diventato un privilegio. Una pagina stupenda.

Vi leggerò invece una brevissima poesia di Brecht, e lo faccio tanto più volentieri perché ho pensato in onore di Ingrao questo mio intervento, e tutti e due amiamo la poesia: allora finire con un testo di un grande poeta mi pare la maniera migliore. E una poesia del 1933, e si chiama Lode del comunismo:

È ragionevole, chiunque lo capisce: è facile.
Non sei uno sfruttatore, lo puoi intendere.
Va bene per te, informatene.
Gli idioti lo chiamano idiota, e i sudici sudicio.
È contro il sudiciume e contro l’idiozia.
Gli sfruttatori lo chiamano delitto.
Ma noi sappiamo:
è la fine dei delitti.
Non è follia ma invece
fine della follia.
Non è il caos ma
l’ordine, invece.
È la semplicità
che è difficile a farsi.

Bibliografia essenziale

Benjamin Walter, Parigi capitale del XIX secolo, Einaudi, Torino 1986 (I “passages” di Parigi, Einaudi, Torino 2000);

Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962;

Gramsci Antonio, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975;

Marx Karl, Engels Friedrich, Opere, vol. VI, Editori Riuniti, Roma 1973;

Kant Immanuel, Scritti politici e di filosofia della storia, Utet, Torino 1956 (1965);

Lukács György, Storia e coscienza di classe, Sugar, Milano 1967;

La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959;

Cerutti Furio, Claussen Detlev, Krahl Hans – Jurgen, Negt Oskar, Schmidt Alfred, Storia e coscienza di classe oggi, con scritti inediti di Lukács (1918 – 1920), Edizioni aut aut, Milano 1977;

Brecht Bertolt, Storie da calendario, Einaudi, Torino 1959;

Poesie e canzoni, Einaudi, Torino 1959;

Scritti sulla letteratura e sull’arte, Einaudi, Torino 1973;

Dialoghi di profughi, Einaudi, Torino 1962;

Adorno Theodor Wiesengrund, Minima moralia, Einaudi, Torino 1979

Nota

Questo testo è, per volontà dell’autore, trascrizione fedele della registrazione della Lectio tenuta da Edoardo Sanguineti in occasione dei festeggiamenti per il novantunesimo compleanno di Pietro Ingrao, il 20 marzo 2006 a Roma, organizzati dal Centro studi e iniziative per la Riforma dello Stato, di cui è Presidente Mario Tronti.

Edoardo Sanguineti ha apportato alla Lectio “minimi ritocchi e restauri, anzi minimissimi”; e ringrazia Agnese Manni per la collaborazione e l’assistenza prestata per l’edizione.

Lukács parla

di György Lukács

intervista di Naïm Kattan

«La Quinzaine littéraire», 1-15 dicembre 1966

trad. it. gyorgylukacs.wordpress.com

Il suo appartamento è situato all’ultimo piano di uno stabile che dà sul Danubio. I libri tappezzano i muri. Guardo qua è la a caso: opere complete di Hegel e di Marx. Sul tavolo dei libri, delle riviste in ungherese, in tedesco, in francese. È qui che da dieci anni Lukács lavora alle sue opere.

Ho iniziato la mia opera vera e propria a settant’anni. Pare che esistano delle eccezioni alle leggi materiali. In questo sono un adepto di Epicuro. Anche io sto invecchiando. Da tanto tempo cerco la mia strada. Sono stato idealista, poi hegeliano. In Storia e coscienza di classe ho provato ad essere marxista. Per molti anni sono stato funzionario del partito comunista a Mosca. Ho potuto rileggere, da Omero a Gorky. Fino al 1930 tutti i miei scritti erano degli esperimenti intellettuali. Poi ci furono degli abbozzi e dei preparativi. Anche se sono superati, questi scritti sono stati di stimolo ad altri. Continua a leggere

Ontologia dell’essere sociale e composizione di classe

di Costanzo Preve

«Primo Maggio» n. 16 1981-82

Queste brevi note sono dedicate alla segnalazione e alla sollecitazione a uno studio personale approfondito della fondamentale opera dell’ultimo Lukács, Ontologia dell’Essere Sociale, Editori Riuniti (due volumi in tre tomi, di cui il primo già pubblicato anni fa, L. 45.000). Lo scrivente, che considera la tendenza filosofica fondamentale e l’argomentazione teoretica di base di questo lavoro estremamente corretta e anzi illuminante per orizzontarsi nell’attuale congiuntura teorica mondiale, è peraltro tristemente consapevole, da un lato, della propria inadeguatezza soggettiva a cogliere appieno la pregnanza filosofica di questo capolavoro di passione teorica, e dall’altro lato, della quasi totale impossibilità oggettiva che nell’attuale situazione storico-politica italiana un lavoro del genere possa anche soltanto essere preso seriamente in considerazione1.

Premesso questo, essendo «Primo Maggio» una rivista di storia del movimento operaio e di analisi e ricerca sulla «composizione di classe» una recensione di carattere genericamente filosofico potrebbe forse essere inappropriata. Ci si accosterà allora all’Ontologia con un’ottica consapevolmente limitata, tendente a discutere quasi esclusivamente il rapporto che crediamo possa intercorrere fra la problematica teorica che emerge dalla Ontologia stessa (la dialettica materialistica fra soggettività ed oggettività a cui il lavoro sociale dà luogo nel rapporto di produzione capitalistico) e l’attuale crisi del pensiero che mette al centro della sua riflessione la «composizione di classe». Non sì troverà qui dunque un riassunto del ricchissimo contenuto dell’Ontologia (da rinviare ad altra sede), ma soltanto una prima tematizzazione di questo rapporto, iniziando da alcune riflessioni sullo stato attuale del «pensiero della composizione di classe» per finire con alcune indicazioni sull’utilità della Ontologia per chi si sente impegnato a proseguire una riflessione sul nodo di problemi che un tempo connotava la «problematica operaista».

1. La tendenza teorica marxista che ha messo al centro dell’analisi del rapporto sociale capitalistico di produzione la problematica della «composizione di classe» ha raggiunto risultati rilevanti, in parte ormai consolidati sul piano storico e irreversibili su quello teorico. Il carattere globalmente positivo di questa tendenza teorica presenta inoltre un aspetto specificamente nazionale, italiano, e un aspetto internazionale, che formano in realtà un unico complesso teorico indissolubile, anche se possono essere meglio trattati separatamente, per comodità e chiarezza.

L’aspetto nazionale della rilevanza della scuola teorica della centralità della composizione di classe deve essere visto nel fatto che solo essa seppe di fatto porsi come alternativa globale allo storicismo togliattiano. Quest’ultimo non ebbe certo mai vera rilevanza teorica, essendo sempre più in fondo modellato sulle esigenze tattiche del «far politica» del «partito nuovo» e funzionando come ideologia della legittimazione di quest’ultimo e come «campo teorico» nel quale potevano anche giocare delle «mezze ali» (da Amendola a Ingrao).2 Lo storicismo fu comunque il medium della socializzazione intellettuale di intere generazioni di «oppositori politici» della DC, e di fatto agì come potente «ostacolo epistemologico» alla comprensione del ruolo specifico delle lotte operaie nello sviluppo capitalistico; quando fece uso del concetto di «composizione di classe» lo fece in modo statistico-positivistico, senza mai legare composizione tecnica e composizione politica nel loro rapporto con la lotta di classe.3 Opposizioni teoriche allo «storicismo marxista» ce ne furono certo molte (da Della Volpe a Luporini, da Colletti prima maniera a Geymonat), ma l’unica opposizione teorico-pratica fu di fatto storicamente soltanto la scuola della composizione di classe.4

L’aspetto internazionale deve essere visto invece nel fatto che la scuola della «composizione di classe» seppe in un certo modo opporsi simultaneamente agli impianti teorici in apparente opposizione ma in realtà in segreta solidarietà antitetico-polare del «marxismo orientale» e del «marxismo occidentale», queste due grandi narrazioni «marxiste» rispettivamente della crescita delle forze produttive e dell’autocoscienza rivoluzionaria del soggetto-oggetto della storia idealtipicamente concepito, il proletariato astratlo in-sé-e-per-sé. Entrambe queste «grandi narrazioni» saltavano con palese fastidio le corpose specificità materiali dei comportamenti e delle culture delle concrete «composizioni di classe», la prima perché interessata esclusivamente alla manipolazione dei concreti comportamenti operai dentro la compatibilità del meccanismo politico del «socialismo reale», la seconda perché interessata alla concettualizzazione di forme pure e astrattamente perfette di comportamento rivoluzionario «veramente» comunista. La teoria della composizione di classe si sporcava invece le mani con la forza-lavoro come capitale variabile e nello stesso tempo come limite logico-storico del capitale, incurante della Grande Narrazione della Classe Operaia come principale forza produttiva (marxismo orientale) o come soggetto-oggetto unico della storia che raggiunge l’autocoscienza finale di essere tale (marxismo occidentale).

Consapevole della propria novità teorica, e inebriata dei suoi successi, la teoria della composizione di classe fece molto precocemente lo sciagurato «passetto in avanti» che l’avrebbe patologicamente trasformata in una forma di gentilianesimo operaio (1’«operaismo», appunto), per il quale lo stesso rapporto di produzione capitalistico è posto (e dunque, a rigore, è revocabile, come in ogni idealismo che si rispetti) dalla attività «classista» della composizione di classe stessa, che si tratta volta per volta di definire nella sue forme fenomeniche (dalla «autonomia del politico» alla pratica autovalorizzante del desiderio). L’acclimatarsi rigoglioso di questo «gentilianesimo operaio» è certo facilmente spiegabile in termini di continuità storica del ceto intellettuale italiano, analogamente alla continuità storica delle strutture statuali dal fascismo alla democrazia cristiana. Ma non è questo l’essenziale, e anzi una analisi in termini di mera sociologia degli intellettuali potrebbe portarci fuori strada. La questione di fondo risiede nel fatto che in effetti la teoria della composizione di classe, così come è stata di fatto finora praticata, si trova strutturalmente in bilico fra due crepacci teorici e pratici. Da un lato, non può e non deve regredire, in modo esplicito o silenzioso agli impianti concettuali dello storicismo italiota, del materialismo dialettico orientale o del marxismo filosofico occidentale, pena la perdita secca e immediata di tutte le conquiste teoriche faticosamente realizzate. Dall’altro lato, la continua immanente tentazione strutturale di trasformare l’attività generica della composizione di classe in un demiurgo onnipotente del rapporto sociale di capitale la porta facilmente a confluire (come ramo e affluente apparentemente «di sinistra» e «operaio») in quel grande mare di pensiero soggettivistico e irrazionalistico che ha mutuato oggi dalla storia dell’architettura il nome di «pensiero post-moderno», in cui, consegnato il lavoro sociale e la riproduzione materiale alle macchine, i soggetti si aggirano fra simulazioni simboliche mimando un comunismo psichedelico fra le macchinette elettroniche. Molti indizi permettono di affermare che a questo si è già da tempo arrivati.5 La filosofia accademica italiana usa già il concetto di «composizione di classe» come legittimazione pseudo-materiale e referente/destinatario della propria lettura soggettivistico-irrazionalistica dei rapporti sociali.6 Il massimo esponente dell’operaismo legittima con la propria personale interpretazione della composizione di classe la sparizione completa del nesso che lega dialettica, lavoro sociale e memoria storica, fondando il «comunismo» proprio sulla radicale assenza di memoria storica, vista quest’ultima (in modo pseudonicciano) come nemica dell’erompere del desiderio liberatore.7 Infine la scuola della «autonomia del politico» (uno dei fenomeni più ipocriti e reazionari della storia – peraltro non brillante – della cultura politica italiana) ha già da tempo abbandonato ogni riflessione materialistica sulla teoria della composizione di classe per i giochi di simulazione politologici conditi con una sorta di misticismo filosofico a metà fra esistenzialismo e neo-positivismo.8

In tutti e tre i casi segnalati (ma se ne potrebbero fare altri) c’è un denominatore filosofico comune: il rifiuto radicale di una considerazione ontologica della specificità dell’essere sociale, il sorriso di scherno verso ogni tentativo di riconsiderazione materialistica della teoria del valore, e soprattutto la volatizzazione del ruolo cardine del lavoro sociale nella riproduzione dei rapporti sociali. Si fa uso letteralmente di tutto quello che offre il mercato filosofico internazionale, in un bricolage frenetico che offre l’apparenza di una grande varietà e anticonformismo di superficie, combinando insieme Baudrillard e Heidegger, Luhmann e Lyotard, Wittgenstein e Foucault. Non bisogna però farsi trarre in inganno dall’effetto di diversità da supermercato. Questi materiali tecnici apparentemente eterogenei si combinano in realtà in un «sistema teorico» ferreo e chiuso assai più di quello hegeliano. Questo sistema teorico ruota intorno all’idea-forza della sparizione della centralità del lavoro sociale alienato come chiave ermeneutica fondamentale per la comprensione dei rapporti di classe.9 La risoggettivizzazione esistenzialistica che ovviamente ne consegue deve però adattarsi all’epoca della «tecnica» in cui viviamo, con conseguente adozione di tutta la concettualizzazione neo-positivistica del lavoro capitalistico diviso, dalle scienze della natura alle scienze sociali.10 L’effetto finale è una «virile» e «disincantata» ermeneutica della manipolazione, che può essere maxweberianameme accettata come «gabbia d’acciaio» o heideggerianamente messa in discussione come «destino della metafisica occidentale» (ed è ovvio che questo seconda versione è molto più simpatica della prima), ma che è comunque interpretata come «falsificazione definitiva» del materialismo storico e della critica dell’economia politica. Coloro stessi che mantengono l’aspirazione al «comunismo» come valore lo fanno ormai in modo del tutto staccato dalle legalità ontologiche strutturali che il mondo dell’essere sociale presenta.11 In questa situazione l’Ontologia di Lukács si pone a un tempo come radicalmente «inattuale» (di fronte alle tendenze filosofiche che appaiono maggioritarie oggi) e sorprendentemente «attuale» nell’indicare gli elementi teorici generali per un superamento in avanti dell’impasse concettuale in cui ci troviamo, e in cui si trova ovviamente anche ciò che resta di razionale e di progressivo nella teoria della composizione di classe.12

2. Il termine Ontologia dell’Essere Sociale non è affatto «vecchio» e obsoleto come potrebbe sembrare al lettore distratto. Tutt’altro. In primo luogo, il termine «ontologia» deve essere inteso nel contesto di un indirizzo polemico verso la «tendenza gnoseologica» della filosofia borghese contemporanea (Lukács parla anche talvolta di ontologia come di intentio recto e di gnoseologia come di intentio obliqua, in un’accezione che peraltro non ha nulla a che fare con la «teoria del rispecchiamento» ingenua del Diamat sovietico, ma che incorpora nella nozione di intentio recto la distinzione dialettica fra essenza e fenomeno). In un primo tempo questa tendenza gnoseologica era legata al compromesso fra borghesia e religione (il «compromesso bellarminiamo») in cui il pensiero borghese legato allo sviluppo della scienza e della tecnica riceveva il semaforo verde per il suo libero procedere nella incorporazione capitalistica del sapere scientifico mentre in cambio accettava di non dare una interpretazione materialistica generale alla totalità dinamica del sapere scientifico in continua crescita. In un secondo tempo, caduta ogni pretesa di residua «verità ontologica» dei dogmi religiosi, e ridotto il bisogno religioso a categoria esistenzialistico-psicologistica atta a «dare un senso» all’universo sociale capitalistico che in quanto tale non ne ha nessuno, la tendenza gnoseologica diventa apertamente sofistica accademica estenuata, da un lato, e teoria generale dell’uso manipolatore delle scienze sociali come «ingegneria capitalistica», dall’altro.13 In secondo luogo, il termine «ontologia dell’essere sociale» deve essere inteso nel contesto di una polemica esplicita con il «marxismo orientate», l’ideologia statale di legittimazione dei paesi a «socialismo reale» che, in qualità di «marxismo monopolistico di stato», sancisce pseudoscientificamente l’inesorabilità storica del «meccanismo unico» di politica, economia e ideologia che sincronizza insieme stato, partito e sindacato come caso particolare dell’applicazione alla società umana delle leggi generali «dialettiche» della natura e della storia. Il «marxismo orientale», questa grande narrazione feticistica delle forze produttive, è costantemente e dettagliatamente individuato nell’opera di Lukács come scolastica della manipolazione, naturalizzazione unidimensionale della storia umano-sociale e ideologia del potere.

È proprio in quanto il dispotismo burocratico del «socialismo reale» violenta sistematicamente e strutturalmente il carattere specificatamente «ontologico» dell’agire sociale umano in ciò che appunto lo differenzia dai complessi inorganici e organici del mondo naturale che lo stesso termine di «ontologia dell’essere sociale» è automaticamente in opposizione frontale con il marxismo sovietico.14 In terzo luogo, il termine «ontologia dell’essere sociale» deve essere inteso nel contesto di una polemica esplicita contro ogni tentativo (spesso perseguito in modo soggettivamente onesto e ricco di intelligenza) di opporsi al «marxismo orientale» in nome di un «marxismo occidentale» il quale, riprendendo posizioni del giovane Lukács o di Karl Korsch, lavora sull’ipotesi di una concezione idealistica di proletariato come coincidenza di soggetto e di oggetto caratterizzante proprio l’essere sociale capitalistico rispetto ai modi di produzione precapitalistici. Il «marxismo occidentale», questa grande narrazione idealistico-esistenzialistica del soggetto rivoluzionario, è costantemente e dettagliatamente individuato nell’opera di Lukács come risposta ontologica a una falsa ontologia (il Diamat), cioè come risposta soggettivistica impotente alla manipolazione pseudooggettivistica dell’universo sociale (si pensi all’opposizione di Sartre al marxismo sovietico, s’intende non dal punto di vista della sua legittimità politica – sacrosanta – quanto dal punto di vista della sua capacità teoretica di superare realmente lo stalinismo).15 In quarto luogo, il termine «ontologia dell’essere sociale» deve essere inteso programmaticamente come riaffermazione dell’unità inscindibile fra materialismo dialettico e materialismo storico, non certo nel senso della individuazione delle «leggi sociali» come caso particolare, applicato al sociale, delle «leggi dialettiche» del mondo naturale (si è già visto come questa non sia altro che l’ideologia della legittimazione dell’odierno «socialismo reale»), quanto nel senso della inseparabilità di principio fra ideologia e scienza, fra filosofia e conoscenza scientifica, fra forma e contenuto.16

Come si vede, si sono qui elencate almeno quattro buone ragioni per motivare la scottante attualità di questo «titolo», apparentemente così obsoleto e «fuori moda». E tuttavia, siamo rimasti ancora a monte del discorso di fondo da fare che ci permetterà di cogliere il nucleo teorico della proposta ontologica di Lukács, fondata sull’isolamento metodologico della categoria di lavoro come posizione teleologica, da un lato, e come modello di prassi sociale, dall’altro lato. La scelta metodologica «strategica» della categoria ontologica del lavoro non ha ovviamente nulla a che vedere né con l’apologetica lavoristica delle mani callose, del sudore della fronte e del lavoro «produttivo» (Lukács non è Kim II Sung, e neppure Lin Piao – qui non c’è nessun Yu Kong che rimosse le montagne né tantomeno Robinson Crusoé che costruisce il «capitalismo in una sola isola») né con una teoria generale del lavoro «creatore» (già individuata come teoria borghese nel Marx della Critica al Programma di Gotha). Tutto al contrario. Il lavoro è la «categoria ontologica centrale», la Urform della prassi umana, perché è in virtù delle sue caratteristiche e in particolare del suo carattere teleologico che l’Essere Sociale si costituisce nella sua originalità, nella sua differenza qualitativa rispetto alla sfera della natura organica e inorganica. L’attività lavorativa consiste nella «posizione di uno scopo all’interno dell’essere materiale» e la sua realizzazione come risultato adeguato, ideato, voluto, rappresenta la formazione di una nuova oggettività. Mentre tutta la filosofia tradizionale, da Aristotele a Hegel, mette aporeticamente in antitesi teleologia e causalità, nel lavoro – sostiene Lukács – la teleologia appare come categoria specifica della prassi sociale, ma all’interno del mondo causalmente determinato. Si tratta di una «concreta, reale, necessaria coesistenza» di causalità e teleologia, nell’ambito della quale la causalità si trasforma, per opera della teleologia in «qualcosa di posto», ne assume cioè il carattere fondamentale che consiste nel richiedere un «autore consapevole», una «coscienza che ponga degli scopi». L’atto del «porre» ha dunque, nella visione lucacciana, un «carattere ontologico insuperabile» in virtù del quale la coscienza umana cessa di essere un epifenomeno e dà impulso alla trasformazione e innovazione della natura.17

A questo punto, siamo già in grado di fare due osservazioni. In primo luogo, la delucidazione ontologica del rapporto fra causalità e teleologia condotta da Lukács permette di prendere posizione nei confronti della posizione teorica che ha in Lucio Colletti il principale sostenitore, posizione che liquida integralmente come «metafisico» tutto il complesso teorico marxiano, viziato secondo Colletti di «dialettismo teleologico» e opposto alla «causalità scientifica» delle scienze della natura. Nelle parti della sua opera dedicate a Hegel, Lukács chiarisce invece come sia proprio nella polemica contro l’assorbimento metafisico della causalità nella teleologia (e inversamente nell’assorbimento della teleologia nella causalità) che il concetto marxiano di lavoro si demarca nettamente da quello hegeliano, con il quale rompe proprio su questo punto.18 È noto che l’automatismo teleologico che mette la dialettica al di sopra e fuori dei complessi di posizioni teleologiche dei singoli e dei gruppi umani concretamente definiti dentro le possibilità storiche determinate dai rapporti sociali di produzione (e ovviamente dalla loro rivoluzionarizzazione cosciente) finisce con l’avallare o una vera e propria «teoria del crollo» o quanto meno una ancora più ambigua e teoricamente pericolosa «idea generica di crollo». Le posizioni teoriche di Colletti (e si vedano, a un maggior livello di serietà, le posizioni di Bedeschi, e, a un livello più folkloristico e da rotocalco, quelle di Pellicani e Settembrini) sono rivolte a liquidare la nozione classico-marxiana del rapporto fra causalità e teleologia insieme con la posizione volgar-marxista. Tutto il lavoro di Lukács è una risposta preventiva e esauriente a questo episodio italiano di quel grande fenomeno filosofico «imperialistico» che è stato nel secondo dopoguerra il pensiero di Sir Karl Popper, il cui rapporto con il Diamat è simile a quello dei duellanti nei pupi siciliani: combattono con grandi urli e sfide, ma hanno bisogno l’uno dell’altro.19

In secondo luogo, e ciò è ancora più importante, la delucidazione metodologica lucacciana del rapporto fra causalità e teleologia finisce inevitabilmente con l’incontrare l’analoga problematica che nel linguaggio di Heiddeger si chiama rapporto fra destino storico del mondo occidentale e progettualità soggettiva dentro questa destinalità. Sempre più appare infatti chiaro che il punto di tangenza fra Heidegger e il marxismo non sta (come si è a lungo creduto) nella opposizione piccolo-borghese del vivere-per-la-morte all’ottimismo proletario del vivere-per-la-rivoluzione, quanto piuttosto nella spietata (e corretta) diagnosi negativa heideggeriana del marxismo come culmine soggettivistico della metafisica occidentale in cui l’umanesimo prometeico del lavoro è soltanto posto a livello della totalità, ma non messo in questione.20

E tuttavia, quale differenza fra Lukács e Heidegger! Il passeggiatore solitario della Foresta Nera coglie certo in modo profondo e acuto la struttura teorica portante della metafisica occidentale (parola che è anche una metafora per indicare il destino del mondo borghese capitalistico diventato da «occidentale» una società «mondiale») e la coglie in modo molto più profondo, a esempio, dei «francofortesi». Tuttavia in lui permane irrisolto il rapporto fra differenza ontologica e struttura dialettica dei comportamenti umani e delle posizioni teleologiche, con finale svalutazione dell’agire politico e invito all’ascolto dell’Essere.21 In Lukács invece una analoga posizione di svalutazione dell’umanesimo prometeico del lavoro (nel suo linguaggio: soggettivismo settario e manipolazione staliniana) mantiene però aperta la possibilità di esiti alternativi e non manipolatori delle posizioni teleologiche legate al lavoro stesso. Ci sta qui indubbiamente una nozione più corretta di dialettica.

Le due osservazioni fatte sopra ci permettono dunque di capire che il progetto teorico dell’Ontologia non ha nulla a che vedere, da un lato, con l’automatismo dialettico-teleologico imputato pretestuosamente da Colletti a tutto il pensiero marxiano e che è in grado di opporsi seriamente, dall’altro, agli esiti antidialettici che coronano la spietata (e, ripetiamo, fondamentalmente giusta) diagnosi di Heidegger sull’umanesimo/economicismo come coronamento finale, segretamente e paradossalmente nicciano, della metafisica occidentale. Tutto questo non è poco. Tornando alla «teoria della composizione di classe» vediamo infatti che essa, avendo sempre disprezzato la filosofia e facendosene un vanto, è scivolata (così come i famosi «scienziati praticoni» contro i quali polemizzava il vecchio Engels) verso le peggiori filosofie che il mercato delle idee offriva: gentilianesimo attivistico e demiurgico, niccianesimo straccione della «rude razza pagana», teoria dei rizomi e delle macchine desideranti, autovalorizzazioni proletarie e mitizzazione politologica del comando.

Tutto questo era in una certa misura inevitabile. La teoria della composizione di classe doveva rompere, per costituirsi autonomamente come tale, con quelle forme di pseudo-teologismo pretestuoso e ideologico per il quale la «classe operaia» era una sorta di ideal-tipo progettuale che doveva sempre «farsi carico delle superiori esigenze della comunità nazionale», in vista, ovviamente, di una sorta di modello di capitalismo keynesiano e/o di socialismo reale. Se questo era il «fine», era inevitabile concludere con lo slogan: abbasso il regno dei fini! Ed è interessante che la polemica contro il regno dei fini di neokantiana e socialdemocratica memoria coincidesse con un «vogliamo tutto!» che dovrà un giorno essere analizzato come paradigma delle grandezze e delle miserie del Sessantotto.

Il carattere ontologico del concetto lucacciano di posizione teleologica non ha ovviamente nulla a che vedere con il socialismo neo-kantiano del «regno dei fini» da approssimare con la popperiana «ingegneria sociale e spizzico». È infondato dunque il timore di chi può pensare che si voglia ritornare a una concezione finalistica e ideal-tipica della classe operaia che abolisca quella materialistica e strutturale della teoria della composizione di classe. Lo impedirebbe lo stesso approccio ontologico lucacciano.22

La scuola della composizione di classe dovrà invece prima o poi fare chiarezza al suo interno sul suo atteggiamento verso la teoria marxiana del valore. È noto che la composizione staliniana della presunta «legge del valore-lavoro» ha fatto cadere in discredito l’intera concettualizzazione marxiana del valore, debolmente difesa da chi pensava di cavarsela riducendo il «valore» a semplice metafora della «alienazione» o del «mondo-a-testa-in-giù» del Colletti prima della abiura. Nella Ontologia la teoria del valore è ampiamente trattata in termini non dissimili da quelli che caratterizzano in Italia scuole marxiste come quella di Gianfranco La Grassa. Conformemente al carattere filosofico dell’opera non si è di fronte a un approccio tecnico ai primi problemi economici della teoria del valore, quanto invece a una trattazione ontologica generale che connette l’«astrazione reale» del valore con la specificità del modo di produzione capitalistico (e su questo Lukács è sufficiente chiaro).23

Tutti sanno che la tendenza teorica immanente alla teoria della composizione di classe conduce (almeno nella forma che fino a ora conosciamo) all’abbandono, implicito o esplicito, della teoria del valore. Nessun anatema, nessuna scomunica, nessun peccato mortale: tutto deve essere discusso, tutto deve essere preso in considerazione. Tuttavia sarebbe assurdo chiudere gli occhi di fronte agli esiti di questo abbandono: soggettivizzazione integrale di tutta la sfera dell’agire sociale, opposizione polare dell’insorgere ribellistico della classe contro il comando dispotico del capitale più o meno «socialista», esercizi politologici in bilico fra lo «scambio politico» e le nostalgie cromwelliane di una volontà stracciona di potenza. Vi è qui un campo di riflessione per tutti i sostenitori della teoria della composizione di classe.24

3. L’unità armonicamente flessibile del nucleo teorico di base dell’Ontologia offre uno stridente contrasto con la disarticolazione del pensiero marxista italiano dell’ultimo ventennio. Quest’ultimo è stato caratterizzato, in economia, dalla ricezione neo-ricardiana della cosiddetta «scuola di Modena» e dalla estenuante e sterile scolastica sraffiana; in politica, dalle velleitarie manipolazioni politologiche delle varianti della scuola della autonomia del politico; in filosofia, dal bricolage soggettivistico dei temi più disparati mutuati da praticamente tutte le scuole filosofiche del Novecento. Non si tratta qui soltanto dell’opportunismo degli intellettuali italiani «mercuriali e frettolosi» (la stupenda definizione è di Sergio Bologna), necessitati per ragioni accademiche a versare il loro «sapere marxista» nelle compartimentazioni universitarie legalmente riconosciute. Questo fatto certo esiste, e rende impossibile lo scrivere la storia del marxismo italiano degli ultimi tempi, in cui non c’è più il carcerato Gramsci, l’ingegner Bordiga, eccetera, ma solo le scadenze dei concorsi universitari. Tuttavia non è certo questo l’elemento essenziale. La disarticolazione accademica del marxismo italiano è invece da ricondurre (a parere dello scrivente) alla debolezza strategica anticapitalistica del referente sociale fondamentale, la composizione di classe caratterizzata dalla dominanza dell’operaio-massa e dalla nuova piccola borghesia «effimera»; questa composizione di classe si è rivelata capace di dare poderose spallate e di sapere mettere la sabbia negli ingranaggi della riproduzione, ma non di conseguire vittorie strategiche sul piano politico.25

Giusto o sbagliato che sia questo giudizio (che certo molti lettori rifiuteranno con indignazione e fastidio), resta in tutta la sua interezza il contrasto fra l’unità teorica dell’Ontologia e la disarticolazione del mercato italiano delle idee. Si presti molta attenzione al fatto che l’opera dì Lukács si intitola Ontologia dell’Essere Sociale, e non ardisce esplicitamente intitolarsi Ontologia del Capitalismo Contemporaneo oppure Ontologia del Socialismo Reale. Lukács infatti da un lato è consapevole dello stato di assoluta inadeguatezza dell’attuale teoria marxista nei confronti di una analisi scientifica sia del capitalismo occidentale sia del socialismo reale, e ritiene correttamente dall’altro che un lavoro filosofico-ontologico si esercita su un materiale che sta a monte di una analisi concreta e specifica, che è cosa ben diversa. E tuttavia l’«essere sociale» è una evidente metafora sia del capitalismo sia del socialismo reale, che vengono correttamente posti insieme in quella che nel linguaggio più formalizzato di Ernst Bloch si chiamerebbe «unità avvolgente dell’epoca» e nel linguaggio più formalizzato di Charles Bettelheim si chiamerebbe «comune dominanza del modo di produzione capitalistico».26

È questo un punto di importanza strategica. La separazione di principio fra capitalismo occidentale post-keynesiano, da un lato, e socialismo reale post-staliniano, dall’altro, si manifesta oggi in molte forme. E tuttavia soltanto la piena consapevolezza della loro reale unità ontologica, proprio partendo apparentemente «alla lontana» (dal lavoro e dalla riproduzione, dalla ideologia e dalla estraneazione), può permettere di porre le condizioni preliminari per uscire dalla presente impasse teorica. Da questo punto di vista poco conta che nelle sue dichiarazioni giornalistiche Lukács (a differenza di Ernst Bloch) abbia ripetutamente sostenuto che il «peggior socialismo è migliore del migliore capitalismo», avallando così la separazione di principio fra il mondo sociale dei paesi dell’Ovest e dei paesi dell’Est. Conta invece molto di più il fatto che nella sua opera filosofica fondamentale (da questa – e non dalle dichiarazioni giornalistiche – occorre giudicare un filosofo) Lukács non porta affatto acqua al mulino della tesi di una separazione ontologica di principio fra l’agire sociale e le posizioni teleologiche possibili a Est e a Ovest, quanto invece al contrario sostiene organicamente la tesi dell’unità estraniata dell’universo sociale attuale, ad Est come ad Ovest.27

Vi è qui un punto di grande importanza per la teoria della composizione di classe. Anch’essa infatti oppone un rifiuto di principio alla trattazione differenziata dell’azione della classe operaia nei paesi in cui ufficialmente la classe operaia stessa è «al potere» e nei paesi in cui essa è invece ancora ufficialmente «forza-lavoro». Anzi, punto forte della teoria della composizione di classe è l’unità metodologica nella trattazione delle lotte in URSS e negli USA, in Italia e in Polonia, in Francia e in Ungheria. Come si vede, vi è qui un punto di tangenza con la problematica teorica lucacciana di grande importanza teorica e pratica.

Qui si vorrebbe mettere provvisoriamente il punto finale. Inutile infatti è recriminare ancora sugli esiti irrazionalistici e soggettivistici di un Tronti o di un Negri, di un Vattimo o di un Cacciari. Basta. Quello che c’era da dire, sul versante critico-negativo, è già stato grosso modo detto. Ora bisogna andare avanti, passare all’elaborazione in positivo e alla produzione di nuove conoscenze. Queste ultime non verranno presto, e certamente non verranno «a comando» e «su commissione». Non spetta neppure a un’opera di filosofia il farlo, in quanto essa riflette soltanto sulle condizioni metodologiche che rendono possibile l’avanzamento reale della conoscenza. Il ringraziamento che dobbiamo a Lukács è il ringraziamento a chi, in un momento oscuro, ci esorta a «non disperare» sui destini storici delle nostre convinzioni non solo con un generico appello alla «speranza» (si pensi all’ultimo Sartre) ma anche e soprattutto con la razionalità convincente di una analisi dialettica della ontologia dell’essere sociale.28

1 Significative e sintomatiche sono infatti alcune delle prime ricezioni. Una osservatrice generalmente attenta come Laura Boella, («Il Manifesto» 24 luglio 1981) definisce «ingenua» la rinascita teorica marxista propugnata da Lukács, derubricata (e così liquidata) a «grande e tragico documento degli anni ’60». Il progetto teorico lucacciano dell’Ontologia viene così privato del largo respiro che possiede e fatto diventare un episodio rispettabile ma caduco delle grandi speranze destinate a cadere con la caduta della primavera di Praga, laddove al contrario l’opera è assolutamente indipendente dalla fiducia nella riformabilità interna o meno dei sistemi di socialismo reale, mirando a un obiettivo teorico ben più alto, quello della rifondazione ontologica della filosofia marxista. Ancora più sintomatico è il fatto che gli stessi Editori Riuniti (cfr. notiziario libri ER, supplemento all’Unità del 28 giugno 1981) facciano segnalare il libro da un corsivo di Agnes Heller (nota oppositrice dell’insieme del progetto teorico lucacciano), nel quale, fra vari riferimenti alle qualità morali e al dramma storico delle vite intellettuali di Lukács e di Sartre, si prendono le distanze nel modo più netto dall’intenzione teorica che regge il testamento teorico di Lukács. In completo e cosciente disaccordo con queste valutazioni lo scrivente ritiene invece che l’Ontologia, sia invece l’opera teorica più riuscita di Lukács (anche se non certo la più brillante, che è forse Storia e Coscienza di Classe, né la più rigorosa, che è forse l’Estetica).

2 A più riprese Lukács ha esplicitamente fatto riferimento a Togliatti come a un tattico geniale e a un tempo come a un pensatore mediocre o addirittura inesistente. Nel contesto del discorso lucacciano il «tattico» e portatore di una visione potenzialmente manipolatrice della realtà sociale pericolosa per ogni rifondazione reale di una prassi socialista ontologicamente seria.

3 Si vedano i lavori dello storicista Giorgio Amendola sulla classe operaia italiana. L’attenzione ai dati numerici e occupazionali che vi si può trovare non ha nulla a che vedere con il rapporto fra composizione tecnica e politica della classe e la natura volta a volta specifica della lotta anticapilalistica e della stessa definizione differenziata di dominio capitalistico.

4 I1 generico termine di «scuola della composizione di classe» deve essere inteso come termine di demarcazione teorica e pratica da tutte le varianti esclusivamente culturali dell’opposizione alto storicismo.

5 Alcuni noti esponenti dell’«operaismo» (si vedano recenti dichiarazioni di Massimo Cacciari) affermano a gran voce di non voler aderire affatto alla «ideologia post-moderna di cui anzi colgono bene il carattere apertamente anti-operaio e filo-capitalista. Ma queste dichiarazioni appaiono un po’ tardive e imbarazzate: senza la seminagione ventennale di soggettivismo operaistico non avremmo avuto l’attuale congiuntura teorica italiana dominala dal post-moderno.

6 Si vedano in generale gli interventi di Pier Aldo Rovatti su «Aut Aut». In modo ancora più evidente questo appare in Gianni Vattimo (cfr. «Alfabeta», 29 settembre 1981): la sua ricostruzione della storia della filosofia italiana dopo il 1945 utilizza lo stesso concetto di «composizione di classe» come riferimento sociologico «materiale» al presunto venir meno di ogni filosofia fondata sul lavoro e sulla dialettica in favore di una filosofia del simulacro e della differenza. Sarebbe proprio l’attuale «composizione di classe» che caratterizza la società post-moderna che non saprebbe più che farsene della dialettica: conclusione che assomiglia come una goccia d’acqua a quella di Toni Negri.

7 Si veda l’ultimo scritto, assolutamente rivelatore, di Antonio Negri (cfr. Elogio dell’assenza di memoria, in «Metropoli», 5 giugno 1981). Negri lega insieme (del tulto correttamente) lavoro, dialettica e memoria storica, come termini correlati di un unico complesso teorico inscindibile. Ma poiché la sua concezione «autovalorizzante» del comunismo inteso come pienezza del consumo sociale tardo-capitalistico fruito e desiderato dall’«operaio sociale» perverso-polimorfo volta decisamente le spalle a una visione ontologico-dialettica del lavoro, e poiché il lavoro stesso è dialettica e viceversa, Negri in modo del tutto conseguente tira la conclusione che solo la più radicale assenza anche solo di «curiosità» per la memoria storica può permettere all’operaio sociale di non ricadere nell’obbrobrio laburistico-socialista della dialettica. Si tratta di un classico tema nicciano: la storia è nemica della vita e della sua pienezza, l’infrazione differenziale è l’unico rimedio contro la legittimazione dialettica della società repressiva. In Negri il tema nicciano è «genialmente» applicato alla «differenza» dalla tradizione del movimento operaio, la quale è effettivamente, aggiungiamo noi, utilizzata prevalentemente nella congiuntura attuale in modo reazionario. Tuttavia non è questo il modo corretto di lottare contro questo uso reazionario della tradizione del movimento operaio. La memoria storica è infatti inscindibilmente composta di due elementi contraddittori: da un lato vi è realmente una feticizzazione reazionaria di elementi culturali e politici legati alla precedente composizione tecnico-politica di classe, dall’altro lato vi è però anche una sedimentazione di cultura anticapitalistica ricca di esperienze vissute, passibile di diventare il lievito politico di una ricomposizione anticapitalistica. Ma per capire questo occorre essere – appunto – dialettici.

8 Gli esponenti di quest’ultima praticano anch’essi, per motivi assolutamente opposti a quelli di Negri, la totale «abolizione» della memoria Storica. Alberto Asor Rosa ci fa sapere («La Repubblica», 4 settembre 1981) di essere stato un «comunista che ha dissentito fin dal primo momento con la strategia del compromesso storico» (sic!). Sembra di sognare. Anche i bambini sanno infatti che nell’infausto triennio 1976-1979 l’unico esponente noto del PCI che si pronunciò apertamente e non in modo mafiosamente cifrato contro il compromesso storico applicato nell’unica forma concretamente possibile (e non fumosamente fantapolitica) fu il vecchio Terracini. Ma ora queste immorali canagliette vantano primogeniture per gli anni ’80. E si veda anche Mario Tronti («Laboratorio Politico», 3); il politologo afferma ora in modo ieratico che sarebbe sbagliato voler perseguire una sorta di nuovo New Deal. Nuovamente sembra di sognare.
Costui ha affermato proprio questo per dieci anni, ma ora, senza sottoporre la precedente opinione a un esame autocritico, dice disinvoltamente l’esatto opposto. Laddove l’elemento canagliesco non sta ceno nell’essersi sbagliali (figuriamoci!), quanto nel fare i furbi all’italiota sui propri errori. Un’ultima osservazione. Poiché questi signori, bene o male, fanno il «clima culturale» della sinistra italiana, non esiste alcuna seria possibilità che un lavoro ontologico come quello di Lukács, tutto rivolto contro la manipolazione tattica della realtà sociale per fini di potere politico, abbia la minima risonanza fra gli intellettuali italiani.

9 Questo si esprime popolarmente nello slogan seconda il quale quella che deve esser perseguita oggi non è l’idea «moderna» di liberazione del lavoro, ma l’idea «post-moderna» di liberazione da lavoro (cfr. Renato Nicolini in «Il Contemporaneo», «Rinascita», n. 22, 1981).

10 Significativo è l’uso di Heidegger nella recente filosofia politica di «sinistra». Esso potrebbe sortire risultali altamente positivi, dal momento che la nozione filosofica chiave di solidarietà antitetico-polare del nesso economicismo/umanesimo non è stata affatto scoperta da Althusser nella famosa Risposta a John Lewis, ma era già stata ampiamente tematizzata nella heideggeriana Lettera sull’Umanesimo: nozione chiave da cui partire per un reale superamento del marxismo della III Internazionale. Al contrario Heidegger viene usato non per gli spunti ontologici che pure contiene, ma proprio come vate di una accettazione destinale della «post-modernità» come rivelazione finale della metafisica occidentale (vedine le letture di Vattimo e di Cacciari).

11 Esemplare la scuola di Budapest, e in particolare Agnes Heller. Ancora una volta ribadiamo che si tratta a nostro parere di una prospettiva filosofica non più avanzata, ma più arretrata della prospettiva ontologica tardo-lucaciana. Quest’ultima infatti cerca di connettere i «bisogni» con una teoria materialistica della riproduzione sociale in condizioni contraddittorie di «estraneazione», mentre la prima regredisce di fatto ad una posizione smithiana (e dunque pre-marxiana, non post-marxiana) del rapporto fra bisogni ed essere sociale.

12 Conformemente alla natura di questa segnalazione (che non è una «recensione» ma un invito al lettore di «Primo Maggio» a misurarsi da solo con lo studio diretto di quest’opera fondamentale) lo scrivente, per guadagnare spazio, non ritiene di dover fare un riassunto dell’opera. Ci si consentano solo alcune sommarie indicazioni. L’opera è divisa in una parte di introduzione storica e di polemica teorica generale (volume 1) e in una parte sistematica che discute ontologicamente le categorie che Lukács propone (volume II in due tomi). La prima parte è divisa a sua volta in quattro parti: la prima tematizza il nesso fra neopositivismo e esistenzialismo come posizione antiontologica fondamentale caratterizzante il pensiero moderno della manipolazione, «borghese» e «socialista»; la seconda discute i tentativi fatti all’interno della filosofia borghese stessa (in particolare da Hartmann) per contrastare questa tendenza, tentativi falliti per lo scarso radicamento dialettico-materialistico di questa ontologia; la terza discute la «falsa e vera ontologia di Hegel», e consiste in un mirabile saggio sul rapporto fra Hegel e Маrx e i loro rispettivi progetti teorici; la quarta analizza i principi ontologici fondamentali di Marx, e consiste in una dettagliata analisi la quale, a mio parere, dimostra come il progetto teorico originale marxiano fosse strutturalmente differente sia dal «marxismo orientale» sia dal «marxismo occidentale». La seconda parte è divisa a sua volta in quattro parti: la prima analizza la categoria del lavoro come posizione teleologica che fa nascere una «nuova oggettività», le cui leggi di movimento fanno nascere catene causali di natura qualitativamente diversa dalle catene causali tipiche delle scienze della natura: la seconda analizza la riproduzione sociale, momento ontologico in cui l’«astrazione» del lavoro, dispiegatasi socialmente come «concreta» divisione del lavoro, dà luogo a un «complesso di complessi» che rappresenta la realtà poliedrica della società in cui concretamente viviamo; la terza, analizzando il «momento ideale» e l’ideologia, rappresenta una mirabile confutazione di tutte le posizioni scientistiche e meccanicistiche del rapporto fra struttura e sovrastruttura; la quarta infine tratta della «estraneazione», categoria che comprende tutti i concreti aspetti ontologici della situazione sociale nel capitalismo e, ciò che più conta, la discussione della possibilità ontologica di superamento reale del capitalismo stesso. Anche se la morte di Lukács non ha reso possibile il progetto di continuazione all’Ontologia in un’Etica, si può tranquillamente affermare che l’opera non è mancata o incompleta, perché la «fondazione ontologica dell’etica» raggiunge già un buon grado di compiutezza.

13 Nella filosofiat torinese della scuola di Abbagnano, non a caso fiorita all’ombra del vallettismo negli anni cinquanta (ma non si vuole qui certo stabilire un nesso causale о organico, ma solo segnalare una contiguità) la coesistenza fra raffinatezze gnoseologiche neokantiane, esistenzialismo attivistico laicizzato e apertura manipolatoria alle scienze sociali capitalistiche può addirittura essere toccata con mano. Non a caso la scuola fenomenologica milanese di Enzo Paci, che manteneva almeno una intenzione teorica anticapitalistica, ruppe con il «razionalismo» torinese del quale comprendeva bene – sotto l’арраrente asettica «deduzione» delle categorie kantiane – il carattere di apologetica capitalistica.

14 A ciascuno la prova. Si prenda, con modica spesa (i libri sovietici costano poco), un trattato sovietico di filosofia (a esempio il recente A. Sceptulin, La filosofia marxista-leninista, edizioni Progress, Mosca 1977, in lingua italiana). Un atteggiamento snobistico verso questi polpettoni tremendi ha poco senso: piaccia o non piaccia, questa è la filosofia che si diffonderà nei prossimi anni dall’Angola al Vietnam, dall’Etiopia a Cuba e che tenterà una controffensiva nella stessa Europa Orientale, in cui è attualmente del tutto delegittimata. Qualunque lettore attento può rendersi conto da solo che tutto il lavoro di Lukács è costruito, punto per punto, come confutazione convincente e superamento reale di questa scolastica manipolatoria.

15 Nella misura in cui la teoria della «composizione di classe» si evolve patologicamente in feticizzazione soggettivistica e anti-ontologica della «composizione di classe» stessa, che diviene demiurgicamente la leva che solleva l’intero rapporto sociale capitalistico, la teoria della composizione di classe diventa una variante del marxismo occidentale stesso. Di secondaria importanza diventa il fatto che il proletariato venga inteso sartrianamente come gruppo in fusione contro il pratico-inerte, trontianamente come rude razza pagana o negrianameme come devastatore di supermercati.

16 In questo senso la posizione lucacciana è più corretta di quella di Althusser, volta a una separazione troppo rigida tra ideologia e scienza. La posizione di Althusser si giustifica peraltro ampiamente data la congiuntura teorica in cui sorse. Si noti infine che la critica di Althusser alla dialettica idealistica hegeliana finisce per essere molto simile a quella lucacciana. nonostante il diverso linguaggio e l’opposta terminologia.

17 Laura Boella (recensione citala nella nota 1) inizia con il mettere correttamente in rilievo i punti qui indicati, per poi effettuare una virata di 180 gradi. Boella ritiene che il concetto di causalità lucacciano sia «chiuso», renda la storia un semplice progresso in avanti, senza incertezze e possibili rischi di fallimento. Considera ambigua l’opinione lucacciana secondo cui l’uomo può porre solo quegli scopi di cui domina effettivamente i mezzi di realizzazione, senza i quali la «posizione dello scopo rimane soltanto un progetto utopistico, una specie di sogno, più o meno come lo è stato il volo, da Icaro fino a Leonardo e oltre ancora». A questa posizione oppone il concetto (mutuato dal Bloch di Experimentum Mundi) di «causalità discontinua», come categoria caratterizzata da una sorta di «stato di sospensione», elemento di indeterminatezza che non si trasforma subito in effetto ed in questo modo permette al lavoro umano di aprirsi realmente al futuro come reale Siberia (nel linguaggio della Boella, «più in direzione dell’aut-aut kierkegaardiano che della mediazione hegeliana»). Lo scrivente esprime qui un totale dissenso con le opinioni di Laura Boella. Infatti la Boella rifiuta in toto (come la Heller, del resto) il progetto lucacciano, lasciando sintomaticamente cadere la domanda, apparentemente incidentale: «Chi non problematizzerebbe oggi l’assegnazione al lavoro del ruolo di categoria centrale della prassi sociale?». Problematizzare, nel linguaggio educato della Boella, è un modo cortese per negare. A questo punto poco vale opporre alla presunta «ontologia chiusa» di Lukács la «ontologia aperta» di Bloch. Di «ontologia qualsivoglia» non ne rimane in piedi nemmeno l’ombra, ma riemerge soltanto tutta la vecchia problematica del soggettivismo esistenzialistico e della teoria dei bisogni (nella forma educata alla Heller о in quella «maleducata» alla Negri, a piacere). Il lettore non si stupisca di questa polemica con Laura Boella. Non si tratta di beghe fra filosofi. Tutt’altro. È qui invece in gioco una «posta teorica» molto grossa; l’accordo o meno sul carattere ontologico centrale della categoria di lavoro, in mancanza del quale è inutile fare generiche considerazioni di «stima» sull’ultima fatica del vecchio Lukács.

18 È interessante notare che su questo punto nodale della differenza specifica fra dialettica hegeliana e dialettica marxiana Lukács, usando ovviamente un linguaggio del tutto diverso, finisca con il dire cose analoghe a quelle dette da Althusser sulla differenza fra contraddizione semplice (hegeliana) e contraddizione surdeterminata (marxiana). La contraddizione semplice ha infatti una struttura realmente teleologico-metafisica, in quanto si basa sul modello dell’uno che si divide necessariamente in due per ricomporsi necessariamente in uno e così via. La contraddizione surdeterminata non possiede questa struttura teleologico-metafisica, perché il «complesso dei complessi» dei nessi causali necessari stabilisce regolarità ontologiche prive di «fini predeterminati». Naturalmente il fatto che Lukács conservi un linguaggio, un periodare e una terminologia spesso hegelo-marxisia tende a celare questa profonda somiglianza. Ma essa non sfuggirà a chi faccia attenzione all’essenziale.

19 Il rifiuto collettiano della dialettica è abbastanza noto nel dibattito filosofico italiano, anche se la sub-cultura craxiana ed i rotocalchi culturali «progressisti» non si prendono la briga di approfondirne le argomentazioni, dal momento che l’unico argomento di carattere genericamente ontologico che interessa loro in questo anno del signore 1981 e il culo di Lori Del Santo. Sub-cultura сraxiana e rotocalchi radical-chiс capiscono per istinto che il rifiuto collettiano della dialettica è qualcosa di profondamente anti-comunista (non certo solo di anti-PCI, anche se tutto fa brodo), questo va loro bene, e tanto basta. Desta invece meraviglia la quasi totale cecità che c’è «a sinistra» sul fatto che non esiste quasi differenza filosofica fra i rifiuti della dialettica di un Colletti, di un Negri o di un Vattimo, con tutte le opportune distinzioni che pure si potrebbero fare in termini di destinatari sociali, rispettabilità accademica e tiratura editoriale. Si ha forse paura di cadere nel malcostume staliniano della diffamazione per «amalgamazione», paura ampiamente motivata? Ma qui non c’è nessuno sciagurato «fronte rosso» nella filosofia da difendere incarcerando i dissidenti. Anzi. C’è soltanto, con correttezza pluralistica, da rilevare alcune significative convergenze teoriche correlandole con la attuale congiuntura storica.

20 Come è noto, il marxista-umanista Lucien Goldmann aveva a suo tempo proposto un paragone storico fra un Lukács interpretato in chiave «marxista occidentale» (come autore di Storia e coscienza di classe) e un Heidegger interpretato in chiave di «filosofo esistenzialista della crisi» (come autore di Essere e tempo). È chiaro che le osservazioni che qui vengono fatte non hanno nulla in comune con quella (pur rispettabile, ma idealistica) problematica. Qui il confronto è stabilito fra l’ultimo Lukács della Ontologia, da un lato, ed il secondo Heidegger caratterizzato dalla Lettera sull’Umanesimo, dall’altro. Lo scrivente ritiene infatti che la critica compiuta da Heidegger nei confronti della nozione di «lavoro-produzione» così come di fatto è sta caratterizzata e praticata dai marxismi storicamente costituiti non possa essere applicata allo sforzo ontologico di Lukács.

21 In Heidegger, come è noto, non si tratta di «ritornare» alla situazione precedente lo sviluppo destinale della metafisica occidentale fino al suo coronamento nella Tecnica planetaria. Ma non si tratta neppure di «accettare» questo sviluppo apologizzandolo e «ringraziandolo». Heidegger non è infatti né un positivista né un critico romantico e passatista della scienza e della tecnica. Come Rousseau aveva assolutamente bisogno della nozione di «stato di natura» per criticare la società del suo tempo, pur ritenendo assolutamente irrealizzabile un ritorno indietro a esso, così Heidegger ha bisogno di ipotizzare una situazione ontologico-sociale pre-metafisica per poter interpretare il destino storico della società attuale, senza che questo implichi affatto il progetto di tornare a prima di Platone.

22 Ancora una volta: la «composizione di classe» non ha nulla di cui debba «farsi carico», in una accezione corretta di essa. È nella accezione trontiana che essa deve farsi carico del New Deal statuale attraverso l’autonomia del politico, cosi come nell’accezione negriana essa si fa carico di anticipare i nuovi comportamenti acquisitivi post-socialisti e post capitalisti non ancora maturali presso i restanti strati sociali. La questione è di vedere se i comportamenti e le posizioni teleologiche concrete delle singole concrete composizioni politiche di classe siano o no in grado di procedere o meno verso il superamento della estraneazione e la generalità-per-sé della specie. Agli studiosi dell’operaio di mestiere e dell’operaio-massa l’impostazione almeno di massima del problema.

23 Il rapporto del materialismo storico con la teoria del valore è analogo al rapporto del materialismo dialettico con la teoria della materia. E infatti non può essere una pura coincidenza il fatto che i sostenitori della totale obsolescenza della teoria del valore siano quasi sempre inclini ad una interpretazione fortemente empiriocriticista dei risultali della fisica moderna (ho presente in questo momento alcuni grotteschi scritti di Franco Piperno, ma non solo).

24 Questo problema teorico non si pone ovviamente in modo ultimativo, per una rivista come «Primo Maggio». Essa infatti, come rivista e miscellanea di saggi e documenti per una storia di classe, ha come compito primario quello di fornire al lettore informazioni, anziché interpretazioni. Tuttavia (pensiamo a editoriali come quello scritto da Marco Revelli per il numero 15) non può certo fare a meno, nella prognosi e nel commento dei fatti, di schemi interpretativi espliciti o impliciti. Non si tratta certo di fare una riunione di redazione per stabilire l’atteggiamento da prendere verso la teoria del valore. Si tratta di tematizzare questo problema proprio partendo dalla difesa del proprio punto di vista teorico e politico.

25 Lo scrivente si rende conto che queste osservazioni possono dare al lettore la sgradevole impressione che si voglia ancora una volta ricavare la sovrastruttura dalla struttura. È infatti esattamente quello che lo scrivente vuole coscientemente fare. Questo non significa peraltro che la spinta salarialistica del l’operaio-massa produca necessariamente neo-ricardismo in economia, che la spinta gestionale e di potere del ceto politico sedimentato nella curva ascendente della spallata operaia produca necessariamente l’autonomia del politico nelle scienze politiche, e che infine i bisogni estetizzanti e effimeri del consumo culturale della nuova piccola borghesia urbana dei servizi produca necessariamente il soggettivismo esistenzialistico in filosofia. Lo stesso Lukács nel capitolo sulla «ideologia» ci mette in guardia da questi ricalchi frettolosi. È vero invece che la pratica sociale specifica di consistenti gruppi intellettuali è la premessa ontologica per l’elaborazione di ideologie giustifìcazionistiche e/o di protesta.

26 Ernst Bloch, parlando di «unità avvolgente dell’epoca», parla anche di unità fra la «noia monolitica» a Est e la «noia pluralistica» a Ovest. La sua opera ontologica, Experimentum Mundi, presenta interessanti parallelismi con l’opera di Lukács, ed è infatti caratterizzata dal rifiuto di principio di usare «due pesi e due misure» per l’Est e per l’Ovest. In quanto a Charles Bettelheim, l’atteggiamento snobistico che la teoria della composizione di classe ha sempre avuto nei suoi confronti è assolutamente immotivato. Rifiutare la sua impostazione vuole infatti dire per forza di cose accettare l’impostazione di chi disarticola l’unità della nostra epoca in un Ovest capitalistico e in un Est a modo di produzione asiatico, dispotismo orientale, eccetera, con tanti saluti, tra l’altro, all’unità tematica di applicazione della stessa teoria della composizione di classe.

27 Un serio studioso di Lukács e Bloch. Guido D. Neri, (cfr. Aporie delle realizzazione, Feltrinelli) insiste infatti sul diverso atteggiamento di Lukács e Bloch verso il socialismo reale. Non si vuole qui certo negare che diversi atteggiamenti si possano riscontrare, non solo nelle dichiarazioni e nelle interviste, ma nello stesso apparato categoriale e concettuale. Ma si vuole qui insistere sul fatto che l’aspetto dominante dei due pensatori è l’unità tematica nella trattazione ontologica dell’essere sociale in condizioni di capitalismo occidentale e di socialismo reale.

28 Sarebbe importante che finalmente si assumesse a oggetto di seria analisi teorica la differenza strutturale fra gli impianti categoriali rispettivi di Lukács e di Sartre. A questo proposito lo scrivente ha già ampiamente espresso la sua opinione.

Lukács alla difesa di Marx

di Gianni Vattimo

Discorso inattuale, mentre il marxismo si trasforma 

«Tuttolibri» supplemento de «La Stampa» 14 maggio 1977

Gyorgy Lukács, ONTOLOGIA DELL’ESSERE SOCIALE, I Editori Riuniti, Roma 408 pagine, 5800 lire

Avendo vissuto direttamente, come nessun altro filosofo della sua epoca, i momenti decisivi della storia dei comunismo novecentesco e i problemi della sua trasformazione, Lukács si era proposto, negli ultimi anni della sua vita, un vasto programma di lavoro che mirava a una verace propria rifondazione del marxismo. Il capitalismo che Marx ha conosciuto e in relazione a cui ha formulato la propria teoria – pensava Lukács – si è profondamente trasformato; si tratta, senza abbandonare Marx, di ripensare il marxismo tenendo conto di queste trasformazioni. Esse sono principalmente, da un lato, una insospettata capacità del capitalismo di superare le proprie crisi cicliche, che non danno luogo al suo crollo, come si attendeva un certo fatalismo rivoluzionario; dall’altro, la crescente importanza che nella società capitalistica avanzata assume il problema del consenso delle masse; quest’ultimo elemento dà un rilievo tutto speciale a problemi e bisogni, come ad esempio il bisogno religioso, che certo pensiero materialistico ha avuto spesso la tendenza a liquidare troppo sbrigativamente. All’esigenza di una rifondazione del marxismo intende rispondere appunto quest’opera lukacsiana, terminata poco prima della morte dell’autore (1971), di cui esce ora in italiano la prima parte, che costitiuisce una sorta di ampia introduzione storica al problema. Il proposito di «fondazione» dell’opera è indicato chiaramente dal titolo: ontologia è infatti, nel linguaggio filosofico, quella branca della filosofia che si occupa dell’essere, e quindi la parte più generale e basilare di ogni discorso filosofico. Il termine ontologia è stato reso nuovamente popolare, nel nostro secolo, dalla fenomenologia e da Heidegger, oltre che da Nicolai Hartmann. Lukács non riprende però il discorso sull’ontologia là dove la fenomenologia e Heidegger lo hanno lasciato. Per lui, il problema dell’essere non si trasforma affatto – come avviene invece più o meno in tutto il pensiero contemporaneo – nel problema del significato dell’essere, e cioè degli orizzonti linguistici in cui l’essere «si dà». Parlare di ontologia significa invece per Lukács cercare un fondamento nell’essere inteso come ciò che «sta» di fronte a noi, indipendentemente e prima di ogni intervento dell’uomo. Si capisce che, nella vita sociale, l’essere si intreccia appunto con il mondo dei significati costituiti e manipolati dall’uomo. Ma la filosofia novecentesca, secondo Lukács, ha mostrato, in tutte le sue correnti, la tendenza a dimenticare che le costruzioni culturali si fondano pur sempre su una base «naturale»; che l’essere sociale, insomma, affonda le sue radici nell’essere in generale. Così, ad esempio, il neopositivismo novecentesco afferma una veduta convenzionalistica della scienza: le proposizioni scientifiche non misurano la loro validità in relazione alla realtà, ma in relazione a regole sintattiche interne ai sistemi: è «vero» quello che «funziona», o tecnicamente (che serve a organizzare meglio la vita) o logicamente (che rispetta le regole dell’ambito di discorso prescelto). Il corrispettivo di questa posizione neopositivistica è, secondo Lukács, l’esistenzialismo, come filosofia che, riconosciuto che il sapere positivo e dimostrativo non afferra la realtà, cerca di soddisfare il bisogno di verità dell’uomo con chiacchiere intimistiche, edificanti, irrazionali. Per uscire da questa alternativa non c’è che rifarsi a Marx e alla sua nozione di lavoro, che esprime il radicamento dell’operare dell’uomo, e quindi di tutte le costruzioni culturali, nella natura, con la quale si tratta sempre di fare i conti, traendo dal riconoscimento delle sue strutture e leggi (appunto, mediante una ontologia generale) orientamenti per l’azione. Si tratta, come si vede, di un discorso che suona alquanto inattuale, in una situazione in cui anche il pensiero marxista sembra ritenere, almeno in alcuni suoi orientamenti, che l’organizzazione totale, matematico-scientifica, della società e della vita sia l’unica base su cui si può costruire l’uomo nuovo non più alienato. Con il suo sforzo di non lasciar cadere nell’oblio l’essere (cioè, in fondo, la natura) su cui l’operare dell’uomo sempre si fonda traendone forze e limiti, quest’opera di Lukács può avere un’importante funzione di richiamo a non dimenticare che, sotto alla superficie lucida della «volontà di potenza» tecnocratica si agitano sempre flussi di bisogno e di desiderio.

Lukács e Heidegger

goldicoLa filosofia tradizionale, della borghesia progressista e rivoluzionaria e della borghesia al potere, aveva separato radicalmente il soggetto e l’oggetto: da una parte l’uomo che conosce e agisce, lo scienziato, il politico, l’ingegnere, ecc. dall’altra il mondo naturale che essi dovevano comprendere e trasformare. Da questa prima divisione si sviluppa tutta una serie di dicotomie che costituiscono il tessuto ideologico della società borghese. Lukács e Heidegger rompono radicalmente con questa tradizione, con strumenti e esiti diversissimi. Il confronto critico che Goldmann propone, con quest’opera postuma (e non finita), apre una dialettica tra questi esiti, ripropone cioè dei problemi nei confronti di queste due prospettive filosofiche «classiche» che rischiano altrimenti di rimanere chiuse nella «storia della filosofia», o meglio nell’ideologia filosofica.

L’estetica di Lukács, i suoi critici, i suoi avversari

di Nicolae Tertulian

da Lukács e il suo tempo. La costanza della ragione sistematica, a c. di M. Valente, Tullio Pironte Editore, Napoli 1984 (Atti del convegno di Roma, dicembre 1981).

La Estetica di Lukács, circa 20 anni dopo l’apparizione nella sua forma compiuta, nei due grandi volumi pubblicati in tedesco dal titolo Die Eigenart des Ästhetischen (La peculiarità dell’estetico), non ha ancor ricevuto, ed è sorprendente che sia così, l’accoglienza critica che attendeva e meritava. Sarebbe errato asserire che manchino del tutto commenti relativi a questa importante opera (io stesso ho dedicato al pensiero estetico di Lukács lunghi e minuziosi studi) ma è certo che un’analisi esauriente della sua struttura profonda, delle sue principali articolazioni, del suo ricco spiegamento categoriale, si fa ancora, a quanto mi risulta, attendere. Continua a leggere

Lukács interprete di Hegel

di Nicolas Tertulian

da Percorsi della dialettica nel Novecento. Da Lukács alla cibernetica, a c. di M.L. Lanzillo e S. Rodeschini, Carocci, Roma 2011.

La filosofia di Hegel è stata un luogo centrale dell’attività di György Lukács per oltre sessant’anni, dalle prime riflessioni a margine della Fenomenologia dello spirito, conservate nei Taccuini di Heidelberg del 1910-13, fino al grande confronto con la Logica hegeliana, avviato nella Ontologia dell’essere sociale e continuato nei Prolegomeni all’Ontologia, cui Lukács lavorò fino a qualche mese prima della morte, nel 1971. In tutto il XX secolo Lukács è forse il solo filosofo ad aver interrogato con tanta insistenza l’opera di Hegel, traendone la sua fonte prima d’ispirazione in un dialogo ininterrotto che tuttavia prese talvolta la forma di una critica severa. (Qui s’impone una certa qual similitudine con il percorso intellettuale di Benedetto Croce.) La Teoria del romanzo, uno dei primi lavori importanti di Lukács, scritto nel 1914-15 e pubblicato nel 1916, si rifaceva già alla storicizzazione delle categorie estetiche posta in atto da Hegel nelle Lezioni sull’Estetica e, innanzitutto, alla distinzione hegeliana tra epopea e romanzo. Quanto poi al famoso libro del 1923, Storia e coscienza di classe, scritto negli anni di apprendistato marxista di Lukács, tutta l’argomentazione ruota intorno a categorie centrali del pensiero di Hegel (la totalità, la dialettica di immediatezza e mediazione ecc.) e culmina in una sorta di trasposizione marxista dell’ontologia hegeliana dell’identità soggetto-oggetto. È riconosciuto da tempo che, insieme al Marxismo e filosofia di Karl Korsch, Storia e coscienza di classe segnò la ripresa dello hegelismo nel pensiero ispirato a Marx. Purtroppo questo ritorno all’eredità hegeliana ebbe vita breve e fu cancellato dal marxismo staliniano1.

Ma anche il ritorno di Lukács all’attività filosofica durante l’esilio in Unione Sovietica fu segnato dal dialogo con Hegel. La prima versione del Giovane Hegel è del 1937-38; la maggior parte dell’opera polemica sulla Distruzione della ragione, pubblicata nel 1954, fu redatta negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale. Le due opere, del resto, sono complementari. Comune a entrambe è la volontà di restituire l’immagine di Hegel liberandola dai travestimenti impostile dal neohegelismo tedesco. Infatti, come è noto, Lukács scrisse Il giovane Hegel anche come contraltare alla Jugendgeschichte Hegels di Dilthey e opponendosi ai diversi tentativi di integrare Hegel nella corrente romantica tedesca. Così gli appariva inaccettabile parlare, come faceva Dilthey, di un «panteismo» e di un «misticismo» di Hegel. Da parte sua Lukács ricostruiva i nessi tra il pensiero di Hegel e la temperie filosofica uscita dalla Rivoluzione francese e dall’esperienza postrivoluzionaria. Nella Distruzione della ragione la polemica contro la tradizione della filosofia romantica tedesca riprende e si allarga, a partire dalla «intuizione intellettuale» schellingiana. Quest’opera tanto vilipesa2 contrappone all’irrazionalismo una nozione di ragione, che è strutturata essenzialmente sulla base della scuola della dialettica hegeliana. Lo si dimentica troppo spesso, ragione è per Lukács sinonimo di ragione dialettica e l’irrazionalismo è definito, nelle sue diverse varianti, come serie di reazioni all’autoaffermazione successiva della ragione dialettica.

2.1 La biografia intellettuale di Lukács è caratterizzata dallo sforzo pertinace di recuperare la ricchezza categoriale del pensiero di Hegel e di integrare le sue numerose conquiste (le «scoperte che han fatto epoca», di Hegel) nell’orizzonte di un’ontologia materialistica. Si tratti del concetto di «lavoro» – «nocciolo arborescente» della dialettica hegeliana a partire dal periodo jenese, secondo Lukács (il «fare», o l’«agire», das Tun, svolge effettivamente un ruolo centrale nella Fenomenologia dello spirito); si tratti delle «figure della coscienza» descritte da Hegel in quella prima grande opera (tra cui naturalmente l’attenzione va alla figura del padrone e del servo, ma anche in generale al processo di alienazione e recupero del soggetto, die Entäusserung und ihre Rücknahme); si tratti infine della ripresa delle «determinazioni riflessive [Reflexionsbestimmungen]» nel capitolo sulla Vera e falsa ontologia di Hegel dell’Ontologia dell’essere sociale – in ogni tappa del suo cammino intellettuale Lukács non cessa di confrontarsi con Hegel, nel costante tentativo di assimilarne l’eredità filosofica.

Naturalmente la riflessione di Lukács su Hegel è collegata al rapporto che egli ha con Marx. Anche l’assimilazione del pensiero marxiano e della sua sostanza filosofica si estende su un periodo non breve. Tra Storia e coscienza di classe (che riunisce saggi dei primi anni Venti) e la scoperta dei Manoscritti economico-filosofici nel 1930-31, questa assimilazione doveva passare per una resa dei conti con la «superhegelianizzazione di Hegel [das Überhegeln Hegels]», secondo le parole di Lukács stesso, nell’opera del 1923. Ma ci furono dei passaggi intermedi. Pensiamo ai testi importanti consacrati a Lassalle (1925), e soprattutto a Hess (1926), dove Lukács difende vigorosamente il retaggio hegeliano nel marxismo, da una parte, e mette in risalto per la prima volta il «realismo» di Hegel, dall’altra – il profondo ancorarsi delle categorie della dialettica nel divenire del reale. La lotta condotta allora, verso il 1925, contro la «fichteizzazione» di Hegel, o meglio contro un certo ritorno da Hegel verso Fichte, quale appariva negli scritti di giovani hegeliani come Moses Hess, Bruno Bauer e soprattutto Ferdinand Lassalle, anticipa per taluni aspetti il discrimen decisivo tra «vera» e «falsa» ontologia di Hegel operato dal filosofo al termine del suo percorso intellettuale: «vera» essendo l’ontologia propriamente dialettica, «falsa» quella che assoggetta lo svolgimento dell’essere ad una sistematizzazione categoriale logicistica e gerarchica. Il problema del rapporto tra l’ordine delle categorie logiche e il divenire reale della storia (tra «logica» e «storia») era già, di fatto, al centro della critica di Lukács nei confronti della «fichteizzazione» della storia negli scritti dei giovani hegeliani in deriva verso l’idealismo, tra cui Hess e Lassarle.

La celebre Versöhnung mit der Wirklichkeit, la «conciliazione con la realtà», affermata da Hegel in opposizione esplicita all’apologia del Sollen kantiano e fichtiano, importa secondo Lukács una benefica e feconda tendenza ad ancorare il pensiero filosofico nel reale e ad avvicinare logica e storia effettiva, sbarazzando l’elemento logico da fantasie e speculazioni utopiche: e ciò, nonostante gli aspetti discutibili della «conciliazione» sotto il profilo sociale e politico. Con l’accento posto sul «realismo» hegeliano contro il soggettivismo e l’utopismo fichtiano, Lukács si apre la via per mostrare un nesso organico tra il pensiero di Hegel e quello di Marx e può prendere, tacitamente, le distanze dal messianismo utopico caratteristico dei saggi raccolti in Storia e coscienza di classe.

La filosofia della storia di Fichte, quale è esposta nei Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters [I tratti fondamentali dell’epoca presente], con la caratterizzazione del presente, appunto, come «epoca della compiuta colpevolezza» e la proiezione dell’armonia in un futuro utopico, appare a Lukács come una teoria molto più astratta della concezione hegeliana della storia, in cui la filosofia deve immergersi nell’immanenza del presente e respingere ogni speculazione utopica sull’avvenire. Anche nell’opera del giovane hegeliano August von Cieszkowski, che volle opporre al pensiero contemplativo del maestro una «filosofia dell’azione», Lukács individua il tentativo di contrapporre allo storicismo di Hegel una proliferazione di categorie astratte – sinonimo, per lui, di un ritorno al moralismo e soggettivismo di Fichte. Anche Benedetto Croce rimproverava del resto a von Cieszkowski e ai giovani hegeliani la sostituzione della storia reale con una successione di categorie arbitrarie3. L’elogio lukacsiano dello storicismo di Hegel – accompagnato da una messa in guardia contro il «logicismo», o meglio contro l’assoggettamento della storia a una successione di categorie puramente logiche – non andava esente, già nel 1926, da una certa preferenza per la Fenomenologia rispetto alla Scienza della logica. La Fenomenologia, leggiamo in una nota dello studio su Moses Hess, è «essenzialmente più storica»; mentre viene respinta la riduzione della storia a logica, che avrebbe operato Lassalle.

Molto più tardi, nel capitolo su Hegel della Ontologia dell’essere sociale, ritroviamo una posizione simile. Elogio in alti toni della Fenomenologia dello spirito, nella cui concezione della storia risuona il senso di conquista del periodo napoleonico: mentre nella Scienza della logica il corso del pensiero assume un tono assai più prosaico4.

Lukács ha risentito dell’azione catalizzatrice della filosofia di Hegel nella sua propria evoluzione intellettuale – e ciò percorrendo lui stesso il cammino che va da Kant e Fichte all’autore della Fenomenologia dello spirito. L’estetica giovanile di Lukács aveva forti caratteri kantiani e neokantiani; nella Teoria del romanzo il presente era ancora detto, fichtianamente, «epoca della compiuta colpevolezza». L’influenza di Kant e di Fichte è palese anche nell’idealismo morale del saggio del 1918, pubblicato col titolo Contributo al dibattito su idealismo progressista e idealismo conservatore. E, tuttavia, già nel periodo di Heidelberg vi è una innegabile presenza del pensiero hegeliano nel lavoro filosofico di Lukács. La sua presa di posizione contro lo «spirito jahveico» (ossia il regno delle istituzioni, dello Stato, del diritto), in nome di una «seconda etica» (quella in cui esprimerebbero le esigenze pure dell’anima), è nutrita, entro certi limiti, della distinzione hegeliana tra spirito oggettivo e spirito assoluto. In uno scritto pubblicato verso la fine della sua vita Lukács afferma, d’altra parte, che quel periodo della sua evoluzione era stato sotto il segno della triade Hegel, Ady, Dostoevskij. In Storia e coscienza di classe alla dialettica hegeliana veniva tributato un trionfo filosofico, come alla potenza liberatrice dalle antinomie del kantismo e del fichtismo. A un certo punto, il nostro filosofo arriverà perfino a vedere nella polemica del bolscevico Trockij contro il riformista Kautsky un analogon politico della lotta filosofica di Hegel contro Kant.

Ma Hegel è innanzitutto, per Lukács, la grande leva del suo passaggio a Marx. Un esegeta americano, Tom Rockmore, ha voluto trovare in Fichte, invece, la chiave di volta del passaggio di Lukács al marxismo (mettendo un accento eccessivo, poi, sull’influenza esercitata dal neokantiano Emil Lask). Questo tentativo non pare convincente. Lukács abbracciò con entusiasmo, in quegli anni, la concezione della dialettica hegeliana perché essa gli appariva come il superamento della dualità tra fenomeno e cosa in sé, e offriva la possibilità di pensare le categorie come determinazioni del reale e non come «determinazioni dell’intelletto», nel senso di Kant, eliminando così lo hiatus irrationalis tra categorie del pensiero e «fatticità» delle cose, ovvero ancora il dualismo di «razionalità» delle categorie e «irrazionalità» del dato, presente tanto in Fichte quanto in Lask. Il tentativo di «fichtianizzare» Lukács spinge Rockmore a mettere in ombra il peso decisivo dell’influenza di Hegel, che precisamente permise a Lukács di liberarsi dei pregiudizi kantiani e fichtiani e di iscrivere le categorie, e il loro concatenamento, nel divenire reale5.

Hegel, e il suo rapporto con Marx, sono di nuovo al centro dell’attività filosofica di Lukács a partire dai primi anni Trenta. Questa volta, però, con premesse nuove, in seguito alla conoscenza, che Lukács guadagna a Mosca, dei Manoscritti economico-filosofici del 1844. La critica marxiana dell’identificazione, in Hegel, di alienazione (Entfremdung) e oggettualizzazione (Vergegenständlichung) è, per Lukács, una rivelazione. La distinzione tra le due resterà d’ora in poi un punto fermo. Nella «oggettualizzazione» Lukács comincia a vedere un elemento costitutivo dell’antropogenesi, del farsi-uomo dell’uomo («un ente non-oggettuale è un non-ente», aveva scritto Marx) – mentre l’«alienazione» è solo una forma particolare della oggettualizzazione, lo straniamento delle forze essenziali umane. Nella coscienza filosofica di Lukács un’ontologia materialista prende ora il posto dello hegelismo trionfale di Storia e coscienza di classe. In quest’opera, secondo l’autore, operava ancora l’identificazione non lecita di oggettualizzazione e alienazione e l’ontologia idealistica dell’identità del soggetto-oggetto.

D’ora in poi, la battaglia per il recupero dell’eredità valida di Hegel e per mettere in luce i collegamenti profondi che sussistono tra dialettica hegeliana e dialettica di Marx, al di là del «rovesciamento» che Marx avrebbe operato, dominerà l’attività del nostro filosofo, sino alla fine della sua vita. Si tratta di una battaglia condotta su più fronti. Ve ne è una pars construens, che si concretizzerà nel grande tentativo (del Giovane Hegel, 1948) di portare alla luce la genesi della dialettica hegeliana, esaminando partitamente la profonda influenza esercitata su Hegel dalla Rivoluzione francese, dall’esperienza postrivoluzionaria (il Termidoro), dal contatto con l’economia politica inglese (Steuart e Smith). Nessun altro interprete ha proceduto, prima di Lukács, a uno studio così ampio e di larga portata per contestualizzare la genesi sociale e storica della dialettica hegeliana, rivelando per esempio nessi fino allora insospettati tra le vedute economiche di Hegel (la sua presa di conoscenza della bürgerliche Gesellschaft attraverso le categorie economiche di Steuart e Smith) e le categorie centrali del pensiero dialettico. Sarebbe riduttivo, senza dubbio, dire che Lukács ha voluto spiegare la genesi della dialettica hegeliana esclusivamente con questo rapporto con l’economia politica inglese. Il sottotitolo della prima edizione del Giovane Hegel, apparsa a Zurigo nel 1948, suonava effettivamente così – Über die Beziehungen von Dialektik und Oekonomie [Sui rapporti di dialettica ed economia] ma, come risulta da una lettera dell’autore a Wolfgang Harich, del 4 maggio 1953, quando Harich preparava l’edizione pubblicata nella DDR nel 1954, quel sottotitolo era stato imposto dall’editore svizzero, Hans Oprecht. Lukács suggeriva ad Harich di tornare al titolo originale e meglio corrispondente all’intento dell’opera, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, come poi fu fatto nell’edizione della Aufbau-Verlag.

Le resistenze opposte alla ricezione del Giovane Hegel di Lukács fin dalla sua pubblicazione, e che si manifestano tuttora, come si vedrà, non possono diminuire la portata innovatrice dell’opera. In essa, per la prima volta, fu messo in chiaro il repubblicanismo profondo che ispira gli scritti di Hegel nel periodo di Berna e il potenziale emancipatorio della critica della «positività» (compresa quella della religione cristiana). In seguito, nei capitoli dedicati ai periodi di Francoforte e di Jena, un’analisi minuziosa ricostruisce la progrediente riconciliazione del giovane Hegel con la società borghese, e la fase di esitazione e transizione in cui egli venne delineando le categorie costitutive del suo pensiero (servendosi delle ricerche di Steuart e Smith). Lukács delinea un quadro amplissimo delle vedute sociali e politiche del giovane Hegel, mette in risalto la sua critica dell’ancien régime, il suo pathos antifeudale, spiega l’adesione entusiastica all’opera di Napoleone. In questo modo si rinnovava l’immagine del grande filosofo, dissipando pregiudizi invalsi e inaugurando una linea di ricerca che si sarebbe dimostrata feconda. È nel contesto di questa storicizzazione della filosofia hegeliana che vanno viste le ricerche di Lukács sugli economisti inglesi e le concezioni economiche di Hegel – di cui Lukács per primo ha mostrato il ruolo nella genesi della dialettica hegeliana6.

Le tesi sostenute da Lukács nel suo Il giovane Hegel sconvolgevano a tal punto le rappresentazioni correnti che un interprete eminente di Hegel, Benedetto Croce, presa visione del titolo dell’opera dovuto all’editore svizzero, si rifiutò di andare oltre. Indignato per delle «elucubrazioni che pretendono di mettere in rapporto la dialettica hegeliana con l’economia», il cui autore è «il noto marxista ungaro-russo Lukács », Croce si impose di non recensire l’opera (e di non leggerla). Paradosso vuole che proprio nel momento in cui scriveva queste righe, Croce si mostrasse sempre più preoccupato proprio dalla questione delle «origini della dialettica», come mostrano il suo scritto del 1949 su L’odierno rinascimento esistenzialisticodi Hegel e le successive riflessioni pubblicate col titolo Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, che giungono fino all’anno della morte, il 1952. E il paradosso consiste in questo: dopo mezzo secolo di meditazione a un dipresso ininterrotta sull’opera del filosofo che fu, come egli scrisse «mio amore e mio cruccio», sul finire della vita Benedetto Croce ricercava le origini della dialettica hegeliana non già in un processo puramente intralogico o intraconcettuale, ma in un’esperienza di carattere essenzialmente pratico. Sempre più attento al peso del «vitale» nella circolarità delle forme dello spirito (essendo il «vitale» la nuova denominazione di quello che Croce aveva in precedenza chiamato l’«utile» – il mondo dei bisogni, degli impulsi, dei desideri ecc.), l’ultimo Croce sente il bisogno di situare le origini della dialettica hegeliana nella «oscura vita pratica», e precisamente nella tensione tra le passioni e la moralità, tra la sfera dell’egoismo e quella della vita etica. In una annotazione postrema del novembre 1952 – Croce morirà qualche giorno dopo – leggiamo: «ma è certo che egli [Hegel] si rese conto dell’immenso lavoro che l’egoismo umano produce, e che non è da buttar via ma da redimere e conservare, mettendolo a servigio del bene». Il tollere contenuto nella Aufhebung hegeliana troverebbe dunque il suo principio ispiratore in un’esperienza di ordine etico. Il terreno su cui la moralità viene a crescere è la vitalità «cruda e verde, selvatica e intatta da ogni educazione ulteriore»; e la autentica scoperta di Hegel starebbe nella sfera di un’«alta Etica», là dove «la legge morale rifulge negli animi entrando in contrasto col libito individuale» – e la dialettica non altro sarebbe che l’espressione logico-concettuale di tale esperienza pratica (la «filosofia della pratica» comprende, per Croce, economica ed etica).

Forse, se Croce si fosse dato pena di leggere il libro in cui Lukács procedeva a una ricostruzione minuziosa dell’itinerario intellettuale dello Hegel giovane e della genesi tormentata della dialettica attraverso la resa dei conti con le realtà economico-sociali, avrebbe potuto riscontrarvi, in qualche misura, una conferma delle sue intuizioni. Anche per Lukács, quanto meno, le origini della dialettica non sono prioritariamente nella pura immanenza del pensiero a se stesso, ma nella sedimentazione concettuale di esperienze storico-sociali.

Nelle note autobiografiche redatte qualche mese prima della scomparsa e pubblicate col titolo Pensiero vissuto, Lukács torna a discorrere del suo Il giovane Hegel, mentre precisa quello che era stato il suo procedere nell’interpretazione dei sistemi filosofici del passato:

mostrare che le più sottili reazioni intellettuali della filosofia nei confronti del mondo scaturiscono – in ultima istanza – dalla adeguata generalizzazione delle reazioni di vita primarie (reazioni alla cerchia economica oggettiva). […] Perciò già in Hegel: in primo piano, come metodo generale, esigenza della genesi nella storia del pensiero. […] Genesi qui: più che mero sorgere, più che prima coscienza.

Il metodo con cui Lukács procede nel Giovane Hegel risulta chiaro anche dal modo in cui egli riesce a decifrare il senso di testi redatti da Hegel nel periodo di Francoforte (1797-1800), e a prima vista alquanto oscuri. Valga un esempio. Nel frammento intitolato Die Liebe [L’amore], pubblicato dal Nohl nella raccolta Hegels theologische Jugendschriften, si tratta della tensione tra un’esistenza mortificata dalla positività (l’alienazione) e un’esistenza animata dalla potenza che redime, l’amore. Ecco il passo:

Poiché questo amore rivolto all’elemento morto [um des Toten willen] è circondato solo da materia, e la materia stessa è indifferente a quell’amore […] i suoi oggetti variano, senza dubbio, ma non gli fanno mai difetto. […] Per questo l’amore non si cura di perderli, e trova la certezza di una consolazione considerando che la perdita, perché può essere risarcita, sarà risarcita. In questo modo, la materia è assoluta per l’uomo. Certo, se egli stesso non esistesse più affatto, nulla sarebbe per lui: ma perché dovrebbe egli esistere? Che egli desideri esistere, si comprende facilmente: infatti, al di fuori delle limitazioni che gli son proprie, al di fuori della sua coscienza […] è solo la sterilità del Nulla [das dürre Nichts]. Ma pensare se stesso nel nulla, è certo cosa che l’uomo non può sopportare7.

Analizzando questo frammento, Lukács vi trova la descrizione dello «stato d’animo dell’uomo medio della società borghese»: lo specchio di un esistere che si svolge entro un orizzonte privato di senso (da cui l’espressione hegeliana «das dürre Nichts» «la sterilità del Nulla»), in cui l’uomo non «intrattiene alcun rapporto effettivo e sostanziale né con le cose, né con i suoi simili, né con se stesso». Lo sforzo dell’interprete, anche qui, mira a portare alla luce lo sfondo socio-economico, i cui «morti limiti» Hegel si proponeva di spezzare, per rivivificare l’esistenza.

Il periodo di Francoforte è, secondo Lukács, un periodo di «crisi» del giovane filosofo, che posto di fronte agli aspetti contraddittori della società che lo circondava, e scontrandosi con essi, avrebbe poi cercato di darne espressione in termini filosofici. Qui il giovane Hegel si sarebbe «riconciliato» con la società borghese del tempo (quella cui opponeva invece, a Berna, l’ideale della polis antica), seguendo un cammino opposto a quello del giacobino tedesco Georg Forster, e anche a quello di Hölderlin. Sempre secondo Lukács, è in questa fase che la contraddizione comincia a delinearsi come tema fondamentale della filosofia hegeliana8.

Ma è con l’analisi del periodo di Jena e i capitoli sulla Fenomenologia, il luogo dove il leone filosofico alza ormai la sua voce, che Lukács dà la misura piena della novità del suo impianto interpretativo, che, possiamo dirlo, ha mutato il paesaggio degli studi su Hegel. Non solo le divergenze e poi la rottura con Schelling sono ricostruite a tutto tondo. Non solo Lukács ha esaminato a fondo, per primo, le concezioni economiche di Hegel espresse negli scritti e nei corsi universitari di Jena (da quello del 1803 alla Realphilosophie del 1805-06), rivelando la perspicacia straordinaria e la grande chiaroveggenza di Hegel nel formulare le categorie specifiche della società capitalistica e le sue contraddizioni (lavoro astratto, macchinismo, ruolo del denaro, effetti negativi della divisione del lavoro ecc.). Ma ancora: egli ha mostrato in concreto la genesi della categoria centrale del pensiero hegeliano in questa fase, l’alienazione [die Entäusserung], che si sostituisce ora alla vecchia Positivität, tema centrale del periodo di Berna e di Francoforte – e vi si sostituisce in base alla precisa esperienza storico-sociale del capitalismo. In modo convincente Lukács esponeva così l’interpretazione di Hegel come di un pensatore che entra nel «concime delle contraddizioni [mitten im Dünger der Widersprüche]», secondo un’espressione di Marx, per pensare la nuova società borghese nella molteplicità dei suoi elementi innovatori, ma anche delle sue disfunzioni, e senza nostalgia per il passato precapitalistico – in ciò precisamente distinguendosi dalla filosofia romantica. Hegel, è vero, non abdica all’ammirazione per la polis antica, e il liberale Rudolf Haym gli farà anzi rimprovero di spirito «antichizzante». A questa critica, Lukács risponde ironicamente: «Certo. Hegel non è Bentham». O in altre parole: Hegel teneva desto, di fronte alla nuova società borghese, lo spirito critico – era un «umanista critico», il che ispira a Lukács, suo interprete, un parallelo con le posizioni di Goethe. Il genio di Hegel si è manifestato nel dare un’espressione filosofica universale all’esperienza di una società nella quale gli individui si obiettivano in forme economiche e in istituzioni che acquistano una loro autonomia rispetto alle intenzioni dei soggetti individuali (qui origina anche la famosa «astuzia della storia») – ma che, nello stesso tempo, restano pur sempre il prodotto dell’azione di individui.

In tal modo, la Entäusserung – alienazione o esteriorizzazione – diventava, per Hegel, una categoria della storia universale. Ma va aggiunto: l’alienazione e la sua restituzione [die Entäusserung und ihre Rücknahme], perché Hegel prevede anche la soppressione dell’alienazione, identica per lui con l’oggettualizzazione, nell’identità Soggetto/Oggetto.

2.2. Jean Hyppolite, già autore di un altro lavoro standard su Hegel, Genesi e struttura della Fenomenologia dello spirito (1946), fu uno dei primi a sottolineare la novità e l’originalità dell’approccio lukacsiano, anche se il suo studio era ispirato a concezioni ben lontane da quelle di Lukács (Hyppolite era vicino alla filosofia dell’esistenza, alla famiglia spirituale cui appartennero Sartre e Merleau-Ponty). In un lungo articolo dal titolo Aliénation et objectivation: à propos du livre de Lukács sur la jeunesse de Hegel, pubblicato nel 1951 in “Études germaniques”, Hyppolite metteva in risalto il collegamento dimostrato da Lukács tra le vedute economiche e la speculazione filosofica di Hegel sul problema dell’alienazione, nonché il prolungamento delle tesi di Hegel nel pensiero di Marx.

Il capitolo lukacsiano sulle concezioni economiche di Hegel fece una forte impressione anche su Adorno, come risulta da un’annotazione scritta per il suo amico Max Horkheimer, col titolo Ad: Oekonomie und Gesellschaft heim Jungen Hegel, conservata nell’Archivio Horkheimer a Francoforte, e tuttora non pubblicata. Qui Adorno parla due volte di «grossartigem Zitat (citazione sensazionale)», riferendosi agli estratti dalle lezioni jenesi di Hegel sul carattere progressivamente meccanico dell’attività lavorativa e sul carattere reificante del denaro, ripresi e commentati da Lukács. Sembrerebbe che Adorno scoprisse qui, per la prima volta, il grande significato di questi testi hegeliani. Ma, al contrario di Jean Hyppolite, la sua reazione è fortemente negativa, come si vede dalle conclusioni della recensione privata per Horkheimer, e anche più da una lettera a Thomas Mann, del 3 giugno 1950. Secondo Adorno, Lukács studia Hegel in funzione di quello che Marx potè trarne in seguito: una prospettiva unilaterale, che impedirebbe di apprezzare il pensiero di Hegel nella sua autonomia. Hyppolite, invece, aveva scritto che «il libro di Lukács sulla giovinezza di Hegel offre al lettore tutt’altro che un’opera di partito preso, mirante a costringere in uno schema fisso una filosofia mal costituita per entrarvi». Anche Eric Weil, nella recensione del Giovane Hegel per la rivista parigina “Critique”, non priva di riserve e note critiche, sottolineava però in apertura che «ogni futura interpretazione dovrà tenere conto delle tesi che sono argomentate in quest’opera». È probabile che nelle espressioni acide di Adorno nella lettera a Thomas Mann9 si manifesti un certo risentimento del futuro autore della Dialettica negativa nei confronti del marxismo lukacsiano. Adorno era convinto che, diventando militante comunista, Lukács avesse abbandonato la sua libertà di pensiero, facendo il sacrificium intellectus per degli schematismi di parte. Obnubilato da risentimenti che si devono pur dire «ideologici» nel senso tutto negativo che Adorno dava a questo termine, egli giungeva, nella recensione privata per Horkheimer, a conclusioni grottesche: nel Giovane Hegel Lukács avrebbe evitato di cercare «i motivi materialistici nella Logica e Metafisica di Hegel […] per paura dei Bonzi», cioè dei funzionari di partito. Eppure, basta leggere le pagine relative alla teleologia nella Logica hegeliana, e al loro legame con l’analisi del lavoro presentata nelle lezioni jenesi, per rendersi conto di come, appunto, Lukács abbia largamente messo in risalto i «motivi materialistici», o meglio i germi di materialismo, contenuti nelle analisi di Hegel! Le avventure del libro di Lukács prima della pubblicazione non potevano, del resto, esser note ad Adorno. Il manoscritto, terminato nel 1938, era stato dapprima presentato come tesi di dottorato all’Istituto di Filosofia dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, nel 1942. La discussione accademica si fece a Taškent, dove i filosofi era stati evacuati durante la guerra. Ma nell’URSS il libro non venne pubblicato. Di fronte al verdetto di Stalin e Ždanov contro la filosofia hegeliana, secondo cui questa filosofia era espressione della reazione aristocratica contro la Rivoluzione francese (!), Lukács preferì tenere il manoscritto nel cassetto10. Così l’opera venne pubblicata solo dieci anni dopo la conclusione del manoscritto, nel 1948, e dapprima solo in Svizzera. Un articolo di Wolfgang Harich, che prese poi l’iniziativa della pubblicazione nella RDT (Aufbau-Verlag, 1954), riferisce le resistenze alla pubblicazione negli ambienti filosofici ufficiali del tempo. Una traduzione in Unione Sovietica si ebbe solo decenni dopo. Insomma: col mettere a valore l’eredità hegeliana presente nel marxismo, il Giovane Hegel dava duri colpi agli stereotipi del marxismo-leninismo ufficiale.

Jean Hyppolite non sbagliava, nella recensione del 1951: l’interpretazione lukacsiana di Hegel dava prova di grande indipendenza di spirito11. Ma, nella seconda parte del suo scritto, Hyppolite sollevava una questione cruciale dell’interpretazione del rapporto tra Hegel e Marx. È effettivamente fondata la critica marxiana secondo cui Hegel avrebbe identificato alienazione e oggettualizzazione? E quale fondamento aveva, a sua volta, l’adesione integrale di Lukács a questa lettura? Il capitolo conclusivo sulla Alienazione come categoria filosofica centrale della Fenomenologia dello Spirito riprende, infatti, e sviluppa la critica marxiana, nei Manoscritti del 1844, alla identità di «alienazione» e «oggettualizzazione» nella Fenomenologia. Queste riserve di Hyppolite si comprendono meglio se si tiene presente la sua tendenza a un’interpretazione della filosofia di Hegel come «pan-tragismo». Facendo dell’alienazione un elemento consustanziale all’esistere umano (e non, come in Marx e in Lukács, l’espressione di stadi storici transeunti), il pensiero di Hegel sarebbe giunto a cogliere in profondità i dilemmi e le antinomie essenziali della condizione umana. In questa lettura di Hegel, il filosofo francese non si separava soltanto dall’interpretazione di Lukács che, con Marx, relativizza l’alienazione in quanto figura di una fase storica, e dunque stadio particolare, distinguendola dall’oggettivazione, condizione strutturale dell’attività umana, e che – ancora con Marx – respinge per questa via l’idealismo di Hegel: di più, Hyppolite manifestava in questo modo le sue proprie affinità con la filosofia dell’esistenza. In effetti, il «peccato», per Kierkegaard, la Entfremdung (alienazione), per Heidegger, sono consustanziali all’esistenza umana. E Hyppolite parla, in questa stessa vena, di «alterità insormontabile» dell’esistenza, di una «tensione inseparabile dall’esistenza»; e difende dunque, contro Marx e Lukács, la nozione hegeliana di oggettualizzazione che implica sempre alienazione. Echeggiano qui grandi motivi della filosofia esistenzialista: l’uomo è «gettato [geworfen]» in un mondo che gli è ostile. La fiducia in un «progresso» che possa abolire l’alienazione è solo un miraggio. Jacques D’Hondt, che di Hyppolite fu discepolo e amico, ricordava le sue discussioni col maestro, in conclusione di una bella conferenza nel nostro seminario all’École des hautes études en sciences sociales: Hyppolite sosteneva con Hegel, lo Hegel di Lukács, ma contro Marx e contro Lukács in quanto marxista, che

ogni parola viva si cristallizza in formule raggelate, che ogni idea creativa degrada poco a poco nel dogma, che ogni attività spontanea finisce in cieco meccanismo, che ogni fermentazione soggiace alla stagnazione. […] C’è, nell’esistenza, una fatalità tragica12.

A quell’articolo di Hyppolite Lukács non rispose direttamente. Ma nell’introduzione del 1954 per la nuova edizione del Giovane Hegel si legge un giudizio aspro della tendenza a volgere il senso dell’opera di Hegel nella direzione di una filosofia dell’esistenza, tendenza che prevaleva in Francia nel dopoguerra. Qui, per esempio, veniva citato proprio il libro di Hyppolite sulla Fenomenologia dello spirito. La comprensione mostrata da Hyppolite per il lavoro di Lukács, nonostante ogni riserva, non è stata contraccambiata. Ma occorre comprendere, a nostra volta. Lukács si sentiva impegnato in una vera e propria battaglia, con una posta di grande peso: restituire il senso autentico dell’opera di Hegel che ai suoi occhi prefigurava quella di Marx e ne era perciò inseparabile. L’innesto di un pantragismo a toni esistenziali sul tronco del pensiero di Hegel gli appariva, in questo contesto, inammissibile. Inoltre la Hegel renaissance francese del dopoguerra richiamava a Lukács il cattivo ricordo di talune tendenze del neohegelismo tedesco nel periodo tra le due guerre, anche se sottolineava egli stesso le differenze. Nella Distruzione della ragione Lukács mette in risalto, nel pantragismo sostenuto da Hermann Glockner, una torsione e un travisamento dell’opera di Hegel nella direzione di Schopenhauer, Nietzsche e Heidegger, e tende a mostrare l’incompatibilità della nozione hegeliana di «tragico» tanto con il tragico «cosmico» in Schopenhauer che con lo amor fati nietzscheano e il pessimismo di Heidegger. È possibile, infine, che la presa di posizione del 1954 contro ogni lettura esistenzializzante dell’opera di Hegel tenesse presente anche il libro di Kojève, Introduction à la lecture de Hegel, il cui autore non faceva mistero del proprio debito verso Heidegger; ed è certo che Lukács pensava anche a Jean Wahl e al suo libro del 1929 Le malheur de la conscience dans la philosophie de Hegel, menzionato nel Giovane Hegel, ma proprio per criticare la tendenza ad assimilare Hegel a Kierkegaard.

La giusta comprensione della filosofia di Hegel era per Lukács una questione tanto più essenziale, in quanto la sua stessa biografia intellettuale vi era impegnata profondamente. Abbiamo già visto che la questione del rapporto tra oggettualizzazione e alienazione era stata decisiva quando si trattò, per Lukács, di prendere le distanze dalla sua celebre opera giovanile, Storia e coscienza di classe. La nuova lettura lukacsiana di Hegel, concretizzata dapprima nel libro sul Giovane Hegel, poi nell’Ontologia dell’essere sociale (per tacere della Estetica, dove i motivi hegeliani non si contano), veniva ad essere per il filosofo un punto di riferimento cruciale, da cui dipendeva l’elaborazione della sua propria filosofia.

Uno dei temi centrali della riflessione di Lukács è rimasto sempre quello della dialettica di soggetto e oggetto. Ripercorrendo punto per punto il cammino giovanile di Hegel, Lukács potè recuperare la straordinaria ricchezza delle analisi che Hegel dedicò all’alienazione del soggetto nel mondo: il superamento dell’immediatezza naturale, il ruolo delle mediazioni e della «riflessione», la scoperta del «concime delle contraddizioni», la superiorità nel tempo dei mezzi sullo scopo13, la teleologia che si fonda saldamente nella causalità, il ruolo della «astuzia della ragione». Esemplare è l’interpretazione, nel Giovane Hegel, delle pagine famose della Fenomenologia sulla dialettica di servo e padrone. Il padrone, che non ha contatto effettivo col mondo se non tramite il servo, svolge, secondo Lukács lettore di Hegel, un ruolo meramente episodico; è soltanto il servo, messo di fronte per definizione alla durezza del reale, sul quale agisce col lavoro, che ha un ruolo fecondo e duraturo. Questa interpretazione è stata contestata vivacemente, tra gli altri, da Guy Planty-Bonjour: alcuni vi hanno visto un semplice travestimento marxista delle riflessioni di Hegel. Per Lukács si trattava innanzitutto di far emergere la portata filosofica dell’analisi di Hegel. Andava messo in luce il senso acuto della densità del reale, della sostanzialità del mondo che Hegel ebbe; la sua grande apertura all’oggettività, l’accento da lui posto sull’alienazione e il suo ruolo; ciò fatto, si poteva mostrare conclusivamente quello che separava radicalmente Hegel dai suoi contemporanei, Kant e Fichte, e anche dal suo già alleato Schelling. Nella lettura lukacsiana il soggetto in Hegel è un soggetto saturo di determinazioni del mondo obiettivo, profondamente radicato nell’eteronomia del mondo: ed è solo l’idealismo consustanziale della sua filosofia che spinge Hegel a far riassorbire infine l’alienazione in una mistica identità di Soggetto e Oggetto. Da parte sua Lukács ha privilegiato l’idea di un’eterogeneità irriducibile di soggetto e oggetto. Tra l’uno e l’altro, nel suo pensiero, vi è una tensione dialettica perpetuamente rinnovata. L’alienazione non è perciò che una delle forme, storicamente circoscritte, dell’oggettualizzazione; e si lascia la porta aperta all’uscita da essa tramite il moto delle contraddizioni e delle mediazioni.

2.3. Il lungo periplo di Lukács attraverso la filosofia classica tedesca comprende una serie di scelte. A favore di Fichte nella sua disputa con Kant; a favore di Schelling nella discussione con Fichte; e, finalmente e soprattutto, a favore di Hegel e delle acerbe critiche da lui rivolte a quei suoi tre grandi predecessori. Ma non si tratta di una semplice linea di storiografia filosofica. Qui, Lukács gettava le basi di una concezione della filosofia, che si sarebbe prolungata e compiuta nell’idea di una ontologia dialettica. Nelle polemiche ora ricordate, che scandivano le tappe di sviluppo della filosofia classica tedesca, Lukács ritrovava le tappe in cui si preparava un pensiero ulteriore, che fu poi di Marx. Così le espressioni severe di Hegel contro l’idealismo soggettivo di Kant e di Fichte, la critica hegeliana dell’«intuizione intellettuale» di Schelling, la superiorità della nozione hegeliana di assoluto (fondata sul principio dell’«identità della identità e della non-identità», e sul divenire incessante del reale) su quella di Schelling (semplice unità delle contraddizioni, che porterebbe alla loro estinzione), in ognuno di questi punti si ritrovano, sotto la penna di Lukács, altrettanti argomenti a favore di una nuova concezione del rapporto soggetto-oggetto, capace finalmente di render ragione dell’oggettività e del suo ruolo. Nella conclusione del Giovane Hegel Lukács non esita ad affermare che il merito storico della lotta di Hegel contro il «trascendentalismo» kantiano e fichtiano, e contro la «intuizione intellettuale», consiste nell’aver limitato quanto possibile le prerogative della soggettività trascendentale e ampliato quanto possibile (entro i limiti dell’idealismo) l’apertura verso il divenire del mondo oggettivo.

In questa prospettiva diventa comprensibile la polemica senza quartiere di Lukács contro le tendenze invalse nel neohegelismo tedesco della prima metà del secolo: minimizzare la distanza tra Hegel e i filosofi suoi contemporanei, instaurare una continuità tra Kant e Hegel, mettere in ombra la divergenza delle loro filosofie e, al limite, integrare Hegel nel quadro delle filosofie romantiche. Marxista e filosofo, Lukács era convinto che tutto ciò costituisse una deformazione grave dell’opera di Hegel, con l’eliminazione, come sbocco, della sua novità filosofica essenziale – l’elaborazione di una logica dialettica. Assai critico fu però Lukács anche nei confronti di Julius Ebbinghaus, che si sforzava di ricondurre Hegel agli sviluppi del kantismo14. E da respingere era, per Lukács, la posizione non troppo dissimile di Dilthey, che peraltro ricusava in radice la dialettica e la «speculazione» hegeliane, rifacendosi alla critica di Trendelenburg. Ma le folgori della critica lukacsiana andavano soprattutto contro Richard Kroner ed Hermann Glockner: il primo per aver sostenuto l’equazione «dialettica = irrazionalismo»; il secondo per aver continuato lo stesso orientamento, ma in peggio: contaminatici di hegelismo e Lebensphilosophie tramite successori di Hegel come Friedrich Theodor Vischer, che ne banalizzavano e svigorivano il pensiero, fino a costruire, sull’asse del preteso «pantragismo» hegeliano, una tradizione «autenticamente tedesca»15.

Il capitolo sul neohegelismo nella Distruzione della ragione costituisce un parallelo e una prosecuzione della lotta condotta nel Giovane Hegel contro gli sforzi dei nazional-liberali e dei conservatori tedeschi che avevano voluto incorporare Hegel nella loro tradizione. C’era stata una volontà di «annessione» di Hegel da parte della destra tedesca, e Lukács ne era consapevole: lo mostrano le sue critiche contro la tesi della continuità tra spirito hegeliano e opera di Bismarck, variamente sostenuta da Friedrich Meinecke, Franz Rosenzweig o Hermann Heller. Contro l’amalgama di Hegel e Bismarck, Lukács fa valere instancabilmente i segni delle tracce profonde, nel pensiero di Hegel, della Rivoluzione francese e dell’azione di Napoleone; e mostra che ancora l’ultimo Hegel, lo Hegel «prussiano», non ha nulla in comune con la Realpolitik bismarckiana. Lo Hegel letto da Lukács è un filosofo profondamente anti-reazionario, un teorico per eccellenza dell’emancipazione. Le ricerche di Jacques D’Hondt in Francia e di Domenico Losurdo in Italia, per tacer d’altri, hanno portato avanti l’indagine nella direzione avviata da Lukács, e sono giunte a notevoli risultati.

Era inevitabile che l’interpretazione lukacsiana di Hegel, che veniva ad abbattere tutto un ammasso di pregiudizi accumulatisi nella tradizione liberale-conservatrice – senza parlare delle mistificazioni nazionalsocialiste: ma si vedano le pagine della Distruzione della ragione sul libro di Franz Böhm, Anti-cartesianismus –, era inevitabile che questa interpretazione suscitasse reazioni violente della parte contraria. Particolarmente interessante è la reazione di Carl Schmitt, anche se questo celebre giurista e teorico della politica, pur richiamando spesso Hegel nei suoi scritti, non ha mai pubblicato un lavoro d’insieme sull’autore della Filosofia del diritto. Sappiamo dalle note messe in carta da Schmitt nel suo Glossarium tra il 1947 e il 1951 (e pubblicate postume nel 1991), e che contengono varie osservazioni sul Giovane Hegel di Lukács, che Schmitt lesse attentamente il volume subito dopo la prima pubblicazione nel 1948. D’altra parte Schmitt cita varie volte Storia e coscienza di classe, che conosceva bene, e nella seconda edizione del suo libro Il concetto del politico (1932) si trova il passo famoso, di cui Karl Löwith fece poi esergo, sulla «migrazione» dell’opera di Hegel a Mosca attraverso Marx e Lenin, con riferimento specifico a Lukács, che incarnava, per Schmitt, la vivente attualità di Hegel attraverso il marxismo. Ora, Löwith ha scoperto che nella successiva edizione del 1933, con i nazisti al potere, Schmitt elimina il passo, e lo sostituisce con poche righe assai sgradevoli sulla sua «bestia nera», il giurista conservatore di origine ebrea Friedrich Julius Stahl, che aveva avuto la tracotanza di polemizzare con il «tedesco» Hegel. Tornando al Glossarium di Schmitt, è chiaro che il Giovane Hegel lukacsiano irritò profondamente questo suo lettore, che in una annotazione del 10 aprile 1949 si augura di poter sottrarre Hegel al «prete maligno [boshaften Priester]», Lukács, che l’aveva installato nel suo tempio marxista. E ancora, Schmitt fa rimprovero ai tedeschi di aver gettato il buio su Hegel nel XIX secolo, preferendogli Schopenhauer, e di aver poi lasciato che l’influenza di Hegel scorresse nei rivi del leninismo e del mussolinismo. Soprattutto, però, il disappunto che la lettura del Giovane Hegel provoca in Schmitt è dovuto alla dimostrazione di quanto essenzialmente la filosofia di Hegel fosse una filosofia dell’immanenza, la cui logica interna (il principio dell’identità dell’identità e della non-identità) toglieva ogni base al bisogno di salvazione [Erlösung] grazie al Trascendente16. Il cattolico Schmitt non fa mistero della sua irritazione per l’ateismo esoterico che si mostra in filigrana nelle pagine di Hegel, anzi, alludendo ad un personaggio di una novella di Gottfried Keller, parla dello «ingiusto Kammacher, Hegel», che «purtroppo» esiste davvero, e che è preso per testimonio da Lukács. Schmitt vorrebbe che all’«Epimeteo eraclitista», Hegel, si opponesse ora un «Epimeteo cristiano»: in altre parole, alla sfida presentata dal libro di Lukács bisognava rispondere con una ripulsa verso Hegel stesso. Poiché, ponendo il «nulla» all’inizio del «divenire», Hegel avrebbe agito come un «nichilista», e il suo pensiero era una caduta [ein Abfall] rispetto alla creazione divina affermata dal cristianesimo17.

Carl Schmitt, del resto, esponeva con grande lucidità il ruolo della controversia su Hegel nello scontro ideologico del tempo. Valga per tutti il suo scritto del 1952 per il settantesimo compleanno di Hans Freyer, pubblicato nella rivista “Christ und Welt” del 25 luglio di quell’anno, sotto il titolo Die andere Hegel-Linie. A quello che chiama il «monopolio» dell’eredità hegeliana rivendicato dal marxismo «fino a Lenin e Stalin» (Lukács non è citato, ma implicitamente presente), Schmitt vuole contrapporre un’altra tradizione interpretativa, una linea «Hegel-Dilthey-Freyer». Questa volta, però, si tratta di guadagnare Hegel a un’altra concezione schmittiana, quella del Kathekon nella storia, anche appoggiandosi a un’espressione attribuita a Nietzsche, che in un momento di collera avrebbe esclamato «Hegel è il grande ritardatore della Germania [der grosse Verzögerer] sulla via dell’ateismo». Così lo stesso Schmitt, che aveva sempre sostenuto che Hegel fosse un «Giano bifronte» al cui pensiero ambiguo avevano potuto rifarsi sia la destra sia la sinistra propose alla fine una linea Hegel-Dilthey-Freyer come alternativa all’interpretazione lukacsiana.

Ma forse, se cerchiamo un antipodo quasi perfetto di Lukács riguardo alla dialettica hegeliana, dobbiamo pensare ad Heidegger. Heidegger, è vero, non si è mai pronunciato sugli scritti del suo antagonista. L’unico testo noto è una lettera a Karl Jaspers del 12 agosto 1949, in cui Heidegger, a proposito del saggio polemico di Lukács Heidegger redivivus, pubblicato nella rivista “Sinn und Form”, dice che Lukács vorrebbe «liquidarlo», un’accusa con evidenti toni politici. Ma tutto questo non ci deve distrarre dalla differenza e anzi opposizione delle posizioni di Lukács e di Heidegger riguardo alla dialettica hegeliana. Ricordiamo brevemente.

Già nel semestre estivo 1923, cioè poco dopo la pubblicazione di Storia e coscienza di classe presso l’editore Malik, Heidegger tiene un corso intitolato Ontologie. Hermeneutik der Faktizität nel quale denuncia di fronte ai suoi uditori la «Hegelei», respingendo i «tentativi recenti» (non risulta chiaramente quali) di opporre al metodo fenomenologico, e in particolare alla Wesensschau, il metodo dialettico, con le sue coppie opposizionali di concetti (immediatezza/ mediazione, forma/contenuto ecc.)18. Nel corso dell’anno seguente, sui Concetti fondamentali della filosofia di Aristotele, troviamo a un certo punto l’idea che la Logica di Hegel non contiene alcuna innovazione radicale rispetto a quella di Kant – un’enormità che prova come Heidegger, all’epoca, avesse scarsa familiarità con la Scienza della Logica. Non è possibile entrare qui nel merito delle ulteriori prese di posizione di Heidegger, in particolare nel corso del semestre invernale 1931-32 sulla Fenomenologia dello spirito e in quello sulla Negatività del 1938-39. Possiamo ricordare, di passaggio, che nella Distruzione della ragione Lukács critica con forza la distinzione tra una temporalità «autentica» e un’altra «non autentica», o volgare, che Heidegger identifica poi con il tempo obiettivo di Hegel (per non parlare della ripulsa del tempo della «storia universale», la Weltgeschichte, altra allusione negativa alla filosofia di Hegel). Alla conclusione del corso sulla Fenomenologia dello spirito, del resto, Heidegger precisava esplicitamente che la sua concezione del tempo era opposta a quella di Hegel; e negava che esistesse un rapporto qualunque tra il suo Essere e tempo e il pensiero di Hegel, contentandosi di dire che se esistesse una fonte del suo pensiero filosofico, essa si troverebbe unicamente in Kant19.

Ma per mettere in luce l’aspetto che più interessa qui, cioè l’antinomia tra la concezione di Heidegger e quella di Lukács rispetto a Hegel, e in generale riguardo alla filosofia classica tedesca, basterà riferire il loro rispettivo pensiero sui rapporti tra Hegel e Schelling. Abbiamo visto come Lukács si sforzi sempre di nuovo di esporre la superiorità di Hegel su Schelling. Orbene, non solo Heidegger non nasconde la sua prossimità a Schelling: anzi, nel corso del 1936 su Schelling giunge a sostenere che il Trattato sulla libertà schellinghiano, del 1809, «fa cadere in anticipo tutta la Logica di Hegel». E in una lettera del 15 febbraio 1972, rispondendo a Hannah Arendt che lamentava l’oscurità di Schelling in confronto a Hegel, Heidegger scrive:

Hai ragione. Schelling è molto più difficile di Hegel; si mette più a rischio, e gli succede di abbandonare tutte le sponde, con quello che esse hanno di rassicurante. Mentre Hegel, con i binari della sua dialettica, se ne sta sempre al sicuro, e non gli può succeder nulla.

Così, con l’aria di dar ragione alla Arendt, Heidegger riformula il confronto, ma a favore di Schelling. È significativo che Heidegger assimili la dialettica hegeliana a un pensiero rassicurante, a una filosofia della sicurezza – una vera sfida, questa, a tutti coloro che vi hanno visto una filosofia della critica e della sovversione; e nello stesso tempo Heidegger mostra di sentire il pensiero schellinghiano dell’abisso come assai più vicino al suo pensiero della «celatezza» dell’Essere. Questa testimonianza di Heidegger trova conferma in una lettera posteriore, indirizzata due anni più tardi (22 febbraio 1974) a Roger Munier, nella quale il rifiuto della dialettica giunge forse al parossismo: Heidegger parla senz’altro di «devastazione del pensiero per opera della dialettica, della teoria delle scienze e della linguistica». Alla fine della sua vita Heidegger respinge la dialettica con una franchezza che non lascia adito a dubbio mentre Lukács si adopera, proprio negli ultimi scritti, a restituire la grande forza euristica del pensiero dialettico.

2.4. Arriviamo così al punto culminante del lungo dialogo di Lukács con il pensiero hegeliano – il capitolo della sua ultima opera, Contributo all’ontologia dell’essere sociale, intitolato appunto Hegels falsche und richtige Ontologie (L’ontologia falsa e l’ontologia vera di Hegel). In questo capitolo, cui bisogna aggiungere le considerazioni sullo stesso argomento nei Prolegomeni all’Ontologia lasciati manoscritti, Lukács affronta per la prima volta direttamente il «nocciolo duro» della filosofia hegeliana, la Logica20.

Ma ora Lukács interpreta la celebre Scienza della Logica come un grande trattato di ontologia. E a giusto titolo, se per ontologia si intende la «scienza delle categorie dell’essere» (Kategorienlehre, nella formulazione di Nicolai Hartmann). Questo approccio alla Logica hegeliana appare pienamente giustificato. L’influenza di Nicolai Hartmann non è contingente, del resto, ma riguarda l’essenza stessa della interpretazione lukacsiana: abbiamo mostrato in altra sede la funzione di catalizzatore che le ricerche ontologiche di Hartmann esercitarono nella riflessione marxista dell’ultimo Lukács. La distinzione fondamentale, che attraversa l’analisi lukacsiana della Scienza della Logica, è quella tra un’«ontologia vera», concretizzata essenzialmente nelle determinazioni riflessive della «logica dell’essenza [Wesenslogik]», e un’«ontologia falsa», che sacrifica l’autonomia ontologica dell’essere a uno schematismo logicistico e gerarchico. Questa distinzione riposa a sua volta sulla critica rivolta a Hegel per aver fondato l’ontologia sulla logica. Ora, il filosofo moderno che ha più vigorosamente affermato la priorità dell’ontologia sulla logica e la teoria della conoscenza, contestando in radice la «rivoluzione copernicana» di Kant e quello che egli chiama il Vernunftidealismus [idealismo della ragione] di Hegel, è precisamente Nicolai Hartmann.

L’argomentazione di Lukács si fonda sull’idea della funzione omogeneizzante della logica, che oblitera l’eterogeneità consustanziale all’essere. La logica, secondo Lukács, offre solo un condensato ideale delle determinazioni del reale, uno scheletro della sua apprensione cognitiva, obbediente a sue specifiche esigenze, che sono ben distinte dal concatenamento delle determinazioni del reale stesso (le categorie). Questo concatenamento è l’oggetto proprio dell’ontologia.

La Logica hegeliana soffrirebbe dunque di un’ambivalenza strutturale. Da una parte, essa riesce ad esporre la straordinaria ricchezza delle categorie del reale mediante le determinazioni riflessive (e Lukács insiste sulla fecondità del passaggio dall’intelletto alla ragione; sulle analisi hegeliane delle coppie categoriali immediatezza/mediazione, forma/contenuto, essenza/fenomeno ecc.; sulla serie identità-differenza-diversità-contraddizione). Dall’altra parte, essa sottopone il concatenamento delle categorie ad uno schematismo logico a carattere teleologico. Nel sistema della logica hegeliana viene praticata come un’incisione profonda, per inseguire le deformazioni e le artificiosità nelle deduzioni hegeliane delle categorie. Viene rifiutata la tesi secondo cui la categoria successiva e superiore è «la verità» della categoria inferiore (per esempio, la teleologia è la «verità» del meccanismo e del chimismo). Qui si manifesta secondo Lukács, sulle orme di Nicolai Hartmann, il logicismo teleologizzante di Hegel.

La critica della «falsa ontologia» di Hegel era, per Lukács, una questione decisiva. Ne andava, infatti, della sua propria concezione ontologico-genetica della storia. In questa l’emergere di un livello superiore dell’essere viene ricondotto a un costellazione di circostanze determinate, e non a una qualsiasi finalità, che verrebbe inevitabilmente ad avvicinarsi a una predeterminazione o all’idea di una storia circolare. Per Lukács, primaria è la considerazione genetica. Per questo non è lecito parlare, come Hegel, di teleologia come «verità» del meccanismo e del chimismo, di livelli più sviluppati come «verità» di quelli meno sviluppati. Ciò equivarrebbe a inchinarsi indebitamente al finalismo dell’Idea assoluta: e i livelli distinti dell’essere subirebbero così una contrazione logica, venendo concatenati in vista di una finalità predeterminata.

In un’ontologia dell’identità soggetto/oggetto diventa impossibile salvaguardare l’apertura della storia, l’imprevedibilità delle sue vie, la molteplicità delle sue alternative interne. Si comprende quindi il rifiuto senz’appello opposto, per esempio, alla tesi hegeliana secondo la quale, come leggiamo nell’Aggiunta al § 161 dell’Enciclopedia, «il movimento del Concetto è da considerare, per così dire, quasi come un gioco: l’Altro, che viene posto dal Concetto, non è in effetti un Altro». L’omogeneizzazione del tutto (il Concetto) e delle parti, che giunge fino a togliere a queste la loro autonomia, equivaleva a sacrificare l’eterogeneità del reale alla contrazione omogeneizzante propria del Concetto o del Logico.

Invece le determinazioni riflessive, con la loro polidimensionalità, esprimono secondo Lukács l’altra ontologia di Hegel, quella vera e feconda. In esse si apre la via a una concezione della realtà come molteplicità di complessi, il cui sviluppo non può venir rinchiuso in alcuno schematismo logicizzante.

Ci troviamo di fronte ad una situazione in qualche modo piccante. Il difensore senza compromessi del razionalismo, il critico implacabile dell’irrazionalismo, l’autore della Distruzione della ragione insomma, si trova a protestare, nell’Ontologia dell’essere sociale, contro la Überspannung der Ratio [esasperazione della ratio], contenuta nel logicismo hegeliano e nell’ontologia dell’identità soggetto/oggetto. Con questo Hegel non farebbe che continuare e portare a compimento una lunga tradizione del razionalismo classico, da Ramon Lull alla mathesis universalis di Leibniz, che aveva assoggettato il reale alla categoria della ragione. Fortunatamente, però, l’«eraclitismo» della ontologia «vera» di Hegel fa da contrappeso alla sistematica gerarchica e rigida della ontologia «falsa», e ciò in ogni pagina della Scienza della Logica.

1 Come è noto, lo scritto di Lukács sarà messo all’indice nel «campo socialista», e vi circolerà, tutt’al più, clandestinamente.

2 Nella biografia di Lukács pubblicata in USA e in Gran Bretagna da Arpad Kadarkay, e lodata – pour cause – da Leszek Kołakowski, la Distruzione della ragione è trattata come un «libello staliniano».

3 B. Croce, Saggio sullo Hegel, seguito da altri scritti di storia della filosofia, Laterza, Bari 1967, p. 146.

4 G. Lukács, Zur Ontologie des gesellschaftlichen Seins, i, Luchterhand, Neuwied-Berlin 1971, pp. 478 ss. (trad. it. Ontologia dell’essere sociale, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 176); se ne troverebbe una spiegazione nella tesi invero discutibile di Lukács, per cui il re Federico Guglielmo III avrebbe gradualmente preso il posto di Napoleone nell’equazione «Idea = presente».

5 In uno scritto polemico recente, anche Guido Oldrini ha mostrato il carattere aleatorio della tesi di Rockmore, e ricordato a ragione la portata antifichtiana degli scritti del 1925-26 su Lassalle e Moses Hess.

6 Diverse considerazioni economiche di Hegel erano state esposte da Franz Rosenzweig nel suo celebre Hegel e lo Stato (1920), ma senza vedere né cercare in esse una fonte della speculazione filosofica di Hegel.

7 G. W. F. Hegel, Theologische Jugendschriften, hrsg. von H. Nohl, Mohr, Tübingen 1907, p. 378.

8 A questa lettura (condivisa dal Rosenzweig) si è opposto H. S. Harris nel primo tomo della sua ampia ricostruzione dell’itinerario intellettuale di Hegel (Hegel’s development, vol. 1, Toward the sunlight, 1770-1801, Clarendon Press, Oxford 1972). Pur concedendo la «grande abilità» con cui Lukács argomenta la sua tesi, Harris nega che di «crisi» si possa parlare. Invece, un altro grande studioso, Bernard Bourgeois (Hegel à Francfort ou Judaïsme, Christianisme, Hegelianisme; Vrin, Paris 1970, pp. 22 ss.), ha ripreso e approfondito la nozione di un periodo di crisi attraversato da Hegel in quegli anni.

9 In questa lettera si parla di trostlosesten Eindrücken (impressioni desolanti), di una reificazione del pensiero in un autore che si era reso celebre con la critica della reificazione, e si afferma che lo studio di Heidegger su Hegel pubblicato negli Holzwege (Sentieri interrotti) è ancora più vicino alla «dialettica» che non il libro di Lukács.

10 Claudio Cesa cita, nella prefazione alla sua antologia Il pensiero politico di Hegel, la voce della Grande Enciclopedia Sovietica dedicata a Hegel, dove quella enormità veniva ripetuta ancora nel 1952.

11 L’autore avrebbe potuto astenersi dal citare Stalin, notava Hyppolite. Ma bisogna ricordare the il riferimento a Stalin era obbligatorio per ogni opera pubblicata nella Russia di quegli anni, come anche per le tesi di dottorato.

12 Il testo è ancora inedito.

13 Si veda l’elogio dello strumento – l’aratro che conserva il suo valore al di là della soddisfazione conseguita grazie al suo uso.

14 Si veda l’opuscolo Relativer und absoluter Idealismus, del 1910. La diagnosi di Lukács troverà conferma nell’ulteriore evoluzione di Ebbinghaus verso un kantismo ormai senza Hegel.

15 Glockner scrisse molto su Vischer. In seguito aderì al nazionalsocialismo, avvenimento curiosamente taciuto da Lukács.

16 C. Schmitt, Glossarium. Aufzeichnungen aus den Jahren 1947-1951, hrsg. von Eberhard Freiherr von Medem, Duncker & Humblot, Berlin 1991, pp. 210-1.

17 Ivi, p. 212.

18 Pubblicato in Ontologie: Hermeneutik der Faktizität, in Gesamtausgabe, vol. 63, Klostermann, Frankfurt a.M. 1988.

19 Cfr. G. Lukács, Die Zerstörung der Vernunft, Aufbau Verlag, Berlin 1955 (trad. it. La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959).

20 Per lungo tempo, infatti, era stata la Fenomenologia l’opera al centro del suo interesse. Ad essa Lukács dedicò dei corsi di lezioni, nonché una Conferenza del 1949 alla Société française de philosophie, a Parigi, che coronava e completava il libro sul Giovane Hegel. Nelle carte di Lukács si è reperito anche un manoscritto inedito, una specie di giornale di lettura, con una scelta di estratti significativi dalla Fenomenologia e osservazioni di Lukács, di alto interesse.

Lukács e Heidegger

di Nino Molinu

«Critica marxista», n. 2, 1977

 

Chi è l’innominato filosofo cui si riferisce Heidegger in Essere e tempo (1927) a proposito della teoria della «reificazione della coscienza»?

Nel suo ultimo libro Lukács et Heidegger (tradotto in italiano da E. Dorigotti Volpi per l’editore Bertani, Verona, 1976), raccolta di frammenti postumi che comprende anche quattro corsi tenuti nell’inverno 1967- 1968 alla VI sezione dell’École Pratique des Hautes Études, Lucien Goldmann argomenta una risposta. Le sue idee sull’esistenzialismo del giovane Lukács fanno ormai parte della letteratura lukacsiana e lo stesso autore di Storia e coscienza di classe accenna, non senza una punta di polemica, alla «questione filologica» da lui sollevata per scorgere «qua e là nell’opera di Heidegger una certa replica polemica» al suo libro (Storia e coscienza di classe, trad. di G. Piana, Milano, Sugar, 1971, p. XXIII).

Secondo una prospettiva genetica, a partire dalla filosofia europea e in particolare tedesca del primo novecento, Goldmann vuol «prendere in contropiede» l’abituale punto di vista antistorico che prolunga verso il passato la situazione attuale, per mostrare come la nuova problematica, incarnata prima da Lukács e poi da Heidegger, si evolva lentamente sino alla filosofia di oggi.

L’«anarchia del chiaroscuro» (G. Lukács, L’anima e le forme, trad. di S. Bologna, Milano, 1972, p. 228), in cui si consumava, agli inizi del secolo, la profonda crisi di valori del mondo occidentale, apriva nell’ambiente tedesco della filosofia della cattedra nuove prospettive. Alle soglie del primo conflitto mondiale, il neokantismo dominava un’atmosfera filosofico-culturale in cui maturavano i germi delle più importanti correnti del pensiero contemporaneo. In una situazione storico-politica particolarmente gravida di avvenimenti sconvolgenti, neocriticismo, fenomenologia, esistenzialismo e marxismo crescevano nello sdoppiamento fra le categorie della tradizione filosofica e gli assillanti problemi che emergevano dalla nuova realtà sociale.

Heidelberg, Friburg, Marburg e Berlino erano i centri più importanti in cui la filosofia si accingeva ad un significativo confronto con le altre scienze umane. Ne scaturiva un complicato intreccio di posizioni e teorie che avrebbe dato luogo a due grandi scuole: l’esistenzialismo e il materialismo dialettico.

György Lukács è, secondo Goldmann, il «grande iniziatore» di entrambe, il filosofo d’avanguardia che ha inaugurato «da maestro la strada su cui si muove ancora il pensiero attuale» (p. 91). Sistemandolo nella pleiade delle grandi figure universitarie vissute agli inizi del secolo a Heidelberg e a Friburgo (p. 57), lo studioso francese intende riscoprire una serie di elementi comuni al pensiero lukacsiano e heideggeriano da cui sarebbero affiorate in seguito alcune posizioni che ancora dominano il dibattito filosofico.

In realtà Lukács et Heidegger è poco più che una semplice introduzione al problema, precisazione di un’ipotesi espressa già in Mensch, Gemeinschaft und Welt in der Philosophie Immanuel Kants: (1945) e ripresa più tardi, ma mai compiutamente, in scritti successivi (cfr. soprattutto «G. Lukács: l’essayiste», in Révue d’esthetique, gennaio-marzo 1950, e «Introduction aux premiers écrits de G. Lukács», in Les temps modernes, n. 195, 1962). Un particolare problema di storia della filosofia, il rapporto fra Lukács e Heidegger nel fervente clima degli anni venti, diviene l’occasione per quell’ampio confronto metodologico con Lukács che Goldmann ha sempre cercato senza riuscire a portarlo a termine. Il nucleo delle sue ricerche dialettiche, la questione della totalità, del soggetto-oggetto identico e della storia sono infatti i nodi categoriali che, sotto la lente metodologica del confronto fra i due grandi filosofi, tornano anche in questo libro.

Ma l’idea di una svolta filosofica che dalla Südwestdeutsche Schule porta alla nascita del materialismo dialettico e dell’esistenzialismo, richiede una articolazione – più ampia e convincente – di quella che ci viene offerta in queste pagine. Se la filosofia marxista e la filosofia universitaria, mai radicalmente separate, sono «differenti settori della stessa società complessiva» (cfr. p. 56), è a maggior ragione impossibile dedurre, sic et simpliciter, l’origine del materialismo dialettico e dell’esistenzialismo dalla «rinascita» innescata dalle due opere «esistenzialiste e marxiste» di Lukács, L’anima e le forme (1913) e Storia e coscienza di classe (1923). Lo sviluppo di queste due grandi correnti si realizza, infatti, secondo un intricato groviglio di linee che spaziano ben oltre l’orizzonte culturale compreso fra Heidelberg e Friburgo.

Nella «rete estremamente complessa» di tali linee Goldmann distingue quattro direzioni principali: 1) l’integrazione di motivi diltheyani, simmeliani e laskiani sull’originario esistenzialismo di Lukács che si sarebbe orientato in un secondo tempo, verso l’hegelismo e il marxismo; 2) la presenza (dimostrata anche da R. Miguelez) di elementi husserliani in Storia e coscienza di classe; 3) la strada che da L’anima e le forme conduce a una «sintesi molto più kierkegaardiana» in Essere e tempo di Heidegger; 4) ed infine, la fioritura fenomenologico-esistenzialistica e l’«utopismo socialisticheggiante» di E. Bloch.

Il rapporto fra il pensiero di Lukács e l’opera heideggeriana del 1927 va esaminato geneticamente nella prospettiva della rottura aperta dall’esistenzialismo e dalla fenomenologia rispetto alla metafisica tradizionale. Lukács Husserl, Heidegger, Jaspers e Sartre cercano, in modi diversi, di superare la frattura che il mostro filosofico dell’idealismo trascendentale (p. 61) ha generato tra soggetto e oggetto.

Il rifiuto di tale sdoppiamento, l’inseparabilità dell’uomo dal mondo ed il suo esserci (Dasein), inteso come storicità, sono gli elementi che accomunano Lukács e Heidegger in un rapporto di «oppositoria parentela». Il sostanziale divario che sussiste fra la individualità del soggetto storico heideggeriano e la natura transindividuale di quello lukacsiano ne costituisce il fulcro antitetico.

Quale che sia la natura della convinzione per cui Heidegger respinge l’esigenza di ogni fondamento storico, la critica rivolta (sia all’inizio che alla fine della sua opera del 1927) contro «la filosofia della reificazione della coscienza », citata sempre fra virgolette senza nominare né Lukács né Storia e coscienza di classe, avvalora l’ipotesi che Essere e tempo assuma realmente come suo naturale interlocutore proprio quel Lukács che si ritirava allora per motivi politici dalla pubblica attività intellettuale. Il silenzio sul suo nome non può essere né casuale né involontario, soprattutto se viene messo in relazione agli espliciti riferimenti a Husserl, Scheler e Bergson.

Lo schema goldmanniano di «parentela-opposizione», appesantito dalla unilaterale considerazione dei gruppi categoriali di Storia e coscienza di classe, risulta però, in definitiva, un astratto modello espositivo, che deforma più volte i termini reali del discorso spingendolo inopportunamente alla formulazione di un piano su cui la collocazione di Lukács rispetto a Stalin corrisponderebbe a quella di Heidegger rispetto a Hitler (p. 72). Ed è ancor meno chiaro il motivo per cui Goldmann eviti di ricuperare, all’interno della pur accurata ricerca delle connessioni terminologiche, «le frequenti analogie tra l’esistenzialìsmo di Heidegger e le domande ontologiche sul senso dell’essere che Lukács si pone in L’anima e le forme. Che il filosofo ungherese «crei da principio la filosofia esistenzialistica», come sostiene Goldmann, è ancora da dimostrare, ma è opportuno riconoscere, nella Metafisica della tragedia, l’originalità feconda di motivi protoesistenzìalistici successivamente interrotta dalla scelta di classe che lo spinse a partecipare attivamente alla rivoluzione ungherese del 1919 guidata da Béla Kun.

L’eccessiva attenzione al soggettivismo rivoluzionario di Storia e coscienza di classe e alle denunce delle false previsioni Iukacsiane rispetto al reale sviluppo successivo del capitalismo, impedisce poi a Goldmann  la considerazione della più recente maturazione teorica lukacsiana, dominata dall’esigenza di un’analisi dell’essere, e quindi anche della «struttura oggettuale» che presupponga una nuova oggettività ontologica: una «ontologia fondata e fondante, che trovi nella realtà oggettiva della natura la base reale dell’essere sociale e sia allo stesso tempo in grado di rappresentarlo nella sua simultanea identità e diversità rispetto all’ontologia della natura» (G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, I, trad. it. a cura di A. Scarponi, Roma, Editori Riuniti, 1976).